numero dell'uno, o,
dell'altro figliuolo ſarà, à quelle fomigliante. Ben'è uero, che la forza di
cia fcuna manierà, e ripoſta piu toſto nelle altre parti, che nel numero,
eccetto, che nella bellezza, douc l'ornamento, e il numero grandementeſ cerca,
as molto piùè ne i uerfi, nella poesia, che altroue, o questo dico, acciò che
fu non metta piu ſtudio, doue non biſogna riportandoti a gli orecchi, il giudicio
delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo, quanto
giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza. Ma perche questa ſemplice forma
non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſia qualche impedimento, però
biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri, con la eleganza aiutarla, come con
maniera chepiù un modo, che un'altro, piu questo ordineche quello ſecondo il
biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplice purità del dire, il qual'aiuto
èpiù presto nell'artificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi
sforzafar ogni SENTENZA CHIARA e aperta,non che le pure già dichiarite di
ſopra. Parliamo adune que della eleganza, o prima dello artificio, colquale
ella lcuar fuole ogni SENTENZA nella mente riposta. AR. La ceeganza e maniera, che
porta chiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità,
dove ella manca soccorre, quanto à ciascaduna forma opra intelligenza, o
facilità, daquesto nasce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna cosa
é differente. Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara, oaperta,ma la
eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun sole, che ogni
oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua, o diſgombra, o però in ogniſentenza ella
può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori, le figure. L'artificio
adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto, acciò che ella ſia inteſa,
cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DINARDO.
Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe
Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa
nella proſa,comequi. DINARDO. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de'
quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una
fia alqua to me comendare, & l'altra il biaſimare alquanto altrui, ma prio che
dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi il purfarò. AR. Vedi
quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali
auuertimenti, Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to, che
per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe
ageuolmente il reſtante. Leggi. DINARDO. Ma per trattar del ben, ch'io vi trovai,
Dico de l'altre coſe, ch'io ui ho ſcorte. AR. Se il poeta qui non doueſſe
dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in disgratia di
Dio, non haur ebbe potuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci
poi,per hauer lo inferno cers Cato. Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto
quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di FIRENZE,
auuertendo pri ma chi legge, in queſto modo. DINARDO. Mapercioche qualefuße la
cagione, perche le coſe che appref fo Rileggeranno, aueniſſeno, non ſi poteua
ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare, quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla
miconduco. AR. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe, fatta per
le uare ogni impedimento, chepoteſſe offendereilrimanente. DINARDO. Ma io mi ti
uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci
uoleſti uenire, e non poteſti, alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente
veduto, comefoleui, & oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo, non
ti rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine
di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte, narrandole, ė artificio ſcelto, &
elegante, però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DINARDO.
Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora
materia del mio canto, AR. E qui ancora DINARDO. Et canterò di quel ſecondo
regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’al Ciel diuenta degno. ART. il
fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo
uedrai. Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le
riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DINARDO. Saranno per auentura alcuni di
uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppo licenza usata.
ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DINARDO. La qual coſa io niego, percioche
niuna cosa esi disonesta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno.
ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te
inſieme posto habbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbia fcufato, ma quelmodo
non ha dello elegante, comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme
allora quando diſſe, Leggi. DINARDO. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni,
che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta
coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni
han dete to peggio,di coinmendarui, come io fo. Altri più maturamente moſtrando
di uoler dire, hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro
queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te
neri della miafamamo ſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente, àſtarmi con
le Muse in Parnaso,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi. Etſon di quegli
ancora,che più difpettoſamente, che ſauiamente parlando, hannodete to,cl’io
farei più diſcrettamente à penſare, donde io poteßi hauer del pae ne, che
dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa
eſſere state le coſe da me raccontateui, che come io le ui porgo s'ingegnano in
detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe
contra dello autore ſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è
cosi elegante,come il primoartife cio,ben che in tanta confuſione egli
ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo
aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni, perche
non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN.
Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me
raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. AR. Et ne poeti ancora fi
oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN.
Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di
meritar mi ſcema la miſura? A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte
della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda,
doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima
àleſtelle. Secondo la ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte
effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello
cheſegue. DINARDO. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente,
e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto
la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi
dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui
ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia
quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti
luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio
che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual
luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui
moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leua dalla mente
ogni ſenienza,oraſi dirà con quai parole più acconciamente ella ragioni,
oquesto brieuemente ſi farà.Vſa la eleganza le medeſime parole, che la
purità,chiare,piane,natie,o tali,che niuna durezza in eſe ſi truoui. Et
perònonſono eleganti,né con eleganza diſposte le parole che dicono, Amen due
ſopra gli mal trattiſtracci caddero à terra,&quelle, Non curandofar gli
falſ, o quelle che nellapurità dicemmo,Ghino di Tacco piglia l'Abba te di
Clugni. Da quelloche ſi è detto delle parole, tu puoi uedere chedalla
difpofitione di eſſe,le parti,i finimenti, &il numerononſono dalla purità
lontani,anziſonole coſe steſſe. Leggerai,come gentilměteſi sbriga dalle co
fe,come brieuemente rinchiuda il ſentimento, come puramente elegga, o
temperatamenteſi muoua questa nouella di Ricciardo de' Manardi,otro uerai
parole parti, chiuſe,numerio fiti diparole purißime, oelegantisſa me. Ma le
figure di queſtaforma fono diuerſe molte, tra lequali ottiene il primo luogo la
ordinatione, laquale è unafigura,che da quello cheſi dia ce,dimostra altro
ſeguirne, come qui. DÍN. Et accioche quello chemi par difare,conoſciate,oper
conſes guente aggiugnere, o menomare poßiate à uoſtro piacere,con pocheparo le
we lo intendo di dimostrare. AR. Et ancora qui della fortunaparlando. DIN. Le
quai noiſcioccamente nostre chiamiamo,ſeno nelle ſue ma ni, oper conſeguente da
lei ſecondo ilſuo occulto giuditio ſenza alcuna po ſa, d'uno in altro,o d'altro
in uno fucceßiuamente ſenza alcun conoſciuto ordine da noi,eſſer da lei
permutate. AR. Egli ſf ordina, come ſi è detto anco nel proporre di quante coſe
fha da dire,con lo auuertimento di dire prima una coſa,o poi un'altra.Il che
inquanto abbraccia più coſe,ė Comprenſionedella qualeſi dirà. Main quanto
diſpone, acconcia allo intendimento,epuro,eleganteo chiaro.Al
trafiguraèſcelta,eelegante,oltra la predetta nominata Partitione, lde quale
Afa,quando noi,due coſe è piùſepariamo parlando, come qui. DIN. Et il
tacere,oil parlareoggimai mi ſonoegualmente diſcari, perciò che nè quello
debbo,ne questo poſſo. AR. In molti modipuòpartitamente ragionare,come qui con
mola ti efſempi ſi dimostra. DIN. Tra per la forza della peftifera mortalità,
per lo eſſeremol ti infermimalſeruiti,& abbandonati. AR: Etqui ancora. DIN.
Et tra che egli s'accorſe, si come huomo, che molto aueduto erd, Otrache da
alcuno fu informato,trouò dal maggiore al minore Co. ART. Etaltroue. DIN.
Carißime dore,siper le parolede fauijhuomini udite, o si per le cofe da me molte
uedute or lette. AR. Appresso le dette figureit ripigliamento è bellißimo
colore della eleganza, come quelloche alla obliuione,alla oſcuritafoccorra, in
quca ſto modo, DIN: E perche mifogliate immantenente Del ben,che adkor’adhor
l’anima fente? Dico che ad hord ad bora, Vostra mercede, iofento in mezo l'alma
Vna dolcezza inufitata e noua AR. Et nella proſa, come qui. - DIN.
Ilchemanifestamente potrà apparire nella nouella, laquale dl raccontare
intendo,manifeſtamente dico,non il giuditio di Dio, maquello de gli
huominiſeguitando. · AR. Queſto ripigliamento appreſſo la chiarezza e di non
poco peſo alla oratione, come figura molto uicina al raddoppiamento, ilquale è
di for za marauiglioſanell'arte deldire,o,òinterpretado,ò interrogado,ò riſpon
dendodi ſubito alla eleganzaconuerrà grandemente.Etper contrarioRfan ra nella
oſcurità,la quale naſce da confuſione,& diſordine, nel’animofia tà, o ne
gli affetti grandementeſi ricerca,perche in eſil'animo dallo ema pito
traportato ogni coſa difordina,o la mente confonde. E adunque la confufione
alla ſcelta,& elegante oratione contraria,come la meſcolanza, alla purità,
da ambedue, cioè confufione, meſcolanza, naſce la oſcurità, come da quell'altre
due la chiarezza del dire. Della quale pora uoglio che à baſtazaſa detto,o
dimoſtrato.Resta chefi ragioni del la grădezzadel dire,acciò che il pericolo
della baſſezza,odell'umilità,che Hella chiarezza ciſopraſta,con l'autorità
della orationeſ leui in tuttó. DELLA GRANDEZZA DEL DIRE, prima della Maeſtà.
ESSEND'O la grandezza del dire unamaniera, che oltra l'uſato modo di ragionare
inalza, ø follicuala oratione, è di neceßità di molte parti compoſta delle
quali altre faranno daſe ſteße altreinſieme alcune co fe raccommunando faranno
un tutto magnifico, generoſo. E adunque la grandezzafatta dalla maestà,dalla
comprenſionedalla ucemenza, dalla ui uacità,dallo ſplendore,o dall'apprezza.La
maeſtà, ola comprenſione da ſeſtanno,ohanno le parti loro dall'altre
ſeparate.Etperò di clje prima di rò, poi dell'altre partitamente. La maestà del
dire é maniera conueniente alle coſe grandi,o Rfa quan do di eſſe con dignità,o
ornamento ſi ragiona.Leſentenze ueramentedela la maeſtàſono prima quelleche
appartengono à Dio, o alle diuine coſe,co uerità e decoro efpreffe,come
queſte.Leggi, DIN. Conueneuole coſa è carißimeDonne,che in ciaſcuna coſa, che
l'huomo fa,dallo ammirabile,oſanto nome di colui,ilquale di tuttofufate tore,
le diaprincipio. AR. AR. Dapoi,le coſe
appartenenti alla natura umana, come qui. Leggi. DIN. Natural ragione è di
ciaſcuno che ci naſce, la ſua uita quantū que può,aiutare,e conferuare, &
difendere. ART. Et appreſſo quelle,oue le ſecrete cagioni delle coſe
inuestigane do, & dimoſtrando ſt uanno,lequai poco appartengono alla uita
ciuile, po co dico, perche alcuna uolta ſi diconoperfare alcuna fede à
quellochedicia mo,come qui. DI N. Andiamo adunque,& bene duenturoſamente
aſſagliamo la nde ue, che Iddio alla noſtra impreſa fauorcuole ſenza uento
prestarle,la citien ferma. AR: La maeſtà è uſata per lo più ne i proemij delle
nouelle. Perció che in eßi fi contiene il fine, perlo qualeſi racconta il tutto,&
percheil fi ne, per utile,a giouamento de gli huomini ſi ricerca,però di coſe
al uiucre appartenenti con grandezza maeſtaſiragiona.Leggi queſto principio,
come è pieno di alta,o degna ſentenza. DIN. Credefi permolti filoſofanti,che
ciò che s'adopra de mortali, Rade gli Dij immortali diſpoſitione,&
prouedimento. AR. Degne adunque di riuerenzaſono le coſe di Dio, però chiunque
di quelle altramente ragiona,ė dalla maeſtà del dire lontano, perche chida
ramente da te comprenderai,che niuna maeſtàſi truoua là,doue il mutamē to in
Angelo, d’un frate ſi narra, &doue in alcuni altri luoghi non ſi dicon no
coſe alla religione conformi,con quella uerità e decoro, che ſi conuica ne,
&però aliena dalla maeſtà équcũa comparatione, chedice, DIN. Si come eterna
uita é ueder Dio, Ne più ſ brama,né bramarpiulice, Cosi me, Donna, il uoi
ueder, felice Fa in queſtobreue, efrale uiuer mio: AR. Lo affetto di chi
ragiona ſcuſa chiunque parla in tal modo, pere che lo acceſo deſiderio
acciecal'intelletto,ela lingua come di ebbri uacil la,ofa dire che gli Angeli
aſpettano di uedere il bel uiſo delle amate los rou che la preſenza di quelle
adorna il Paradiſo, altre coſe,le quai pe rò ſotto altra form !,che questa ſi
riduranno.Sarà dunque ſeuera,o degna, epiena di maeſtà la ſeguente ſentenza.
DIN. La gloria di colui che tutto mouc Per l'uniuerjo penetra, e riſplende In
una parte più, e meno altroue. ART. Et per la più parte degno e il preſente
poema,dalquale aj na turali, co umane,o diuine ſentenze,ſecondo la macià delle
coſe leggendo ne ritrarrai, come qui,
DIN. Le coſe tutte quante Hann'ordine tra loro,e queſto è forma Che l'uniuerfo
à Diofa ſomigliante. Qui ueggion l'altre creature l'orma De l'eterno ualore,
ilqualefine, Al qual'èfatta la toccata forma. A R. Et finalmente pieniſono i
uolumi de i buoniſcrittori. Leggi. DI. ciaſcuno, che bene, o onestamente unol
uiuere, dee in quan topuò, fuggire ogni cagione, laquale ad altrimenti fare il
potere cons durre AR. Et qui, D I N.Manifesta coſa è cheogni giuſto Re,primo
oſſeruatore dee eſſe re delle leggifatte da lui. AR. Baſtiti queſto d'intorno
alle ſentenze della formapredetta. Ord, con che artificio dal lor ſoggiorno
leuareſi debbano,intenderai.Percheadū que piene di maestà ſono
quelleſentenze,che di Dio, & delle diuine coſe, delle umane,& naturali,
peròfanno con fiducia O certezza è afferman do,ò negando,ſarà l'artificio della
maestà. Negando,come qui. DIN. Ne creator,necreatura mai Cominciòci, figliuolfu
ſenzaamore O ' natural, o d'animo, e tu'l ſai. AR. Affermando,come qui, DIN. Lo
natural fu ſempre ſenza errore Ma l'altro puote errar, per mal'oggetto oper
poco, ò per troppo di vigore. A R. Leggi pure,chenon mancano effempi. DIN. Le
coſe, che alferuigio di Dio N fanno, deono far tutte nete tamente. AR. Et qui,
DIN. Chiunque fouente fa male,egli certamente non é Iddio,& chii que Iddio
e,egliſenza dubbio non puòfar male. AR. Laeſpreßione ha gran forza
nell'artificio di quella forma com me qui. DIN. Veramente fiam noi poluere
eombra, Veramente la uoglia cieca,e ingorda, Veramente fallaceè la ſperanza,
AR. Et qui ancora DIN. 57 DE LL A DIN. Nel ciel, che più de la ſua luce prende,
Fu'io, euidi coſe, che ridire Nésà, ne può, chi di la sù diſcende. A R. Hanno
in queſta forma le allegorie peſo, or forzagrandißima, eperò le ſacre lettere
di allegorie ſono ripiene,etutto il preſente poema è quaſi una continuata
allegoria,coſa molto alla ſuamaeſtà diprofitto,co d'ornamento, &però la
leonza,il leone,la lupa, e tutto quello chein tute ta l'opera gli
appariſce,èuna raunanza di allegorie, degna « grande for pra modo.Conſidera
come queſt'altro poeta uolendo innalzar le coſe baſe, Qumili grandemente ſi dà
alle allegorie,facendo con quelle i cotidiani aue nimenti si grandi apparire
che ifatti d'arme, ole coſe marauiglioſe di na tura si grandi nonſono.Ecco,
DIN. Quando dal proprio ſito ſi rimoue L'arbor, che amogià Febo in corpo umano,
Soſpira e fudaà l'opera Vulcano, Per rinfreſcar l'afpre ſaette à Gioue. AR.
Questa grandezza di coſa, altro non uuol dire,ſenon,che nel partiredi un luogo
ad un'altro della donnafua, fieramente era il Cielo tura bato da uenti, « da
tempefta.Et cosi il reſtante di questo fonetto, omolti de gli altri,che ſeguono
per l'artificio delle allegorie,ode gli enigmi, mis rabili appariſcono,à chi
gli legge.ENIGM Iſono modi oſcuri di dire, come qui, Fortuna, chi t'intende,
non t'intende, Efa chiſei,chi non ſa chi tufa. Tale adunque é l'artificio della
maestà. Reſta óra à dirſi delle altre par tijeg prima delle parole.Sono alcune
lettere, lequali fanno leparole ampie, e di ſpirito sforzeuole,come la A la
0,però quelle parole, che ſono di tai lettere, odiRllabe di eſſe fatte,ſaranno
alla maestà del dire conucnicne tißime,tanto più diforza haueranno,quanto
auanzeranno le duefillas be,odi maggiorſignificatione faranne.come qui. DIN.
Quel, che infinita prouidenza, o arte, Moſtrò nel ſuo mirabil magistero, Che
creò questo, e quell'altro emiſpero, E manſueto più Givue, che Marte. ART. Et
ancora in un'altro luogo. Perſeguendomi Amor’al loco uſato Ristretto, in guiſa
d'huom, ch'aſpetta guirra, Che prouede,e ipaßi intorno ferra, Di mici antichi
penſier mi saua armato. AR. Sono ancora le parole traportate,di grandezza, e
maestà mdo rauiglioſa, «perche molti credono il loro dritto pagare,ſe degni,
ogran di riputando,poi gonfi fono o freddiper la troppa licenza,cbe piglia no
nel trasferire,però alcuna coſa ti ſcoprirò d'intorno alle traslationi, bel
lage degna,o di profitto non mediocre. Voglio,che dalla bruttezza del uitio
ſpauentatoda quello alla uirtù ti riuolga,o però di quelli dirò, i qua li cosi
gonfiamente,o cosi freddamente parlando, come fanno,ſono da ogni ſaldo giuditio
abborriti. Alcuni di queſti hanno ardire di fingere,odi co por
nomi,oparoleſenza alcuno raffrenamento di conſideratione,chiamar do il Cielo
oculoſo,il mare ueligante, la terra granifera, o di queſte s'eme piono
ifogli.Altri danno à nomi ſtranieri,dalla antichità rifiutati,nuoui, oſcuri,o
di niunſentimento,coſa fpenta,o agghiacciata, comeeßiſono, che uuoi tu più
freddo,che'l continuare in fimili inuentioni? Tuſei l'ombra del l'angustia,il
diadema della mestitia,un'atto fatale,o si fatti. Peccano mola ti dando ad
ognicoſa i loro aggiunti, ilche quando nonſifa per diletto, o con
circonfpettione,come per condimento del dire,affettato,inſipido,o rin
creſceuoleſ truoua, comeſe in luogo diſudoreſi diceſſe,il liquoredelle car
niperlo caldo ſtillato,o non le feſte,ma la celebrità delle feſte,ne i triona
fi,ma la grandezza de i trionfi,&alere gonfiezze, ilqual uitio in alcuni ė
ucnuto al fommo,o però parlandoeßi più che pocticamente & fuor di të
po,fannocoſe degne di riſo, o di compaßione,fono oſcuri &ociofiſatiano,
Orincreſcono fieramente.Leggi. DIN. Potrei,poſcia che il vento della licentia
datami di ragionare ba tanto inantifpinta la naue del mio parlamentoper l'ampio
pelago di si fat ta materia,conducerui distintamente à uedere checoſa è
difpofitione. AR. 1o mene rido di tai coſe, guarda quanto meglio ſi èdetto qui
nel uerfo, o con più modestia. DIN. O'uoi, che ſete in piccioletta barca,
Defideroft d'aſcoltar ſeguiti Retro almio legno,che cantando uarca, Tornate à
riveder inoſtri liti Non ui mettete in pelago, cheforſe Perdendo me
rimarreſteſmarriti. AR. Ecco,chedi più ampia materia ragionaua il Poeta, &
non diffe la naue del ſuo parlamento,o altroue diſſe, Per correr miglior’acqua
alza le uele Ormai la nauicella delmio ingegno Che laſcia retro à ſe mar si
crudele, Etquandopurepiù arditamenteegli baueſſe alcuna traslatione uſata, dico,che
egli era Poeta, o hauea ſotto la penna materia,ſe altra ne è,gră dißima, o
d'ogni parte degna; o poteua ben laſciarſi portare(dirò cosi) dal uento della
licenza,ma uedi ancora nella proſa in miglior modo ridotta laſopradetta
traslatione. DIN. Madonna,aſſai m'aggrada,poi che ui piace, per questo campo
aperto Wlibero, nel quale la uoštra Magnificenza ci ha meßi,del nouella.
re,d'eſſer colci, che corra il primo arringo. AR. Ma riuolgiti à queste
fredde,çocioſe maniere,& leggi, DIN. La real conditione del quale ſaria
stata di più felice uita,odi più beata memoria,che uerun'altra mai,ſe il
generoſo della bontà di lui,hax uelle men creduto al maligno della
fraudealtrui. AR. E' ancora più ſpento qui. DIN. Nel finedelle parole
cadendogli giù per le gote alcune lagrie me non men groſſe,che calde, le compaßioni
delle ſuepietadi transformaro. no l'ira in manſuetudine. 1. AR. Di che giudicio
dotati,di che eſperienza ammaestrati,e di quan ta gratia eſſer deono adornati
coloro, i quali uogliono traportare le paro. le nate à ſignificar’una coſa,
alla di chiaratione d'un'altra, nonſi può cosi brieuemente eſporre.Baſtiti per
tuo ammaeſtramento,che tu fugga le ridic cole,perche ſono de' comici,le gonfie,
percheſonode' tragici, le austere dure,perchenon ſono euidenti, & infine
quelleche dallalunga ſi uanno tra endo,comeſe alcuno chiamaſſe la ſapienza lo
ſteccato della anima, l'acqua loſpecchiodi Narciſo, ò che diceſſe le faccende
qui uerdeggiano,o altre coſe sifatte. Biſogna adunque deriuare le parole da
coſe facili,& di pres fta intelligenza, con queste i due pocti le loro
fittioni mirabilmente innale zarono, delle quali piene ormai ne ſono tutte le
carte.Alte parole appreſſo ſi odono quelle del nome,or del uerbo partecipi
comeAmante, Ardente,co quelle ancora Andando, Vergognando,percheſono di ampio o
largo fpiris to.Et nel loro andare ſonoadagiate graui. Et di queſta ſia detto
aſſai. Ora con quai colori, ofigure adornar ſi debba la maeſtà delle parole, ſi
di rà,o prima,che alle coſe clgne unafalda confirmatione del proprio gilidi
tio, come un fermo tratto di pennello,rileua mirabilmente la oratione.Pere che
non è uera grandezza quella, della qualeſi tiene alcuna dubitanza,cu però
grande è quella parte. Leggi. DIN. Chi il commendò mai tanto, quanto tu il
commendaui in tutte quelle coſe laudeuoli,di che ualoroſo huomodee eſſer
commendato? certo. certo non a torto. AR. Ma quel giuditio,cheſeguc,ė fatto con
timore na dubbioſamente te proferito,però non ha del grande,benche al modeſto
dire, grandemente fi conuegna. DIN. Che ſe i miei occhi non mi
ingannarono,niuna laude da te data glifu, ch'io lui operarla,o più mirabilmente
chele tue parole non poteca no eſprimere,non uedeßi. ART. Conſidera quanto
togliedella maeſtà di quel ſonetto,che con mincia, Perſeguendomi Amoral loco
uſato, quel timido o ſoſpetto giudicio che dice, quella che ſe'l giudicio mio
non erra,Era più degna d'immortaa le ſtato, Et tanto più quanto quest'ultimo
uerfo non ha quelſuono,che gli al tri hanno.Douea ſenza temenza giudicare
ancora questo autore. Leggi, DIN. Et perciò che la gratitudine,ſecondo ch'io
credo,fra l'altre uir tùėfommamente da commandare. AR. Perche la ſentenza è
degna, a ricercaua un colore,che terminaf se il ſentimento.Nequesta figura
ſolamentealla maeſtàſ conuiene, ma tut te quelle che alla purità
ſirichieggono,delle quai di ſopra ſe ne è detto afa ſai.Et ciò ſifa,perche la
maestànon entri in tumidezza, o cada (diroco. si )in quella infermità che
idropiſia é nominata. Le parti, le membra eſſer deono bricui ſenza alcuna
lunghezza di giriyil che ſi uede ne'ſauij huomini, iquali breuißimamente uanno
raccom gliendo le coſe loro in fentenza, & detti,come oracoli.Leggi, DI N.
Giuſtitia moſſe il mio alto fattore. Fecemi la diuina potestade, Laſommaſapientia,e'l
primo amore. A R. Et qui ancora. DIN. Iſon Beatrice, che tifaccio andare, Vegno
dal loco oue tornar diſo, Amor mi moſſe, che mifa parlare. ART. Etqui. DIN. Gli
animi noſtri ſono eterni,perche difuggeuole uaghezza gli inebriate.Mirate uoi
come belle creature ci ſiamo,o penſate quanto dee of ſer bello colui, di cui
noi ſiamo miniſtre. AR. Inſomma,degno è ilſeguenteparlare in ogni ſua parte.
Leggi, DIN. Et queſto altrimenti non ſi fa,che à quello Iddio gli noſiri ani mi
riuolgendo,che ce gli ha dati. Ilchefarai tufigliuolo,ſe me udirai, o
penſerai,che eſſo tutto queſtoſacro tempio,chenoi mondo chiamiamo,di ſe
empiendolo hafabricato. ART. AR. Et qui ancora dicoſeumane. DIN. La uirti
primieramente noi,che tuttinaſcemmo, o naſciamo equali,ne distire,o quegli, che
di lei maggior parte haucuano, o adopee rauano, nobili furon detti, e il
rimanente rimafe non nobile. A R. La diſpoſitione o il ſito delle parole nella
maestà del dire dee tal mente ordinarji,che non ui ſia concorſo di uocaboli,
onde la bocca ſi apra ſconciamente. Voglio poi,che le paroleſdruccioloſe, con
più libertà uilica no,che nella parità, o tal ſuono eſſe legate inſieme diano,
quale ft deſides raua,che da ſe steſſo diſciolte faceſſero.Il ſimileſi dice
nella chiuſa, o nel finimento,operò il fine in parole manche non deeper alcun
modo hde uer loco in questa forma, deſidero la uarietà de' finimenti,o de i
princia pi, ma fieno di parole cheauanzino le dueſilabe, oquello cheper la più
ſarà tale in tutto il giro, farà il numero, che in queſtaforma ft ricere ca.
Leggi tutto il ſopra detto effempio, che ciò chen'ho detto, chiaramena' te
wedrai. Et ciò della maeſtà ti può bastare. Eſſendo la comprenſione alla grane
dezza del dire comela eleganza alla chiarezza, e eſſendoſi della male stà detto,
come di forma, che da ſemedeſima di tutte le ſueparti era cone tenta, nè ad
altra maniera, Òſentenze,ò numeri, ò parole, ò artificio, o ale": tra
qualità concedeuia,nėda altri alcuna coſa pigliaua, non è fuori dira. gione che
ſi dica ora della comprenſione, uera, ounicaforma da folleuare ogui baiſao
umile maniera della oratione. Et pero delleſueſentenze fi dirà prima, poi delle
altre parti. Le ſentenze di queſta forma,ſono quel le, che chiamano altro
ſentimento, o che raccolgono,operò in queſtapar te la comprenſione è oppoſta
alla purità del dire,nella quale dicemmo,non eſſer’alcuno raccoglimento.
Raccoglimento intendo,quando quello che piis i riſtringe nel meno,come una coſa
commune in generale, alla ſpecialità ė ristretto. Leggi, Certißima coſa é
adunque,ò Donne, che di tutte le perturbationi dell’d nimo,niuna coſa é cosi
noceuole, cosi graue, niuna cosiforzeuole o nio. lenta, niuna che cosi ci
commoud,ogiri,comequellafa,che noi amore chia mia mo. Eccoti che la
perturbatione è un genere commune ſotto il quale ſi rac coglie l'amore, che è
una ſpecie di perturbatione. Raccoglieſi ancora lo in determinato v oſcuro,allo
aperto & terminato,comequi. Molte nouelle,dilettoſe Denne à douer dar
principio à cosi lieta gior. nata,come questa ſarà,per douere eſſere da me
raccontate miſi parano das uanti,delle quali una più nell'animo me ne piace. Et
qui ancora molto più lines. $ 9 fi uede per due raccoglimenti. Et come che à
ciaſcuna perſona stia bene, à coloro maßimamente éria chieſto,li quali già
hanno di conforto hauuto mestieri, & hannolo trouato in altrui.Fra quali ſe
alcuno mai ne hebbe,ò gli fu caro,ò già ne riceuette piacere io ſono uno di
quegli. Riduceſt tutto il tutto alla parte ſia quel tutto è del tempo, ò del
luogo, ò d'altra coſa. Del tempo,come qui, · 10 amaiſempre,ey amo forte ancora.
Del luogo ancora, come qui, In Frioli, paeſe quantunque freddo,lieto di belle
montagnedipiù fiumi e di chiarefontane,è una terra chiamata Vdine. Suole
ogniſentenza, che chiama o ricerca ſentimento alcuno, eſſere di quella forma,o
appreſſo tutte quelle che alla purità ſono repugnanti nelle quali ogni
circostanza di luogo,di tempo dimodo, oogni accidente, che
preceda,accompagni,ófegua,alle coſe ſiſuoleaggiugnere.Come fe egli R diceſſe in
queſta guiſa, in sù la meza notte con molti'armati al luogo del le
guardieſoprauenne,fdegnato per la ingiuria fattagli il precedente gior no.Ecco
checon molte circostanze ſi narra il fatto,oR amplifica mirabil mente la
coſa.Come in queluerſo ancora, Giouane incauto,diſarmató, e ſolo. Chiamano
altroſentimento alcuni in questo modo, Ma si come àlui piacque,il quale eſſendo
egli infinito, diede per legge incommutabile à tutte le coſe mondane bauer fine,
il mio amore oltre ad ogn'altro feruente,o il quale. AR. Non legger piùche da
teſteſſo poi nel predetto luogo potraiper comprenſione eabbracciamento uedere
tantagrandezza di oratione che niente più. Abbracciano alcuneſentenze
mirabilmente,o ſono quelle, che la ragio nedella coſa in ſe ſteſſe
ritengono,come s’io diceßi,L'ira de'mortali immor tale eſſer non dee,e queſta,
Aſai dimanda chi feruendo tace. Et quell'altra. Un bel morir tutta la uita
onord. Etſimiglianti. Senza timor uiue chi le leggi teme.: Che il perder tempo,
à chi più sàpiù piace. Queste fonole ſentenze,che abbracciano a comprendono, ma
l'arte H 2 difolleuareè prima in ogni tramezamento. Leggi, Alla qual coſa fare (come'chein
ciaſcuna età stia bene il leggere « l'u dire le giouenili coſe, & c.
Etſopra l'altre questa. Percioche non amare,come che ſia,in uoſtra stagione
nonſi può, quane doſi uede, che da Natura inſieme col uiuere a tutti gli
huomini è dato, cbe ciaſcuno alcuna coſa ſempre ami, oſempre diſii,pure io, che
giouane fono, gligiouani buomini,« le giouani donne conforto oinuito.
Maggiormente queſti tramezamenti inalzano la oratione comeuedi, i quali uanno
meſcolando le ragioni con le coſe, o fanno la oratione ampia ecircondotia, o
uſanſiſpeſſo da queſto Autore nelle fentenze baſſe, co me qui, Le quai coſe,quantunque
molto affettuoſamente le diceſſe, conuertite in uentocome le piu delleſue impreſefaceano,tornarono
in uano. AR. Lo andare per gli gradi raccogliendo,ė artificio di quella fora
md, come qui, Figliuola miaio credo,che gran noiaſa ad una bella edelicata
donna come uoi ſiete,bauere per marito un mentecatto,ma molto maggiore la cre
do eſſere d'hauere un geloſo. Et queſta ancora. Leggi, Drmare ciaſcheduna delle
dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima
delle coſe, e del parlare. 40 DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere
che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella,
che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe
allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la
orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle
coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė
ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione
con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da
te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi
difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola
occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per
alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me
guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo,
chequalhora alcuno ſi rivolga à conſiderare il modo, es la ragione del medicare,
che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente
applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra
la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la
medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi
truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche conogni
ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina
conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o
preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel
parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento
recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il
peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la
mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris
medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità
delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa
dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune
coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte
apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi
conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche
troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco
ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per
ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del
uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda,
ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che
delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo
quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo, che ad un'altro diſposte
fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo
principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho
grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti
poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo
piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità,
a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare,
che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua
uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la
fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che
uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione,
o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero,dolce però, e
foaue,ſi compone il parld. -mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza,
& del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi
riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo;
continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente
ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno,
più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il
numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che dalla Natura
procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee
restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o
compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione
diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò
bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento.
DINARDO. Queſto ordine à me sommamente diletta, però di cuore ti prie go,che
più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. AR. La necessità uuole, che le
parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è
detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o
accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente
dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima
è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le
parole, che la sentenza dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o
circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento
del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la
ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti
della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó
Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo
mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello
abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto
ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il
cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua
alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno, oſi muoua più ueloce,ò
piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento, miſurato
col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero
figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel
fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche
di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere,
o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi,
ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in
parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò
che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere
hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo
a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo
quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di
questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior
deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu
facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual
naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un
tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della
mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità
del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno
biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi
delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore
affai umano, di benigno aſpetto. A R. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di
diſcorſo ogni mediocre in. gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià
letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di
Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti essempi ſono della purità nelle nouelle, la
ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla
uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe
conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe,
oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa
ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che
queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che
ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque
altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando
nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di
dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun
accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita
ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro
auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale
percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei
dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura
cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti
fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo,
di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo,
&neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti
quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee
uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le parole, piane,facili,ufitate,
bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto proportionate, onde le trae
portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire, o
l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però purisſime ſono queste. DIN.
Cheà me pareuaeßer’in una bella, « diletteuole ſelua,& in quella andar
cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue
bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi
partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non
partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una
catena d'oro tener con le mani. F 2 ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar
le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle,
o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura
delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini
fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago, «
piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il
Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non
cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo,uago
&piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la
figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia,doue ſi dice
Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello
tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze
del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti,
oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro
uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR:
Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto,
& non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del
dire porgere «grandezza o dignità. Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe
ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os
ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o
maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della
quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico
nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel
modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione
ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma
biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche
la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella
compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate,
che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud.
Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna
fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, &
tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che
la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta
uoce,riſonante,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente,
ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della
fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e
di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto
mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é
ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te
ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria
qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella
compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono
breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con
lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui,
D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti
errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la
trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il
potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue
più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio
raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in
questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco
piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il
laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o
fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma
oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo,
eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte.
DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo
ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello
chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura,
alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero,
& del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle
parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non
ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i
mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo
quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto
quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto,
perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del
finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola
piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le
parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme,
opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco
la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go
ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer
dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le
parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee
nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di
quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con
tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le
tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo
parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de
ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione
riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa
ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,&
naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle
fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto
nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc
l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella
poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue
nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giudicio delle quali da eſſa natura é
ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità
del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si
chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le
ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un
modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando
eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto
nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni
ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo
adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni
ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera, cheportachiarezza à
tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca
foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto
nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò
che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e
magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe
uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con
l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare
ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento
innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi
in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à
luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi.
DIN. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi
conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me
comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė
dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto
gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali
auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to,che per
chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe
ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben, ch'io ui trouai,
Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il poeta qui non doueſſe
dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di
Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci
poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto
quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di
Firenze, avvertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße
la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua
ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla
miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per
le uare ogni impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio
unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti
uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente
veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti
rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di
coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, &
elegante,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente
quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del
mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que
l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il simigliante
modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole
ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte
partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che
diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART.
Eccola dimanda seguita la solutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna
coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART.
Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te
inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo
non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme
allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni,
che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta
coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni
han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando
di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro
queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te
neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le
Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli
ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei
più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a
queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere
state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in
detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe
contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è
cosi elegante,comeilprimoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe
di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa
doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito
riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti,
ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non
una nouella intera,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi
oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN.
Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar
mi ſcema la miſura? AR.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della
eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita.
DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la
ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme
collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN.
Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria
Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la eleganza
dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire,
quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui
ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che
ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti
luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio
che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual
luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui
moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuarmare
ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata
catena dell'anima delle coſe, e del parlare. DE Ï Ï Á parlare. AR. Bendi.
Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la
ragione,alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o
nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti,
cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello
intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto
non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re
opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel
trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi
confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi
obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu
uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo
componimento. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno.
Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſiderare il modo,
es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina,
uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli
non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima
ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di
conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla
buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue
ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer
debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le
partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia
chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con
altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da
queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere
quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli orrecchi
ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la
opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita. Etfinalmente la
medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle
parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo
infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca
hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento;
il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle
ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà,
e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno
Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più
proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o
conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un
modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto
eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione
non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la
Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls
cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi
folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più
potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual
numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e
non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con
luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti,
operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non
conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parlamento, oſi lega
inſieme il faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za dubbio il
tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola
continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte
replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato,
« conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara,
oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che
dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del
tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però
numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per
qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene
dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come
ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie
go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La neceßità uuole, che
le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è
detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o
accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente
dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima
è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le
parole, che laſenten F DEELLA za dimostrano. La qual quantità inſieme ragunata,
Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto
abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la
uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori,
ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi
chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il
ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpo medeſimo e terminato, & finitocosi, le
parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In
tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte,
e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che
la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più
ueloce,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto
mouimento,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual
ragioniamo, uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare,
omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel
mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento
del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione
de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però,
hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in
parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce,
odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme
del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora
ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di
farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con
maggior deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che
ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza, laqual
naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un
tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della
mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità
del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno
biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi
delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore
affai umano, di benigno aſpetto. AR. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di
diſcorſo ogni mediocre in. gigno. gegropuò capire ilſentimento della
ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi. Leggi. DIN. Io son Manfredi,
Nipote di Costanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle
nouelle, la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla
uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe
conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe,
oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa
ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che
queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che
ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque
altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando
nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di
dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun
accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita
ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro
auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella sentenza: DIN. La quale
percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei
dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura
cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti
fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo,
di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo,
&neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti
quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee
uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le
parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto
proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che
la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però
purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, diletteuole ſelua,&
in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu
che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da
me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non
partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una
catena d'oro tener con le mani. F 2 AR DEL LOA: ARTE Non è poco hauer giudicio
di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel
diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la
figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò
Cornacchini fu nostro cittadino, o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo
adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre
Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di
Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato,
Dicendo, DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di
Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola
puro non ſia,doue ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non
é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per
quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il
ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque
erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra
maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in
ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non
erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora
uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire
haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è
figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario
als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom
poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met:
tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae
coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in
ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni
difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato,
« non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di
acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello
eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, &
lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte
ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono
delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda
parte del petto,o eſce poifuori con alta восс, uoce,riſonante,onde lo ſpirito
di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é
puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C,
órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di
dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio
dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò
che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te
ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria
qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella
compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono
breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con
lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui,
D. Suol’essere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti
errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la
trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il
potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue
più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio
raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in
questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco
piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il
laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o
fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma
oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo,
eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte.
DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo
ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello
chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura,
alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero,
& del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle
parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non
ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i
mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo
quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto
quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto,
perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del
finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola
piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le
parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme,
opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco
la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go
ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer
dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le
parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C. perche le mede. fime dee
nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di
quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con
tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le
tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo
parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de
ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione
riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa
ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,&
naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle
fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto
nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc
l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella
poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue
nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu. dicio delle quali da eſſa natura
é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità
del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si
chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le
ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un
modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando
eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto
nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni
ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo
adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni
ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à
tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca
foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto
nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò
che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e
magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe
uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio
fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza
dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto
di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade
Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe
Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DI N. Mipiace à
condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe
molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra
il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non
intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto
dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio,
s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le
quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar
del ben,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il
poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che
ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il
beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima
neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta
nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN.
Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo
Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi
dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella
preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento, chepoteſſe
offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi,
che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci
uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di
ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni
precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon
fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni
de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne
la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora
DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di
ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij
di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre
artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi.
DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello
ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la
ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che
con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo
alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa
di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello
elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando
diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte
nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė,
che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to
peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler
dire, hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte
coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della
miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente, àſtarmi con le Muse in
Parnaso,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più
difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più
diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste
fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state
le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento
della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello
autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife
cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso
auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle
predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia
cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad
alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di
una. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare
cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza
altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? A R.Queſta éuna
propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi
è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita.
Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo
la ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme
collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN.
Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria
Tratterò quella chepiù ba di felle. In queſto luogo non tanto la eleganza
dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire,
quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui
ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia
quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti
luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio
che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual
luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui
moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuarmare
ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata
catena dell'anima delle coſe, e del parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che
comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che
é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo
inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la
orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle
coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė
ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione
con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da
te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi
difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola
occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per
alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me
guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo,
chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione del
medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia
giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia
per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza.
Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue
ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche
conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La
medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata,
o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel
parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento
recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il
peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la
mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris
medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità
delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa
dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune
coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte
apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi
conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche
troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco
ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per
ogni parte dell'anima Ειοο ν Ε Ν Ζ Α. dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà,
e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno
Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più
proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o
conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un
modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto
eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla
perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia
quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura
ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle
affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna
coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle
parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si
perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la
quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli
aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo,
& non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parld. -mento,
oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za
dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, «
ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero
più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti
l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa
aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più
dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o
ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne
rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che
naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione,
quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia
NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente
diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri.
AR. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto
fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri
di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non
ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar sarebbe ocioso, ò
mancheuole. Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però
debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che laſentenza
dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo
ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza.
Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la
ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti
della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó
Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo
mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello
abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto
ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il
cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua
alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce,ò
piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento,miſurato
col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero
figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel
fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche
di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere,
o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi,
ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in
parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò
che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere
hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo
a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo
quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di
questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior
deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu
facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual
naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un
tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della
mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità
del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno
biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi
delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore
affai umano, di benigno aſpetto. AR. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di
diſcorſo ogni mediocre in. gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià
letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di
Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la
ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla
uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe
conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe,
oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa
ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che
queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che
ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque
altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando
nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di
dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun
accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita
ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro
auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale
percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei
dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura
cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti
fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo,
di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo,
&neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti
quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee
uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le
parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto
proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che
la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però
purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareva eßer’in una bella, diletteuole ſelua,&
in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu
che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da
me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non
partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una
catena d'oro tener con le mani. F 2 ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar
le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle,
o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura
delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini
fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. A solo adunqueuago, «
piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il
Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non
cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo,uago
&piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la
figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia,doue ſi dice
Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello
tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze
del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti,
oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro
uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR:
Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto,
& non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del
dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe
ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os
ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o
maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della
quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico
nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel
modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione
ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma
biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche
la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella
compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate,
che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud.
Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna
fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, &
tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che
la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta
восс, uoce,riſonante,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi
laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è
fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo
contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me
qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer
tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera
poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua
propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più
questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer
deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con
lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui,
D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti
errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la
trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il
potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue
più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio
raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in
questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco
piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il
laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o
fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma
oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo,
eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte.
DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo
ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello
chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura,
alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero,
& del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle
parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non
ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i
mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo
quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto
quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto,
perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del
finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola
piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le
parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme,
opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco
la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go
ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer
dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le
parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà, o C.perche le mede. fime dee
nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di
quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con
tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le
tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo
parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de
ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione
riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa
ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,&
naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle
fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto
nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc
l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella
poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue
nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu. dicio delle quali da eſſa natura
é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità
del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si
chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le
ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un
modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando
eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto
nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni
ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo
adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni
ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à
tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca
foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto
nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò
che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e
magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe
uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con
l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare
ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento
innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi
in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à
luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DIN.
Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar
due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare,
&l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne
dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga
lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai
bello artificio, s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne
narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN.
Maper trattar del ben,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte.
A R. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di
quegli,che ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere
facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui
dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità
peruenuta nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto
modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo
Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi
dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. AR. Ecco qui ancora un'altra bella
preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe
offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi,
che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci
uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di
ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari. AR. In fine ogni
precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon
fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni
de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne
la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora
DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di
ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij
di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre
artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi.
DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello
ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la
ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che
con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo
alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa
di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello
elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando
diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte
nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė,
che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to
peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler
dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe,
cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della
miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in
Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più
difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più
diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste
fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state
le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento
della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello
autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife
cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso
auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle
predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia
cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad
alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di
una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare
cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza
altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? A R.Queſta éuna
propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi
è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione
Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. A R. Ben che
tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza
quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle
Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In
queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo
auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di
riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio
della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi
dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma
hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro
riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio
quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto
fin qui,con che arte la eleganza leuarmare ciaſcheduna delle dette maniere,
accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del
parlare. DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al.
tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che é da gli effetti
commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal
muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali
conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello
appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter
acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però
auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual
forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con
glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro
di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero,
o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo
il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi=
derare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa
nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è
dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che
ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità,
oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno
alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di
mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con
qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon
l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può
fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con
zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle
medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon
offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli
orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino
all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita.
Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto
gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre
coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti
posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus
meroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle
parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di
queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da
dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto
giudicio è più proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando
adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole
più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua
iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla
perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia
quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura
ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, vuole chequelle
affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna
coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle
parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si
perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la
quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli
aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo,
& non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parld. -mento,
oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & dell’intendimento, fena za
dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, «
ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero
più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti
l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa
aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più
dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o
ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne
rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che
naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione,
quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia
NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente
diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri.
A R. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto
fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri
di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non
ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò
mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però
debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che la sentenza dimostrano.
Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro
non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo
abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò
piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna
parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del
corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e
terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo
abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto ſpatio adunque,che è
tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la
chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta
s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce,ò piu tarda
ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento,miſurato
col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero
figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel
fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche
di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere,
o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi,
ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in
parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò
che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere
hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo
a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo
quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di
questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior
deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu
facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual
naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un
tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della
mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità
del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno
biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi
delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore
affai umano, di benigno aſpetto. A R. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di
diſcorſo ogni mediocre in. gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià
letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di
Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la
ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla
uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe
conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe,
oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa
ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che
queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che
ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque
altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando
nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di
dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun
accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita
ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro
auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale
percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei
dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura
cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti
fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo,
di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo,
&neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti
quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee
uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le
parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto
proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che
la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però
purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, diletteuole ſelua,&
in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu
che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da
me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non
partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una
catena d'oro tener con le mani. F 2 AR ARTE Non è poco hauer giudicio di
ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel
diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la
figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò
Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo
adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre
Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di
Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato,
Dicendo,DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di
Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola
puro non ſia, doue ſi dice Arneſe,uoce straniera, ancora nello are. tificio non
é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per
quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il
ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque
erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra
maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in
ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non
erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora
uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire
haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è
figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario
als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom
poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met:
tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae
coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in
ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni
difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato,
« non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di
acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello
eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, &
lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte
ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono
delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda
parte del petto,o eſce poifuori con alta voce,riſonante,onde lo ſpirito di essa
grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come
è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la
A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla
I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia
perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al
comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che
maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai
onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della
purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non
ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe
polo,come qui, D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o
fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana
pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non
Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca
ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna
parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt
uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto
dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le
di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia
con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer
dee la predetta norma oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho
da farguerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene
in queſta altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò
che ilſenſo è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque
della purità quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile
parole, alla figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi
tratti del numero, & del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della
ſentenza,o delle parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di
queſta forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i
ripoſi,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal
fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il
fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender
quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito
reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in
alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di
piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe,
& uolubili,o ſalde,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema
parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi
dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare
le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire
cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle
andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come
ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura
a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole
piene, &perfete te,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta
nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per
la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque
odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo
adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non
isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o,
dell'altro figliuoloſarà, à quelle fomigliante. Ben'è vero,che laforza di cia
fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto,
che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto
piùè ne i uerfi, nella poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non
metta piu ſtudio,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu. dicio delle
quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto
giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa
ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche
impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza
aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche
quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del
dire,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto.
Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già
dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello
artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La
cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione, operò
non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra
intelligenza, o facilità,daqueſto nafce, che la eleganza dalla purità del dire
in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma
la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni
oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in
ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori,«le
figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che
ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da
ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio
albergo à ſdegno s'hebbe Poi seguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente:
AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DIN. Mipiace à condiſcendere à
conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei
costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare
alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo
partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello
aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio,
s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le
quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar
del ben,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. AR. Se il
poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che
ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il
beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima
neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta
nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN.
Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo
Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi
dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella
preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe
offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi,
che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci
uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di
ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. AR. In fine
ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon
fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni
de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne
la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora
DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di
ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij
di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre
artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi.
DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello
ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la
ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che
con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo
alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa
di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello
elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando
diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte
nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė,
che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to
peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler
dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe,
cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della
miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in
Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più
difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più
diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste
fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state
le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento
della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello
autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife
cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso
auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle
predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia
cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad
alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di
una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare
cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza
altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? AR. Queſta éuna
propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi
è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione
Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. A R. Ben che
tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza
quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle
Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In
queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo
auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di
riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio
della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi
dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma
hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro
riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio
quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto
fin qui,con che arte la eleganza leuadato per ſostegno la grandezza o
magnificenza del dire,cosi nella grandezza è pericolo di uſcire in forma che
non habbis ornamento, proportione,o peròſe le darà per miſura, o bellezzafua
unaforma diligente,accurata,o ben composta, laquale in termini conuc. nienti
richiudendo l'ampiezza della oratione,o ſangue, o colore amabi le en gratioſo
le donerà,ondeil tutto miſurato, & temperato marauigliofan mente ſipotrà
uedere.Questa forma nėſentenze, ne artificio ſeparato dal l'altreforme ritiene,ma
ogniſuaforza nelle parole,nelſito di oſſe, ne i luo mi,onelle altre parti e
ripoſta.Seperò dare non le uogliamo quellefenten ze, che acuti fono,o diſottile
intendimentodelle qualiſi dirà poi. Le paro le adunque di queſtaforma ſono le
foaui,leggiadre,bricui, difacile intelli. genza,iſchiette,o con gran
circoſpettione traportate. Perciò che le trasla tioni in queſtaforma eſſer
deono rarißime, o lefigure di questa miſurata Oben compoſta manieraſono le
repetitioni. Leggi, Per meſ ua ne la Città dolente, Per me ſi ua ne l'eterno
dolore, Per mefi ua tra la perduta gente. AR. E molto bella eornata queſta
figura, os tanto più ha di ornde mento,quantoquello che ſi replica,augumenta,o
creſce. Come qui. Amor, che à cor gentil ratto s'apprende, Preſe costui de la
bella perſona Che mifu tolta,e'l modo ancor m'offende. Amor che a nullo amato
amarperdona, Mipreſe del coſtui piacer si forte Che, come uedi ancornon
m'abbandona. amor conduſſe noi ad una morte. A R. Se alla repetitione
aggiugnerai la interrogatione, ſenza dubbio tu entrerai nella maniera forte
ucemente comequi. Qual'amore,qual ricchezza,qualparentado baurebbe le lagrime,
o i K sospiri pospiri di Tito con tanta efficaciafatti à Gilppo nelcuorfentire,
che egli perciò la bellaſpoſa,gentile,&amata da lui haueße fatta diuenir di
Tito, fe non coſtei? Quai leggi.Quaimi nacce?oc. AR. Tu da te stesſo poi quanto
ornata ſa ducemente queſta parte conſiderando uedrai; tanto più ſeappreſo le
dettefigure ancora ui porrai la conuerſione della quale di ſopra s'è detto.Nėti
marauigliarefe(una me defimafiguraſia da altrefigure ornata willustrata.Pero
che la lingua di queſtiornamenti é capacißima. Laſcia che à fuo modo altri
ragioni, tu neſarai giudice,ola coſa iſteſſa te lo dimostra. La conversione
adunque è figura di queſta idea, a Rſuol fare quando in quella ſteſſa parola
pià membri ſ laſciano terminare,come nello eſempio ora letto. Bella è ancora la
ritornatacheſi fa quando la parola cheſegue, comincia da quella in che la
precedente finiſce,come qui. Leggi, Di me medeſmo meco miuergogno. Et qui, Et
confoauepaſſo a campi difcefa,per l'ampia pianura sùper le rua giadoſe erbe in
fine à tanto che, & c. AR. O uero in questo modo. Infiammò contramegli
animi tutti, Egli infiammati infiammar si Auguſto, che lieti onor tornaro in
tristi lutti. AR. Et ancora il Bifquizzo come nell'uno Poeta ſi dicra Ch'io
fuiper ritornar più uolte uolto, Et l'altro. Il fiorir queſte innanzi tempo
tempio. Da poi la predetta ui ſono anco altre ornatisſimefigure, come è illoro
aſcendimento,ala tradottione o altre. Lo ascendimento R fa quando le parti che
ſeguono,cominciano dalle parole medeſime,nelle quali uan tere minando le parti
precedenti,con questa conditione che ſi mutino, le cadenze di esse parole. Come
qui, Nel dir l'andar,ne l'andar lui più lento. AR. Ouero in queſt'altromodo.
Luſca, io non poſſo credereche queſte parole uengano dalla mia donnd, eperciò
guarda quello che tu di.Et ſe pure da lei ueniſfono,non credo che con l'animo
fermo dire le tifaccia.Etſe pure con l'animo le diceſſe, il mio Rignore mi fa
più onorecheio non merito: A R. La tradottione ė figura,che replicando la
steſſa parola,nonfolde mente dimoſtra la intentione di chi parla,ma
mirabil'ornamento accreſce oue ella ſtruoud.come qui, Laurd, che'l uerde
lauro,e l'aureo crine. AR. Molto diligente as accurata figura e quella cheſifa
quädo due, • più partifraſecongiunteſi ſogliono proferire.Leggi, Et utile
conſiglio potrannopigliare, & conoſcere quello che fa dáfug gire,o che ſia
fimilmente da ſeguitare. AR. Et qui, A cui grandi ey rade,o à cui minute pelje.
AR. Forza ė,che onunque in una bella,& adornata figura s'abbatta un bel
giuditio, egli conoſca es ſenta dentro difealcuna dolcezza; com meſe uno udirà
in questo modo ragionare. Riſpoſemi non huomo,huomo giàfui, E li parentimiei
furon Lombardi, Mantovani per patriambedui, Nacqui ſub Iulio ancor che foſſe tardi,
E uißi à Romaſotto il buon ’Auguſto, Al tempo de gli dei falſie bugiardi
Poetafui,e cantaidi quel giusto Figliuol d'Anchife,che uenne da Troia, Poi
che'lſuperbo Ilion fu combuſto. AR. Non ſentirai tu per queſta diſgiuntione,per
la quale ogni parte ſotto ilſuo uerbo è rinchiuſa,una diligenza gentile del
Pocta:si comelà,do we dice, Io ſon Beatrice,che ti faccio andare, Vegno dal
loco, oue tornar diſſo, Amor mi molle, che mifa parlare. Et molto piùſe nella
proſa detto ritrouaſi A que' tempi che i noſtri maggiorihaueano l'occhio al
gouerno di que ſta Republica,eta riconoſciuta la uirtù de'buoni, dauanſ i
compenſi dei danni riceuuti per la patria,chi robaua il publico,era castigato;
fioriua dia na giouentù dedita alla mercantia, oucro alle lettere, laſciauaſi
il facerdos: tio, la militia da' noſtri queſta,per che i cittadini non
pigliaſſero l'arme contrafe ſtoßi,quello,acciochefuſſero più finceri i parenti
afar giudicio delle coſe importanti. ART. Vedi,che narrando partitamente,
oſenza congiugnimene to alcuno, il parlareè ſpedito, la figura ornata,
odiletteuole ſopramo do il ſuono di eßa oratione. Al cui ornamento il traportar
delle parti di oßa gioua mirabilmente, come quando ſi dice, Al costei foco,alcolei
grido. K 2 Giouin Giouinettopoß'io nel coſtui regno. Et qui. Vſate le colei
bellezze. In queſto caſo nonf dee di tanto leuar dall'ordine loro le parole,
che la ſentenza oſcura deuenti,come diſſe, Che i belli,onde miſtruggo,occhi mi
co la, di che èquaſ piena quella canzone. Verdi panni,ſanguigni,oſcuri,operſ.
Bello alquanto èquel tranſportamento chedice. Or non odio per lei, per
mepietade Cerco, che quel non uo,questo non poſſo. Concedeſ però a '
Poetimaggior licenza per riſpetto della neceßità del uerfo,nel quale ancora più
ampio luogo fanno gli ornamenti che nella profa.pure non èche del bello
nonhabbiano aſſai quelle figure, che per le negationi affermano,come s'egliſi
diceffe, io nol niego, cioè io il confefe fo.Et quella,non è alcuno,che nol
creda,cioè ogn’uno il crede.Poi non taca que,cioè parlò, e diſſe. Suole ancora
chi fcriue amaggior bellezza circoſcriuendo le coſe, con più parole,quello che
conuna può eſprimere come qui, Era giàl'hora,che uolge il deſio, A'nauiganti,e
inteneriſceil core, Il di,che han detto à i dolci amici,A Dio, AR. Et cosiA
chiama il Sole Pianeta,che distingué l'hore, e diceft. laprudenza di Mario,la
fapienzadi Catonein luogo di dire Mario prila dente, o Catone faggio,&éappreßo
bella figurala innouatione i com me qui, Parte preſ in battaglia,e parte
ucciſt. Et quia Taciti ſolieſenza compagnia, N'andauan l'un dinanzi e l'altro
dopo. AR. Ecco come la bellezza ogni formaabbelifce,ne per tanto auenga che
ella moltefigure, molti lumidimoſtre,di quelle ſolamenteſt contene ta,ma
ſtudioſa del diletto sforza di ragionare uariamente. Là onde per fuggir la
fatietà con mirabile artificio è uſata di uariare la oratione. Et questo
ſuolfare primieramente doppo molte uoci di piene «ſonore lettere
ponendonealcune dibaſſe U rimeſſe.Dapoifuggendo la continuatagiacia tura de gli
accentiſopra una medeſimafillaba,ora nelle ultime,ora in quet le,che uanno
innanzi adeffe gliſopramette,o di più in mezo delle lunghe le corte parole
framettendo gratia &adornamento le giunge. Bella coſa ė si come tra
cittadini vedere gli ſtranieri, cosi tra le nostre parole alcuna adirai che
alicna fa,o meſcolare le ifquifite con alcuna detle popolari, le BMOWE huone
con le uſate, finalmente la elettiöne in queſta parte può aſai, la quale
ritrouandofi in ſaldo w ſottilgiudicio, dimoſtra in un'eſſere tutto quello che
col conſiglio di molti eletto a ricolto effer potrebbe però non degnale
uili,ſcaccia le brutte,fugge le aſpre, abbracciale eleganti ſceglie
leſignificanti, o con copia marauigliofa uaria la difpofitione, i të pi,ilnumeroje
i finimenti;nė di pari lunghezza formeràle parti delparlaa re,nėripiglierà
una'steßa figura,un tempo medeſimo,un modo Amile, una perfona pari,ma quaſi
un'adorno pratola oratione di molta varietà fora mando, diletto, o
gioia,recherà ſempremai.Leggiprima qui, comeil Poce ta i medeſimi nomi non
ridice in uno steßo luogo. Io credo checi credette,ch'io credeßi, Che tante
uoci uſciße da quei bronchi, Da genti cheper noiſi naſcondeffc., Però diſſe il
maeſtro,ſe tu tronchi Qualchefrafchetta d'una deste piante, Penſter c'hai
ffaran tutti monchi. Allor porfi la mano un poco duante, E colfi un ramufcel da
un gran pruno, E'l tronco fuo gridò perche miſchiante. Da chefattofupoi
diſanguebruno, Rincominciò à gridar,per che mi ſterpiš Non hai tu ſpirto di
pietade alcuno? Huominifummo, oorfemfatti sterpi, Ben douerebbe la tua man più
pia, seſtatefoßim'anime di ferpi? Comed'un ſtizzo uerde,che arfo Ria, Dal'un de
lati cheda l'altro geme, Bi cigolaper uento che ua uia. Cosi di quella ſcheggia
ufciua inſteme, Parole,e ſangue,ond'io laſciai la cima Cadere,e dette come
l'huom che teme. A R. Tu puoiuederein quanti modiilPoeta ha uoluto variar
leparon ko con quanta felicità egli lo habbia ottenuto. Il che in molti luoghi
può in elo uedere.si come là,doue parlando del lago gelato, lo chiamaora
ghiaccio,era uetro, ora gelozora groſſo,o duro uello,ora ghiaccio, ora geld ti
guazzi, ora eterno uzzo,oragelata,ora cristallo orafaſcia gelata, ora fredda
crostázora lagrime inuetriate, &fimili altre parole ufa variando il poema.
Il fimigliante hannofatto,fono perfare tutti gliſcrittori di non D B 1 L me.
Leggerai mirabili eſſempi della narietà in tanti principij di giornar Odi
nouelle cheſono in quell'autore, o leggerai anco l'ultima parte del ſecondo
libro di quest'altro che comincia. Che andiamo noipure tutta uia di molti
amanti et diletti ragionando. Maė tempo di ritornar’omai alle altre parti della
formapredetta,ope ró d'intorno alle membra dei ſapere chela lunghezza di eſſe
in queſtafor. ma èpix deſiderata,chela breuità ocortezza,non però uoglio, che
si lo ftremo ti fermi,macon più disteſe parti che nella eleganza uorrei,che
leſue ſentenze liportaſjero,che le parole di effe in tal guiſa ſi
collocaſſero,et ſ terminajſe queüa oratione,che uariate alſopradetto modoil
faſtidio o la satietà ſi fuggiſſe, oin grado ogni sprezzata coſa ci ueniſſe. Il
numero al uerfo uicino in questaforma ci uuole,il qual numero primaſarà di quel
la maniera,che di ſopra ti ho detto, cioè ripoſo o mouimento, ouero tempo di
proferire,ò da poi di un'altra,che ora io ti dimoſtrerò. Perciò chemolto bene
all'oratione può dar formanumeroſa et bella, la qualeſia nata da ue na certa
neceßità delle coſe ben composte, o conſiderate, come il contra. porre i
contrarij, o le coſe diſcordi l'una all'altra con miſura corriſpone
denti,ritrouare i ſimiliipari, o altre coſe ſomiglianti à queste,delle quali
partitamente e con eßempio ne dirò, Sono alcune membra,ò nodi della
oratione,iquali hanno le lor ſentenze oppofte,ma con una corriſpondenza tra
loro mirabile temperate. Ilprimo cfſempioſarà di quello che ſi chiama Pare,il
qualeſi fa quando le parti che Äihanno à corriſpondere ſono quaſi di pare
numero di ſilabe, odi tempi, quafi dico,però che queſta parità di ſillabe, o di
tempi con ſaldo intendie mento o giuditiodeue eſſereſtimata, et nõ del tutto
pari.L'eßempio di que ſta forma e questo. Dou’elladifonestamente amica ti fu,
ch'ella oneſtamente tua moglie diuenga. ART. Nel predetto effempio in duemodi
ſiuede effer fatta numero, ſa la oratione primaper la parità delle ſillabe,la
quale nelle parti ſi uede poi per la contrarietà corriſpɔndenteperche amica
omoglie, ſono contra rij, oneftamente o difonestamente fo:10 contrarij,
oppoſti,ſolodi pari ud queſto. Leggi, Quiui à niunoſi cerca inganno,a niunoſifa
ingiuria. ART. I contrarij adunque fanno la oratione offer numeroſa,come an
cora qui, Et di gran lunga é da eleggerpiù toſto il poco oſaporito, che il mola
to o infipido. ART. tornare. 2 ! TAR. Ne i ſimili ancora cade il numeroſo
concento in modochequando in fimil ſuono la chiuſa finiſce,ne rinſulta il
numero. Quel roſſore, che in altri ha creduto gittare,ſopra di ſe l'ha ſentito
A R. Speſſo auiene,che per fuggire il ſoſpetto di cotesto artificio, la simiglianza
de ifinimenti delle parole in mezo delle parti ſi ponga, com me qui, Poi
ueggendo,che questoſuo, conſumamento,più tosto che emendamento della cattiuità
del marito potrebbe eſſere. Et qui. Che più dispettosamente,che
fauiamente,parlando. Molti eſempi ritrouerai da teſteſſo di queste numeroſe
maniere, nate dalla corriſpondenza delle parti.Ora vorrei, che bene aucrtißi di
non re. plicare piùuolte cotesti adornamenti,di non affettar tanto la conſonana
za delle parti,che cadeßi in fastidio,ouero infospetto de gli aſcoltanti. Et
per queſta reggerai medeſimamente il uerfo,nel quale caduto in più luoghi Ruede
l'autore delle nouelle,il quale à mepare che di ciò molto curato nõ
habbia.Beneuero,che con mirabile perfettione riempie le parti ele měs bra della
ſua fauella quando diuide i nodi de' ſuoi giri in tre parti, come qui Percioche
niun'altro diletto,niun'altro diporto, niun'altra confolatione laſciata ti ha
la tua eſtremafortuna.Etqui, Et ſe qualunque di quelle fuſſe in Salomone,ò in
Aristotile,ò in Seneca, 'haurebbe forzadi guastar'ogni lorſenno,ogni lor uirtů,
ogni lor ſantità. Et qui. Maquantoſenfante, quanto poderoſe,di quantoben cagion
le fore ze d'Amore,& c. Conſidera la distintione de' membri in quella
nouella, doue introduce to ſcolare,la uedoua,perche cosirichiedeua la dotta
perſona dello ſcolare. AR. E degno di conſideratione il numero delle fillabe,
chenelle parti, che hanno à riſpondere l'una all'altra,ſ mette. Perciò che
quando una pare te di troppo l'altra auanzaſſe,non ne ſeguiterebbe alcuna
numeroſa compo Rtione,però buone onumeroſe appaiono eſſer queſte. Accioche come
per nobiltà d'animo dall'altre diuiſe fiete, cosi ancora per eccelentia di
coſtumiſpartite dall'altre ui dimostriate. ART. Maqui appare alquanto lunghetta
la riſpondenza, &la die fagguaglianza demembri.Leggi. Quanto piùſ parla de'
fattidellafortuna,tantopiù à chi uuole lefue co fe ben riguardare,ne reſta da
poter dire, ÄR. ART. Può eſfer’ancora,che non ſi gusti il numeroper la
lunghezza delleſueparti,benche fieno quaſi paricomequi, Egli auieneſpeſſo, che
sicomela fortunafotto uili artialcuna uolta grandi teſori di uirtù
naſconde,cosi ancoraſotto turpißime forme d'huo. miniſtruowa marauiglioſ
ingegni dalla natura eſſere stati ripoſti. AR. S'io ti uoleßi ogni coſa
moſtrare d'intorno alla bellezza del dire, troppo ritarderei gli ſtudij che hai
afare,o pocoti laſcerei da eſercia tarti d'intorno allaeloquéza umana.Peròp trapaſſare
alle altre forme,par lerò della ueloce e pronta maniera della oratione; la
forza della quale è nello artificio,più tosto,onelleſeguenti parti,che nelle
ſentenze riposta. L'artificio adunque della prestezza eà brieui dimande
brieuementeria fpondere.Leggi. S'amor non èche èdunque quel ch'ioſento?:: Ma s'egliè
amor,per Dio che coſa è quale? Se buona,ond'ċ l'effetto afpro e mortale? Se
ria,ondési dolce ogni tormento? ART. Ouero il fare molte dimande, con forze di
ſpirito obrer uits: Non era egli nobile giouane? Non era egli tra gli altri
ſuoi cittadini bello? Non eraegli valorofo in quelle coſe che d' giouani
s'appartengono? Non amato? Non bauuto caro?Non uolentieri ueduto da ogni huomo?
AR. Le membra,quaſ parole eſſerdeono bricui «uolubili, oche pa ia che in eſſe
fail monimento del parlar noſtro, oltre alla ſignificatione delle parole nelle
quali ėripoſta la forza dela efpreßione di ogni forma. Leggi. Soli bastano,
accompagnati creſcono, und mille nefå, odelle mille in brieue tempo mille ne
naſcono,per ciaſcuna ſono aſpettate giocondißime,no aſpettate uenturoſe, ſono
cari ageuoli,ma diſageuolivia più care inquanto le uittoric acquiſtate con
alcuna fatica fanno il trionfo maggiore, donare, rubbare, guadagnare, guiderdonare,
ragionare,ſoſpirare, lagrimare, rotte, reintegrate,prime ſeconde,falje,o
uere,lunghe bricui, tutte fonodiletteuo li tutte ſono gratiofe. AR. Vedi che
mouimento apporti ſeco questo parlamento, il quale quando l'huomo è riſcaldato
s'aſcolta con marauiglia delle genti. Confia Ate anco nellaforzadelleparole, o
nelſuono, onella compoſitione. com mequi. E già uenia sì per le torbid onde, Vn
fracaſſo d'un ſuon pien difpauento, Per cui tremauan' amendue le ſponde, Non
altramente fatti,che d'un uento: Impetuofo per gli auuerſardori, Chefier la
ſeluaſenza alcun rattento Gli ramiſchianta,abbatte, e porta i fiori
Dinanzipolucroſo uaſuperbo Etfafuggir lefiere e gli pastori. ART. Tanto uoglio
che tu ſappia della preſtezza del dire. Perciò che date medeſimopuoi
comprendere quanto « ilconcorſo delle uocali,ore forezza delle fillabe pa
lontana da questa forma,esfapere che ogni ina dugio di proferire, ogni
raccoglimento,ogni giro, impediſce il mouimento fuo. Reſta adunque a dire della
formaaccostumata,o delle fueparti, la. quale e, cheſi conuiene alle cocoalle
perſone in tal modo chequello che ſi chiama Decoro, molJa chiaramente ſi ueda Et
però la detta forma ſota to di ſe quattro maniere principaliſ uede contenere.
La primaė la unilta ubaſſezza. L'altra é la piaceuolezza o il diletto. La terza
e l'acutezza Uprontezza. Et l'ultima la moderatezza della oration. Delle quai
fore menecessariamente in queſta forma si ragiona, perche cosi porta la natua
rade gli huomini,i quali sono ó uili, o riputati, è piaceuoli, o moderati. La
bajezze dangue e forma infima, e dimessa del dire, alle roze, o idiote persone
convenicnte, à femine, fanciulli non diſdiceuole: da Comici, rie chieſta ouſata
pia toſto che da Oratori, o eloquenti buomini,o piu tom Ho nelle cauſe de
priuati, che ne i communiconſigli ricercata,quando uor rai attribuire il parlar
a quella perſona, cui non ſidifdice la baffizza. Cá dono in queſta ſimplicita
di dire i paſtori, aquelli che le coſe.boſcarecce Man deſcriuendo,o però le
ſentenze di queſtaformaſonopiu baſſe Qumi li, opiùfacili che quelle della
purità oſcioltezza del dire. Là onde ala cuni giuramenti ſciocchi à
qneſtamaniera ſi confanno. O Calandrino mio dolce, culor del corpo mio, quanto
tempo t'ho defide Tatob’dauerti edi poterti tenere a mio fenno.Tu m'hai con le
piaccuoa lezza tuațratto il filo delacamicia, tu m'hai aggrattigliato il cuore
con la tua ribecca. Può egli eſſer che io titenga? Leggeraila tutta, otutto che
in questa formauiſabaſſezza, non è però ela ſenza artificio, percioche per
dimoſlrarla pulefe,fi fuole alcuna fista minutamente ogni coſa deſcriuere,u
ogni particolarità chia rire, introdurre alcune ſcioccheriſpoſte, ò ſemplici
contentioni di coſe, che non rileuano con detti, le ſentenze de quali ſono
grandi, ma le parole ſciocche, at rozze. Leggi. L Cominciò à dire ch'egli era
gentilhuomo per procuratore, roy. Begli bauea diſcudi più di milantanouefenza
quellich'egli hauea àdarealtri che erano anzi piùche meno e che egliſapeus tale
coſe fare; ct dire che domine pure unquanche. ART.. A tuo agio nie leggerai
ilrestante,mauedi la contentione: Guatatala un poco in cagneſco per
amoreuolezza la riniorchiaua '; ege ella cotale ſaluatichetta, facédo uiſtadi
non auederſene andaua pure oltra in contengo. Seguita che tutta ëbaſſa per li
giuramenti, per le beffe, con per alcuni rabbuffi, come qui. Vedi bestial buomo
che ardiſce, là doue io Pid, parlar prima di me, laſcia dir à me, Et alla reina
riuolta diſſe,Madonna, costui mi uuol far. conoſcer la moglie di Sicofanta,ne
più ne meno come scio con lei ufata nor, fußi, che mi uuol dar' à uedere chela
notte prima che Sicofanta giacque con lei meſſer Mazza entraffe in monte nero
per forza,e con ſpargie mento di fangue oio vi dicoche non é ucro,anzi u’entró
pacificamente: La deſcrittione del fante di fracipolld;& della
fante,ėbaſſa,er propria di queſta formaa alcuni lameti cô parole ufitate &
popolari. Leggi. Dime,oimė Giãnel mio io fon morta,ecco ilmarito mio,chetri fto
il faccia Dio,che ſi tornò, « non ſo che queſto ſi uoglia dire. ART. Et alcuni
prouerbiemodiſono dimeßi. Leggi.: Et cosi al mododeluillan matto doppo il danno
fece il patto, muoia. foldo, oniua amore, e tutta la brigata. ART. Dalle
fentenze di queſta forma ſipuò far congettura quai parole, ochenumero,
oquaichiuſe ad effali conuengonc, Però cheari tificioſamente da ogni artificio
lontana offer deue ogni ſua parte, & imie tare la ſemplicità, ogroſſezza
delle perſone. Io non uorrci queſtaforma in unpocma grande, o genoroſo; o
dubito che per questa ragione da ale cuni ripreſo noſia uno de i
piùcarifigliuoli ch'io habbia,ilqualefpeſo per dire ognicoſaminutamente cade in
parole baßißime,come quando dife. Vn’amme non faria potuto dirſt, Quero.
Etmentre che la giù con l'occhio cerco, o quello che ſegue Trale gambe pendeuan
le minuggia La corata parea, e il tristo ſacco. Et il reſto. E non uidi già mai
menare ſtregghia A ragazzo aſpettato daſignorfo, Et la doue diſſe che Tencuan
bor done alle ſue rime. Md ora al diletto paſſando, dirò, che per diletto de
gli aſcoltanti ale cuna uolta l'oratione ad una forma s'inchina la quale tutta
e riposta nellä, bautentione delpoeta,però gioconda
diletteuolemanieras'addimanda ĝrellache la ſemplice edimeſſa alquanto più
rileua ealla fauola, ó fala uoloſa narratione ſi uolge. Là onde leſentenze di
questa formafaranno contrarie alla forma della dignità del dire; &però
diletteuoli o gior conde ſono quelle, doue ragionano inſieme la Diſcordia, o Gioue,
o in quel dialogo d'Amore, oue R dimostra in che guiſa difcendeſſe fra more tali
Amore.Sonoanco grate,ga dolci quelle ſentenze chehanno quelle coſe ntinutamente
deſcritte, lequali per natura loro hanno onde piacere difense timenti umani, es
però la deſcrittione dell'amenißima valle delle Donne a molto grata ad udire.
Conſidererai di quanta dolcezzaſia ſtato amaeſtro Simone il ragionaméto di
Bruno, quando egli deſcriſſe la brigata, che giudi in corſo,og de i loro
follazzi, opiaceri,e delle altre coſe diletteuoli che egli uedeus in udiua. Ma
è bene che tu ſappia, come di quelle coſe, che a ſenſi ſono ſottoposte, alcune
fono oneste, alcune diſoneste. Le diſor Heiste ſe paleſamentesi ſcuoprono co
iloroproprij uocaboli, offender for gliono le caſte orecchie;benche non
offendano quelliche nė di dirle, ne di farle R logliono tergognare,maſe con
diſcretomodoleggiadramente cura prono la bruttezza loro,non pure non perdono il
diletto quando ſono inteſe, ma molto più di ſoauird ſeco recano à gli
aſcoltanti: Narra lo amore di due cognatiilpoetaDante,o uolendo il finedieſſo
quantopiù poteua onestan mente ſcoprir diffe. Quel giorno pia non ui legemmo
auante, cioé attena demmo ad altro che à legger quello, che fu cagione del
nostro amore, o cosi quá lo l'altro poeta diſſe, Con lei fuß'io da cheparte il
ſole. E non ci Medeß'altri che le ſtelle.Ocosi in mille modi ó per le coſe
antecedenti, per quelle cheſeguono,eſſendo meno diſoneste,le
difoneſtißimèappalefar ft poſſono ne è pocalode dichi ſcriuezin tale occaſione
abbattědofi,ſenza offen fione anzi con diletto delle oneſte perſone deſcriuer
le coſe meno che oneſte. Intělaſi adunque la coſa, ofuggaſi la bruttezza delle
parole,o in queſto modo ſarà foaue, &diletteuole il parlar uoſtro. Alquale
gli amori,le bele lezze de i luoghi,igiardinizi prati,i fiori le fontane,la
prima uera, le pite ture, o altre coſe piaceuoli aggiungendoſi,ſenzadubbio ſi
dimoſtrerà la predetta forma,della quale anco di ſopras é detto aſſai, quando
del diletto, della gioia tiragionxi,che naturalinēte inuouc ogni coſa creata.
Et cosi ſecondo l'affettione di ciaſcuno ſi porge ſolazzo opiacere col
ragionare. L'artificio,et le parole della giocõdità tolteſono dalla
primaformadel dire chiamata purità, onettezza. Voglio bene in queſto paſſo,che
co più licen zoufigliaggiunti,ſegno e che i pocti loſtudio de' quali è proprio
il dilet? tare, allora più dilettano quando più belli;eacconiodatiaggiunti-
fono? wfati di porre ne' verſi loro, ecco Leggi. L & Giace nella fommità di
Partenio,non'umile monte della pastorale Arct. dia,un diletteuolepiano di
ampiezza non molto patioſo,peròche'l ſito del luogo nol conſente ma,di minuta,
o uerdisſima, crbetta si ripieno, cbe fe: le lafciue pecorelle congli auidi
morſi non uipafceffero,ui ſi potrebbe dom gni tempo ritrouar merdura. ART.
Tutti i principii delle giornateſono à proua fatti per dileta tarc, eperò inshi
13 ziunti uiſono meſcolati come tu potrai uedere. Egli lliſuole anchora
interporre de i ucrſi per. dilettare, ma con destro modo, Perciò che non
mipareche bence ſtia, che la compoſitionc babbia del uer fo come qui. Cofi
detto, et riſposto,e contentato, doppo, un brieue.filentio di ciaſcuno. ART.
Ecco che nella proſa ui è il uerlo,ſenza quel propoſito che: io ti diceua,però,
biſogna rompere i ucrſi con alcuna parola,eccoti uer: foc, Postbaueafine alſuo
ragionamento, madicendo. Pofthauca fine Lau, retta.al ſuo.ragionamento non è
più verſo, benche queſto.autore altrowe: non foſſeſchifatodal uerfo,come quando
diſſe. Poſcia che molto commendata l'hebbe, Disleale, o spregiuro, e traditore,
Etpoi con un ſospir aſſai penſoſo, Luogo moltoſolingo, ofuor. dimano.. Et
questi uerſi quanto ſono migliori,tanto più ſono da.cſfer fuggiti nel fic lo
della oratione, fenon quando,o per eſſempio, o per autoritade, o per di: letto
ſono tolti da poeti. Ora delle figure di questa faperai,che alla giocondaforma,
oltra le fi gure che alla purità,Q umiltà. conuengono quelle ancora non
disd.cono, che alla bellezza ſi danno,o peròle membra pari di ſimili cadimenti
le rime, i biſguizzi, itramutamenti; i circoli, le uoci.ſimiglianti, il
fingeri: de i nomi ſonofigure di questaforma. Leggi i ſimili cadimenti.
Tranquilla lite de'giudicanti ristora.le fettche gucrreggianti, in quel le con
le ſeuereleggi de gli huomini, la pisceuolezza della natura,meſcoa. lando a
queſti nel mezo de gli nocentisſimi guerreggiantipure, ø inno.. centisfime paci
recando. Nellefſempio letto ui troucrai anco la bellezza di contrari, la parità
de'membri, perche niente ci uicta,che una ſtela figura da molti lumi ancora
illuminata, fi poffa fare illuſtre e luminoſa. Laura, che il ucrde lauro,c
l'aurco crine.. Eſcherzo di upci ſimiglianti. Il mormorar dett'onde,bisbiglio,
ſpruzza.. reribombo,gracidare, fonoparolefinte,cha con diletto cfprimeno il
fatto, ecco quando colui diffe,Filli,
Filli,fonando tutti i calami, parue ueram mente che i calami fuſſono tocchi col
fiato di dettopaftore, o quello ſem zafar motto alcuno. Rimafu quella di coſtui
che diſſe. Tanto d'intorno à quel più bello, quanto pià de Thumido fenting di
quello, Et perpiù adornamento et diletto, diſſe anco. L'acqua laquale alla ſua
capacità ſoprabondaua. Et comei falli meritano punitione, Cosi i beneficii
meritano guidero: done. Nella rima è pofta. la dolcezza de' Poeti di questa
lingua, dallaqual.rima chi ardiſſe ò tentaſje per alcun mododidipartirf, toſto
ſi pentirebbe. Le rimepiùuicine fono più dolci: Qucta licenzadel
rimaremoderatamente Bplglia de proſatori, purche di affettata dilettatione:
disoneſto ſegno non porga. Voglio bene la compoſitione di questa forma,numeroſa
epiù al uerſo uicina che l'altre, ma il uerfo per ogni modo le tolgo. Guarda
con chefacilità ſipotrebbe coteſta proſa alla dolcezza deluerfo ridurre.Leg.
Vna fede medeſimatraloro per le menti unafermezza, unoamore in agni faſo, in:ogni
tronco,inognirina,,uede l'amante la faccia dolce delld. fua.belladonna,o ella
quella del ſuoſignore. Ma.ora non: voglio che tantoti piaccia la forma predetta
che tralaſcian do la dignità,o grandezzadeldire, procuri.con ogni ſtudio il
diletto piacere cheda quella fola procede, Perciò che io non uorrei che alcuna.
parte del tuo ragionamento ſenza piacer s udiſſe, di.che l'aſcolta,ilqual pia
cere naſce ancora. dalla Idea dell'altreforme, o dalle orecchie allo animo,
trapaſſando ogni parte di eſſo fparge di diletto marauiglioſo, perche moe.
uendo diletta, o dilettando li mouc, inſegnando ſimilmente fi.moue,,
odiletta.in quanto che lo inſegnare il mouere,o il dilettare, ſono opera. tioni
non distinte l'una dall'altra. Mi. laſciamo queſta quiſtione. ad altro, tempo,
o ancora nonstiamo troppo in.questa forma tutta.di altra confla deratione, come
quella.cbe al Posta.grandemente conuenga, alquale pocta. i giuochi, po le coſe
ridicole ſi confanno, operò di. cße ora non te ne dia 60, e tanto piu adietro
di buon cuore ti laſcerà queſta matcria ', quanto di: ſacopioſamente damoltine
è ſtato ſcritto,etragionato. Larifponfione: ad ogni parte è anco figura di
diletto. Leggi. Laquale ciiba fattinc i corpi.delicate,o morbide, negli animi.
timide opaurofe,ne le menti benignc, opietoſe, obacci dute le corporalifora ze
leggieri, le uoci piacsuoli, o imouimenti de imembrifoaui.. Ms or a pasfiamo
all'acutezza del.dire, forma inucro egregia. &. piùalto penfamentoche altra
meriteuple. Peroche ella contiene le ſentenza fic,deltuttocontrarioalla umiltà,
«baffezza della oratione, ej in uero altro dicendo,altro intende.Percioche è
dicoſeche hanno in ſeforza,et uds Forela onde lo artificiaė proferire le
alteodifficili intentioni pianaměte, o con facilità, e le umili &abictte
che paianoalte,o degne: onde i primo modo é,quandofi piglia una parola in altra
ſignificatione che nella ufata confueta maniera,ne pcro e meno conuencuole et
propriafe gli wiguardaalla forza della uoce,che la uſala, « conſucta, come qui.
Non creda donna Berta oſer Martino * -Prueden un furar altro offerine. 9.
Wedergli dentro al conſiglio diuino. Che quel puo furger,oquel può cadere. C:
il secondo modo e quello cheſi fa non
mettendo la parola, doueela berie Starebbe, ilche abufione s'addimanda; come ė
à dire allegrezza inſanabile, in luogo di dire allegrezza grandißima. Seguita
il terzo modo di porre. una þarola pia uolte'., ma che ſempre ſia ad un modo
istefjo pigliata, come dicendo,ſecglimuore, morirà tutto, perche uiuendo non
uiue.Vſaſi ancora biquestaforma un altro artificio aljai degno di
conſideratione ilquale ft fa quando il parlare ſi fa pieno ditraslationi,o per
la moltitudine di quelle lifa ogn'horpiùmanifesto. Leggi. Eeleggi fon,ma
chiponmanoad eſſe Nullo, percheil paſtor, che precede i Ruminar può,manon ha
l'ugne. foffe, Perche la gente che ſua guida uede ** Pur à quel bel ferir on
fella é ghiotta Di quelfi paſce, opiù oltre non chiede. ART. Et in queſto altro
loco ancora Nel mezo del camin di noſtra uita Mi ritrouai in unaſelua oſcura
Che la diritta uia craſinarita. ART. Acuti ſono ancora quei rimedij,che uanno
quafi medicando le dile rezte delle Tralationi con alcune altre piu chiare,
ecco dire il fiato della morte é duratralatione. Ma dire della morte, e ſpigne
col ſuo fiato il noe ſtro lume,e acutamente raddolcita la aſprezza fua. O
qui.Con altezza di: animo propoſe di calcar la miſeria della fori una.Voglio
ancora,che acuto fa ilporre inanzi yliocchi le coſe con bella colligatione di
ſignificantißia me parole,Vuoi tu ucdere la celerità del tempo. Leggi. a
Delaurco albergo con l'aurora istanzi E to 1vs K $ *** siratto ufciua it ſol
cinto di raggi, Che detto baureſt',.' Apur corcò dianzi. Jo uidi il ghiaccio, e
li preſſo la rofa, Quaſi in un tempo il granfreddo, e ilgran caldo. Che pure
udendo par mirabil cofa Veggo la fuga del miouiuerpresta. Anzi di tutti, et nel
fuggir delſole, La ruina del mondo manifesta Voi tu uedere dipinta la oſcurità.
Leggi. Buio d'inferno, o di notte priuata D'ogni pianeta ſotto pouer ciclo
Quant'eſſer puo di nuuol tenebrata: ART.No ſolaměte leparolefanno l'effetto,ma
te fllabe, et le lettere steffe Vedi quáte fiate uie replicata la quinta
lettera come lēte baſſa,co oſcura. Sotto queſtaforma i beidetti ſi coprendono,
et quei mottiurbani,che co dimeſe parole dicono altißime coſe.Là onde alcune
ſentēze, la ragione delle quali in effe ſi conticnejacute ſono, o di ſuegliato
ingegno ſegnimanifesti. come à dire, le minacce fon arme del minacciato. sēdotu
huomo penſa alle coſe humane o offendo mortale nõ hauerl'odio immortale, o
quello.Rade volte è ſenza effetto quello che uuole ciaſcuna delle parti. Queſte
ſono le parti principali dellaforma ſublime; & acuta,nellealtre haida
ſeguitare la purità o eleganza del dire. Ma della Modestia,o Circonfpettione
del parlarenelquale conſiſte quanta gratia tuti puoi con gli aſcoltanti acqui
Atare,dirò,pregandoti caraméte,che tu uoglia questaſopra tutte l'altre ele
gere,abbracciare,et fauorire in ogni tuo ragionamēto. Modesta è adunque quella
forma del dire che le proprie coſe abbaſſando innalza le altrui, o quaſi cede e
toglierſi laſcia del ſuo, il che opinione acquista di grābone tade appreſſo chi
ode.Le ſentezedi quellafono quelle che dimostrano l'ani mo di chi parla alieno
dalle contētioni, il deſiderio di fuggire, o terminar le coteſe,ildiſpiacere
d'accufar altrui, il poter dimoſtrar maggiorpeccati dell'auuerfario,«nõfarlo,et
quello che ſi fafarlo sforzatamēté,ė astretto dalla uerità,o p no laſciar
opprimere gl'innocēti,uerfo de'quali,chi dice, A deue dimostrare cõ queſta
formaofficiofo,et benigne,comefece coſtui. Leggi. Mi piace condiſcendere a'
conſigli de gli huomini,de quai die cendo mi conuerrà far due coſe molto a'
miei coſtumi contrarie;luna fia al quanto me commendare o l'altra il biaſmar
alquanto altrui,o auilire. ART. Molti huomini eccellenti nelle lodi, che date
hanno a i loro cittadini uſati ſono di dire, uoi faceſte, uoi uinceste,mánel
dimoſtrare alcana coſa meno che oneſta de' fatti loro,hanno detto per
modeftia.Noi perdesſimo, noi malefi portasſimo, noialquanto imprudentemente to
gließimo la guerra. A questeſentenzeſi aggiugne l'artificio, ilquale con Rate
nel dire di fero delle proprie coſe modeſtamente, con dubitatione
facendolegrditamente minori di quello cheſono; eſcuſando per lo contras rio gli
auuerfarii,oucro con ragione, conalquanto di timore accufando li,permettendoli
alcuna coſa a fuomodoin loro diffeſa pronuntiare,acció sonſi dia ſoſpetto al
giudice dioffer contentiofo,& amicodelle liti, in que ſto caſo voglio,che
tu uſ parole baſſe, et pure, oquelle che hanno manco forza nelle tue lodijonel
biaſimo de gli auuerfari, però quelle figure a questaformaſono accomodate,nellequali
con deliberato conſiglio alcuna coſaſ pretermette,quiſando però l'aſcoltante di
tale deliberationc.Inbrie ue ti dico, cbe la disſimulatione, che ironia
s'addimanda, quenga, che ale cuna volta morda cu pungasėperò artificio,o figura
di queſta materia,nel laqual alcuni Greci riuſcirono mirabilmente.
Lacorrettione, oil giudi cio con timore ſonocolori di questa idea. Come quando
ſi dice, S'io nca sn'inganno,s’io non erro, cosi mipare,ofimiglianti modi, i
quali quanto più banno del leggiadro, tanto più dilettano,o fanno l'effetto,
che ſi ricer 14. La correttione e in quel luogo. Si come prima cagione di
queſto peccato, fe peccato é, perciò che io t'accerto. ART. Et la
disſimulatione iui. Godi Fiorenza, poi che ſei si grande. ART. Belmodo e
modešto é quando o il biaſimo, o la lote ſi fa dar da una terza perſona, perche
meno ha d'innidia il teſtimonio altrui, che'l noftro, operò in queſto Poeta nel
dire la origine fua, uedrai modestia ma rauiglioft, Leggi ancora qui.
Nobilisfime giouuni, à confolatione delle quai io mi ſono meſſo à cosi lunga
fatica io mi creda aiutandomi la diuina gratis ſi come io auiſo, per gli uostri
pictofi preghi non gia per i mei mcriti quello compiutamente ha Herfornito, che
io nel principio della preſente opera promiſi di douer far. ART. Etil principio
della quarta giornata i ripieno di queſti modi. Ma tempo è di ucnire all'ultima
forma di queſto ordine, ma prima in die gnità o perfettione,comequella, ſenza
laquale niuna delle altre può nel l'animo entrare de gli aſcoltanti,dico della
uerità, a laquale benche la moc desta e dimeſſaforma piu che l'altre
s'auicinano,nientedimeno non è da di Te,che ella debbia dall'altre offer
abbandonata, imperoche non è opinione, òaffetto,che ſenza eſſa indurre ſi
poſſa, queſta fa credere che cofiſia,come Adice,questa moſtra l'animo di
chiragions, queſta èfrutto diquella uir ta che tùche noi chiamiamo
imaginatione,cosi potente nel porre le coſe dinanzid gli occhi,et cosi efficace
ad ottenere ogni nostra intenţione.Dimoftrafl adia que l'aniino di chi parla in
questo modo,cioèſenzamezo alcuno rompendo in uno effetto,perche la natura in
queſta guiſa ui diſpone chequandoſiete iņuno affetto ſenza altra ragione in
quello entrando le dimoſtrate, cosi l'a ra,lo ſdegno, il diſo, il dolore,o
ogniaccidente ſi fa paleſe. In ſommaſe je fidate,o diffidate, c teneteſperanza
d'alcuna coſa ſe allegrezza uimuoue 'ò noia alcuna,ueracißimi pareranno gli
affetti uoftri,ſe da quello che defe derateſenza porui tempo di mezo
cominciante. Leggi. Fiamma del ciel si le tue trecce pioua Equi doue il Poeta
dimanda aiuto Quando uidi costui nel gran diferto. Miferere di me cridai à lui.
A R. Come qui è uitiofo, doue un nụncio corre al palazzo à dan nog ua alla
Regina della preſa della città, es ardere etſaccheggiare ogni coſa, o
incomincia con lunga narratione,dicendo, id ui dirò diffuſamente il tutto. Ma
ritorniamo, hauendo il Porta di mandato aiuto à Virgiliopiù bricue che può gli
da notitia diſco perche l'affetto lo pronaua à chiedergli pohc cagione egli ſi
trouaſje in quel luo. soſeluaggio,dice. Ma tu perche ritorni à tanta noia? Etfa
maggiore il ſuo affetto replia çando, perche non fali il dilettoſo monte. Là
onde poiil Poeta pien di mara uiglia di ueder Virgilio, non gli riſponde, ma dà
loco allo affetto,et dicca Leggi. orſe tu quel Virgilio, equella fonte, Che
parge di parlar si largo fiume, Ripoſi lui con uergognofa fronte, Et piu
ritornando all'effetto di primajo de gli altri poeti onor',e tume. AR. Vedi
comele Discordia con Giove adirata in tal modo comincia. Parti Giove,che io, la
qualeprodußi, et conſeruo il mondo,degna fia di doc uer’eßer biaſmata da
ciaſcaduno. AR. Serbati in questo caſo à dimostrare che inte più uaglia la
natur ra,che l'arte, o otterrai la credenza del uero che tu uuoi. Dire con
uolubi li parolc é ſegno di uerità, l'infigner d'hauerſi ſcordato, il
dimostrare die ſere dall'artificio lontario, o lo ejer dulla ucrità commoſſo,il
correggerſ daſeſteſſo,lo cſclamare in alcune parti quafi rapito dal uero, o
finalmene, te una diligente traſcuragine, & una traſcurata diligentia può
far’apparenza diuero.Ecco quanto bene appare,ola modeftia, ola verità ufar la
Discordia,doue dice, Etſel mio eſſere pien di miſeria mi ci rende in diſpetto
l'effer Dea (coa me tuſei ) onata al gentilißimo modo delfangue two pieghi il
tuo anis mo ad aſcoltarmi benignamente. oRati' stato ilmio minacciare più tos
fto fegno di diſperatione, che cagion d'odio è di ſdegno che tu mi debbi
portare. AR. Et poco dipoi. Io parlerò Gioueaffine di farti pietoſo alla mia
miſeria,non con animo d'effer lodatacome eloquente;muoue il dolor la mia
lingua,parte,et diſpone a fuo modo le mie parole, o quale id'l ſento nel core
tale,à te uegnia allos recchie,cheſenza offer altramente artificioſa,Oornata,affai
ti perſuaderà l'oration mia à dolerti di me,la qualedi tanto nonſon
conformeallo affan nocleoue quello continuamente m’afflige,queſta toſto fi
finirà, o ad ogni richiesta tua s'interromperà,però che qualunque uolta cofa
dirò, che mena zogna ti paia ſon contenta di dichiararla,accioche picciolo
error nel prin cipio nonſi faccia grande alla fine: AR. Vedi quanto efficaci
ſtenote eſclamationi. O‘Amor quanti, o quali ſono le tue forze: AR. Et là doue
dice, o felici anime,alle quali in unmedeſimo di auer re il feruente amore o la
mortal uita terminare,o piú felicife inſieme ad uno medeſimoluogo n'antaſte, o
felicissimi fe nell'altra uitaſi ama.com toi vi amate; come di qua faceste.
Questa eſclamationefa parere la cofa uera, ilfalimento bella, la ſentent za
degna,o grande,le parole aſpra, o acerba, oil numero fplendida,o generoſa.Al
predetto artificio s'aggiungono le parole conuenienti alle cos feale appre
nell'ira, le pure, o le fimplici nella comuniſeratione. Leggi. Ahi dolcißimo
albergo di tutti imiei piaceri,maledetta fia la crudeltà di colui checon gli
occhi della fronte or mi tifa uedcre. Affai m'ora con quelli dellu
mēteriguardarti à ciaſcun’hora.Tu hai il tuo corſo finito, et di tale,come la
fortuna tel concedette tiſe ſpacciato.Venuto ſe alla fine,alla quale ciaſcun
corre,laſciate hai le miſerie del mondo, o le fatiche. AR. Conſidera le
parti,le parole, o le figure di questa forma nella effempio ora letto, ote
ſimili uſorai nelle occaſioni che ti ucrranno, et uce derai uſcirne opora
maraniglioſa. Vodi che cömiferatione ſi truoua in que fe parole. Caro mio
signore, fe la tua anima oralcmiclagrimc uede, oniuno i conoſcimentoóſentimento
doppo la partita di quella rimane a corpi,rice. dei benignemoute l'ultimo dono
di colei, laquale tu uiuendo cotato amasti. Vedi ancora qui la ſomiglianzadel
ucro grandemente adopraſi in rio fpondere alle coſe,che potriano eſſer
dimandate. Andreuccio,io ſuno molto certa, che tu ti marauigli, & delle
carezze,le qualiiori.fo.a delle mie lagrime;si come colui chenon miconoſci,oper
quentura mai ricordar nonm'udisti,matu udirai toſto coſa, la quale più tifarà
forſe marauigliare, si come è ch'io ſia tua ſorella. AR. Eccoti,che con una
coſa più incredibile fa parere il falſo eſer aero. Vſafi questo modo nel
raccontare,nello amplificar le lodi, ouero i uituperii delle genti,ouero in
narrare le coſe fuori dell'ordine naturali,e rare.Con una antiucduta
eſcuſatio::e,come qui, Carißime Donne à me ſipara dinanzi a doucrmifi far
raccontare una uerità,che ba troppopiù di quello che ella fu, dimenzognaſembianza.
AR. Vera in ſoiamaè quella formadel dire, nella quale confiderata la natura
delle coſe la uarietà de gli affetri,la uſanza del uiucre, con prue
denza,riguardo dimostra le coſe fuggendo il coſpetto dello artificio, &
però molto leggiadramente fidce procedere nell'accurata, obella forme del dire
nella quale più vale il numero etl'artificio, che nell'altre.Sicno dun que gli
ſpirtidi questa forma partiper tutto il corpo,accompagnati dal Sanguedella
bellezza,odal mouimento della celerità del dire,che facila menteſi otterrà il
deſiderato fine.Ne gl'affetti grandi,bricui ficno le mem bra,uiusci le parole,nel
resto il giudi.io di chi parla habbia luogo.Et qui Na ilfine delleformc o
maniere del direin quanto che di ciaſcuna partie samente ſi può dirc. Ma non sarà
il finedi esse in quanto bisogna sapere il modo di usarle, ed accomodarle nella
civile oratione. Perciò che colui ne oratore, ne erudito parcrebbe il quale
come nouel cfſercitaßcle predette maniere daſe steſſe ignude, o inconipote, onde
l'artefuafi manifestaffs, oegli di abomincus defatietà, ct fastidio ricmpicſſe
le orecchie, o gli animi de gli aſcoltanti, Bella coſa é adunque il meſcolare
inſieme le predette forme, o farne una ortima miſtura,dalla quale n'uſcirà
l'ottima,o uniuerſale idea della oratio nc; appreſſo la qualeſarà quellà, che
mancherà alquanto da quella ottima meſcolanza,cosi di grado in gradofcemundo
ilterzo,il quarto, o l'ul timo luogo occuperà l'oratore. Della prima operfetta
compofitione dela leformeio non ti trouerei per ls uerità chi in questa lingua
potefje, pere che gli ſcrittori di efla hanno hauutaaltra intētione, cheformarela
città M dincica dineſca minicra,ben che per quello ch'io ſtimo,non anderà
molto, che alcu noci naſcerà atto a questa grandezza,alla quale più tosto manca
la fatie ča,che il modo.Ora in quale forma debbia abondarc la eloquenzafaperaiz
per che la chiarezza,la ucrità, quella cheaccoſtumata ſi chiama, fono le
formeprincipali di tutta la manicra ciuile.Dapoi appreſſo io amerei la celerità
del dire con quelle forme poi,che alla grandezzafi danno, tra le quali io
eleggerei la comprenſione.Le altre ueramenteſecondo il tempo; er la occafione
reggendomi abbraccerei con quella ſcelta, con quella di fcretione che
uolentieri,ut non isforzate păreſſero ucnire riel parlar mio Ben'è uero, che
molte ſono le intentioni de gli huomini, equelle con dilia genza offer dcono
confiderate. Chi uuole de i ſecretidi natura parlare, bo delle coſe morali dee
abondar'in grandezza senza alcuno volubile movimeto. Chi ueramente cerca
narrare ifatti de mortali,comeſi fa nella iſtoria, elleggerà la
ſchiettezza,ocleganza,nella quale è ripoſto l'ordine delle co fe,cu dei tempi,a
riguarderà primai conſigli,ale deliberationi, poi le attioni, o ifatti,o
finalmente gli auenimentio fucceßi. Neiconſigli di moſtrerà quelloche deue
cffer lodato,o quello che merita biaſimo nelle at tioni,i fatti,ole
parole,ilmodo, il fine. Et ne ifucceßi dimostrerà ció the alla uirtù,o ciò che
alla fortunafi deve attribuire.Chi ne ifenati uud l'esprimere la forza dell’eloquenza,perche
il peſo delle coſe ſară poſto fore. pra lepalle di chiragiona, biſogna abondare
in grandezza,o dignità, di mostrar cura openſamento,il che non uale ne i
giudicij, ſe non ſono di coi. Le graui,aimportanti,perche in eſſe più
fimplicità,baſſezzaſi ricerca, eſſendo quegli per lo più di coſe edi
buominipriuati. Nel difendere, ale fai uale la forma accoſtumata, obalfa,ſe non
quando arditamente il fatto Rinega. Poco ancora ui ſi vedrà di uolubile,o
presto mouimento. Ma non. cosi nello accuſare,douc oajpro, uecmente,o uiuo cſer
dee l'accuſato re. Chi lola. fi dee dare alla bellezza,o al diletto, o
apprezzare lo fplene dore fenza ucсmenza, o celerità. Et in brieuc,biſogna
aprir gli occhi; eje nello imitare i dotti,o eccclenti huomini.ſi richiede
conſiderare; di che for ma eßt ſieno più abondanti,o di che meno;accioche
ſapendoper qual caz glorie eß istatilicno tali,ancora non ſia tolto il potere à
gli studioſi di ace coſtarſi loro, o aguagliarli,o le poßibilc é,che pureé
paßibile al modo già detto di ſuperargli. Et chi.pure non uoleſſe la
fatica,poteße almeno giudicare i loro fecreti. Molti, o minuti ſono i precetti
d'intorno a questo offercitio,maio non uoglio più affaticarmi,effendo quegli in
molti,o gran di uolumi ordinatamente ripoſti, oltra che ilnostro diſcorſo à
niunopuò på rere terc imperfitto,quando egli uoglia la noſtra intentione
riguardare,laqua le è stata di fare i fondamenti della eloquenza, auuertire di
quanta co gnitione elſer debbia chi à quella ſi dona; sopra i quali fondamenti
ſono for date l'articelle de' maeſtri, o gli esercitij de' giovanetti. Baſtiti,
ô Dinare do, che tu ſia giunto là, doue di giugnere deſideraui, o che tu habbi
ueduto un circolo della tanto deſiderata cognitione. Però che dalle parti
dell'anie ma incominciaſti,o in eſſe ſei ritornato,hauendo il corſo tuo ſopra
di natů ra, ci sopradi me fornito, come sopra due rote di quel carro,cheper lo
apet to cielo ti condurrà uittorioſo, o trionfante. Daniele Matteo Alvise
Barbaro. Daniele Barbaro. Keywords: archittetura, palladio, prospettiva,
retorica, ordine cronologico: Ermolao Barbaro il vecchio – Ermolao Barbaro il
giovane – Daniele Barbaro – Temisto, index nominorum, interpretazione e
commentario di Barbaro sul commentario di Tesmisto sull’analitica posteriora –
manoscritto, Bologna. Manoscritto delle ‘Adnotationes ad analyticos priores’ –
commentario diretto su Aristoele e no via Temisto – Villa Barbaro – lezione
privati di Barbaro sull’organon di Aristotele – analytica priora e analytica
posteriora, non al studio GENERALE, ma alla sua propria villa!. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Barbaro – il
vecchio – filosofia italiana – filosofia veneziana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo
italiano. Umanista --. Grice: “As much
as Speranza LOVES Daniele Barbaro, I prefer Ermolao Barbaro; after all, he was
his uncle – I mean, Ermolao was Daniele’s uncle – and therefore HE taught HIM;
I mean, Ermolao, as a good philosophical uncle, taught the ‘minor’ (literally,
since he was his junior) Barbaro.” "Some like Barbaro,
but Barbaro's MY man." Ermolao Barbaro detto il Vecchio. Umanista
e vescovo cattolico italiano. Sendo stato uomo degnissimo, m'è paruto
farne alcuna menzione nel numero di tanti singulari uomini, acciocché la fama
di sì degno uomo non perisca (Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri
del secolo XV). Ancora bambino comincia a studiare lettere conVeronese, e il
successo di quest'accoppiata allievo-maestro fu tale che tradusse in latino le
favole d’Esopo. Fece poi i suoi studi universitari a Padova dove si laurea.
Successivamente si trasfee a Roma dove entrò al servizio della cancelleria
papale. La sua carriera nella curia romana fu così fulminea che Eugenio IV lo
nomina protonotario apostolico e gli concesse la diocesi di Treviso. Il
rapporto con il pontefice, però, si interruppe bruscamente quando, dopo che gli
era stata promessa la nomina a vescovo di Bergamo, il papa assegna il posto a
Foscari. Lascia Roma e viaggiò per l'Italia ma, dopo una serie di
peregrinazioni, tornò a lavorare in curia. Si trasfere poi a Verona dove
Niccolò V lo designa vescovo e dove si sistemò in pianta stabile, tranne una
breve parentesi a Perugia come governatore. Messer Ermolao Barbaro, gentiluomo
viniziano, fu fatto vescovo di Verona da papa Eugenio, per le sue virtù. Ebbe
notizia di ragione canonica e civile, ed ebbe universale perizia di teologia, e
di questi istudi d'umanità; ed ebbe nello scrivere ottimo stile. Fu di
buonissimi costumi, e nel tempo di papa Eugenio si ritornò a Verona al suo
vescovado, e attese con ogni diligenza alla cura, e vi accrebbe assai e onorò e
multiplicò il culto divino. Era umanissimo con ognuno. Ridusse nel suo tempo il
vescovado in buonissimo ordine, così nello spirituale come nel temporale. Aveva
in casa sua alcuni dotti uomini, in modo che sempre vi si disputava o ragionava
di lettere; ed era la sua casa governata, come si richiede una casa d'uno degno
prelato. S'egli compose (che credo di sì) non ho notizia alcuna. Compose. Nulla
se ne ha alle stampe trattane qualche lettera, ma più opuscoli manoscritti se
ne hanno in alcune biblioteche, e fra essi la traduzione della Vita di S.
Anastasio scritta da Eusebio di Cesarea. Note
Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, ed.
Barbera-Bianchi, Firenze. Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura
italiana, ed. Firenze, Vol. VI, pag. 808
Società storica lombarda, Archivio storico lombardo, ser.4:v.7, L'Umanesimo
umbro: Atti del IX Convegno di studi umbri. Gubbio, 22-23 settembre, 1974,
Perugia, Vespasiano da Bisticci, cit. pag. 195
Girolamo Tiraboschi, cit. pag. 808 Opere (alcune moderne edizioni
italiane) Ermolao Barbaro il Vecchio. Orationes contra poetas. Epistolae.
Edizione critica a cura di Giorgio Ronconi.Firenze: Sansoni, Facolta di
Magistero dell'Universita di Padova Ermolao Barbaro il Vecchio. Aesopi Fabulae.
A cura di Cristina Cocco. Genova: D.AR.FI.CL.ET., Trad. italiana a fronte
Hermolao Barbaro seniore interprete. Aesopi fabulae. A cura di Cristina Cocco,
Firenze: Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2007. Il ritorno dei classici
nell'umanesimo. Edizione nazionale delle traduzioni dei testi greci in eta
umanistica e rinascimentale. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, ed.
Firenze, Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, ed.
Barbera-Bianchi, Firenze, 1859. Pio Paschini, Tre illustri prelati del
Rinascimento: Ermolao Barbaro, Adriano Castellesi, Giovanni Grimani, Roma,
Facultas Theologica Pontificii Athenaei Lateranensis, 1957. Emilio Bigi,
Ermolao Barbaro, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 6 luglio 2018. Voci correlate
Ermolao Barbaro il Giovane Collegamenti esterniDavid M. Cheney, Ermolao Barbaro
il Vecchio, in Catholic Hierarchy. Predecessore Vescovo di Treviso Successore Bishop
CoA PioM.svg Lodovico Barbo Marino ContariniPredecessoreVescovo di VeronaSuccessoreBishopCoA
PioM.svg Francesco CondulmerGiovanni Michiel · Biografie Portale Biografie
Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Treviso Portale Treviso Venezia Portale
Venezia Categorie: Umanisti italianiVescovi cattolici italiani Nati a Venezia Morti
a Venezia BarbaroVescovi di TrevisoVescovi di VeronaTraduttori dal greco al
latino. Ermolao Barbaro, il vecchio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Barbaro” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Barbaro – il
giovane – filosofia veneziana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo
italiano. Grice; “Very good.”, ermolao – the younger – il giovane, non il
vecchio -- "Speranza likes Ermolao Barbaro the Younger, but
Ermolao Barbaro The Elder is MY man." -- H.G. Ermolao Barbaro il Giovane. Avea profondamente
meditato sopra i doveri che impone il carattere di legato a chi lo sostiene e
sopra le avvertenze che devono servirgli di norma nella pratica degli affari,
ónde servir con vantaggio il proprio governo e riportare onore anche da quello
presso di cui risiede. Ei ne ha indicate le tracce in un pregevolissimo opuscolo
in cui la prudenza apparisce compagna
della onestà del candore, ed è venuto a delineare in certa guisa il suo
ritratto. Ma lo stesso suo merito fu a lui cagione di grave calamità. Cardinale
di Santa Romana Chiesa Hermolaus Barbarus Ritratto di Ermolao Barbaro, opera di
Theodor de Bry. Patriarca di Aquileia. Ordinato presbitero. Nominato patriarca da
papa Alessandro VI. Consacrato patriarca. Creato cardinal da papa Innocenzo
VIII. Ermolao Barbaro detto "Il giovane" -- è stato un umanista, patriarca
cattolico e diplomatico italiano, al servizio della Repubblica di
Venezia. Comincia l'educazione elementare con il padre Zaccaria Barbaro,
politico e diplomatico veneziano, poi in tenerissima età e mandato a Verona dal
pro-zio Ermolao Barbaro, vescovo della città e umanista di fama, per studiare
lettere latine con Bosso. Per perfezionarsi passa a Roma dove ha come
insegnanti prima Leto e poi Gaza. Un cursus studiorum concluso con successo. E laureato
poeta, a Verona, da Federico III. Segue a Napoli il padre, titolare
dell'ambasciata veneziana, e proprio nella città partenopea scrive la sua prima
opera ovvero il “De Caelibatu”. Traduce
tutto Temistio, pubblicato poi, in parafrasi. Tornato in Veneto consegue a Padova
il dottorato in arti e quello in diritto civile e canonico. Subito dopo fu
nominato titolare della cattedra di etica. Come professore insegna soprattutto
sulla Nicomachea di Aristotele, mettendo in guardia i suoi studenti dalle
traduzioni in latino di Aristotele e predicando il ritorno alla traduzione
diretta dal greco, proprio come face lui. Sono infatti di quegli anni i
commentari all'Etica e alla Politica e la traduzione della Retorica. Abbandonato
l'insegnamento accompagna nuovamente il
padre in missione diplomatica a Roma. E promosso senatore della Repubblica di
Venezia e ma stavolta in veste ufficiale, si reca a Milano con il padre per una
nuova ambasceria. Il primo incarico diplomatico arriva quando, insieme a
Trevisano, rappresenta a Bruges la Serenissima in occasione dei festeggiamenti
per l'incoronazione a ‘re dei romani’ di Massimiliano d'Asburgo e nell'occasione
fu investito cavaliere. Dopo un'esperienza come savio di terraferma, e finalmente
nominato ambasciatore residente a Milano dove si accredita e rimane in carica.
Venne creato cardinale in pectore d’Innocenzo VIII nel concistoro, ma non venne
mai pubblicato. L'ottima gestione della legazione veneziana a Milano, in tempi
davvero turbolenti come quelli della reggenza di Ludovico il Moro, gli vale un
anno dopo la nomina ad ambasciatore a Roma alla corte d’Innocenzo VIII. Ed e qui
che avvenne la catastrofe. Il giorno dopo la morte del patriarca di Aquileia
Marco Barbo, Ermolao erasi recato all'udienza del papa, per fare istanza
acciocché fosse differita la nomina del patriarca successore, finché il senato
non gli e ne avesse presentato, secondo il consueto, la nomina. Ma il papa,
senza punto badare a cotesta istanza, nomina lui appunto in patriarca di
Aquileja; aggiungendogli, essere questa grazia una giusta ricompensa al suo
sapere ed alla sua virtù. Il Barbaro in sulle prime si rifiutò dall'accettare
la dignità, che il pontefice conferivagli; ma quando Innocenzo gli e lo comandò
in virtù di santa ubbidienza, si vide costretto a sottomettervisi ed obbedire.
Allora il papa sull'istante lo vestì del rocchetto, di cui, per darglielo, si
spogliò uno dei cardinali colà presenti; e poscia in pieno concistoro fu
preconizzato patriarca di questa Chiesa. La procedura era rigorosamente
contraria alle leggi della repubblica che vietavano ai propri ambasciatori,
senza la previa autorizzazione del senato, di ricevere incarichi o nomine dai
principi presso i quali erano accreditati. Allora, per giustificare la
violazione procedurale, il Papa scrisse una lettera al Doge chiedendogli di
confermare la nomina, ma il Consiglio dei Dieci, competente in materia,
delibera comunque che Barbaro deve rinunciare al patriarcato. Cosa che, dopo un
po' di tira e molla, prontamente fa. Scelse, per farla più solenne, la
circostanza del giovedì santo alla presenza del papa e di tutto il sacro
collegio. Ma il papa non la volle accettare. Né l'obbedienza sua agli ordini
del senato basta per anco a giustificarlo. Poco avveduto, non pensa di spedirne
a Venezia la stessa sua dimissione al senato, ad onta dell'opposizione del
pontefice; mostrandosi dal canto suo per tal guisa fedele ed obbediente alle
leggi del suo governo. Più avrebbe inoltre dovuto lasciar Roma e ritornare a
Venezia. Ov'egli si fosse regolato così, l'affare avrebbe cangiato di aspetto,
e sarebbesi ridotta ad una semplice controversia di giurisdizione tra la corte
di Roma e la Repubblica di Venezia. Ma essendo rimasto in quella capitale, ad
onta della fatta rinunzia, né avendone dato avviso al senato, egli fu riputato
veramente colpevole in faccia alla legge, e perciò costrinse il senato ad usare
verso di lui ogni misura di rigore. Come risultato di questo pasticcio fu
bandito perennemente dalla repubblica e interdetto da qualsiasi ufficio
pubblico e privato. Quanto al patriarcato di Aquileia, tecnicamente, ne rimase
titolare ma il senato oltre ad avergli impedito, con l'esilio, di recarvisi
fisicamente, ne congelò le rendite patriarcali e nomina Donato in suo vece,
anche se la nomina non fu ratificata dal papa. Ne deriva una situazione di
stallo, durante la quale la diocesi patriarcale fu amministrata da Valaresso
(anche Valleresso), vescovo di Capodistria, con il titolo di Governatore generale. Barbaro
rimase a Roma dove decise di dedicarsi a tempo pieno ai suoi studi. Pparticolarmente
importanti, oltre alla composizione di Orationes et Carmina in latino e alla
pubblicazione delle “Castigationes Plinianae,” disputazioni scientifiche sulle
imprecisioni e sulle invenzioni della Naturalis historia di Plinio, sono l’epistolario filosofico che si scambiò
con Poliziano e Pico, che, insieme, costituirono un vero e proprio
«triumvirato, a que' giorni potente e celebratissimo nelle scienze e nelle
lettere. E sventuratamente colto dalla pestilenza che serpeggia nell'agro
romano. Giunta a Firenze la nuova del suo pericolo trafisse altamente il cuore
dei due suoi celebri amici Poliziano e Pico. Si lagnavano essi che la sua
perdita seco involge il destino delle buone lettere, sembrando loro che in un
sol uomo pericolasse l'onere delle cose romane. Pico anzi volle tentar di
soccorrerlo, inviandogli col mezzo di suo corriere un antidoto ch'ei medesimo
componeva e che credeva atto a domare il morbo pestilenziale. Ma quando arriva
a Roma l'espresso, era di già passato tra gli estinti. Note De Legato, recuperato dal cardinal Quirini da
un codice della Vaticana e stampato per la prima volta nelle annotazioni alla
Deca II della sua Thiara et purpura veneta
Giovanni Battista Corniani, Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli
della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Torino, Contemporaries of
Erasmus, op. cit.91 Bruno Figliuolo, Il
Diplomatico E Il Trattatista: Ermolao Barbaro Ambasciatore Della Serenissima,
Napoli, Guida Editori, Bettinelli, Risorgimento d'Italia negli studj, nelle
arti, e ne' costumi dopo il mille, Bassano, Bettinelli, cit.219 Antonino Poppi, Ricerche sulla teologia e la
scienza nella scuola padovana del Cinque e Seicento, Rubbertino, Branca, La
sapienza civile: Studi Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988,67 Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori
veneti al Senato, Firenze, Cappelletti, Le chiese d'Italia della loro origine
sino ai nostri giorni, Venezia, Cappelletti, Bernardi, Ermolao Barbaro o la
scienza del pensiero dal secolo decimoquinto a noi, Venezia, 1851,12 I secoli della letteratura italiana,
Bettinelli, Risorgimento d'Italia negli studj, nelle arti, e ne' costumi dopo
il mille, Bassano, Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori veneti al
Senato, Firenze, 1846 Giuseppe Cappelletti, Le chiese d'Italia della loro
origine sino ai nostri giorni, Vol. VIII, Venezia, 1851 Jacopo Bernardi,
Ermolao Barbaro o la scienza del pensiero dal secolo decimoquinto a noi,
Venezia, Giovanni Battista Corniani, Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli
della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Torino, 1855 Vittore
Branca, La sapienza civile: Studi Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988 Bruno
Figliuolo, Il Diplomatico E Il Trattatista: Ermolao Barbaro Ambasciatore Della
Serenissima, Napoli, Guida Editori, 1999 Antonino Poppi, Ricerche sulla
teologia e la scienza nella scuola padovana del Cinque e Seicento, Rubbertino,
2001Thomas Brian Deutscher, Contemporaries of Erasmus: A Biographical Register
of the Renaissance and Reformation, University of Toronto Press, 2003 Altri
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Giovane, in Catholic Hierarchy.Salvador Miranda, BARBARO, iuniore, Ermolao, su
fiu.edu – The Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International
University. Ermolao Barbaro, in Treccani – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Emilio Bigi, BARBARO, Ermolao, in Dizionario
biografico degli italiani, vol. 6, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, PredecessorePatriarca
di AquileiaSuccessorePatriarchNonCardinal PioM.svg Marco Barbo Nicolò
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trattano di biografie Categorie: Umanisti italianiPatriarchi cattolici
italianiDiplomatici italiani Nati a VeneziaMorti a RomaBarbaroAmbasciatori
italianiPatriarchi di AquileiaTraduttori dal greco al latino[altre] Ermolao
Barbaro. Keywords: il celibato, lettera a Pico, lettera a Poliziano, traduzione
della retorica, commentario all’etica nicomachea, comentario alla politica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Barcellona – i
soggeti e le norme – filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo
italiano. Grice: “Perhaps my favourite by Barcellona is “I soggetti e le norme”
– vide my conversational norms – and ‘soggeto’ of course relates to
‘intersoggetivita,’ a pet concept of Italian phenomenology!” Grice: “Of course,
for us British subjects (to the Queen), the idea of ‘soggeti’ cannot quite make
sense! But Barcellona’s point is fascinating: the Romans did have the concept
of a sub-iectum and an ob-iectum: they like a symmetrical expression formation,
too! Barcellona shows that we have to speak of ‘soggetti’ to get
intersoggetivita – and then the norma – a very Roman concept, which as J. L.
Austin said (following John Austin), does not quite translate as ‘norm’ – “We
don’t use ‘norm’ in ordinary language.””
Barcellona shows that it is ‘I soggetti’ i. e. at least a dyad that
makes ‘the noi trascendentale’ adding up ‘l’io trascendentale’ with ‘il tu
trascendentale’ and ‘l’altro trascendentale’ that we get the norm. Barcellona
got to the idea after seeing the French film, ‘l’un et l’autre’!” -- Pietro Barcellona, deputato della Repubblica
Italiana LegislatureVIII Gruppo parlamentarePCI Dati generali Partito politicoPartito
Comunista Italiano Titolo di studioLaurea in giurisprudenza ProfessioneDocente
universitario Pietro Barcellona (Catania ),
filosofo. È stato docente di diritto privato e di filosofia del diritto
presso la facoltà di giurisprudenza dell'Catania. È stato membro del Consiglio
superiore della magistratura. Si laurea
in Giurisprudenza nel 1959. Nel 1963 consegue la libera docenza in Diritto
Civile e insegna a Messina. Dal 1976 al 1979 è componente del Consiglio
Superiore della Magistratura. Ha diretto il Centro per la Riforma dello Stato,
fondato con Pietro Ingrao. Nel 1979 è
stato eletto deputato nelle file del Partito Comunista Italiano ed è stato
membro della commissione giustizia della Camera fino al 1983. A causa della sua formazione teorica
materialista, ha suscitato nel molto
scalpore la sua conversione raccontata nel libro Incontro con Gesù. Docente emerito di filosofia del diritto
all'Catania. Altre opere: “Diritto privato e processo economico” (Jovene
Editore); “L'uso alternativo del diritto, Laterza); “Stato e giuristi tra crisi
e riforma, De Donato, Bari); “Stato e mercato tra monopolio e democrazia, De
Donato); “La Repubblica in trasformazione. Problemi istituzionali del caso
italiano, De Donato); “Oltre lo Stato sociale: economia e politica nella crisi
dello Stato keynesiano, De Donato); “I soggetti e l’intersoggetivo della norma”
(Giuffrè); “L'individualismo proprietario, Bollati Boringhieri); “L'egoismo
maturo e la follia del capitale, Bollati Boringhieri); “Il Capitale come puro
spirito: un fantasma si aggira per il mondo, Editori Riuniti); “Il ritorno del
legame sociale, Bollati Boringhieri); “Lo spazio della politica. Tecnica e democrazia,
Editori Riuniti); “Dallo Stato sociale allo Stato immaginario. Critica della
ragione funzionalista (Bollati Boringhieri); “Laicità. Una sfida per il terzo
millennio, Argo); “Diritto privato società moderna, Jovene); L'individuo
sociale, Costa & Nolan); “Politica e passioni. Proposte per un dibattito,
Bollati Boringhieri); “Il declino dello Stato. Riflessioni di fine secolo sulla
crisi del progetto moderno, Ed. Dedalo); “Quale politica per il Terzo
millennio?, Ed. Dedalo); “L'individuo e la comunità” (Edizioni Lavoro); “Le
passioni negate. Globalismo e diritti umani, Città Aperta); “Le istituzioni del
diritto privato contemporaneo, Jovene); “Tensioni metropolitane, Città Aperta);
“I diritti umani tra politica, filosofia e storia, A. Guida); “La strategia
dell'anima, Città Aperta); “Diritto senza società. Dal disincanto
all'indifferenza, Ed. Dedalo); “Fine della storia e mondo come sistema. Tesi sulla
post-modernità, Ed. Dedalo, “Il suicidio dell'Europa. Dalla coscienza infelice
all'edonismo cognitivo, Ed. Dedalo); “Critica della ragion laica, Città Aperta);
“Diagnosi del presente, Bonanno); “La parola perduta. Tra polis greca e
cyberspazio, Ed. Dedalo); “L'epoca del postumano, Città Aperta); “La lotta tra
diritto e giustizia, Marietti); “Il furto dell'anima. La narrazione post-umana,
Ed. Dedalo); “L'ineludibile questione di Dio, Marietti); “L'oracolo di Delfi e
L'isola delle capre, Marietti, Elogio
del discorso inutile. La parola gratuita, Ed. Dedalo); “Viaggio nel Bel Paese. Tra
nostalgia e speranza, Città Aperta); “Incontro con Gesù, Marietti); “Declinazioni
futuro/passato. Poesie, Prova d'autore, Il sapere affettivo, Diabasis); “Il
desiderio impossibile, Prova d'autore”; “Passaggio d'epoca. L'Italia al tempo della
crisi, Marietti); La speranza contro la paura, Marietti); “L'occidente tra
libertà e tecnica, Saletta dell'Uva); “Parole potere, Castelvecchi,. Sottopelle.
La storia, gli affetti, Castelvecchi); La sfida della modernità, La Scuola,.Barcellona
e la pittura Una delle più grandi passioni di Pietro Barcellona, è stata senza
ombra di dubbio la pittura. Comincia a dipingere all'età di 20 anni. Due sue
opere si trovano in esposizione permanente presso il "Museo dei Castelli
Romani". Un suo quadro fa parte della collezione permanente della
Salerniana, Galleria Civica d'Arte Contemporanea "Giuseppe
Perricone". Vanta diverse personali:
1959"Mostra Città di Catania"; "Galleria Arte Club"
di Catania, con testi critici di Manlio Sgalambro e Salvo Di Stefano;
"Galleria Arte Club" di Catania. Espone un nucleo di ventiquattro
opere sul tema "La città della donna" con testo critico di Giuseppe
Frazzetto; 2002"Tensioni metropolitane" presso "Fondazione Luigi
Di Sarro" di Roma; 2002"Galleria Quadrifoglio" di Siracusa;
"Fondazione Filiberto Menna" di Salerno; 2003"Mitologia del
quotidiano" presso "Galleria La Borgognona" di Roma, con testi
in catalogo di Simonetta Lux e Domenico Guzzi; "Contrasti" presso
"Galleria Tornabuoni" di Firenze, con testo in catalogo di Fabio
Fornaciai e dello stesso Barcellona; 2004"Museo dell'Infiorata" di
Genzano; "L'impossibile completezza" presso il "Museo
Laboratorio di Arte Contemporanea" di Roma, Patrizia Ferri e Mario de
Candia; "Il desiderio impossibile" presso "Le Ciminiere",
Sala C2, di Catania, con testo critico di Mario Grasso. Saggi sull'opera di
Pietro Barcellona Su Pietro Barcellona,
ovvero, riverberi del meno, Atti del Convegno di Studi su alcune opere di
Pietro Barcellona, Mario Grasso. Prova d'Autore,. 154-4 W. Magnoni, Persona e società: linee di
etica sociale a partire da alcune provocazioni di Norberto Bobbio, Glossa
Edizioni, Milano, M. De CandiaFerri,
Pietro Barcellona raccontato dai suoi amici, Gangemi, Greco, Modernità, diritto
e legame sociale, in «Materiali per una storia della cultura giuridica»,
Pegorin, Emergenza Antropologica. Pietro Barcellona e la lotta in difesa
dell’umano Riconoscimenti Il 29 marzo, il Comune di Misterbianco (CT) gli
intitola una piazza. Note Pietro Barcellona, su Camera VIII
legislatura, Parlamento italiano.
"Barcellona: Mi converto, dal Partito Comunista a Gesù. Ragusa
News. l'Unità, "Pietro Barcellona, Il Piacere di
Dipingere"//archiviostorico.unita/cgi-bin/ highlightPdf.cgi?t=ebook& file=/golpdf/uni_2003_05.pdf/
11CUL31A.PDF&query= Andrea%20 carugati Corriere della Sera. Omaggio a
Pietro Barcellona pittore, giurista e filosofo.//archivio storico.corriere/2006/febbraio/01/
Omaggio_Pietro_Barcellona_pittore_giurista_co_10_06017.shtml Inaugurata la piazza intitolata al prof.
Pietro Barcellona | Misterbianco.COM. Napolitano: Pietro Barcellona fu un
protagonista in Italia. Messaggio del Colle ai funerali del giurista, ex
parlamentare Pci e membro laico del Csm[collegamento interrotto] articolo
pubblicato da La Sicilia, 9 settembre, sito lasicilia. Filosofi italiani del XX
secoloFilosofi. Pietro Barcellona. Keywords: i soggeti e le norme, filosofia
siciliana, Barcellona, comune di Messina. Conte di Barcellona, lo stato
imaginario, i soggeti, l’intersoggetivo della norma, communita intersoggetiva,
discorso futilitario, societas, communitas, socius, seguire, ‘follow’,
Toennies, communitario, stato keynesiano, stato imaginario, anima smartita,
conflitto e cooperazione sociale, anima smarrita, communitas, immunitas,
sociale, societas, discorso inutile, Grice, end of conversation, goal of
conversation, deutero-esperanto, linguaggio privato, i soggeti,
l’intersoggetivo. --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barcellona” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Barié – Enea –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “”My
favourite of Barié’s is his parody of Apel: “il noi trascendentale”!” -- I like
Barié; he commited suicide, which is not that rare among philosophers – same
percentage than the general population – cf. Durkheim, “Le suicide: a
sociological enquiry,””. Grice: “Barié tried to play with the idea of the
transcendental, and he did – he applied it first to “I” (‘l’io
trascendentale’). When I wrote my thing on personal identity, I preferred the
pronoun ‘someone,’ to stand for ‘I’, ‘thou,’ and the allegedy THIRD ‘person,’
‘he.’ – Barié has also edited Vico’’scienza nuova,’ and provided a ‘compendium’
of the SYSTEMATIC kind, favoured by some, of the history of philosophy, with
sections on ‘roman’ philosophy (“l’epicureanismo romano,” “lo stoicism
romano,”) --.” Grice: “Perhaps the
closes Barié comes to me is in his ‘The
concept of the ‘transcendental,’ since I struggled with that in “Prejudices and
predilections,” where I feign to think that perhaps ‘transcendental’ is too
transcendental an expression and should be replaced by ‘metaphysical,’ but my
tutee, Sir Peter, being more of a Bariéian, disagreed wholeheartedly!” – Grice:
“I cherish Apel’s comment on Barié: “Surely, if we are going to have ‘l’io
trascendentale,’ we need at least ‘l’altro trascendentale,’ or as I prefer ‘il
tu trascendentale.’” Partendo da posizioni kantiane pervenne a una posizione da
lui stesso definita neotrascendentalismo, scuola di pensiero di cui fu il fondatore.
Nato il 19 ottobre 1894, si avviò agli studi di diritto che concluse solo a
seguito del primo conflitto mondiale, che lo vide impegnato inizialmente come
ufficiale di cavalleria e poi come aviatore. Nel 1924 ottenne la laurea in
filosofia. Inizialmente attestato su
posizioni kantiane (La dottrina matematica di Kant nell'interpretazione dei
matematici moderni, 1924, e La posizione gnoseologica della matematica, 1925),
nel corso del suo progredire intellettuale Barié perviene a una posizione
filosofica critica nei confronti della dottrina kantiana. Di questo passaggio è
emblematica l'opera Oltre la Critica, del 1929, che mette in luce le difficoltà
della dottrina precedentemente sostenuta.
Il periodo metafisico Oltre la critica segna il punto di svolta
dell'attività filosofico-intellettuale di Barié, che comincia a sviluppare un
interesse metafisico, forse dovuto all'influenza di Piero Martinetti, del quale
era stato allievo. In questo senso il filosofo, nel suo primo approccio alla
metafisica, si pone su un binario che era già stato di Spinoza, salvo poi
rendersi conto del fatto che anche la posizione spinoziana è in realtà
insufficiente per tentare di risolvere il dilemma della relazione
essere-pensiero. Si ha quindi l'approdo di Barié al pensiero leibniziano,
testimoniato dell'opera del 1933 La spiritualità dell'essere e Leibniz. L'approdo al neotrascendentalismo e Il
Pensiero Libero docente dal 1929, ottiene la cattedra universitaria,
spostandosi di conseguenza a Genova, Roma e infine Milano, nella cui università
succede al suo maestro Martinetti nella cattedra di filosofia teoretica.
Consapevole del fatto che, per quanto superata, la lezione antidogmatica di
Kant non poteva essere completamente ignorata, Barié inizia una profonda
revisione del proprio sistema teoretico che lo porta a diminuire drasticamente
le sue pubblicazioni (di questo periodo sono il Compendio sistematico di storia
della filosofia, 1937, e Descartes, 1947) e che culmina con la pubblicazione de
L'io trascendentale (1948). Nel 1950 fonda l'istituto di filosofia dell'Milano
con lo scopo di renderlo centro propulsivo di una discussione
filosofico-culturale con le realtà filosofiche del tempo che si sarebbero
confrontate con la nuova visione di Barié, adesso orientato verso una
concezione di filosofia come metafisica, ossia di metafisica quale causa della
realtà sensibile e del pensiero. Con lo stesso scopo nacque nel 1956 la rivista
Il Pensiero. Altre opere: “La posizione gnoseologica della matematica – e
dell’arimmetica in particolare” 7 + 5 = 12” (Torino, Bocca); “Oltre la critica
della ragione e del giudizio, il criticismo (Milano, Libreria editrice
lombarda); “Spirito e anima: La spiritualità dell'essere e Leibniz” (Padova, MILANI);
“Compendio sistematico di storia della filosofia con particolare attenzione
alla filosofia romana sino Cicerone” (Torino, Paravia); “L'io trascendentale
non-psicologico” (Milano-Messina, G. Principato); “Il concetto trascendentale”
“Il trascendentale” (Milano, Veronelli. Note Atti del V Congresso Internazionale di
Filosofia, Napoli, 1924 riproduzione
fotografica (p.1-109) da OpalLibri antichi
riproduzione fotografica. Assael, Giovanni Emanuele Bariè, Milano, CUEM,
Assael, "Il neotrascendentalismo di Giovanni Emanuele Barié", in
Rivista di Storia della Filosofia, 2009; (4),
731–759. Davide Assael, Alle origini della scuola di Milano: Martinetti,
Barié, Banfi, Guerini e associati, Milano, 2009. Milano Accademia scientifico-letteraria di Milano
Università degli Studi di Milano Scuola di Milano Giovanni Emanuele Barié, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giovanni Emanuele Barié, su sapere, De
Agostini. Giovanni Emanuele Barié, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Giovanni Emanuele Barié, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Filosofia
Università Università. Giovanni Emanuele
Barié. Keywords: Enea, lo stoicism romano, Enea, eroe romano, eroe stoico,
Catone, il noi trascendentale, vico, storia vichiana, arimmetica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Barié” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Baricelli –
filosofia italiana – Luigi Speranza (San Marco dei Cavoti). Filosofo italiano.
Grice: “Italian philosophers can be eccentric; Baricelli started commenting
Plato but his masterpiece is a philosophical tract on sweat, as experienced by
the athletes Plato was familiar with!”Medico, chimico e filosofo di fama
italiana ed europea, Giulio Cesare Barricelli- nacque a San Marco dei Cavoti e
fu da molti, pure erroneamente, ritenuto originario di Benevento o di San Marco
Argentano in Calabria. Erudito e
studioso di poliedriche attitudini e capacità, studiò medicina e si interessò
di filosofia, tanto che ancora giovanissimo fu autore di commenti alle opere di
Platone, mentre nel pubblicò l'opera in quattro libri De hydronosa natura sive
de sudore umani corporis, sulla natura e la terapia della sudorazione umana,
nelscrisse l’Hortulus genialis, edito a Colonia e Ginevra ove raccolse antidoti
e sudi sulle intossicazioni, e successivamente diede alle stampe il Thesaurus
secretorum, opera in cui sono elencate le cure ed i rimedi per svariate
malattie e problematiche quotidiane. Nel
1623 pubblicò poi un trattato sull'uso del siero del latte e del burro come
medicamento, intitolato De lactis, seri, butyri facultatibus et usu, e nello
stesso anno gli fu conferita la cittadinanza beneventana. Cultore di studi
umanistici Barricelli scrisse anche alcuni epigrammi latini e morì in Benevento
tra il 1638 ed il 1640. A San Marco dei
Cavoti, nel corso degli anni, gli vennero intitolati un antico circolo
ricreativo (sec.XIX-XX), la scuola elementare ed infine la strada ove si
trovava l'abitazione in cui visse, già denominata Via Pastocchia, che ospita
anche un monumento in suo onore, opera dello scultore Giulio Calandro A
proposito dell'intitolazione della scuola, su espressa richiesta dell'allora
commissario prefettizio Mario Jelardi, l'insigne storico Alfredo Zazo propose
la seguente epigrafe che ne riassume le doti i meriti: A GIULIO CESARE BARRICELLI CHE DEL
RINASCIMENTO EBBE LO SPRITO INFORMATORE E LA VASTA ATTIVITA' PROFUSE NEL CAMPO
DELLA SCIENZA MEDICA DELLE LETTERE E DELLE SPECULAZIONI FILOSOFICHE IL COMUNE
DI SAN MARCO DEI CAVOTI A RICORDO ED INCITAMENTO PER LE GENERAZIONI CHE IN
QUESTA SCUOLA SI EDUCANO NEL FERVORE E NELLA FEDE DEI NUOVI GRANDI, AUSPICATI
DESTINI DELLA PATRIA XXVIII OTTOBRE 1942XX E.F.
Opere. “De hydronosa natura sive de sudore umani corporis”; “Hortulus
genialis”; “Thesaurus secretorum De lactis, seri, butyri facultatibus et usu. Alfredo
Zazo, Dizionario bio-bibliografico del Sannio, Napoli, Angelo Fuschetto, Giulio
Cesare Baricelli, Andrea Jelardi, Dizionario biografico dei Sammarchesi,
Benevento. nis Hortuli Genialise RERVM MEMORABILI VM, QVAE IN HORTVLO Geniali
continentur elenchus. A Beſton accenfus,perpetuòarder. A cos. poribus effe
&tus procreari. Admirandumauxiliuin advefica calculum, qwo abſque inciſione
diffoluitur de expurgator Alapides renum vefica frangendos mirabile remedium Ammantium
lac ab alimentis recipere qualita tem. Agricola nonſemel tempeftates e
Serenitates pre dicunt. Abſyntbiumroborat ventry Abfynthij Romani mira i 170
Abſalonformararus. Acorescapitis bufonefanartit Achatis lapidismirabilis Acetum
ad i &tus venenosov Acetiſcyllitici miraoperato Adam eratſapiennriſsimus
Aegyptiſ in annimenfura 233 Aegyptiorum opinio de elementis. Isbe Aepyptij in
morborum -Chrafacileadiguem recara 178 Aemorrhagia(electumprefidiuna Aegypti
hierogliphicis vacabant Aegyptiorumarcana ait quartanam Aegyptijregesopera
magnifica do admiranda an. Liquitus conftruxiffe.zi. Aegye MONACENSIS. REGLA
BIBLIOTHECA Tunt. Aegyptiorum in condiendiscorporibus obferuatio. Levis
ſalubritatem ad vite produktionem maxå moperè videmusconducere. 34 Aegyptiorum
Auditim ir lapidis á vefsica extra Sione Aegyptij quomodoignea prefidia
component Aerisnatura quomodo nofcatur Afflictionem tribuere intellettum.
Agricolafilicibus in horreis cur vtantur. 200 Agricola cwufdam interitus.
Alexandri mors.quo veneno fuexit caufata Alexandri ſudoredolens. 197 Alexandri
uder.fanguineus. Alexandrimagnanimitas in ftudiofos Amazones mammas dextras
ſecabant. Amoris originis controuerfia Amantes surfacile irafcantur, Ambarum vi
ebrietatemfaciat Animalia quadam Arni tempora pradicero. An transformatio
realis detur. An animal in igne viuere poſsie Anni computum diuerfimode fa
&tum Animalia ex putri materia non ſemper extitiffe. Anicularum quarundam
facinona. Antimony in vitrum redu & io. Anuli Bubali ad gramphum vtiles Anularis
digitus cordi amicus Antora napello inimiciſsima Anginaprafocatina vt
compefcatur Animalia a vteerikus Dis dicata, Anguil Anguillarum cum Aquilone
affe &tus Animantiumcobur à cominé oritur. Anni climacterici quales.
Annibalisſtratagema in boftes. Anniprefagia à quercus galiis: Ancitodorum
aliquor obferuationes A priteftium virtus mirabilis Apri ægrotantes hederam
quarunt. Api efum infauftum veteribus Apri dentes adanginan dompleuritidem
vtiles Apes imminente pluuia adalucaria redeunt Apiumri usherbafcelerata; Apum
mirabilisſagacitasdan officium Aqua mirabilis ad viſusdefectum Aquilinumlapidem
partum accelerare, 126 Aquafrigidaqualiter apparetur. Arcades qualiter annum
computabant Archelai Regis in populos immanitasi go Arboris
ficusmirabilisnatura: Arietislingualantium ostendit. Araneorum reła in medicina
vfurpata Arbores quandoquein lapides mutate Artemiſia quando in radicibus
carbonem producati Articulares dolores quomodo curentur. Archelaus
Rexaſtronomie ignarus Ariſtotelis opinio demularum ortu. Ariftotelis rerum indagator,
Ariſtolochia piſces ftupidosfacit. Archelaus turrim incombuſtibilem fecit:
Aſphaltirisla 'usmirabilis natura, Apronomia medicis neceſaria Ararum vomitu
humores expurgat. Aparagor um 2u corporis nitorem producit. Afphespropè halico
ibum fiupidi Aſparagi vi mirabiliter erefcant Ap.dum natura qualis. Athenien
esfacerdotes cicutam comedebant Atrila canis instarlatrabat Athenienfium ura
erga fiicos Aues vfu Taxi nigra fiunt. Auri vfus in medicina Aufonij locus de
mecha uxore Afilici odor vermesgignis Bafilijanhabitat pelicudinibm Aphrice
Ibid. Bafilifcum haudàgallo excludi. Bardana mira vis in affe& u uteri.
Bituminis vis in hiſterica paſs. Braſsica, dorura fimul fatahereunt. Bruta
aliquot lafciuiffe in fominas, Bryonia mira virtus in affe&tu-matricis.
Braſsica fuccus contra ibrietatem. Britânnurum præfidium in furiofos.
Bubuloftercore colicam,anari. Bufonis lapis cóntra vinena. Bufonis.mira
propriet as in Aſcite. Arnes dura utfiant teneriores. Canes.obmutefcunt vmbra
Hyena. Capramaximèepilepſia tentatur, Capillorum defluussm laudano curare Cani Canicula
exortum à veteribus previſum, Carnes cocta,quomodo crude videantur Canes fabrorum
exiguos habent lienes Cancri vini quomodo co &tifimulentur Capre in
luftinis montibuseuomunt Capilli noftri plantis affimilantur Caftratilienem,
dan vitella ouorum deglutire ne. queunt. Cauſtica remedia,qualia adftrumas Caryophillgte
vis adcorporismacular Caftorei teftespropèrenes adeffe Caminus quo fumum non
emittet, Calphurnius beftia uxores dormientes necabat.Catelli membrorum dolores
confopiunt, Cacodamonem mali nnncijpraſagiumattuliffe Calendula folis amica.
341 Capiuacceiopinio de menftruofanguine Cantharidum mira vis nocendi Carthaginienfium
prefidium ad deftillationes in. fantium. Cati.cerebrum hominesdementat.
Cornilacrymaſworesſuſcitat, Corui renouantnr eſos ferpenris Cervi carnes ad
vita produftionen Cepamab Hyppocrate deteftari Ceruorum vita longiſsima Cerius
Alatus Francorum inſignie Cerninum penem.conceptum facere. Ceraforum aqua
epilecticis vtiliſsima Chamedrij mira vis ad lienofos Chalcanti vfus
quidoperetur Chymici forebantapud veteres: Cibm Chuslapidusquomodo apparetur.
Cicutam uterinum furorem domare Cicuta virginum mammas detumat Cynorrhodi radix
ad hydrophobiam Cyminum hominibupallorem inducere. Cyprinorum vfuspodlagricis
infeftus Cyprini officulü caluarisad spilefiä mirabile Clarorum virorumexitus.
Lorui morientiúm fæditatem fentiunt Colicu dolor quomodofanetur. 88 Collegium
veterum pro tuendaſanitate Cotoneorumfeminaadcombufta Confedtio
fenibuspraftantiſſima Corpusutglabrum reddipofit Corpora venenatá vtnofcantur.
Coralline vis adlumbricos Corniplanta hydrophobiam ſuſcitat Consensus de
disensus animantium Corneliu Celji valetudinis precepta. Creationis mundi
opiniones. 10 Croci metallorum.compofitio.:
Crinesmulierum qua via denfiores fiant Cupreff folia Strumas auferre.
Cur fit vtquis clauos vomere videatur. Cucumeres oleum abborrent. Cur quiti
impronisè moriantur. D. Ature flores Defunium capillorum ab hydrargiro, Demoris
afturia apud indos. IS Democrittfedulitas in olei caritare. Demofthenes
quomodocuraffet lingue impedimen Denti Dentium dolores bufonis tibia
janari: Dentium ftupor
àportulacaremouetur Dentium dolores paſtinaca marina radio conquieſterr Defipientia
mulieribus familiaris, Digiti annularis ſympathia. E. EBura
quoartificiocolorentur. Ebriy variafufcipiunt deliria Echini ſagacitas in
ventorum mutationibus Elephant's in fæminam mirusamor Empiricorumremedi4periculofa
Epistola quomodo in ouo celetur Equam grauidam marem admittere. Equagrauida
fomas occiditur,abortit Equorum teftes ad ſecundas depellendas praftan.
tiſsimi. Equusphaleris accinctus acrior.fot.Asies rugata quomodo emendentur.
Faciem hominis diuerfimode alterari Familia in Creta mire faſcinatrices Faces
ardentes ex Betula corticibus Fætor extin &ta lucerna grauidisperniciofu Febricitantium
fitis qualiter compefcatur Febrem à quodum pifceillico exitari. Fæmina aliquot
inrares mutate,, Fæmina pruritu corripiuntur in pudendis in prima menftriornm
eruptione. -Fæcula Brionie in affecte vteri Feniculorum femina aliquando
exitialia Filij Filij â parentibus figna recipiunt. Ficorum
efumfudoremparerefætidum Filices ab
agris qualiter exterminentur. Flores in Aegypto fine odore. Flamma quomodo in
aqua excitetur. Fluuij aliquot mirabilis natura. Fructum vinearum, iumentorumg
interitus pre ſagium Ferarum natura in hominibus mirum in modum deft. 8a Fons
mirabilis apud Garamantes. Frigida post pharmacü exhihita, felici fucceffu Fraxinum
ferpentibus inimicum: Furiofi in pleniluno,magis infaniunt. Futi vulnera
quomodo curentur. Fungi ubi in lapides mutentur. fumus hydrargiri quid efficiat
Galenu,Medicorum princeps Aline appenfo milui capite furisunt. Galega,
defcordij vis contra peftem. Gallinarum.stercus adfungorum viru. Gallinarum adeps quomodo diu ſeruetw.. 28%
Gallina quomodofæcunda fiant. Gentium.don populorum ingenia. Germanorum mos
circa coitum. Gigantes quando in orbe fuerint, Gymnofophifta apud Indos
mirabiles. Grauidationis muliersus affertio.Grauida mulieres marein admittunt.
Grauida conceptü quomodo valeant occisltare. Grauidaaliquando fætupariuntfine
vnguibus. Gra Greuide mulieres
curpallida. Greci de Iudeorum monumentis nihiladduxe H. Auftulus aqua matutinus falubris.
Heclaignis aqua nutritur Hemicrania Gagate fubmouetur. Homicrania à carduo benedi&to fanythr.
Herfetes ceroro tabacci coufanari. Hellebori nigti ele&tio in Anticris.
Hederam cumvino habere diſcordiam Hemorrboidailisherbe mira virtus, Hellebori
nigriextra & nm. Hybernie
miraaerisſalubritas, Hidropsà viridi lacerto confanata Hydrophobosè poto catuli
congulo aquam illico ap petere. Hippocratis opinio de balbisdefe&tiua,
Hydrargiri minera quomodo reperiatur. Hyppiatriquo studioftellas albas in
equorum fu cis confingant Hydrophobia rara dicuffion Hydrargiri mira natura..Hydrargirum remedium
eft advermes. Hydrargirum utilead celidolorem Hydrargirumremedium in pofte.
Hydrargirum defluuium capillorum facere. Hominis vite longitudinis breuitatis
figna, Homo repertus mira vaftitatis. Hominumcur aliquotfubtilioris, vel
graffiorisin. genijfiant. Homines
Principis vitam imitantur. Horai. Homines inuenti miragracilitatis. Hominis compofitionismirabilia Hominesquomodo
fiant abfemy. Hominum corpora olim vafta
Ibis in degyptofolum moratur, Ignispraſidra admorbos fele &ta. 303 Infantes
à quibusnutricibm ladandi. Infantis inumbilicum animaduerfio. Indi ante
Hiſpanorum tranfitum variolas baud paffi funt. 88 Infania ex folano fyluatico
quomodo emondetur.85 Indus quidam longiffime vite. Infantes eiulareautoladein
mammillu, Infantium ruptura ut curentur.
Infantes vipreferuentur ab epilepfie. Infantes ànutricibus mores
recipere Infantis umbilicum conceptum
facere. Inser Lupum eAgnum diſcordia.
Inter brafficam, de vitesfympathis.
Iumenta clitellaria fibilo, cantu á laboribus fubleuari Aminas aris&
vitrileo extrahi Lapidis ignem redensis compofitio. Lapathiam camas
duras,teneruofacit, Lacerta apudIndosmira magnitudinis, Lu,fanguisaliquandopluers
viſs. Lepusannis decemviueredicitur. Letargicos à Satureia vigiles fieri.
Leonardi vatri de partu opinio. Leones
Leonesaftatttertianam patiuntur.
Leporumnonomnes hermaphrodui, Leo timet Gallung. ISO Linteaapud Indos
igne depurari, Littera aurei coloris quomodofiant: Lignum èviſco Latum
diſcutita Lienem adcorporis turpitudinem valere
Lolium praun inducit ſyptomata. 86 Lolij nocumenta Aceto fanari. Ibid.
Lups afpe&tu homines obmuteſcunt. Irupi pauci reperiuntur,ones autem multa Zapi
quomodo ouibus nacere nequeant., Lumaca lapispartum,accelerat Ludi in
conuinijsfeftiuiquales, Lupi,canes, doFeles ut curentur, Lupi in fenio ſerpentesin
renibus.generant. Luna confinusad
inferiora, mirabilis. Lue gallica canis
infeftus Lumbricosquandoquegenerari virulentos MAmirimum vitulum àfulmine non
ladi, izg Aris yubri admiranda: Maleficas artesir Septentr. exerceri Mascitius, quàm fæmina animatur,
Maritimarumtempestatumprafagia Maculanigre in morbisquid portendant.
Mădragoravitibus infundit vim ſoporiferam: Mares in mammillisſapè Lachabent..
Marina pallinace radiusad dentiumdelores yti lis. Mommarum sum vtero ſympathis
Medicinepraktamsia quanta fit.. Menftrualisfanguinis immanita, Medea an fuerit
venefica. Memoriaquo prafidio augeatur.
Mercury pojisura in hominūnatiuitatibus, quan tum valeat. Mergorum i anferum
proprietas contraHydropho biam.. Mellis vfu vita vtiliffimus. Medicina multa
abanimalibus capta. Meſpulilignum ab ab ortu preferuat. Menftrua plerifqs
fæminis in fenio. Mirabiles in hominibusproprietates dari. Mithridates
inculpatè venena bibebat. Mithridatis antidotum ad venena. Mirafontis
inEpgroproprietas, Mille pedum preparatio adcalculos. Mille folium aduulnera conſolidanda.
Morborumprauorum natura, Morus planta prudentiffima. Morfusquidam à cane rabido
latrauit. Mors inArthritide
quandofuccedat. Mures futurorum praſcj.
Muftela cur rutam comedat. Multa prafidia ab animalibus homines
accepije.Mulierum capilli quomodo in vermes mutentur.zo Monftruofa Dæmonis
apparitio. Mulieres pregnantes vt nofcantur. Muftella fanguisadepilepfiam.
Mundi creatio.ornatus. Mullus sterilisatem producit. Mulierum pinguedoſuamis.
Mutin Mulieresrarò inebriantur.
Mulorumgenuspropagare nequit. Mulieresin. Ponto animalibus.nocentes. N: Natura
presidentia in brutis.. Natsuitates.hominum quando ob'eruende Natura
arcanaprovira producenda. Neronis crudelitas quoque pads a nutrice wiginem
fumpfit. Nero Tapfiam magnificauit. Nereides, Sirene lepe vifa fust: Nili
proprietu admiranda Niues rubentes in Armenie. Nodi in vmbilico infantis quid
sotentas Nuxairiftica quomodofiat vigore for O Learum fterilitatis preſagium:
olei, vini,fegetumquefterilitatis prefagium. olei balneumproconkulfis laudatum.
aleun amigdalarum dulcinm advariolarum veftigia probibendu. olea Minerka a
yeteribu dicata: slei cinemani
raracampofis. elina olinarum oleum
adunguium pannas. tur. Par Oleum latris colicum affe& um domato Oleum lixiuio miftum albeſcit. Opthalmia
aliquando.folo afpe & u communicar
@ris ulceraquomodofanemtur: Oryalus viſu auriginoſos.sanat.. Orestis
cadauer odto cubitorum. fa de corde Cersui.corina uznena.. Oxes capite
mouentpluuialmininente. Quesalba ubi nigrefiant. P Arimdi difficultasquandoqueà curto umbi lco
prouenit. Paracelfafalſaopinio dehomunculipartu. 108 Panaritiumqualiter illico
fanetur. Parthi, Scytheque quo venenofagittas linjrent.Pestilentitemporeinter
precipua præfidia.neris Aifcatio fummum
iudicatur. Papauer agreſte contra pleuritidem, Papauer ſolisfpheraminfequitur,
Perfa.aliis coquinas replebant: Pediculicorpora morientium relinquunt Beftem ex
occulta antipashia oriti. Penna Ibidis ſerpentes-terret, Perniones:quomodo fanentur: Phalangii'ueneni
opera. Phrensuci cur fortiſsimifint, Phrenetidem exnigro-corallio quiefcere
Bhreneticialiquando mirabilia loqui. Pharmacum dare, quando periculofum. Philomenaà vipera deuoratut. Pifa Piſces marinifalubres, japidi, Pifiesfrixi
quomodo in venenum tranfeunt. Pici mirandulani ingenium; Picem cum oleo habere colligantiam Pici
opinio de fcientiarum varietate. 16 Portulæca foment contra lumbricosa
Plurimamèterra furfum rapi iterumque deorfumi cumpluuiis precipitarz. Polypodijmira viscontra cancrosa Porri
caputquomodo augeri pofsit: Potentia imaginatiua in conceptu mirabilis. Planta
fimileseffe&tu fimiles, vinute... Pluvia imminentisprofagia. Plumburglans
in coli dolorepraffans. Prognoftica tempestatis pluusoſa. Prafodiam mirabile ad
calculos Preſedia admiranda inangina. Pfli, do Marfi ferpentibus amici.
Pulchritudo, deformitas afpeétuo quid portono. dat. Pulchritudo corporis quo
termino confitna. $. Euella à teneris veneno odusara. Pulſus deficientes
anfemper mali, Queen Vanium profit neris puritasin peffe. Wartanarii improuifo rimore fananiky. Mr. Qua
via volucrumpennacolorentur. Quartana quomododebellerur.
Quibuscorpusflorsfcit,his lien decrefcit. Quo artificio es aduratur. QuorumdamiAnimalium vitalongitado Quorumdam
animalium naturl. Quorumdam homină virtutes, & ornamenta. quo artificio mares ab. uxoribus. [tyfcipere
vales Quo Artificio duriſsimafaxa frangerevaleamus. Quomodo in
urdieriſomasexcitari valeamus.341 mks. R Aneterreftris oleum aditrumas !
Rexbarbarumcidoniatum gravidisfummum medicamentum. Rerum Sympathiam in aliquot brutis Admirabi.
lem effe;. Rută inter alexiteria medicaméta cõnumerari, Rores marini virtus
miranda, Ruta mira. vis contra venenum. S jabbarici junijmiraproprietas,
Sanguis menftruus quandoque ex oculis velgingi uis excluditur, Salis prunelle
virtus,de compofitio. Sartyriam carnofum venerems excitat,flaccidum vero
extinguat. Sanguis menstrualisexucis, ſcarabais venenū. Sanguis caninus
hydrophobis vtilis. Saliua bominisfcorpionesnecat. Scarabei miraproprietas.
Scarabai cornuti vis in febre ciendo. Sciffure laborum.usmanuum remed. Scythe
quomodo diuabfque cibo vivant: Berpentesquibus fufficibusarceantur.
Sene&tutisincommodah Sepermusinter mafculos meră retinet virtutã. Serpeniums
ona, velgenitura in pornfumptaSerpenting gignunt. Singulis quopatto cohibeatar,
Socij Diomedis in volucres conneri. Solis confuxm ad inferiora maximus. Solatri
potencia contra parafitos.
fomniorsuspreſagia à Deoconcedi. Sodami -Gomorrbi fruétus vari. Solis
defe & us quomodo comprehendatur. Spurij robuftiores legitimis fuus. 95
Spe& acula veterum vbi celebratamagis. Spuweis epilepticis non femper filo
Spatiuwvil e fecundum Acryptias. Stygis Arcadiemortifera natura. Sirumarum
mirum remediusa. Strumaper vrisano quandoquepurgalai Sterilituin bomine
ytdiriwratur SAMIremedium temporepeffu. Succinum parium mulieris accelerare,
Syrupus fpinæ infeftorie ad temelusume. SS SwimeisterSidera calidißima. T.
sbacci vw apud Iudos. Talpeoleum ad Aruma. Taurifanguis inter VEREBANwerari.
Taurilapillu veſice contracalcules. Taum Philoſopbw famen cabiberet. Ferro
lenonia contra ventna. Tbagfia mira vis in facillasi. SO Thappa Thapſia
veſsicas, do ademata excitat. Torpedinismira vis in capitis dolores.
Trauli,cobalbi,do femilingues unde finns. Tuberum efufrequenti hominescadunt.
Aleriane vis contra epilepfiam, V Variola,morbilli affe&tmnoni, Verruce quomodo extirpentur. Verbena vis in
capitis doloresi Verbena virtus contra frumas Vermium in corporibus hominum
varia figura 18 periuntur Vermes rubei in cerebro adnati. Verbafci florss Sole aecedente decidunt,
Veterum fepulchra mitèconftrudia Veterum ruditasdo, in foribendovarietas. Vena
ſarustella ſpleneticis auxiliatrix Veterum in nuptiisconfuetudo. Veteres
equoram lacrymas admirabantur. Venenumà diſsimili extinguigecontra Vermes in
cordis.capſula exorti Ventorum mutationes ab Echmo previderi. Vifusacies,in
quibus fueritadmiranda. Víres collapſa odoribus reſarciri poffunt. Vitrioli,
com fulphurisoleumad vermes. Vipera catellosfuosparit,utnutrit Vipera inter
ſerpentes fola parit animal vinã.ibe Viperamorſus Hellebori nigri radicibus
fanan. Vinum pro Afthmate ſele&tum Vito longena quomodo apparemme zur. Vina
Vina alba quomodo rubra fant, Virginitatismulierum figna. Vitrum quo modo
diuidarur. Vinum venenatumquibus profuerit. Vinum à veteribusfeminis interdi
& um. Vifcum quercinum epilepticis falutare. 318 Vitri puluerem calculus
comminuere.Vimivſus elephanticisfalutaris.Vlcera formicantia quomodo breui
fanentur. Vricornu proprietas, bet cognitio. Volatilium,piſciumque
fecunditatispreſagia. Vrtica folia ſalutem, vel mortem informi in lotio
prefagiunf. DeMedicinepraftantia. Edicina decçio demiſla eft: ita
Mercurius Trifmegiftus apud Aegyptiosſapientiſsi. profectoad fluxilis natura
goltre remedium Deus altiſsimus ho minibus conceſſit; vt fanitatem conſer.
uare, &perditam recuperare commodè valeamus. lofa autemà vitæ conftituto
termino, & à morte nequaquam viuen. sia omninoliberare; ſedcorpora à cor
suptione, & feftinadiſſolutione præfer uarepotius iudicatur. Amazonescur
mammasdextras refecauerint. Mazones illæ, tantum à ſcriptori bus celebratæ,propterea
fibi má. mas dextras refecari curabant, vt magis A armis gerendis aptæ fierent;
vel potius Demannum, & brachiorum impedire • tur motus. Mihi zutem Galeni
opinio 7. Aphor. 43.ex fententia Hippoc. admo dum placet; qui has mulieres id
feciffe aferuit, vt manus dextra robuftior cua detet.Hocautem à ratione alienum
mi. nimèeft, quippe nutrimentum,quod in mammam dextram à natura diſtribui
debebat,totum in manum, & brachium immittebatur. Strab. lib. 11. Olearum
fterilitatis prefagium. Ergiliarum occultatio, & emerso Sucularum
tempeftuofi fideris, fi pluuiofam tempeftatémouerit, & vitis, &olei
germinationé fuffocabit.Ex hac cauſa Democritus olei præuifa caricate, magna
vilitate oliuas in toto co tractu coemit, mirantibus, quipaupertatem, do &
rinam, & quietem homini oble & a. mento cffeſciebant: at vt apparuit
cau. fa, & ingens dinitiarum acceffio,reftituis mercedem, contentusleita
probaffe, 0. pes fibi in promptu eflc cum vellet. Ex Fran, luncino in Sphæra. Do&oris
Medici, & Philofophi, Hortulus Genialis. DeMedicinepraffantia. Edicina
decçio demifla eft: ita Mercurius Triſmegiſtus apud Aegyptios ſapientiſsi
musfcriptum reliquit. Hát profecto ad fluxilis natura noltre remèdium Deus
altiſsimus ho minibus conceffit; vt fanitatem confere uare, & perditam recuperare
commodè valeamus. lofa autem à vitæ conftituto termino, & à morte nequaquam
viuen. sia omnino liberare; fed corpora à cor ruptionc, &feftina
diſſolutionepræfer uarepotius iudicatur. Amazones cur mammasdextras
refecauerint. AMiszonesilla, tantum àfcriptori.. mas dextras
reſccaricurabant,vt magis armis gerendis aptæ fierent; vel potius De manuum,
& brachiorum impedire tur motus.Mihi autem Galeni opinio 7. Aphor.
43.exfententia Hippoc. admo. dum placet; qui has mulieres id feciffe aferuit,
vt manus dextra robuftior cua deret.Hocautem à ratione alienum mi. nimé eft,
quippe nutrimentum, quod in mammam dextram à natura diſtribui debebat,totum in
manum, & brachium immittebatur. Strab. lib.11. Olearum fterilitatis
præfagius. Ergiliarum occultatio, & emerGo Sucularum tempeftuofi fideris,
fi pluuiofam tempeſtatemouerit, & vitis, & olei germinationé
fuffocabit. Ex bas cauſa Democritusolei præuifa caritate, magna vilitate oliuas
in toto co tracta coemit, mirantibus, quipaupertatem, do & rinam, &
quietem homini oble & a mento effe ſciebant: at vt apparuit cau. $ a, &
ingens dinitiarum acceffio,reftituit mercedem, contentusleita probaffe, o pes
Sbi in promptu effe cumi vellet. Ex Frap, lundino in Sphæra. V O aqua Nili, Nilifluminisproprietas uædam
aquæ reperiuntur, quæ fæ. cunditatem proprietate quadam inducere celebrantur:
ita eſt quæ ſua vi nitroſa, vt voluit Seneca 3. Natur. quæſt. natura. fæpè
vteros per petua fterilitate occluſos aperuit, & conceptumfecit: Vnde
mulieres in AE gypto,vtfcripfit Ariſtot.quinos, & qua ternos frequenrer
fætus edunt; ratio non alteri tribuitur, quàm Nili aquæ, quæ illis in potu
familiariſlima eſt. De Mundicreatione. N qua Anni parte Müdus à Deo crea
tusfuiflet,diſcordes interſe ſcriptores funt, vt Hebræi, Iſmaelitæ, Chaldæi,
Arabes,Aegyptij,Græci, & Latini.Mula ti enim in Aeftate, nonnulli in
vere,alij verò in Autumno conditum fuifle con tendunt. Moyles fuiſſe in Autumno
affe. rere videtur, cum in Geneli dicat, Ger minet terra berbam virentem,
&facientem emen, Glignum pomifera faciens fru &tung iuxtágenusfuum.Ex
Aegyptijs nonnulli A eſtate creatum afferunt. Inter Latinos Cardinalis
Aliacenfis vere nouo condi tum voluit.Inſuper variant,quia Plane tas aliquot
afferunt in mundi principio fuiſſe creatos in fuis domibus: Solem ſci licet in
Leone, Lunam in Cancro, Martē in Scorpione, Saturnum in Capricorno, Venerem in
Libra,Mercurium in Virgi ne, Iouem in Sagittario. Alij, Planetas volunt, in
fuis altitudinibus, præter Mercuriú,omnes fuiffe collocatos. Que autem opinio
fit verior, D.Thomas 4 fons dif. 2. artic. 8. videnduseft. Murium fagacias.
Vres ex ônibus animalbusquo dám do cognofcuntur. Cum enim domus aliqua conſenuit,
&ruinamaliquam iamcom minatur, primi ſentiunt; & reli & is fuis
cauernis, priſtiniſque fiabitationibus, domum relinquunt, properè fugientes,
aliudque domiciliú quærunt. Aelianus de var, hift.lib.z.& Leuisius Lempius
do fest. nat. Pluuja Mamodofuturorum præcij effe Pluuioſa tempeftatis
Prognoſtics. ' Ergiliarum occafus matutinus, lo nubile Coelo accidat, hyené plu.
uiofam denunciat,fi fermo Cælo,alpe ram.Sic Veneris,aut Martis per Pleiades
tranfitus aliquot dicbus pluuioſam ciet tempeftarem.Saturnus inſuper cum cor
pore, aut radijs ad a &turum accedit, i dem minatur.Ex
Plinio,óobferuat.Stadi. Agricola non femel tempeftates, & f renitates
predicant. Vltos profe & o cognoui pafto res, plerofquc agricolas, quiin
prædicédislerenitatibus, & tépeftatib. magnæ mihi erant admirationi,quare
tanquamcnriofus fciſcitabar, qua via, &ordinc hęcſcirent?ratus forfan
fimpli ces, &idiotas non poflc tanta certitudi. ne futura prænoſcerc;nifi
vel Dei mu. nere, vel Demonisa & uid fieret. Exre latu diuerfas ftellarum
conftellationes abijs experientia cognitas, no & u, ani.
maduerti:quarüobferuatione vera pre M dicunt. Experti enim ſupt Pleiades in
Autumno, quæ in principio no&is ori. untur cum Marte, velVenere mouere
tempeftatem. Aréturum non fine gran dine emergere. Hadorum ortum & oc.
cafum tempeftatem pluvioſam in regio. nibus noftris prænunciare; & alia,
quæ in promptu tales habent, licet alijs no minibus hæc fidera nominent. Quare
mirum non eft, priores ftellarum per fcrutatores circa carum prædi& iones
multa nobis reliquiffe,cum id ſapientia, & obferuatione perfecerint, quod
iam idiotæ fine magiftro facere valent. Valeriana miraviscótra epilephan.
leriana ſylueftris, quęlpontènal. citur,præter innumeras, quæ ab au &
oribus ei tribuuntur virtutes, hancia diù, in multis, atque in fe ipfo Fabius
Columna in bifter, plant. expertam ape suit,vt ſemel,velbis radicis puluerisco
chlearij dimidium cumvino,aqualadte, aut alio quouis decétifucco & proggro
sicómcditate, & ætate fumptü,epilep Valeri Ga correptos liberet. Extirpatur
ante quam caulem edat, & puerisexhibetur, & preſertim infantibus, qui
morbo hoc facilè laborant. Retulit auctor ſe multis puerulis lac propinafle;
multiſ“; amicis donodediffe: qui deinde diuino prius numine glorificato,
puluerehuiusplan tæ illis reftitutá fanitatem affirmarunt. Transformationes
hominumin beſtia as noneffe reales. Vædá monſtruoſæ hominü tranſ formationes in
beſtias à multis au Storibus fcribuntur; & inter alias, de il la Maga
famoſiffima Circe, quæ ſocios Vlysis in deftiasfertur mutaffe: de Ar codibus,
qui forte ducti tranſnatabant quoddam ftagnum atq; ibi conuerteba tur in Lupos:
de Diomedis ſocijs, qui in voluitres conuerſi ſunt, plurima'addu cunt. Hoc non
fabuloſo mendacio,fed hiftorica affirmatione multi confirmat, vt in fpec.
natut.Gib. Vincentius Beluacenſis retulit. Aflerunt enim (vt ajtSolinus
)velmagiciscantibus, vel her barum veneficio in feras corpora tranſ formari.
Dicunt in experimento Neuros populos Aeftatis tempore in lupos mu tari, deinde
fpatio, quod his attributun eft exacto, inpriſtinam faciem reuerti, Anautem
huiuſmodi trasformatiorea. lis ſit vel illufivè facta àDemone,D.Au guft.lib.
18. de ciuit. Dei ita nodum enu. cleauit: Quod transformationes homi numinbruta
animalia,quæ dicuntur ar te Dæmonum faétę,non fuerint fecun dum veritatem; fed
folum fecundum apparentiam. Quippe opus hoc tantum Deieft; vt in Concil, lacro
A Acyrano fancitum eft. Demonis aftutia apud Indos. Erba, quam Tabacchum
appella mus, apud Occidentales Iodos in magno cratpretio.Cum eniminter hos dere
graui agebatur,ad Sacerdotemil. lico accedebat,quitotuoegotiúexpone bát.
Sacerdos auté corá illis fronde, vel furculum Tabacchiſumebat, qua carbo. nibus
inic & ta, fumum peros, & nares ex. cipiebat, & inftar mortuiin
terrá cade bat. Paulo poſt conſumptis fumivirto bus in cerebro, reſponsa, ſed
ambigua, prout Dæmones perilluſiones, & fimu Jachra fuggefferant, populo
dabat;qua tanquam religioſa, & veriſsima cunati recipiebant. Ita profi eto
hominum ini. micus Gentiles decipere confueuerat. Monardes de rebus Indicis.
Quid Picusdefcientiarum varietate fentiret. CH *Vm quodam die Ioannes Picus Mi
Urandula de fcientiarum varierate diſſereret,in Hebrçorú,inquii,Philofo phia,
omnia funtveluti quodam numi ne facra, & in maieftate veritatisabdita Ceu
prodigia quædam, & arcana myfte sia. In Græcorum veròdifciplinis, in genium,
acumen, & omnigena eruditio apparet, vt nulla vnquam gens fuerit, quæ
dicendi copia, & ingenij elegancia cam illis poffitconferri.InRomanaved sò
Academia, ca ferè omnia, quæad ci. witaté, & vitæ morespertinent,
&graui. *, & copiosè funt explicata,ac magni fica ficè diđa. Sic ve
grauitas maximè Roo manis, & imperijmaieftas,Grçcisinge nium, &acumen;
Hebræis do & rina fe. cretior, & quaſi diuinitasaſiribi poſsit,
Crinitus da honeft. diſcipl. lib.g. Subditos, Principis vitam vtpluri.
mumimitari Rincipis vitam fubditi maximopere imitantur. Hinc fa & um eft,vt
ex Philofophica vita Marci Imperatoris, magnum virorum doctorum prouentu
ærasilla tulerit. Solent enim plerumque homines vitam Principis æmulari iux. ta
illud Platonis à Tullio in epift.ad Lé tulum reperitü: Quales fum in Republica
Principes,sales folers effe cines.Quapropter ex bonitate Principis Marci,
plurimila philoſophari finxerunr,vt abeo ditarë. tur. Ex Herodiano, &
Xiphilino. Rutam allium ferpentibuset werfari. Vtä odor,allija; ferpentibus max
ex teftimonio Ariſtotelis 9.de.biſtor. animal.c. 6. habemus muſtelam, cum
dimicatura eft cum ſerpentibus, rutam comedere. Hac etiam ratione ducti Perfæ(auctore
Simone Sethi ) coquinas allijs replebāt, vt ipfasà ferpentiú contagio
tuerentur. Animaliaoriri, & viuere poſſe in ig ne compertum eft. Agna
admiratione dignum eſt illud, quod ab Ariſt. s.de hiftor.
animal.6.19.adducitur; animalia ſcilicet oriri, & viuere in igne,cum
elementum hoc omnia comburat: & nullatenus pu treſcat. In Cypro, inquit,
infulaærarijs fornacibusvbi, Calcites lapis ingeftus compluribus diebus
crematur,beſtiola in medio igne naſcuntur pennatæ,paulo mufcisgrandibus maiores,
quæ per igne Saliant, & ambulent. Equidem fià tanto viro hocnon aperiretur;
vix credere homincs auderent, cum totum rationi aduerſetur; fed hæc, & alia
maiora à po fentiſlimanatura fieri poſſunt, 10 Lacus Lachs Affhaltitis
mirabilis natura. Yommemoratione dignum puto Alphaltitis lacus naturam expo
nere.Salfus ille quidem,ac ſterilis eft,fed tanta leuitate, vt etiam, quæ
grauiſſima ſunt,in eum iacta fluitent:nec quiſquam demergi in profundum ne de
induſtria quidemfacilè poſſit.Denique Veſpaſia mus, qui eius viſendica uſa
illucaccelle sat, iuſfit quoſdam natandi infcios, vin &is poſt terga
manibus, in altum deijci, & euenit omnibus, vt tanquam vi fpiri. tus farſum
repulfi, deluper Auitarent. Joſepbas lib. 5.de bello Iudaicri.9. Piſces marinos
falubriores, & fapidi. ores efe fluminum piſcibus. lices, tum pidiores, tum
falubriores ſunt ijs, qui in fuminibus, ftagnis, lacubus, auc riuulis
viuunt.Salfedo enim duriorem facit carnem, & fubtilioris fubftantiæ. Contra
in piſcibus, qui ſunt in fiumini bus, &perinde eorú caro excrementitia eſt
muccoſa, & infuauis. Vndeapud Co. lumellam extat lepidum didū. Philip pus
cum ad Numidam hofpitem deue niſlet, & fibi è vicino fluminelupi for moſum
appofitúdeguftaffet,ex puiſſet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim ! vſque
adco à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in. dignum
iudicauerit. Mulieris cinni fogant ſerpentes, da in vermesmutantMr. ulierum
capilli, quibustantopere gaudent, & pro quorum ſtructu ra in exornandis
multum conſumunt te. poris,cremáei, ferpentes abigere vifi sūt: fin autem in
aquam inijciantur, in ver mes non diù retenti commutantur. Plurimos homines
aqui per tenebras, de per lucem vidiffe. Erum natura opulentiſsima admi ſus
aciem,oculoſgue ſplendentes pręſti tit; vt multi felium more noctu vagari
liberè potuerint. Legitur de Alexandro per tenebras æquè,ac per lucem vidiſſe;
viſum adco acerrimum habuit Galenus, quod in lomnis, patefactis repentè pal
pebris, magnamante oculos lucer via debat, vtiplede ſe fidem facit lib. 7.Hip
port. Go Platon, plac.6.4. At mirabilior erat TiberijCeſaris proprietas; qui in
tenebris exactè videbat;de qua re adeo admiratur Tranquillus, vt id pro mira
culo ſcribat. Cibusfapidiſsimus quomodo apparetur. Viſapidissimum cibum habere
de liderat, Gallinaceos pullos, qui la &te & panis micis laginati lipt,
in menſa procuret, ij profe &to præſtantiſsimum ſaporem exhibent, mireque
cum palate ineunt gratiam. Andereriam carycis nu tritus, tum ad medicinam, tum
ad gula faporem eſt optimus, & piçlertim iccur. Vnde non mirum L in Inſula
Hiſpa niola apud Indos, porci harundinibus zacchari faginatitantæ, ſapiditatis,
& bonitatis ſint, vt febricitantibus etiam exhibeantur, Gigan eft muccofa,
& infuauis.Vndeapud Co. lumellam extat lepidum di& ú. Philip puis cum
ad Numidam hofpitem deuc niſlet, & fibi è vicino flumine lupi for mo ſum
appofitú deguftafſet,exfpuillet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim !
vſque,adco à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in.
dignum iudicauerit. Mulieris cinni fogant ferpentes, do in vermes mutantur.
ulierum capilli,quibustantopere gaudent, & pro quorum ſtructu rain
exornandis multum confumunt té poris,cremári,ſerpentesabigere vifi sūt: fin
autem in aquaminijciantur, in ver. mes non diù retenti commutantur. Plurimos
homines aqui per tenebras, acper lucem vidiffe. REErum natura opulentilsima
admi randam fæpiſsimè hominibus vi. ſus aciem,oculoſque ſplendentes pręſti tit;
vt multi felium more noctu vagari liberè potuerint. Legitur de Alexandro per tenebras
æquè, ac per lucem vidiſſe; viſum adco acerrimum habuit Galenus, quod in
fomnis, patefactis repentè pal pebris, magnamante oculos lucern vi. debat,
vtipfe de ſe fidem facit lib. 7.Hip porr. Platon. plac.6. 4. At mirabilior erat
Tiberij Ceſaris proprietas; qui in tenebris exactè videbat; dequa re adeo
admiratur Tranquillus, void pro mira culo fcribat. Cibusſapidiſsimus quomodo
apparetur. QlideraGallinaceos, pullos,quila &e & panismicis
laginatiſipt, in menſa procuret, ij profe &to præſtantiſsimum ſaporem
exhibent, mireque cum palato ineunt gratiam. Anderetiam carycis nu tritus, tum
ad medicinam, tumad gulæ faporem eſt optimus, & pięlertim iecur. Vnde non
mirum G in Inſula Hiſpa niola apud Indos, porci harundinibus zacchari
faginatitantæ, ſapiditatis, & bonitatis ſint, vt febricitantibus etiam
exhibeantur, Gigantes in orbequando fuerint? G. Igantum foboles paulo ante Dilu
(uium apparuit, patet hoc in Geneſi c.6.quando ingreſſi ſunt blijDei ad fili as
hominum: poſt autem Diluuium aliqui fueruntgigantes, qui tamen non multo
tempore durauerunt. Bonitas e nim naturæ (vt inquit Abulenfis c. 3:
Deuteronomij) in cibis, & afpectu cæli ad terran habitatam remen humanum in
tanta virtute continebat, vt tanti robo ris, & ftaturæ homines ætas illa
produ. ceret; Poftea paulatim deficiente natu, ra,tanquam ad fenium múdus ifte
decli. nauit, & humana corpora cum viribus minorata funt. Adfacies mulierü
rugatas ſelectum præfidium. (N gratiam rugatarum mulierum, & quæ maculas in
viſu fortitæ fuerint, quo ſenium, turpitudinemque faciei abfcondere valcant,
optimum adduca mus præſidium. Alumen tritum, & cum recentis oui albumine
agitatum,ſi dein de ferbuerit in olla,& { patula ligno coti nuo
mouebitur,in vnguenti ſpiſfitudi nem tranſit. Hoc f biduo, vel triduo facies
mane & vefperi collinitur, non modò emaculari & erugari, verum ſum
mepulchram &gratam eam reddi ani maduertent. Maxima eft folis excellentia,
do in hec inferiorainfluxus. Am maximè Homerus Solis natura, & excellentiam
admirabatur, vt illú Deorú patré,hominūá; vocauerit. Ipfe enimomniú aftrorú Rex
eft, & tempora cuncta moderatur: annos,menfes, & di os diſtinguit,
& efficit; nos fua luce læti ficamur, & eiuscalore ſanamur. Ipfe vi.
rentes herbas, & terræ nafcentia germi. narefacit, & flores redolere.
Ipſefruges, producit, fructusmaturat, aerem puri ficat, lucem affert,
tenebraſque repellit, elementa tranſmutat,animalia gignit, gemmaſque pretiofas
cum admirandis viribus ex terræ viſceribus mira virtute spitøre facit, Hominųm
ipſe, cum ho mine Gigantes in orbequandofuerint? Glucos Igantum foboles paulo
ante Dilu (uium apparuit, patet hoc in Genefi c.6.quando ingreſſi funt
alijDeiad fili as hominum: poſt autem Diluvium aliqui fueruntgigantes, qui
tamen non multo tempore durauerunt. Bonitas e nim naturæ (vt inquit Abulenfis
6. 3. Deuteronomy )in cibis, & aſpectu cæliad terran habitatam femen
humanum in tanta virtute continebat, vt tanti robo ris, & ftaturæ homines
ætas illa produ ceret; Poftea paulatim deficiente natu, ra,tanquam ad fenium
müdus iſte decli. nauit, & humana corpora cum viribus minorata ſunt.
Adfacies mulierürugat asſeleétum præfidium. Ngratiam rugatarum mulierum, &
quæ maculas in viſu fortitæ fuerint, quo ſenium, turpitudinemque faciei
abſcondere valcant, optimum adduca mus præſidium. Alumen tritum, & cum
recentis oui albumine agitatum, fi dein de ferbuerit in olla, & ſpacula
ligno coti nuo mouebitur,in vnguenti fpiffitudi nem tranfit. Hoc ſi biduo, vel
triduo facies mane & vefperi collinitur, non modò emaculæri & erugari,
verum ſum mepulchram &gratam eam reddi ani. maduertent. Maxima eft folis
excellentia, din hec inferior ainfluxus** TO Am maximè Homerus Solis natura,
& excellentiam admirabatur, vtillu Deorú patré,hominúý; vocauerit. Ipſe
enim omniú aftrorú Rex eft, & tempora cunctamoderatur: annos,menſes, &
di es diftinguit, & efficit; nos fua luce læti. ficamur, & eius calore
ſanamur. Ipfe vi. rentes herbas, & terræ nafcentia germi. nare facit, &
flores redolere. Ipſe fruges producit, fructus maturat, aerem puri ficat, lucem
affert, tenebraſque repellit, elementa tranſmutat,animalia gignit, gemmaſque
pretiofas cum admirandis viribus ex terræ vifceribus mira virtute qpicere
facit, Hominum ipſe, çum ho minegenerat,& tandem quicquid in ter ra oritur,
& occidit, corrumpitur &ge neratur, in eius poteftate eft:fic ait Ari
ſtot.z.degener.d corrupt. quod propter acceſsú, &receffum Solis in circulo
ob liquo,fiuntgenerationes, &corruptio pes. Hæc, & alia tali lideri
Creator om. pium largituseft. Falfißimum eft Salamandramin igne viuere pole. B
Ariftotelc, & Aeliano,Salaman dram non modò in igne viuere, verum etiam
illum extinguere proditú eſt. His ſuffragatur Plinius lib.io.c. 67. qui tantum
alleruit Salamandræ rigore elle,vt igné glaciei ad inſtar extinguat, Hi autem
famigeratiſſimi viri dormi. tare videntur, cum omnia & comburi, &
conſumi ab igne poſle iudicentur, Falſum ergo axioma eſt;breuique fpatio
animalillud, antequã comburatur, licet rigidiffimú foret, in igne viuere
verifia mile eft.Totú hocexperientia innotuit. Narrat enim Matthiolusin
lib.2.6.56.Dia foridisin agro Tridentino,Veris,& Au. Tumpi tempore,maximam
Salamandra rum copiam reperiri,fe autem,vtexpe rimentum caperet eius, quodde
Sala mandra vulgo fertur, plurimas in igne conieciſſe, fed eas prorſus
exarſifle,bre uique penitus eſſeconſumptas. Sabbaticifluuj admirada proprietas.
I Nter Arcas, & Raphandas ciuitates (teſtimonio Iofephi.7.de bel. Iudaico )
regni Agrippę, Sabbaticus fluuius repe ritur, ita à leptimo die, quem ludzire
ligiosè colunt, appellatus. Hic copiofus fluit, nec meatu ſegniseſt,
mirabilemg; naturam obtinuit, liquidem interpofitis lex diebusà fonte luo
deficit,audumq; & ficcum alueum relinquit. Quod auté mirabilius eft, nulla mutatione
facta ſeptimo die fimilis exoritur, talemque continuo ordinem obferuare pro
certo ab omnibus cognitum eft. Quam fitexitiofumpro lattandisine Fantibus
vitioſas eligerenutrices. Vtrices pro lactádis puerulis ma lis moribus imbutas,
vitiofas, in. B eptas, crudeles vel ſuperbas reijciendas exiſtimo: mites autem,
benè moratas, fine vitio, & prudentes cligendas. Pueri enim ex ijs educati
ob acceptum nutri mentum à parentum natura recedunt, & 1 ad nutricisvitia,
vel prudentiam aliquá inclinationem habent. Indelegitur Ne Pi ronem
crudeliffimum à fuis progenito ribus longè degeneraffe(quamuis pravá
inclinationem vincerepotuiſſer) ijenim benigniffimi fuerant: ipſe autem à crue
delillima nutrice lactatus, & connutri tus, propriam matrem interfecit.
Menſtrualisfanguinis mulierum immanitas. Aximum contagium in mulieris i ei F
credidit.Refert enim nouellas vites eius pernecari contactu,rutam, &
hederam illico mori, apesta & is aluearijs fugere, lina nigrefcere, aciem
in cultris tonſor rum hebetari, æs graue virus & ærugi nem contrahere:
equas, li lint grauidæ, ta &tas abortire,multaque alia pernicio famala ex
illius contactw fieri tradidit. Sed longe à veritate diftar hic auctor:
cuiuslibet enimmulierisfanguinēmen i ftruum virulentum effe falfamum eſt, quippe
in ſana muliere, non differt & Yanguis à fanguine vitiumque illius in i
quantitate tantum perliftit,vtbenè Ca piuacceusin fua Praxi recenſuit, fecus
eft in morboſa muliere, ex menftruali enim iſtius fanguine nõmodopericula, quæà
Plinio adducuntur, eueniunt, ve - rum etiam alia. Equidem canes epoto ·
menſtruo in rabiem vertuntur. Homi nes in he & icā, & phthiſim, fià
veneficis, eis in potu tribuitur, deueniunt: Oleze contacte ſterili fcunt. Alia
ctiam ex il lius virulentia contingunt, quæ reticere melius eſt.
Frigidumpotumpoſt pharmacum af fumptum magnæ vtilitatis afue tis fuiſſe.
Egrotabat oliin in Sicilia Prorex Ioannes à Vega: ſumptoque Phar maco ſegniter
purgationem habebat. Medicusfamiliaris, vtaluum irritaret, juris pulli ſine
ſale pararú cyathum co B 2 A ram Principe habebat; illumque nau. ſeantem, &
tale brodium abhor. rentem, vtebiberet exorabat. Super ueniens autem Philippus
Ingraſsia, iua ris vice, libram aquæ frigidæ cum vn cia zuccarimediocris
albedinis propi. mauit. Erat enim ille frigidæ potioni af fuetus,atqueiecore
percalidus. At frigi. da cpota, deſtructa eft confeſtim naufea fedatilque
nonnullis in ore ventriculi morſibus, talem è veftigio purgationé feliciter
perfecit, vt gratias referre In graffiæ pro tali frigidæ potione,cupiens,
argenteum illud vas,in quo repofita fri gida fuerat, pretij aureorum nummo. rum
quinquaginta, gratiſsimo animo donauerit. Ingraff. de.frig.por.poft medic.
Verrucas cuiufdam animalculi liquo reperfanari. Eferam quod mihi in Apuliæ quo
dam loco, circa verrucas fucceflit. Expetebat à me quidá nobilis, qui ma. nusà
verrucis nimis deturbatas habebat aliquod pro illis abigendis præſidium. Ego
coram nonnullis multa,quæ aliàs RII veriſſimaefle comprobaueram,illicon it'o
fulebam.Inter hosrufticusquidam ino to pináter,fe ele &tiffimum habere
remedia pro ijs penitus dirimendis non rogatus I. faſſus eſt. Sciſcitor quale
fit, animalcu Di lum eſſe dixit: ad experimentum veni Before mus, ægro
confentiente. Ruſticus ani. i malculum inuenit. Hoc'in floribns 1. Eringij,
& Cichorez æftiuo tempore uk moratur,eft coloris calaſsini, cum ma of culis
rubeis, & quodammodo aſsimila tur proportionecorporiscantharidiyli y cet
paruulum ſit. Acceperat aliquot 12 i- fticus, & ſingula in ſingulis
verrucis d... * gitis exprexit: exibat liquor quidam, o manus intumuit, &
doluit,fed cum mo. derantia: intra tres dies detumuit, & fana facta eſt,
nec verrucę ampliusviſę ſunt. Tauriſanguinem inter lethalia vene na
connumerari. Nter atrociſsima, & fuffocantia ve nena Tauriſanguinem
recenter epo tum connumeramus; congelatur enim 2. in ventriculo,
reſpirationemqueimpe s diens, hominem fuffocat. Themiſtocles B 3 Athe Inesta Athenienfis
tanti veneni tentauit expen rimentum. Hic enim ciuium inuidia à Patria
relegatus,ad Artaxerxem confu git, à quo diues factus eſt.Dum autem in patriam
ingratiam Artaxerxis pugnare cogeretur,in Dianæ téplo,hauſto Tauri fanguine,
vitam cum morte commuta uit.Ex Plutarcbe. Quo artificio duriſsim afaxafrangen
re valeamus. Aris ſaxa non alia re frangendag quam larido accenfo retulit Ola
us.Hoc equidem rationi conſentaneum efle ducimus, cum pinguehumidum,fax lique
commiftum illud fit, ob id enim flamma potens & acris eſt diùque ma net.
Annibal verò dum Alpium rupes, ingreſſurus Italiam, comminuereopta ret, faxa
potentiſsimo igne concalefacta; acerrimo aceto humectabat;:ita enim ea
molliebãtur,& in fruſta cædebátur, fra ctioniq; facilior erat locus.ex Tiro
Liuip. De lapidis Asbeſti mirabilivirtutes LAsbeſtos lapis,qué Arabia, &
Arcadia producit, fi verus & probus fuerit, femel accenſus perpetuam
flammam retinere videtur.ExhocGentilestemplorú cane delabra conficere folebant,
clarè ani maduertentes fortiſsimam flammam & i * inextinguibilem elucere,
quęnecabima bribus,nec tempeſtatibus extingueba tur. D. Auguſtinus lib.21.deCiuit.Deiz.
Athenis Veneris Phanum fuiſſe referty in quo de di&to lapide lucernæ
conſtru Etæfuerant,quæ aliqua intemperie ex tingui minimè poterant. Aegypti
Reges opera magnifica, &admirane da Antiquitus conftruxiſle. Pera ab
Aegypti Regibus conſtria & a omni admiratione digna ſem per exiſtimaui. Hi
porrò Labyrinthoi rum,Pyramidümqueprimifuerunt au & tores, & Mauſolea
fepulchra, & Obe. Hifcos erexerunt, Ferunt admiffo faci: nore, Pheronem
Regem è veftigio vi-, Cum amififfe,decennioquecæcum -fúiſle. Vndecimo autem
anno ab vrbe Buci, accepto Oraculo, quod viſum reci peret, fi oculos mulieris, quæ
tantum B 4 lui ſui viri amplexibus contenta fuiſſet, cum terorumque virorum
expers, lotio ab luiſet. Hic ante omnia vxoris lotiura tentauit, cum autem
nihil cerneret in. finitarum mulierum vrinam experiri voluit; viſuque
recuperato, præter eam (vxorem enim eandem duxit )cuius lo tio vilum accepit,
omnes concremauit. 'Abea autem calamitate liberatus, cup alia in alijs templis
donaria pofuit, om nia egregia ad memorię diuturnitatem, tum maximè
memorabilia,ac fpe &tacu lo dignain templo Solis gemina faxa, quosobelos
vocant à figuraverucēzenam cubitorum longitudinis,octonum lati tudinis.
Pelõdor. Virg.ex Herod. lib.z. Cacodamonem malinuncijpræfagium aliquando
attuliffe. Arcus Brutus cumexercitu ex A Gia nocte media & profunda dum
fplendidum erat lumen, & filentium vndique caftra tenebat, multa fecum
memoria recolebat. Cum autem ad fe venire aliquem præſentiret, intentus
MarcusBrutuscumexercituexA intentus ad
introitum afpiciens,horren dam, & monſtruolam corporis feri &
terribilis ſibi aſliſtere imaginem reſpex it.Quis (inquit)interrogans erutus,ho
minum, aut Deorum es,quid tibi vis? quidad nos veniſti?Murmurans ille,tu. us Ô
Brute(dixit)malus genius ſum, in Philippis me videbis. Tum brufus nihil
perterritus, Videbo, reſpondit,cogita. bundusqueaccubuit. Verum Caſsiana
cognita clade deinde, cogitationeſque fuas videns, & fpes fallaces
ſublapſas re tro referrifin Philippis fibiipfi mortem coniciuit.Ex Plutarcbo.
olei, vini,ſegetumgſterilitatis prafagia. Irij vefpertinus occaſus, fi biduoana
teuertat, vel fequatur Plenilunium, fegeti rubiginem,&foreftentibus vre.
dinem pronunciat. Procionis occafus veſpertinus,fi interlunio eueniat, flores
ti yiti, & oleu germinanti iniuriam ex vredine adfert.Aquilæ verfpertinus
ex. ortus, & Arduri occalus, in Pleniluniú B S incidit, & olei&
vivi ſterilitatem, vtros quetum florente denunciat Ex Iunitino - deris
falubritatem advitæproduction anem maximopere videmuscon: ducere.. N Hybernia
quaſdam Infulas, ir quia bus homines longiſsimæ vitæ funt, re periri compertum
eſt,tanta eft enim ibi: aeris ſalubritas,vtvita humanalongiſsi me producatur,
Cum autem ad maxia. mam ſenectutem homines deueniunt, deficiente pauliſper
humido radicali, caloris naturalis opera, quia anima pro-. pter complexionis
bonitatem recedere: nequit, in corpore magni ſuſcitantur dolores: Idcirco
illius regionis homie nes poft diuturnos labores, vitam aber forrétes, longèà
propria regione fede portari procurant;præſertimque ad lo. cum minus falubrem,
vbifaciliter mon n'antur. Abulenfis in Genef.c.2.6. Anania: in Vnis.Fabrica.
Linica.magna proprietatisapud! indos fiering 1 Maximi valoris lintea ex
Asbeſti. no lino,& Amiancho lapide con texere Indiani fo !ent. Hæc in ignem;
proie & a flammam quidem concipiunt, detrimentumautem nullum recipiunto Cum
autem vſu commaculata Indi hæc lintea depurare coguntur, (ſpreto more noſtro
)non aqua,non cinere, vel ſmege mate vtuntur; fed in ignem proijciunt::
certiſsimoexperimento perdocti ab eo non cóluni modò; ſed potius-exempta.
fplendeſcere,nihilqueillis deperire. Ta.. le Carolum V..Imperatorem nonnulli
habuiffe ferunt. Mizaldus. Hominibus àgraui valetudine opa preffis varias
hominum figuras appa: rnilleſepißime, expertum oft. Ignum ſpeculatione illud
fempers primuntur valetudine ex affe &to cere. bro, an actu Demonis figare
diuerſçapa pareant? Quippèno ſemel audiui, non. mullos. Dæmanes,alios verò
fæminas. B 6 vidiſſe, vt inter cæteros Alexander ab Alexandro de ſe teſtatur.
Cum (inquit) Romæ ægravaletudineoppreffus eſſem iaceremque in lectulo,fpeciem
mulieris eleganti formamibiplanè vigilanti ap paruiſſe confiteor, quam cum
infpicerem diù cogitabundus,&tacitus fui, repu tans nunquid ego falfà
imagine captus, aliter,atque res eſſetafpicerem,cumque meos ſenſus. vigere,
& figuram illam pufquam à me dilabi viderem, quæ nam illa effet
interrogaui, quæ tum fubridens & ea quæ acceperat verba reſpondens, quaſi
me planè derideret, cum diù me fuiſſet intuita diſceſlit. Quomodo au hæcfiani
in lib. 1. de pita hominis difa fusè enucleamus. Hydropes lethales multoties ab
occul. tis,abditiſq præfidiisdifparuiſſe. Vltiequidem morbinon à me dicorum
remedijs, fed à caufis abditis curati funt.Refert Schenkius l.be 3.obferuat.
Medicinal, Chriſtophorum quendamin deſperata hyeme, ab hs drope lethali hac via
fanatum fuifle. Illi dormienti in Sole aprico lacertus viri. dis occurrit in
laxatumque eius finum irrepfit, & toto cotempore, quo dormi. it,per
tumentem,nudatumqueventrem oberrauit. Poft horam expergefa & us lacertum in
ſinu ſubfultare animaduer tit, quem veluci homini amicum & in noxium
dimilit. Huic ab eo tempore hydropicus tumoromnis,citra alia re media intra
paucosdies ſubſedit, & diſ paruit. Quicafus mirabilis eft: & non minori
admiratione dignus, Bufonis fylueftris, quam fit proprietas. Hoc e nim animal
fi per ventrem fcinditur, & fuper renes hidropici ligatur, aquofita tem per
vias vrina, quæ in Aſcitelupet abundat,mirabiliter educit.Hoc VVie rus
expertuseft,Napaulli ſecreto rema dio hydropicorum aquas Colubri a quatici
lapide ventriapplicato ſenfim abfumunt. Infuper vituli marini pelle aquam
corpori fuffulam Hermolaus Barbarustolli prodidit. Cæca igitur,& abdita via
multos hoc morbo ſanari comperimus. B7 Mediana
II Medeamà veneficiorum calumnia a Diogene fuilevindicatam., moriæ
ſcriptoresmandarunt,Meo. deam illam concelebratam magicis arti bus, maximam
dediffe operam, ijſque latiſsime fúille inſtructam.Hic.n.apud Srobæum
dicebat,Medeam fapientem, non veneficam fuifle, que acceptis mole libus, &
effæminatishominum corpo, ribus confirmabat ipfa gymnaſijs,acex ercitationibus,
& robulta vigentiaque reddebat.Hinc, vt veriſimile eft,faina emanauit, quod
illa coquendo carnes hominibus ivuentutem reftitueret, Si. enim ad ea, quæ de
ipfa dicuntur, quod nocturnis horis coram Luna proftrata maleficia fuo nudato
corpore pararet, refpicimus, vt patet per Seneca in Tras gæd.7.Quod vero alia
attinet de quie bus ipſam accuſent, neſcio quomodo. ab infamia eam liberare
valeamus. ImPlenilunio vtplurimum furioſos: vehementius infanire Luna dum Soli
opponitur, vehementius furiofos infanire obſerua-: mus: tunc enim ex.
fuperabundantium humortin copia-cerebrum ad cranium vique intumeſcit,eofque ad
furiam du.. cit.Hac (vt reor) caufa, furioſos Britan. ni luna quarta
decimaverberibus affli., gunt,conſiderantesſailicet ſanguinem, & fpiritum
tunc temporis efferuefcere.. Verbera.autem non fine ratione ad talie um ſalutem
conferre videntur; vt enim larga proſperitas ad inſaniam homines, ducere
potenseft:ſic dolor, & calamitas, prudentiam inducere conſueuit: quod,
fapientiæPrinceps perbellè fignificauit: dum dixit, affli &tionem tribuere
intele lectum.Bodinus in tbeat.net, Annicomputumdimēſuramàquin
bufdamnationibusrudiordine fuiffeconstructiuni Noi.certus modusapud felos Ar
gyptiosfemper fuit, eorum enim Sacerdotes ab Abrahamoedocti,& verá
anni-menſura, & Solis curſumcogno., frese fcere valuerunt. Apud alias
nationes di ípari numero, parique errore annus no tatus eft:fiquidem Arcades
trium men. fium annum faciebát. Lauinij tredecim. Acananes fex.Gręci reliqui
314.diebus. Romulus annum decem menſibus, qui 304.dicbus conficiebatur
ordinauit.Hic å Martio incipiebat,eo quod Marti fuo genitori credito, menſem
hunc dicaue rat.Numa poft Romulum quinquagin. ta dies computo huic addidit,
annum. que conſtituit 354.diebus. At. C.Cæſar Aegyptios imitatus, ad curſum
Solis, quidiebus365.& quadrante conſtituie tur,annum dirigereftuduit.
Céſorinus, & Suetonius. Solatri maioris, e Serpent arie mio
norispotentiacontraparafitos mirabilis eft. Irabilis profecto Solatri maio.
ris, fiue herbæ Bella donna radicis potentia eft: fi enim contrita, &
exiccata vnius ſcrupuli pondere per horas ſex vino infunditur,illudque
facacolatura uno homini potui datur,vt illecibum guftare nequeat,efficiet. Hoc
paraſitis idoneum eft remedium,hi'enim aperto ore,tanquãomnia deuoraturi,in
menſa cófident;fed hac via pænas luent, quip pè alios vidcbunt comedentes, ipſi
ta men inſtar Tantaliin menſa fameſcent. Vnde apud conuiuas ridiculi, &
confuſi apparebunt.Sanantur hiconfeftim ace to bibito.Idem facit radix Aron,
fiuc -minoris Serpentariæ in acetarijs recens contrita;qui enim guſtauerit,
apparebit Suffocari cibumque relinquet. Sanatur hie allio comefto. Ventorum
ortum,occafumque terre AremEchinuinmirafagacitatehomi nibuspraſagire.
*ErreftrisEchini, quiautumnalitě. pore in vineis, dumoſilque fpinis verfari
præcipuè conſueuit, in ortu oc cafuque ventorum præfagiendo mira l'eft
fagacitas.Horum porrò latibula du obusconftru &ta foraminibus, quorum
alterum Boream, alterum verò Auftrú reſpiciat,conſtructa reperiuntur. Pre fentientes
autem Boream Auſtrum,ali umve ventum fufHaturum, longè abe orum ortu, vnum vel
alterum cauernæ meatum obturant; ventorum enim cog nitio-ijs innata eft, vtab
ipſisſe tueri va Jeant.Hoc ordine Venatores Echinorú Jatibula, eorumque
fagacitatem cond derantes, nulla ſtellarum obferuatione habita, fed folum ex
cauernarum mea. tibus clauſis,velapertisVentorú indagia nem cófequentur. Ex
Plutarcho in Dialog. Animi pudorem, timoremque hu. manorumcorporum diuerfimoda
faciem alterare. agna inter animi pudorem, & ti morem cum vtrumque fit
triſti. riæ foboles, videturdiſparitas:quippe in pudorehomines facie
rubefcunt,timen tes verò pallefcunt. Natura(vt inquit Macrobius 7. Saturn. ),
cum quid ei oc currit honeſto pudore dignum, imum petendo penetrat ſanguinem,quo
conto moto diffuſoque cutis tingitur,rubora; saluitur, Thelelius auté (vt ex
Taſſone citatur M citatur) faciem in
pudore,voluit affe &iū recipere, & proinde erubeſcere. Hocà ratione
alienum haud eft, fiquidem vo lunt Philoſophi naturam pudoretacta, fanguinem,inftar
velamenti ante fe ten dere.Experientia infuperhoc docet, e rubeſcentes enim
manum fibi ante faci. em frequenter opponunt. At timentes palleſcunt,quia
natura cũ quid extrinſe. teoccurrens metuit, in profundum de. mergitur: ita
&noscum timemus,late bras quærimus, & loca occulta, Natura itaque
defcendens,vt lateat,fanguinem fecum trahit, quo demerſo dilutior cuti. humor
remanet,pallorqueſuccedit. Animaliaex putrigenita materit inmundiprimordio
minimè fuiffe. Væ ex putri materia generantur, ſex animalium genera communi ter
exiſtunt. Quædam enim, vt bibio nes, quæ ſunt minutifsima animalia,ex vini
exhalationibusfiunt,vt papiliones ex aqua.Quædã ex humorú corruptio pibus
proueniunt: vt vermes in fter core,velciſternis. Quædam ex cadaue ribus, vt
apes ex iumentis:crabrones,fi ue muſcægrandes,quæ volando ſonant. Scarabæi liue
mufcæ virides ex equis, vel canibus mortuis: fcorpius de caucti mortui
carnibus:ſerpens de medulla ſpi næ humanæ. Quædam ex lignorum pu tredine, vt
teredines, qui lunt vermek intra ligna, quando non abſcinduntur tempore debito,
exorti. Quædam ex fructuum corruptione, vt girguliones ex fabis. Quædam ex
herbarum corrup tela, vttinex.Hçc autem in mundiprin cipio immediatè à Deo
creata fuiſſe, nulla ratio confiteri cogit,cum ipſa na turaliter ex corruptione
procedant;poſt autem mundi exordium huiuſmodi ex corruptelis generationes
eueniſſe verili mile eft;Deus tamen feminarias cauſas horum materijs indidit,
fine quibusori. ri non potuiſſent.Abulenfis in Genefi 6.2. Defygis Arcadia
mortifera natura, Alexandrimorte. Circa
Gerialis. ferunt, ille, CircaNonacrinin Arcadia,fons quidá teperitur è
petraexoriés, quęStyx ab in colis appellatur, tantæ mortiferæ natu rę, vt ſumma
celeritate corrúpat corpo ra. Equidemprotinus hauſta (Seneca teſtimonio 3
quaft.natur.)induratur,in Itarque gypſi ſub humore conftringitur, & ligat
viſcera.Quia autem, nec odore, nec fapore notabilis eft,fæpè fallit, nec ea
epota,amplius remedio locus eft.Fe runt nonære,non ferro, non teſta aquí
huiuſmodi continere,necaliter quam in equi vngula ferri poſſe. Huius vemeni
potu,magnumAlexandrum in Babylo. nia fuiſſeextin & um multi ſcriptoresre
medico,ob aquę feritatem in media po tione repentè veluti telo confixusinge
muit; elatuſque (vt ait Iuſtinus) è conui yio ſemianimis, tanto dolore
cruciatus eft,vt ferrum in remedia poſceret, & è tałtu hominum velut
vulnere indole. fceret. Achores tineafque capitis,ex bufonis oleofeliciter
fanari. Dum 46 prope Luceriam Apuliæ ſemel me dicinam faceren, ibi quendam
achori bus,tineiſque per multos annos turpi. ter affe & um,cui varia
fuerant applicata temedia,omnia tamen inutiliter, prop termorbi reſiſtentiam
repperi. Tande noſtro conſilio hicele &tè ex pharmaco purgatus, folum
linimento ex oleo in quo ad exactam co &tionem Bufo fue Rana terreſtris
ebullierat, optime cura tus eft, quippe fimplici hoc remedio per paucosdies in
capitevtens, fanus, & capillatus fa & us eſt; durante autem lini mento
piliersortui,vulſellis à chirurgo extirpabantur. De Cerui lachryma, eiuſque in
ciendo fudore potentia. Antæ creditur elle efficaciæ Cerui lachryma in
Tudoreciendo, vt' li grana quinque vel ſex potui dětur, totü corpus fere folui
iudicemus.De hac lo quens.Abinzoar lib. I.tra &. 13.6.6. le tria grana Azir
filio Regij magiſtri equitum in lacte, vel aqua cucurbitæ, vel.roſatæ
exhibuiſle:retulit,illumque à virulento ictero liberaffe.Hæcautem in Ceruis
ante ceptelmum annum (teſti monio Scaligeri)nulla eft,temporis au tem proceſſu
generatur, & in iuglandis molemaccreſcit.Dicitur magnam habe read venenum
efficaciam, vt in Afia fe Hiciſsimo fucceflu fæpè experiuntur. Vires infirmorum
collapſas, odoribus refarciripoffe. Nfirmorum deperditas vires non potionibus
modò,verum atqueodo, ribus reftaurari pofſe obſesuatum eft. Aiunt enim
Democritú in dies aliquot, amicorumgratia pomi odore vitam fic bi prorogalle.
Hinc multi panem cali dum vino odorifero immerfum nari busadmouentægrorum, quem
a tem. poribus, & coſtis cataplafmatis more imponimus,vtique vires egrigie
reſti tuimus.ConciliatorApponenſis mori. búdá vitá, ex croco, & caſtoreo
cótuſis, vinoq; cómiſtis producere fecófueuifle tefta. teftatur,ſenibuſque eam compofitioné
exhibuiſſe, nullatenus olfa & u magis quam potu profuiſſe.Ferreriuslib.2.Me
thod. De olei Balnei mirifica in morbis præftantia. O Lei Balneum, vt Herodotus
anti quiſsimusmedicusprodidit, quià diuturnis affliguntur febribus, à laſsitu
dine, vel neruoſarum partium dolori bus oppreſsis,conuulfis, & vrinæ, fup
preſsis laudatiſsimum,ac ſalutare efic remedium experimur. Vidit huius pre
ſidij experientiam Heurnius in quoda extenuato, ac ferè exhauſto, dumeflet
Patauij:illum enim validiſsima occupa uerat conuulfio,at tepidi olei pleno vafe
immerſus,ac fotus fanuseuafit.In lib.no ftro de Hydron.nat. Adam & fuos
contemporaneos, perfc. etiſsimamrerumnaturalium ha buiffe cognitionem. Nter
aliasrationes, quas Abulenſis in Genef.in c.f.de longiſsima vitæ pri. morum
parentum,quiannum ferè mila Jeſimum ateingebant,retulit,hácaddux
it;quod'Adam'rerum naturalium perfe Etamà Deo cognitionem habuit.Intele lexit
enimfru & uum, herbarum,lapidú, lignorum, animalium, mineraliumque
virtutes, & do&rinam, quibus vita hv mana diutius conſeruari poterat;
quæ omnia contemporaneos,(vt ipfi etiam vitam producerent longiſsimèJedocuit.
Hæc autem cognitio, & ex diluuio, & gérium diuifione perdita
eft.Reperiun turtamenin præfentiarum multa mira bilia,naturęque ſecretiſsima
apud ſapi entes, à temporuminiuria foslitan vin dicata; quæ aliquando
hominesvidentes aut audientes, tanquam lupernaturalia opera admirantur
Rutaminter alexiteria medicamenta connumerari: Nteralexipharmaca præſidia,
Rutam minimęconditionis haud efſc perhia bent,fiquidem ieiuno ftomacho come fta
multos à veneņiviçulentia liberaſſe C. degi
legitur. Dehac Athenæus in 3.Deipn.la. quens, Archelaum Ponti Regem fuos
populos veneno interimete confue uifie fcribit, illos autem à quibufdam edo
&tos, ob id antequam è domibus ea grederentur,quotidieRutam cdere fo litos
à Tyrannicrudelitate.le.defendiffe. Solaſuſpenſione, capitiscruciatus verbenam
mitigare. Trabilis eft Verbenæ proprietas M.in dolore capitis mitigando; 'fi
quidem à Petro Foreſto traditur hoc folo præſidio quendam fuifle perſana
tum.Ille netlis remedijs, quamuis opti mis curari potuerat,non venæ ſectione,
non ſcrupis digerentibus, neque steco &tis pilulis,cucurbitulis, nec alijs
topic cis auxilijs. Cum autem nulla iuuarent semedia,ad collum
Verbenaviridisafe penſa eſt, & fanus fa & us eft,lib.9.ebſer.3.
Detkapſie virtute in fugillatis faci nandis,Neronisquecalle. ditate. Nero
Imperator in ſui Imperij ex 36 ordio Thapfiam,eiuſque excellé to tiam
magnificauit; Ille quidem dumno. & u incederet incognitus, & in multos
impetus faceret,nå ſemel facies fugitla Do ta,cutifq;livida,piftula; ab illis
fuerat. L. Confeftim hic,ex Thapfia,thure, & cem ra commiſta,linimento
ljuentem vifum collinibat,quopræſidio antelucem à fe da
ſugillationeliberabatur; dum autem die in populiconſpectu, faciem fanam
oftenderet,facinoris ſui famam, & igno. miniam occultabat. Ex Durante in
Her. 25 g. barie. I je obſtétricibus animaduerfio. præcidendo diligentia
adhibenda eft;quippefi ni mium curtè vmbilicus religatur,ætatis progreſſu
pariédi conatumreftringere, imminenti vitę periculo,poteſt. Ex M46 mbiaCornace.
De arboris ficusmirabili natura. I coctu faciles habere deſideramus, in arbore
ficus eas ſuſpendemus, ita votum noftrum procul dubio aſſeque mur: credo
forſitan ob acutum, & incil: uú odorem, quem arbor Ipirat id cauſa
ri;velforſitan occulta cæcaque proprie tate.At quod mirabiliusin huius arbo.
ris natura eft, Taurum indomitum, fe rumque in eodem alligatum manfuef cere
tradunt. Neſcio autem annaturali via propter-odorem,an aliqua antipa thia, quæ
inter talia exiftat hoc eueniat. Audiui tamenà multis vtrumqueexpe rientia
fuille confirmatum. Quomodoà vitriolo arislaminas.ex. trahere valeamus. Lui
momenti illa cognitio, quomodo à vitrioloæris lamellę extrahantur,ape riam
modum, qua facilitate id affequi valeamus.Bulliatur Romanumvitrio. lum in olla
cú aquafontis: in eaque cha lybis lamina per horæ quaternionem demergatur:
extrahito demum chaly bem, ipſumenim lamellis æris inftar suginis colligatum
habebis, quęculcro radende fút, vt alias chalybem immera. gere
pofsisznouaſquelamellas extrahe.. re. fiquidem tamdiù corradi poterunt, quouſq;
Vätrioli portio in aqua fuerit. Arrigat aures ingeniofus; quia ex hoc: minimo
principio multa, precipuèinre: medica, yrilia aſſequetur. oléum vitrioli,&fulphuris
rostris: lumbricos plurimumvalere. NITlfi magnis experimentis præſtana tiſsimum
remedium ad puerors i lumbricoscomprobalſem,haud audia. rem hic inter arcana
ſele &tà fóre repezia nendum confiteri: quippe tanta eft eiuss virtus,&
potentia, vt mortuos ferè pur erosè vermibus ad vitam trahat. Hic: induſtria
paratur,In libris ſingulis aque fontis oleifulphuris, vel vitrioli chimi.. cè
extractorum, aliquotguttulaadden dæ funt,ita vt aqua acidula frat, quæ pu
eris,natuque maioribus danda eft diù noctuque ad placitum,.e & enim præſtaa
tiſsimæ virtutis 0 T! 10 Da DeCaraba mirabili virtute invuula cafum,Amygdalaruamque
tu. mores ArtinusRulandusvirin chimicis M celeberrimus in Amygdalarum
inflāmatiene, & tumore, vuulæquecaſu ex humoribus à capite fluentibus exci
tatis ſola Carabâmirabiliaparauit-Prie mo fuffimétum cófuebat,hoc modo ex.
ceptü.Accipiebat Carabæ albiff. drach. 7.qua redacta in puluerem craſsiorem,
& carbonibus impofita,fumus per infa dibulum,ore excipiebatur ab ægro mar.
ne,meridie, & veſperi, multa vtilitate, Accipiebatetiam fermenti veteris
vnc.. & quam moreemplaftri linteolo indu cebat, afperfoque Carabæ albæ pul
uere vertici imponebat per diem,per noctem vero fequétem recens applica bat.
Quibus paucis remedijs, &ex fola: quaſi Carabayquam plurimos à fauci um
tumoribus, vuulæque cafu,Amyg dalarumque inflámationibus oppreſlos perſanauit.
Ex eiusCurationibus. Spina HorTvivs GENIALIS Spine infeftoriæ Baccas" ad.
Tenaf mumexfalfapituita expertiſsimum verumque ad illum exiftere remedium. St
mihi remedium pro Tenafmodo quadam fortafle mille kominum, qui endemiali fere
morbo hic ſugebant per fanafle quam citiſsime. Syrupum ex Baccis fpinæ ceruinæ,
fiue infectorice: Aromatario parariiufferam. Hæinfine: O & obris, cum bene
maturuerint, collie guntur, exprefloque fucco cum melle vel Zuccaro ad
formamfyrupi ducitur: additurque in fine maſticis, velzinzibes sis, anih, vel
cinamomiad drach.j.vet? in maiori dofi, fi libuerit.Datur hic fy rup.ab vnce
vſque ad duas cumpauco vino dilutus,abitemijs datur cum aqua cinamomi:epoto,
cibatur eger,parceta men, & ieiuno ftomacho, præcipiturque ne
dormiat.Equidem vna die fanaturę ger, foluitur enim aluus,abfque mole tia,
& excretis féroſis.viſcidilg; humorib. Tolo hoc preſidio integrè liberatur
C Ariet mo Arietis linguam futurum in
ouibus milanitium,commonftrare.. M Irantur multi Virgilium in 3.. nere, vt
linguam paftores conſpicere debeant, deſinant autem admirari, cau ſam enim
adducimus ex Plinio, quipro pterea Arietum ora introſpici à pafto ribus voluit,
quia cuius coloris ijlin guam habuerint, tále in fætibus gene randis
forelanitium. Audiui à multis, hocyeriſsimum reperiri. Ouis enim e. tam cum
vterum gerit,fi linguam habueritnigram nigrum pariet agnum, fi albam album,
& fic de aliis coloribus. Ridiculüm eft quod fertur; Bafilifcum
àGalliouoexclwdi.. On modo à plebeiis verum atq;: à nonnullis ftudiofis,
Bafilifcum: abouo galli veteris connaſci perhibe tur. Fingunthi ex aliquorum
fcriptorú teſtimonio, quos eriam ego perlegia: Gallo decrepito, quiſeptimum,
aut no.. olm, vel ad fummum decimum quar.. Na tum annum agat, ex putrefacto
ſemine, aut humorum illuuie altiuo tempore, ouum conflári, ex quo ab eodemfoto (vt
à Gallinis alia fouentur oua ) Bafi... liſcusoriatur.Sed hoc animal nemo vio
dit,habitat enim (auctóre Plinio ) in Aphricæ folitudinibus: proinde hæc creo
dere difficile eſt. Inſuper ſi hanc fpecie em mafculinam poſſe fætare conceſſum.
eflet, contingeret etiam inalijs, quod minimèobſeruamus. Mihi aliquotoua: in
experimentum à mulierculis allata fünt, dicentibusGallum peperiſſe: erát
oblonga,& in caudam ſerpentis quibuſ dá nodulis terminabátur:at hæc à
Gallie nisex plurium ouorum minutorů col ligatura (cu kuperfætatione,non autem
a Gallis fieri dixi. Homines ex impromiſo Lupi afpects: veluti mutosdo;
attonitos fieri. Vlgatiſsimum illud eft, hominesex improuiſo Lupi aſpectuadeo
mutos& attonitos fieri,vt nec fari, nec vociferari valeant. A Lupiquadá prietate
id fieri aſlerunt, contenderse tes Lupum,fiprior obuium quempiam
conſpexeritillico vocem adimere, can demque illum luere pænarn,ſiab homis ne
prius videatur. Ad hænugæ ſuot.Si quidem ex terribilişimprouiloqueLu.. pi aſpe
&tu,homines terreri, timoteque concutiqveriſimile eft: ex timore autem:
valido mébra frigefieri ex raptu ad in teriora fpirituum,inde corporis, &
ar.. tuum fieri impedimentu, vociſque pri uationem mirum non eft.Alijalia fin
gunt, mihi autem hęc omnia ad folum timorem,tanquamad caufam proporti Onatam
reducere viſum eſt.. Multa facinoraàMagisanicalis perpetrari pole. Etulit
Leonardus Vairus lib.1.de: Faſcino multas hac noftra tempe fate exiſtere
aniculas, quarum impurie tate,nonpaucos effaſcinari pueros illofa quenonmodoin
grauiſsimum incidere diſcrimen,verum etiam acerbam fæpiſe fimè ſubire mortem.
Pecudes inſuper: partuqalacte priuari,equospacreſcene R Falcin Cquote &
emorislegetes abſque fructu colligi, arbores arefcere;ac denique omnia per ſum
ire quandoque videri, AFucovulnera illata,Muſcis contri tisbreuifpatio
perſanari.. " Vm quadam die apud amicos alie, quot cómorarer,& læti in
měla de more varia confabularemur; ecce vous ex ijs in ſuperiori labro à Fuco
animali vulneratur,quo morſu ſtatim intumuit vulnus,cum maximo patientis
dolore, Amici in riſum ſoli, patientismedelam minimeprocurabant.Ego quidem
alias morfus hos curafle recordabar; quare confeftim, vt nonnullas muſcas
feruus meus caperet, iulli, quas contritas, dum fupermorfū
impofuiſset,breuidolorie datuseſt;.tumorq, cúmaximapatientis lætitia;aliorúg,
admiratione detumuit, Quafacilitate vlcera formicantia dan cacoëthica
fanarivaleant. Vidam amicus meus, cumir Hya pochondrijs,vicera formicátia,pra
maque, quæ à nonnullis vermes dicun Q tur,paffus eſſet, ſauitatcm,poftmultat do
& ifsimis medicis tētạta remedia, ac. quirere non potuit:ylcera enim licet
fac pari viderentur;renouationem tamen continuo recipiebanta,Vltimò poftan..
nos,& menfes in empiricum chirurgum incidit:quipaucorum dierum ſpatioita
hominem perſänauit. Abluebat primo vlcera albo vino,tum ex - patellis -mari-.
nis puluerem, fiue cinerem Ex Corici bus(exemptis interioribus) couſperge-.
bat,vltimoherba marina vlcera coope riebat; faſciaque premebat, femel in die
hoc vſus remedio vigintidierum fpatio, ægerconualuit. Procurauit arcanum a..
micus, & mihi fideliter communicauit, Fallſsimumeft, quod fertur Viperă o
coitu mafculumoccidere,ipfamque asfuis.catultsinpartunecarie LAG Grauiſsimis au
& oribusaffirma, mine) maſculi caput'abſcindere (ille.n.. infæminæ os caput
inferit ) & fic củoca. sidere, ſed poenam täti facti illam luere. ſiquia fiquidem
Viperinicaruliconcepti, gra-. Jiores facti vifceramatris cofrodunt,e am que
occidunt. Sic voluit Plinius lib. 10.&Nicander in Thoriacis, quare Vipe.
ram aiunt diciab co, quod vi pereat,aut vipariat.vtrumque autem falfifsimum
effe, & experientia, & grauiſsimorum e. tiam ſcriptorum auctoritate
cognitum eſt.Apollonius apud Philoftratum Vi... peram aliquando viſam fuiffe
catulos ſuos; quos peperiſſet lambere, & expolire aſſeruit. Bodinus in
nat.theatr.lib. 33 in Gallia,ad Clapum Pictauorú flumen, vbi
Viperæfrequentiores ſunt, vtriuſq. fexus viperas lagenis vitreis inclufas fu
iffe reculit;illafque peperife, & conce piſle vtroq; parente fuperſtite,
Matthi olurs ex. Obferuatione FerdinandiIm perati Neapol.Pharmacopolæ Viperam
parere catulos ſuos, & non occidiafts-, ruit;catuloſque-non viſcera
matris,led membranas quibns incladuntur diſrúa pere. Quarerectiusſentimus,fi
Vipera non à vi parere,vel perire dicimus,fed quafit quaſ Viuiparam, quod non
oua, vtcæ.. teri ſerpentes, ſed viuum animal pariat. Iraulos, balbos, &
femilingues fieri ob nimiam cerebri bumiditatem, VA communiseft fententia ab
expe rientiaalienumreperitur. Rauli, & Balbi non ob cerebri hus midam
intemperiem fiunt, vt ferè omnes autumant; inueniuntur enim hi' modo
calidi,modo frigidi,modo humi di,vel ficci, vt & reliqui, qui nec Traus
li,nec Balbi funt;imò & hi modo (putis " abundant; modo ijs
carent:quare non ob bumiditatem nimiam cerebri buiure modi Traulos-& Balbos
fieri, fed obt varietatem mearuum, in intrimentis; pertinentibusad locutionem
exiftenti um, docuit experientia.Porrò Trauli, qui literam R.exprimere nequcunt,
in media palatiregione, vbi quartum eſt osfuperiorismaxilta, duo inueniuntur
foramina, quæ nullo modo adeo aperta & obuia sút, vt ijs, qui optime
loquútur, Balbis veròiuxta dentes maioraobſer. samus foramina,per quæ ſtillans
pitui ta,linguamque irrigans in parte illa an. teriori,bleſam locutionem facit;;
vnde bleſi, & ſemilingues fiunt: quod fi hæc non eflent haud balbutarent,
licet à ca pite copiofa defcéderet pituita, vtmul tis contingit, quiex hac
tamné balbi non fiunt.Quare fententiaHippocratis2.A phor.32.malè verificatur,
cum afferit, balbos ob frigidam, humidamque ca pitis intemperiem fluxu tentari:
Auxio. enim talis & Balbis, & non Balbis fuc cedit: concurrit tamen hæc
fluxio, vt caufa remota, qua aliquando cum pro zima,dicitur affe &tum
facere poffe, fi. iunctatuerit:: fola autem facere nequit. vemale
Hippocrates,& alijopinati ſunt ExSanctorio Sander.de pit.en.lib.3.
Morbosperniciofos; velmortem,veb affectus longitudineminducere. Jana ciuitate,
& in circum vicinis propè Neapolim perniciofifsimi orto funtmorbi,vbiſectis
aliquibus corpo, tibus, eorum Ventriculus bilis copiaz, vitellinæ plenus
inuentuseft, eiuſque: tunicæ, & inteſtina eodem colore per tincta viſa
ſunt. Meatusqui ad fellis; chiftim protendit, ab humoribuscraf fis, viſcoſis,
& tenacibus obftru & us ea. rat. Fellis veſica diſſecta, bilis flaua
haud inuenta eſt; fed eius vice atra, & inſtar atramenti nigerrima.Hepar
quo ad externam partem album erat, in in terna autem nigrum, &atrum, veluti
carbo accenſus, & extindus. Langueno tes,in febrium initio,vomitu,
&nauſea, moleftabantur. Eorum lotia craſla icte. rica, & fubrubra
ſemper erant. Omnes. ferè erant icterici, & longo tempore,ſi: qui
euadebant,indigebant, vt fanitatem acquirerent, Ex -Io. Bapt:Cauallario deMore
bo Nolano, ſeu demorbo epidemiali Lupicur paucireperiantur, ouess autem multa
Tidetur quafi abftrufum illud quxar, aucs autem multæ?'profecto in partu plures
lupaedit catulos,quamouis,quæ vnicum, vt plurimum parit; Inſuper o. ues, &
agni in hominú alimoniam con tinuo occiduntur; luporum autem caro eſui apta non
probatur; nihilominus Q. ues-agni, & arietes ſemper in maioriny mero
reperiuntur, quă lupi.Huius cau fa, prima eftDei bonitas, qui tam imma ne
animal in eius ſpecie excrefcere non permittit, in facra enim Gen. c. 7.Noe, vt
ex omnibus animantibusnūdis fepa, tena, & feptenamaſculum, & foeminam
in arcam tolleret monituseft:ex immu dis vero duo, & duomaſculum, & foe
minam. Secunda cauſa luporum eft faga citas, & in propriam
ſpeciemimmanitas. Hi enim;cum rationesviuedi deficiunt, ob cibi inopiam in
multo numero con ueniunt:atque in circulo vnus poft aliú currit;vt apud vulgum
á villicisparatur ludus,diciturque Řotalupo;primusau tem,qui viribus
deſtirutus, currere ne. quit &in terram cadit,fit aliorum cibus,
renouaturque ludus ad omnium faturi taté.Hæceſt poitísimaratio huius ſpeci Vhelin
ei decremen i, alius enim comedit alii um. Ex Aeliano vt reor, Antimonij in vitrum
reductio, eiuſ quevires in medicina. 7ltri ſtibium,quod in longis, & dif
ficilibus morbis propinatur, in e. pilepfia fcilicet,melarcholia,podagra,
elephanticis, reſolutione, in febribus quotidianis,tertianis, &
quartanis,peſti fentia correptis, venenatis, hydropicis, tæphaleis, ictericis,
& fimilibus; robu ſtis tamen corporibus, ita præparatur. Stibiū, quod ex
auri fodinis colligitur, in puluerem tenuiflimum contunditur, teriturq; &
fupra ignem in fi &tilio, rude ferrea,aut cochleari continuo agitando
vritur, vſquedum omnis humor,ac fu mus euaneſcat, quod in ſex,aut octo ho rarum
fpatio expeditur:deinde calx có teritur, carilloque impoſita,in fornacē inter
candentes carbones collocatur, & igne luculentiſsimo vrgetur,dū liqueſ. cat
picisiftar,poftea ſuper marnorfun ditur,atq; fic ex Stibij vncirs duodecim, vitri
ipfius hyacinthi modo pellucidi, wacja M vncias quinque coliges. Andernacus Co
ment-z.Dialog.7.de nou. vet.med. Solo Metronchita auxilio mulieres
offepragnantes (omiſsis ceterisindio cys)experimur. Vlta apud fcriptores,
quibusin primis menfibus mulieré præge nantem comprehendere valeamus, inu.
dicia reperiuntur.Dienntmulti,lorij tab. fpe &tione grauidas nofci;fillud
album, clarumque fuerit,in eoque atomi afcen dentes, &
defcendentesapparuerint. Alt ex ſuppreſsis menſibus,deie &to appeti. tu,vomitu,
& nauſea ante prandiumid conſequuntur.Nonnulliex la & te in.ma
millis,ex arterijs gulæ fi plus iuſto pul fant,ex lentiginibus,fi in mulieris
facie oriútur,ex tumefa & is mámillis, & a ful co earú capitú colore
pregnátes venatur. Cæteri tú ex his, tú ex pódese circa pe dé,ex: vmbilici
egreſſu, ſiin dies fit ma ior, ex tumefa &tis venis, quæ vidétur in nariú
angulis iuxta lachrimalia. Obfte trices.digitisexperiútur an vteriorificiáfue-fat
claufum, vel apertum, ex claufo te nim grauidationem patefaciunt. Non défunt
alij, qui Hippocratis Aphorifs mis confiſi hydromel, & fuffumigia e x
periuntur,epoto enim hydromelle poſt cenam, fi tormina fequentur arguunt
prægnantem eſſe mulierem.-Siilia fuf fumigio acuta per pudenda vfa fuerit,
fiadnaresodores non perueniunt ', in dicant vtero eſſe gerentem.Hæc autem
figna, quia pathognomica non funt ve lúti futilia reijcimus,& tanquam
abſurdaad meros Empiricos committimus. Nonenim ex lótij afpe & u vere mulie
rem efle prægnantem diuinare poſlumus,nam meatus vrinarius cum vtero:
nihilcommunehabet,lotijque claritasy; albedo,& bulloſa granula in eo,poflunt
morbosetiam ſignificare, vtin cachochimo corpore ſæpius obſeruamus; hoc itaque
indicium prægnantium verum non eſt:Nonexmenſibus ſuppreſsis,nó ex vomita,
&nauſea, ſiue appetitus de iectione hoc conſequimur: quia affc & i
oneshęc ex multiscaufis, in m ulieribus, quæ pregnantes non funt, affe
&tiones e uenirepoffunt. Non ex lacte in mam millis; quia id etiá virgines
habere pof Lunt,vt voluit Hippocr.Inſuper inult mulieresin primis
menfibuslacinon ha bent: lacergo non eſt grauidationis ved irum indicium
Pulſatio arteriarum gule, ſolito crebrior conceptum peculiariter haud
arguit,quia ex retentismenfibus, {plenis & ventris tumore & ex pituita
in -pe &tore colle &ta etiam fieri poteft.Len tigenes non in folo
conceptuapparent,:: quippeſignumihoc,neque omnibus,nes queſemper competit,
& in nonprægnā. tibusetiamifta fiunt.Mammillæ tumes fa &tæ,earumque
capitum fuſcus color, communiafignafunt &retentis menfi bus,&
prægnantibus.Pondus circa pe & en,non in grauidismodò fed, in rete tis
menfibus, in mola, & veficæ calculo obſeruatur, Ymbilici egreffusex mul 6
tis caufis præter naturam fieripoteſt,nó ergo peculiare grauidarú indicium eft,
Yenæ tumefadęin nariú angulis iuxta lachrimalia, non in grauidis.modo ap 7 parent,
fed in quolibet abdomin's &fplenis tumore,& in occlulis menfi bus.
Obſtetrices anatomiæ ignaræ de queunt intimumVteri orificium tange
sc,licetmanibuscontractent,illud enim valdeà labijs matricis diftás eft,ipfe au
té externá Vteri tantummodo orifici um tractare poffunt, quod femper, &
grauidis, & non grauidis apertum ma net, experimentum Hippocratisde hy
dromelle, & acuto luftumigio non æter næveritatis eft, vtGalenus &
Auicenna comprobarunt. His itaque indicijs vere conceptum explorari non pofle
expla natumeft.cognoſcimus tamen ſigno e uidenti & infallibili indicio
prægnan tes mulieresin primismenfibusMitren chitæ fue Specilli, quo liquores in
Vte rum inijciuntur,auxilio.hoc apud vete. resin magno vſu erat. Profecto;li
illius in foramen Vteriexternum apicemin. mittimus, quod fumma cum dexterita te
finiftræ manusdigito indice inuenie. mus non enim quilibet inexpertus in
yenirefciet, eft ſiquidem externum V. çeri foramé in vuluæ apice particula obe
longa, & duriuſcula, quæ exigui penis puerorum exprimit imaginem)ſi ex pice
ſpecilli liquor aliquis fuauiſsimus ficut efle vini tenuiſsimi pauxillumine
forte exiſtente coneep'u fequatur:abt ortus) exprimitur, breui tractu votum I
affequemur, Sienim obturatum eſt in timum vteri foramen, quod fit concep tu
pera & o liquor Vterum non ingredi gur,& mulier faftidij njhil
perfentiet. Sin autem ex intromiſlo liquore velli, cationem paruam pertulerit
mulier: quod facile fiet ex maximo ſenſu parti um vteri,vưiquegrauida non erit;
& V teri intimum foramenapertum reperiea tür, vt experientia liquoris
oftendet. Sand.Sanctor.lib.1.de vitand error. Periculofum eft pifces frixesin
humido locarefor matos fomedere; Nter magna venena piſciú frixorú,
quireſeruantur inhumido, vel qui Aeterint cooperti calido vaſculo, eſus eft;bi
enim in lethiferú cómutantur ver nenú, &fymptomata pernicioforú fun gorum
corporibus inferút, quæ quan doq; non ftatim,ſed poft diem, vel bi duum
eueniunt: oportet igitur frixos pifces in loco aperto,vtfrigeant, demita tere,
fi venenimalitiam cupimus euita re.Ex ArnoldoVittan.lib.de venenis, 10. Lałtis
balneum procorporis decoratie onemultum præftare. Pud veteres lactis Balneum
max A idve vu, illiusfiquidem lotione,corpora, & candore, & venuſta te
vigebant. Hinc memoriæ proditum eſt Poppeiam Neronis vxorem quin gentas ſecum
aſellas ducere conſueuifle, quarü lacte,vt candefieret, totü corpus
balneabatur. Mercurialis de Decoratione. Germantantiquitùs corporis firmi
tadinimaximèvacabant. M Agna profe &to faude Germano rum conſuetudo,digna
iudicatur in corporum hominum vigore confir mando:ijenim legem habuerunt,neant
te ætatis vigelimum annum, quiſpianti Venereis amplexibus commiſceretur, recte
exiftimantes corporum viresà nim mis tempeſtivo coitu eneruari.Cefar 6. de
belloGalico. Fæminas vtero gerentes, libenter: marem admittere:bruta autem
grauida nequaquam. ! Olie Vam diſsideatmulier à brutis gra uidationis tempore,
bene nouit A rift.7.de biſt. animal. cap. 4. Hæc enim ſigrauida clt, marem
admittit,brutoru vero omniumſola equa coitum patitur à conceptų, reliqua
autemminime. Ma nifeftifsimum eſthoc in ſpeciehumana mulierem grauidam coitum
pati, & ap petere. Cicutam,vterinum furoremex ": tinguere. Icet cicuta
inter frigida connume. retur venena, præcipuè quæ in quis, &lacubus
inuenitur,furoris tamen vterini, fiue Satyriaſis remedium it. Hic affectus
Veneris eſt immoderatus appetitus, cum vteriardore, & delirio, Narrat Diuus
Baſilius quaſdam vidifle fæminas, quæ Cicutæ potione rabioſas capiditates
extinxerunt.Hoc legiturs. Liebe Homil.fup.Hexaemeron,cuiusverbanotr nulli
intelligunt de ciborum appetitu, ego tamen potiusadfurorem vterinum, &ad
renereos incentiuosappetitus de ducerem, cuius auxilio compefcuntur: quippe
Athenienſes facerdotes cicutæ vfu,libidinisincendia extinguere con
ſueuiſſeproditum eſt. Variolas &morbillosmorbos effe no yos, &
hereditaria, &paterna prom prietate vagari. Agna eft difcordia inter
feripto, origine. Aflerunt multi, hos fub nomi neexanthematum, veteres
intellexiſſe, cauſaſque illorum reliquias efle excre mentifanguinis menftrui,
quo nutriun fur fætusin vtero, & naturam, fiue calo. remnaturalem, ita
exprimunt materiá, & efficientem. Alij minimeà veteribus fuille cognitos
volunt, digladiantur que:num vitio.coli,vel ab internis cor. poris principijs
apparuerint: quippe Arabes, quorú tempore cæpiffe hic mor buscreditur, eos
peftem efle, fierique in pefte, & à corrupto cælo contendunt. de Equidem
ante Arabum tempora nul lus-reperitur au & or, à quo morbos hos LT aut
generatos, aut clare explicatos ha beamus.Proptereamulti latini, &non nulli
inter ipſos Arabes, propter labem menſtrualem, lactis corruptionem, vi &tus
rationem, & alias cauſas fieri fcrip ferunt.In tanta rerú difficultate,
& ob > fcuritate.Hieronymus Mercurialis vir d octiſsimus, hosefle
morbos hæridita o rios,ortúqueà cæli vitio temporeſcrip e torum Arabum, &
proinde à veteribus haud fuifle cognitos enucleauit. Adhu ius viri opinionem
libenter deuenie, quippęſi à menftruivitio, homines in ficerentur, quia hocab
Euæ peccato à mundiorigine fempiternum fuit,debu iffent homines hac menftruorum
labe conta&i ſemper Variolas, & Morbillos pari,tamcn vec inprimaætate,
nec poſt Noe,nec ante ſcriptores Arabes quem piam hos habuiſle, apertè legitur.
Aperiunt iſtorú fundamentum efleiro walidú bruta fanguinea,hæc enim (teſti
monio Arift.6.de hiſtor.animal. 18. ) mé ſtruas purgationes habent, & inter
cæte. ra Equus,Canis, & Alinus,tamen hæc à Variolis, & Morbillis non
tentantur. At quodhuius reimagis negotium conua lidat,eft,Indosante
Hifpanorútranſitú nequaquã Variolas paſſos, dirco non à reliquiis nutrimentià
menſtruo fangui ne,velab iſtius excremento ortú ducunt Morbilli; quia ſià tali
fuifsét variolarú, morbillorúq; origines,vtiq;ij hos mor bos experti fuiſſent.
Legitur apud Ra mufiúIndiæ incolas,vitioCęliplurimos Variolis fuiffe extinctos,
eoq;tempore, quo noftriáb illis gallicam luem accepe runt, cordemmet viciſsim à
noftris Va riolas, & Morbillos recepiſſe.Suntergo hi morbi noui à Cælo
productiprimò, cuius vitio adco homines fædati funt, vtin pofterosper
hæreditatem maliſée minarias cauſas tranſmittant, proinde morbi hæreditarij
dici merentur, quia paterna proprietate vagantur. Ex Mer. caridi. A1 th
Dearaneorum telis,earumque ufuo inmedicina. Iro artificio Araneus telas ordi M
tur, quibusmufcaspro vi&u ta. piat, hasad Tertianę febris circuitusde
pellendos,multi præftantes, & celébres tempeftatis noſtremedici,non fine
feli ci fucceflu in vfum præſtitere:fiquidem exiis, & populeo vnguento
pilulas pam rant,corporiſque locis,horisaliquot an, - te acceſsionem,in quibus
arteriariume uidens deprehenditur pulfátio, colligātas &relinquunt; indė
votum conſequun. tur. Ioannes Moibanus. - Natur& cautela inmenftrualimulier
rum fanguine purgandomaxi-, ma eft, MalenAgna eſt, in depurandis femina rum
corporibus à menſtruali luc, naturæ fagacitas; quippe fi oculos habuerit
meatus, quibus lingulis men fibus illam deponere conſueuerit,nouas adi illius
expulfionem vias molitur. Proptera.multæ, ex oculis cruentas, laie.
chrymas,aliæ ex narium venis farguinis profluuium emisêre,nonnullæ ſputa ru
bentia pafſæ ſuntin menftruorum cefla tione.Ipfein quadam ancilla noſtra, cui
menſtrua occlufa erant, ex gingiuisſan guinem profundere obferuati.Atquod
magnam infert admirationem, multæ per minimum manusdigitum,& per an nularem
fingulis menfibusfanguinis fu. fionem habuerunt,vt in religiofa qua dama
foeminanon menſtruante ter in fin niſtra manu Ludouicus Mercatus fami. geratus
medicus obferuauit. Inter rutam do braſsicam nullam imao effe antipathiam.
Xſèriptoribus in re ruſtica malti, fi. fecus rutam feratur, braſsicam illico
arefcere tradunt. Aliam von adducant cauſam, & rationem, quam antipathiam,
& diſparitatem quandam inter talium naturam.F utile autem eſt hotum argua.
mentum, nulla enim inter rutam, & braſsicam.contrarietas eft, quia tamen
alte. Elec NO altera prope alteram
areſcit, id in cauſam eſle poteft,quiavtraque calida, & ficca - eft, inde
facile euenire poteft, vt ob humiditátis inopiam altera, vel amba i ariditate
perdantur. Pediculos morientium corpora miris Jagacitate relinquere. on leue à
Medicis præfagium à pediculis in grauibus hominum valetudinibusſumitur. Hi
profe &to in moritüris; quandờadeo intenfà eft huis morum corruptela, ve
calor innaus re foluatur, vel putreſcat, circaventricule regionem, vel
fub-mento, vbi maior eft " ealiditas congregantur,parteſque extrbó mas,
tanquam calore proprio orbatasderelinquunt. Quodcalorem proprium penitus
exſolui cognouerint, ab infirmi corpore mira celeritate longius abeſle:
confpiciuntur. Lemnius. De Achatis lapidismirabili. natura A Chates lapis, qui
ex India fertur, tum coloribus diuerſis, tum ve D4 piss TA m nis variari confpicitur, ex quorum in..
terſectione diuerlæ imagines multoties, fabricamtur.Quod autem mirabilius eft,
nuncferarum genera, flores, aut nemo ra,nuncvolucres, autRegum naturales, hic
lapis portendir effigies: quippe fer tur in Achate Pyrrhi Regis, & capuri,
& feptem arbores in quadam planitie ap parentes extitiſſe, Ex Camillo Leonardo
de. lapidib. Ferarum natura in hominibus mie rum in modum deteftanda.. On eſt à
ratione alienum, quod de Attila circumfertur, quod Canis more latraſſet: quippe
Ioannes; Langius clari nominis medicus ab equi-. tibusComitis Palatini
feaudiuifle retu lit, quod in Auftria homine, qui latra. tu,ac curlus
pernicitatecumcanibus co tenderet, & cũillisin ſyluis illæfus ve
naretur,vidiffent. Hæcauténaturaabfq; dubio deteſtanda eft, quippe tales. im
manes ſunt, & in hominum occiſiones procliues, vtAttila crudeliſsimus fuit,
NRege in es Ees & in viuentium cædes pronus, à quo tot Vrbes, & populi
vaſtati ſunt.. Non modòinfæminaslaſcinire homi: nesverum, etiam brutacernuntur.
Omines laſciuire in fæminas, nec nouum,nec inauditum eft cum anebo fub humana
fpecie contineantur. Quod autem bruta in eafdem laſciuiant, mirabile
eft,Plutarchus in Dialog. Ele phantem in Alexandria fæminam qua- - dam,quæ
coronas ſutiles componebat, fuiffeque Ariſtophano Grammatico rio ualem,
adamaſſe retulit: A micę,per pla team tranſiens Elephas,&poma, & frum
& us donabat, multiſque indicijs, & a morem, & ad fervitutem
promptitudi nem declarabat,læpeque à latereafside bat, & laſciuè mammarum
loca tange bat,Serpens etiam quidam (teſtimonio eiuſdem )puellam ardentiſsimè
adama uit,no & u ad illam accedebat, placide. - que amplectebatur, &à
latere dormie bat, luce autem aduentante nulla illata kelione
diſcedebat.Parentes,ne à ſerpé tele. t n itas te læderetur, aliò puellam
afportarunt: Ille autem ad amicam vltimo peruenit, quá
nonmorefolito'amplexa,ſed qui dam amantium ira in illam irruit, ma nuſquepuellæ
nodis vinciens,caudæ exe tremitate amicæ tibias verberebat, profecto præreritę
fügæ,atqueablentiæ: iniuriam vlcifci videbatur: Quomodofamine vterogerentes:
conceptumvaleantoccultare. Aximam Sabini cuiuſdam Roe mani vxoris in occultando
conceptu referam ſagacitatem, quo præfi dioaliæ confimiliter,fi optabuntfæmiö.
næ à conceptionis.indicijs faciliter oe cultabuntur.Illa quidé dû aliæ
mulieres; fecum lauabantur ventris tumorem ce.. Jare cupiens, vnguento, quo
ruffas, & aureascomas.reddebat,ab vtero corpus vniuerſumlinire folebat.
Illius erat vis pinguitudinem, ſiue carnis inffationem, aut laxitatem efficere,
propterea com. Go: lange in corporis particulis vtebatur, Hlud
tumeftumrepletumque redde MA bat, ventriſque tumorem ' occultabat. Parabatur(vt'
puto )'vnguentum ex res bus rubificairtibus,& puftulas inducend tibus,calcefcilicet,auripigmento,
tiap s. fia, & lulphure, hæc enim alijs rebus co --- mifta veteres ad
capillorum cultum cad 1 piebát,ſin a.in aliqua corporisparticula applicantur ex
magna caloris vijaut hu mores ex alto ad fummum:trahuntur; aut ipfis
fuſis.gignuntur:flatus cutis, & extima corporisſuperficies attollitur,
& in maiorem molem ducitur.Ex Plutarc... inlib - epwTikā. Fructuum,
vinearum,iumentorumga interitus praſagium. Agnun à mori germinatione ca
Lpiturpræſagium, mörus enim. ideo à Theophraſto prudentiſsima vocatur, quia
omnium nouiſsima gera minat, & pruinis non tangitur: Idcirco fructus, &
Vineæ à mori germia minationeà pruinis liberi fünt. Ea tam menquando à pruina
lædi contingit(fia: D G quidemosi M Ty & fiquidem læſam in Aegypto, vt in
pſala mo77 legimusMoyfis, tempore prodia tur fuiſſe )Colimaximamarguitintema
periem,& proinde fructuum, vinearum. que interitum declarat.Atmaius ab vl.
mo &perſicopræfagium capimus, quip pèvlmi, & perfici, folia, præter
tempus decidentia,peftem inomniiumentorű,. &pecuino genere præfagiűt. Ex
Cardano., Fætoremextinéta, lucerna vteroge Trentibus,infeftumeffe,& ini.
micuin... Dor extinctæ lucernægrauis,adeo tur, vt in abortum faciliter
conducat. Id: alleruit Ariſtot.8.de hiſt. animal.c.24. vbi non modo mulierés
grauidas,,verú. didit.Profecto malus odor fi odor. fi prægnana. tjú corpora
ingreditur, quia fætus im becilliseft, & à quolibet alteråtur,facili
negotio inficitur, eius caro tenerrima, & ſpiritus inde abortusſequitur..
At no Kemelextinctalucernæ fætor perniciē. quoque Ila He 4 i quoquc hominibus
attulit, vt carbones in cameris teſtudinatis facere accenficó. fueuerunt. Duos
monachos retulit Pe. trus Foreftus in obferunt. medicin..cum nodu cellam
ceruiliariamintrașent, vt fæcem cbullientem exportarent,(fortè candela extincta
)cum exitum non inue nirent,ſuffocatosfuiffe,ac mancmortu. os effe inuentos.
Infania,&furori àfolanofluatico contrattis vinum potentiſsimnmfora gulare
eſe prafidium. Olamur. fyluaticum, quodà multis Belladonna dicitur,tantæ eft
immani tatis,vtinlaniam, &furorem hominibus eiusacinos.comedentibusinducat,
AC cidit cuidam (referente. Hieron. Trago dib.i.hiftor. ftirp.) quiin fylua
plantam vi. derat talis calus: hicmultos decerpfit acinos, & deuorauit:
altera verò die in tantam inſaniam,& furorem deuenit, vt plerique illum à
Dæmone obſeſlú cre derent.Intellecto tamenmorbo, vinum fortiſsimumà. Trago illi
propinatum Spelaria D? esto) eft, quo
facto conſopitus,paulòpoft con ualuit, & abfquelslione vixit, Lolium
tritico ", alýſque cerealibus: commiftum varia hominibusfymptom mata
attulille. Anis,in quo- lolium fuerit, ſtuporem quendam,ac veluti temulentiam
efi tantibusparit cum fòmno inexpugna. bili.Id Gatenus afferuit lib.1.de
Aliment: facult.Etenim (inquit )cum anni confti tutio praua afiquando fuiffet,
lolium tritico affatim ispaſci contigit, quo haud feparato, quod paucus effet
tritici prouentus ftatim quidem multis caput dolere cæpit ineunte æſtate in
cutemula torum,qui comederant vlcera; & alia fymptomatafunt fubfequuta, quæ
fuc corum.prauitatem indicabant, Lolijta. mennocumento acetum efle præſenta
Deum remedium iudicatur. Quare tum Htritico,tum abalijs feminibus cerealio
busdiligenterloliumfeparandum eſt. Scorpio Scorpioidem herbam Scorpionum: iltus
feliciter fanara. Irabilis eft herbæ Scorpioidis in: M Scorpiones potentia,illi
quidem huius tactu,exocculta diſcordia exani. mantur, &intermoriuntur,
tantam in ter eosanthiphatiam natura indidit.As' quodmirabilius eſt exanimati
Scorpi. ones,fi Hellebori albi radice tanguntur; ad vitamreuocantur.
Propterea.Scorpi oides,Scorpionum ictibus impoſita fe liciter & citilsimè
illorum virus mor, - tificat,viculque perſanat ex, cuius prz. tentancain illos
virtute à Scorpione now. men fumpfit, & Scorpioidesdi&ta eft.
Mirabilesin biomiwibus proprietatesquase doger adfuiffe. Dmiranda profe &to
in homini bus quandoque vifa funt. Regem Pyrrhum aiuntpollicemindextro pede
natura habuifle, cuius, taču lies nelis medebatur: bunc cremari eum religae A
réliquo corpore haud potuifle perhibet.. De Samplone legitur infacrisLitteris,
quod in capillitio mirabilem contineret virtutem, qua aduerfis quibuslibet re
fiftere audebat. Veſpaſianūtactu.& fali ua, & fine his quandoquenon
paucis af feátibusmedicatumeffe tradunt.Ego e. quidem idiotam cognoui hominē,
qui Ipuitione ſola in osinfirmi ranulas per fanabat, &licet primoafpe &
u a&u De Monisid perfeciffe dubitauerim, quieui tamen,cum fimpliciter
curamagere illú: cognouerim. Dolorem colicum Bubulo ftercore per Sanari. Agnam
Bubulo ſtercori" dolorem colicum fanandi indidit efficaciamquippè apud
fcriptores legi, & à fide dignis audiuiffe viris afferit Geſnerus, illius
potu complures ruſti.. cos fuiſſe liberatos,qui enim ftercus ari dú in iuſculo
bibit, ftatim fanatur. Hinc apud multos mosortus eft,vt nonnulli nonmodo ipſum
excremét aridum,ve rum. 1 E1 uum recens,
& expreflum iufculis ebi bant, & melius habeant. Ego quidéru fticis
tantummodo remedium præbe rem, nobilibus vero, ne nausean indu cerem,non
auderem,cum nobiliora pro ijs habeamus præfidia, ſufficerent tali.. bus ex
eodem ftercore cataplafmata, vt enim reor,ex proprietate tale auxilium colico
dolore vexatis,ſubire confueuit. Epilepſiamfrumafqueverbena ako xilio
evaneſcere. Aturalis Magiæ profeſſoresverbes: nam (Sole Arietemi ) colle &
am graniſque pæoniæ fociatam, contritam, & ex vino albo hauftam per colato,
epilepticosinftar miraculi fana. re prodidere.Hoc exHermetetraditur.
Nop.minoreft ejuſdem radicis efficacia, quippe collo eius appenfa, qui ſtrumas,
patitur,mirū,ac infperatum adfert pra fidiumReferunt Aſtrologi hanc Vene ri
effe dicatú, ffrumaſque delere,quod Veneri ancilletur, quæ collo præeft,
propter Taurum eius domicilium.. Ex. Durante inHerb. N 1 1 1 1 i Arbores
quandoque in lapides commutantur: N Danico mari, iuxta Lubecenfem vrbem Alberti
Magni'ætate, arboris ramus inkientus eft cum Nido, & pullis, qui cum in
lapidem omnes, cum arboré & nido eflent conuerfi,purpureum ta = men,(vtipfe
retulit Jadhuc colorem fa um retinebant. Georgius Agricola eti am memoriæ
tradidit,in Elpogano tra étu, iuxta oppidum à Falconibus cog nominatum, Abietes
integras cum cor tice in lapides verſås elle,atque, quod maius eft, in
rimisetiam porphyritidem Japidem continuifle, quod maximè foc Tertiſsimæ naturæ
operibus tribuen dum eſt. Bardanamaiorcum mulieris piero magnam baber
ſympathiami quæ MPerfomatia diciturinmulieris yra rum, magnaque eft cum illo
eius fym. pathia, quippe illius foliun lämmo ca. pite geftatum matricem furſum
tollit, fub planta pedis deorſum. Propterea huiufmodipræfidium aduerſus matri
cis ſuffocationes,præcipitationes, ac tiſo locationes præſtantiſsimum à multis
iudicatur. Ex Mizaldo, Quomodo literas axrei colorispinger. valeanks. VI T
literas aurei coloris habere pole fimus,auri ſolia quot libuerit, eli gemus
quibns mellis tres vel quatuor guttas miſcebimus, hæc infimul conte renda funt.
ad vnguenti fpiſsitudinem, in ofleoque vaſculo conferuanda, Cum autem ad
ſcribendum.huiuſmodi mir ftura vti volumus,aquæ gemmaræ ali quid addendum eſt;
vt operi liquorap tior exiftat:ita profe & ò litteras habebi.
musincomparabiles. Ex Alex. Pedemono Lano. Qyomodoveftigia; & défórmitates
vario lis,&morbillis bomines poſsint. euitari. Ne 92 E morbillos. in facie, corporeque hominum
remaneant, expertifsimum apud me, quod in publicam vtilitatem placuit
aperire,eftpreſidium,quo vten tes pueri puella quedeformidate, quæ ab ijs
relinquitur, carebunt. Cum va riolæ, fiuemorbillimartruerint, & in medio
oculi quafi albicantes enricu erint, quod eft fignum bonæ matura tionis,omni
die bis oleo amygdalarum dulcium recers. expreffo plura leuiter oblinire
oportet, donecexſiccentur, ita profe & ò, vt fæpius experiri libuit, ve
Itigia non remanebunt; & quod melius eft,oleum hoc'excoriatas variolasmira.
bilíter ad fanitatem perducit. Quantum in hominibus: vfus vene norum valeat.
Ithridates fæpè veneno epoto, adeo venenorum tis auxilijs corpus
diſpoſuit,vtcitra of fenfam venena ebiberet. Cum autem à Pompeio profiigatus
eſſet,atque in ex trema:I trema fortunæ miſeria conſtitutus, è vi e taillæſus
diſcedere feſtinabat, quaprop ter venenum hauſit, & pluſquam fatis
eſſet,nectamen emori potuit,cum con tinuus venenorum vſus in hominum naturam
pertranſeat.Ex Plinio. Inhominibus vermes figura maximè differunt. V 23 5
admodum funt differentes, quippe in quodam Antoniano CanonicoMon tanus
obſeruauit.Hiccolico dolore tor quebatur, cuius moleftia Hierameram
deuorauit,vermemque deiecit.Erat ille viridis, figura lacerti, ſed craſsior,
hirfu. tusq;, & pedibus quatuor innexus.Breui tempore à fera propulſa,
canonicus obia ic:contra illa in vitrea phiala aql a plena, per menſes aliquot
viua ſuperſtitit. Ex codemMontano lib.4.6.19. Calculusrenum, veficæque in homi
mibus, quopacto confumi valeat. Lapil t
Apillus, qui in Tauri veſica,men {e Maio reperitur, magnam habet in conſumendo
calculo efficacia. Hic fi vino imponitur, mutato paululum ſa pore, colorem
croceum contrahit. De hocvino quotidierecens effufo, donec lapis vino
impofitusomnino conſum peus lit, à calculo infirmos bibere opor. tet. Hac enim
ratione, nó modo calculú comminui, verum etiam conſumi mul. tos experientia
edocuit. Ex Quercetane. Filiosà parentibusfignum aliquod recipere,
vulgatifsimumet. " Ilii omnes patrium aliquid, aut aui tum ad vnguema
retinere folent,ver Tucam ſcilicet, vel cicatricem, vel effi giem,velmores,
autmanuum lineas.In domo noftra omnes à parentibus verru cam in brachio
habuimus, & Marcellus filius meus ex me confimiliter. Proue niunt hæc à
feminum miſcela, ſpiritu umquevtriuſq; parentis ſeminaliú,auo rumq; effuſione.
Proptera etiá ſuccedit, File (fire fi feminain filiorum generatione benc
mifcentur,atque in minimas partesiun guntur) vt fætus robuſti euadant. Hac enim
rationefpurij robuftiores exiſtunt quoniam ob amoris vehementiam, ve triuſque
ſemina multum, beneque.co. ráiſcentur:Ex Cardano de subtit. go D: Marerubrùm in
plantisproducendis terre vigorem obtinuiffe videtur, to Adel D mare rubrum
afbos nulla in terra prouenit,præter fpinam, quç dipras vocatur. hęc autem
propter fer uores, &aquę penuriam rara etiam eſt, quippe non nifi quarto,
quintoue anno pluit, & tuncquidem impetuoſe, breai quam te?mpore. At- in
mariexeunt plantz, cat quelaurum & oleam appellant.Läu rus arię fimilis in
toto eft, olea folio ta tum fru & um oleę proximuin his noftris oliuis
parit, & lachrymam -emittit,ex qua medici, Irftendo fanguini medica Hentủ
compopunt: Cú auteaquỵ plures inceflerit,fúgi iuxta mare quodãin loco crum HM
erumpunt,qui Sole tacti, in lapidem co mutantur. Ex Tbeophr.in 4. de hift.plan.
Incapillorum defluuio ex Hydrargynı lac epotum peculiare iudicatur auxilium..
rifabris capillorum defluuium in ducere conſueuit, aliaque ſymptomata; quæ
tales in mortis pericula conducunt. Pro huius immanitate, vtiin potu capri no
lacte, illudque cum pane commede re,fingulare & expertum eft remedium;
quippe ſedata illius vi,atque potentia,à veneni morte liberanturægri, &
piliite rum nafcuntur. Ex Foreſto in obſeruat.med. Inter Lupum, Agnum maximam
effe antipathiam. Tantralis difcordia,vt ipfisemor., tuis in eorum chordis id
etiä eluceſcat. Si enim ex Lupi, Agnique inteſtinis, chordæ conficiuntur, in
inftrumentis muſicis applicatas minime concentum vocefque lonoras reddere,fed continuo
tadas Bo ta &tas dillonare obſeruatum eft:at quod mirabilius eſt, agninas
chordas à Lupi funiculis corrodi, & confumi, fi fimul n repofitæ
fuerint,comprobatum eſt. I demde Aquilæ, &anſerum plumis fer tur, Aquilæ
enim pluma naturali antia pathia anſerinas poſitæ interplamas, vt docuit
experientia eas conlumunt & corrodunt, Quadam pro Epilepſia admiranda
reperiun. RiaabHoratio Augenio ioluiscá. (ult.pro epilepfia curanda magne
efficacię proponuntur remedia. Primo lococarbo eftille odoratus, qui fub Ar
timiſiç radicibusęſtiuo folftitio colligi tur, quiper dies40.infirmis,aliquocon
ucnienti liquore exhibendus eft mane ieiuno ſtomacho.confircor ego cuidam,
epileptico huiuſmodi remedium ada modumprofuiſſeSecundo loco,Mufte lę fanguis
adducitur, hic pręſtantiſsi. mus proepilepfia ſananda cenſetur,au. joris
experimento, vidit enim fanatum E epilep probauit, fanari confueuit. Colligitur
epilepticum fupra 25.annum,ſolo huius fanguinis vfu potati ſcilicet ftatim at
queè venis exiſtadvoc.ij. cum vnaacer. ti:Vltimo loco tefticuli Apri,aut faltem
Verris fiueSuis domeſtici-Venere vtéris; &tefticuliGalliexiccati in furno
mira biles cenfentur;hi in puluerem tenuiſsi. mèredađi, cum zuccaro mifcentur,
& decem continuis diebus epilepticis ad drach.tres,cum aqualettonicæfelici
cũ fuccefsu.exhibent. Flatuofam inmembrisconuulfionem lignoce peſcoperfanari,
Onoulſio illa, quęà flatu in mufcus lis, & membrisoritur cum dolore, Chanc
noftrirampham,ſiue gramphum.yo cát)nodis ligneis à viſco, quod in quer.
cubus'adnafcitur, vt experientia com С. viſcuin aftiuo tempore,Sole in Lepois
fickere commorante,tunc enim perfectia onis complementumadeptum eft, Dc. bent
nodi ligneiillius, loco patienti fu perponi, vtitarimfiatus: diffugiat,pio gui
ficco, renuiq; prædirum eftlignum, * aut occulta ratione, vtvoluirCardanus
Confiteor,multis taleprælidium ad pre feruationem meconfuluiſie,votumque $
fuiſſe aſſequutosſola iſtius ligni tuſpen y fone. Annult ex bubalorum cornibus
| huiufmodi etiam dolores prohibere multa experientia, ex eodem Cardano i
obferuati ſunt. Quomodo nonnullorum animalium vent num corpora vostra
ingrediatur. Pedido Halangium cum aliquem momor. dit, quamuisparuum fit
animal,ex. - iftimare tamen debemus, venenum ex ipſius ore, primo quidem in
ſuperfici em,deinde vero in totum corpus defer ri, Præterea marina turturis,
ficuti, & terreni Scorpionis aculeus, quamuis ir extremam illam
acutiſsimamque par temfiniatur, vbi nullum foramen eft, per quod venenum deijci
pofsit,neceffe en eft vt excogitemus ſúbftantiá quianda ineſſe illi,aut
fpirituale,autAgidam,qnz E vt mole minima, ita facultate eft quam
maxima.Siquidécú nuper fuiſſet quida ict Scorpione, videormihi eſle(inquit)
percuſſus grandine:eratque omninofri gidus,frigidoq;fudore perfufus.Quip pe vbi
exicta parte,pertotam iplamce leriter diſtributa fuerit venenivis,con tingiteam,
endemrurſus.contactu,in fingulas ſubiectarumei partium recipi: mox ex illis
inalias continuas, done: in aliquam peruenerit principe:quo tem forémortis
periculum inftar. Ad hanc remin primis conferunt vincula parti bus fupernis
inie & a, abſciſsioque pare tium venenatarum. Noui equidem ru fticum,quiepoto
è viperis medicamen to, reſciſlo priusdigito euafit, ficut, & alium
quendamqui ſola ſectione circa medicamen eſt liberatus. Hac Galat. 3. deloc.
aff. Mirabile ad Strumas gurturis, ramicem, Adem44 Yemedium. Dmirandum remedium
ad ſtru. A mas. Cupreſsi foljaneque teneri. ora,neque duriora in puluerem com
di minties, tortiuo vino confperges, atque ita volutabis, dum in fæcis corpus
coe TH ant, inde fruma, velramex indecitur, pe tertio primum die foluitur medicamen
tum, contractum locum inuenies, quidie o gitis-exprimidebec rurfus ad tres dies
idem pharmacum applicabis,eodemque modofolues, &exprimes; feptimodie, vel
ad fummum pono, ſtrumæ velut miraculo abolebuntur. Valet etiam ada
ramicégutturis, parotidas,omnemdur se ritiem, & ædemata. Hie tollerininhere
fit.Chirurg.6... Peftilenti tempore in:er pracipua-prafidia: aeris
re&tificatio fummum iudicatur. Mnilaudedignus, omniq; decore admirandus
Hippocratesiudican dus eft,qui peſtem illam ex AEthiopia ad Græciam venientem,
non aliorepu lit auxilio, quá aeris purificatione.Præ cepit enim,vt per totam
ciuitatem ignes accenderétur; qui non è fimplici folum materia,fed etiã
beneolenti conftarent. Qua propter, & coronas odoriferas, florefquearomata,vnguenta
pinguiſsi magrati odoris, & alia iucundosodores fpirantia, ciues
igniſpargebant, quo paa Eto aer purusfa & useft,& ijà peſte tuti
fuerunt. Ea fuit magni Hippocratis dia ligentia. Ex Galeno. Portaldara fenuinis
contra lumbricas: magna estefficacia. Nlumbricis necandis nonmodòPon tulacz
aqua ftillatitia aptiſsima iudi.. catur,verum etiam illius femen.Narrat enin:
Arnaldus Villanoua, quendam puerum, dum effet in mortis periculo
Conſtitutuspropter lumbricorum mula titudinem drach.jem. feminis Portula cæ cum
lacte fumpfiffe,atque lumbricas multos emiſiſke,fuiffequeliberatum. Quorundam
animalium vita terminus con. ftitutus,quis fit. epusannis decem viuere fertur,
& Catus totidem. Capra o & o. Afinus triginta.Quisdecem: fed vir
gregisfæpè quindecim. Canis quatuordecim, & quandoque vigintiTaurus.
quindecim. Bos,quia caftratus,viginţi. Sus, & Pauo viginti
quinque.Equus-vigioti,&non punquam triginta, inuenti funt, quiad
quinquageſimum peruenerint.Colum biodo, vti etiam Turtures. Perdix vi. ginti
quinque, vt &Palumbus, qui non nunquam ad quadrageſimumperuenit. Ex Alberto
Låddoloresarticulares electuariano mirabile. Periam electuarium illud mirabia
le, quo ego in doloribusiun &tura rum, & in arthritide cum felici
fucceffua nor femel vfus fum. Huius auctor Pem trus Bayrus eft,licetipfe
Galenicompofitionem efle dicat in -lib.18: fuæ Praski. Confiteor fubito ſoluere
finemoleſtia, ignitum caloré extinguere, & membra patientis adeo
contemperare, vtmultas viderim, endédie, qua pharmacum acce. perant, à ſella ad
locú propriúſine alte rius auxilio languētes redire. Capiútur Hermos Qua
propter, & coronas odoriferas į floreſquearomata, vnguenta pinguiſsi
magrati odoris, & alia iucundosodores fpirantia, ciues igni ſpargebant,quo
paa cro aer purus fa & useft, &ijà peftetuti fuerunt. Ea fuit magni
Hippocratis dia ligentia. Ex Galeno.. Portulara feminis contra lumbricos. magna
est efficacia. Nlumbricis necandis nonmoddPon tulacæ aqua ftillatitia aptiſsima
iudim. catur,verum etiam illius femen. Narrat enin: Arnaldus Villanoua, quendam
puerum, dum eſſet in mortis periculo! Conſtitutuspropter lumbricorum mula
titudinem drach.jem. feminis Portula cæ cum lacte ſumpfiffe,atque lumbricas
multos emifiſke,fuifíeque liberatum. * Quorundam animalium vita terminus.com
ftitutus,quis fit. epusannis decem viuere fertur, & Catus totidem.
Capraodo. Alinus triginta.Quisdecem: fed virgregis læpè. quin io rabia quindecim.
Canis quatuordecim, & quandoqueviginti.Taurus quindecim. Bos,quia
caſtratus,viginti. Sus, & Pauo viginti quinque.Equus-viginti, & non
punquam triginta, inuentiſuật, qui ad quinquagefimum peruenerint.Colum biodo,
veietiam Turtures, Perdix vi. ginti quinque, vt &Palumbus, qui nons nunquam
ad quadrageſimum peruenit. Ex Alberto Laddolores articulares electisarianos mirabile.
le,quo ego in doloribus iun & tura rum, & in arthritide cum felici
fucceffu non femel vfus fum. Huius auctor Pew trus Bayrus eft, licetipſe
Galenicompo fitionem efle dicat in lib.18. fuæ Brasti. Confiteor ſubito ſoluere
ſinemoleſtia, ignitum caloré extinguere, & membra patientis adeo
contemperare,vtmultos viderim, eadédie, quapharmacum acce perant, àſella ad
locú propriú fine alte rius auxilio languētes redire. Capiútur Hermodactylorum
alborum à cordis fuperiorimundatorum, & Diagridii an..
drach.ij.cofti,cymini,zinziberis,cario phyllorum an.dracij.trita, &
cribellata conficianturcum fyrupo fa & o exmelle, & vinoalbo inuicem
coctis,donec ſyru. pi bene codi formam recipiant. Dofis eſtà drach. ij.ad drac.
iiij.fecundum in firmi tolerantiam. Auctorconfitetur ter ab huiuſmodi doloribus
fuiffe correp tum,& femperinaurora huiusele & uarij (quod Diacoftum
vocat )vnc.ſem, acces piſſe, & in vna die conualuiffe. Ego dia-. gridium in
minoridofi,exhibuifemper & beneſucceſsit. Periculofumeft Bafilicum
continues adorari. Vantį ſit periculi, herbæ Baſilica frequens odoratus
plenus,ex Hol Jerij exacta obferuationeperfpicitur. Quidam enim Italus ex
continuo eius odoratuin vehementes, &longos inci-. dit dolores capitis ex
Scorpionein cere bro epato,cuius caufa morsconfequuta eft ck Ratio apud aliquot
huius euentus,ea potiſsima eft, quod Bafilici folia ſub te. ftafi & ili
putrefaéta in Scorpiones mu tentur, ex quo arguunt, frequentem o. doratum
animalcula quædam Scorpio onuminftàr, in cerebro geocrare. Vte cumque tamen
fit, Bafilici odoratus ad Syncopim, & animi hominum deliquia, mirumin modum
prodelle compertum cfts Piſcem Torpedinem, dolores capitis àcaufa calida
feliciter fanare. Nter fele & a, & quae dolores capitis à caula calida
auferunt remedia,Tor. pedo piſcis eft. Aitenim Celfus, quem ſequutus eft
Seribonius Largus, huius Puciscapiti affricatu,adeo tales dolores remoueri vtin
pofteru redire nequeant. Cauſa torpedinis qualitas eft,ipfa enim viua in mari,
& procul, & à longin $ quo velfi haftá; virgaveattingatur,tor porem
piſcatoris mébrisinduceredici. tur, vt Plinius lib.23.prodidit. Idcirco
etMatthiolus dixit) mirum non eft huiuſmodi affe& us, quodam ftupore:
feliciter ſola confricatione fanare. Queex occulta natura proprietate fiunt,
mirabilia videri. Aturæ arcana femper hominibus, admirationem præſticere:ratio
eſt,, quia caufas ignoramusproprias, & pro.. pterea in ſpeculandis his ce
pitamus, necaliud nobisreftat, quam føla admi. ratio. Quis enim non admiratur,
cur: Hyænæ vmbræ conta & u, canesobmya. teſcant?Cur Eryngium ore Capræſum.
ptum totum gregem fiftat? CurGallina, appenfo miluicapite nunquam quiefcea. re
valeant? Curappenſo allij flueſtris capite in ouis collo, quz in grege omnes
antecedat, Lupi ouibus nocere neque.. ant? Profe &to hæc mirabilia funt,
& in refum fympathias, & antipathias, & na-. turæ arcana
reducuntur. Nonnulla animaliareiuuenefcere: proditur. Agnum natura quibuſdam
anie. inalibus pro fene&tute euitandai, COA conceſsit releuamer, Ceruus
enim elu, ſerpentum renouari dicitur, quippès dum fentit fene&tute fe
grauari, ſpiritu, per nares è cauernis ſerpentes extrahit, fuperataque veneni
pernicie,illorum: pabuloreparatur.Colubri quoque alijq; ferpentes quoniamper
hybernas latebras. vifum obſcurari ſentiunt, primo vere, maratro, feu feniculo
feſe affricát,illud, que comedunt, ita vifum recuperant, &, exacuunt, &
vetuſta tunica depoſitag pelleque priori reiuuenelcere dicuntur.. Qgorandam
animalium carnes ad vitæ lorem. gitudinem palere. Longifsima vita aliquorum
ami.. malium vel eorum proprietate, multi fapientés vitæ longitudinem in
hominibusinuenire conati funt,volunt enim carnium efu longæ vitæ animali um,vită
poffe produci, re& ecenſulen. tes ſolidá nutrimentă,multú,diùq nutri R,
& à morbis defendere. Hac ratione Ceruicarnesprecipuè iuuenisadlógitu L6 dinem
vitæ valere autumant, Reculit Plinius quafdam nouifle principes fæ
minas,omnibus diebus Cerui carnes de paſtas, & longo ævo febribus, caruiffe..
Dioſcorides lib.z.longam ſençđuter cos agere dixit, qui Viperę carnibus,
veſcuntur.Propterea Pliniuslib.13»An tonium Muſam Cæſaris Augufti medi cum
dicebat, Viperas in cibis ijs dediffen qui ab vlceribus incurabilibus affligea
bantur,ratus hoc auxilium, vitam illis, producere,atque omnesſanafle.Exlib.3;
Conuiuij noftilitterarij. Abfürdan, ridiculain effe Paracelli opic. nionem,de
homunculi inpbialia vitrea g !.. meratione, de partu. NPara Onmodo
ridicula,ledinfanda eft: Paracelfi, damnatæ memoriæ opi-. niode homymauliconceptione,
& partu.. Scripſitenimex feminehumano in ama pulla vitrea. conie & o:;:
& aliquandiù: fub cquino, fuma, Itabulato, homun-. Cului culum gencrari. Vt
autem hanc hypo.. thefimfaliam ille impiusdoceret, exo uo fumpfit conie
&turam,quod cum op ſeruaret in loco calido concludipofle, & ex eo
tandem pulliim excludi, perſuaſit hoc idem in humano ſemine in vitreo vaſculo
reclufo poffe contingere. Sed vana, & fabulofa ſunt eius figmenta, fi-.
quidem ex putrefa& o femine, in an. pulla fub fimo recondita talis homun..
culi partus fieri nequit, qualis enim eft cauſa,çaliseffe & us
conſequitur,proinde ex putrefacto nihil,piſi corruptum ori.. tur. Infuper in
fetusconceptu,vt ex fa. ais:diuiniverbidecretis capitur,ſemen virumque viri:
&mulieris concurrere opuseft, præterhęę conceptio haud ori turniſi. fuerit
vterus benetemperatus, tanquam hortulus à Deo deftinatus ad hanc prolem, cui
fanguis maternns fi mulaffluar: quippè fi.materni- fanguinis
deficeretappulfus,necfemenaugeri,nec ali planıę inftar, necpartes conformari
pollenr,, vt omnium philofophorum E. 7 conſenlus eft. Ad hæc inter fætum, &
vtero gerentem fympathia quædami requiritur, vr calorem, & nutrimená. tum à
matre recipiat, & à fætu viuena te inatsis calor augeatur: & abia' ad
cona coctionem, & produ &tionem feliciter fuccedant. Quæ omnia fallain
effe Pas tacelfi coniecturam atgtrunt: ille enim non perfpexit in ouofemen,
exquo puls dus fit, fimulcum alimento vernaculo conferri, & in teſta per fe
porracea tans quam invteroquidemconcludi; ex qua pullus ali, & refpirare
pofsit Semen vero humanum caloris, & fpiritus Cu iuſdam viuifici particeps,
&conforss quorum vi, & beneficio fir generatio, antequam in vitream
ampullam per funderetur, eodem temporis veſtigio exhalaret, & conceptio
euanefceret: Hue aceedit, quod deeſt fanguis, quo femen nutritur, &
augetur. Adde quod per ampullam vitream, fub fimo recon ditam tetas fpirare
nequiret confuta.. maergofunt Paracelfiftarum fomnia,& fabula fabulofa
eorum magiftri conie & ura; & vana de homunculi partu affertio. Ex.
Georgio Bertino Campano. In Armenia nines rúbentes fieri. Iues omnes(fublata
philofophand tium ratione)albæ funt, & ita ius d cat fenſus, vtnon immcrito
Plinius lib. 17. capite z: niuem vocaverit cæle ftiumaquarum ſpumam.
Nihilominus Euftachius Homeri interpres, in Ara menia niues rubentes confpici
retulit. Harumcolorçm multi fapientes rummi Aantes, non natura niues rubentes
fieri, fed accidentaliter illic voluere. Illa enim loca minio luxuriant, cuius
colo re ex halātiones, è quibus in Armenia ninesgenerantur, pallutæ, rubedincm.
acquirunti. Pro quartana febrejſalitaremedia. A Rnaldus Villanoua pra fecreto
ha. buit in febrequarrapaexhibere taxi barbaſsi radicem ex vino per dúashoras.
mote acceſsioné, & Dominus osdecorde: Ceruiad drach. Itidemex vino
alterator di& amocretico, ſaluta, chamedrio, chamæpithio, &myrrha ex
fucco abfynthit ad ſcrup.ij.caftorei eriam, & bituminis anſcrup. ij. ex
vino: Alij,vt quartanam excutiant, infirmis dum in acceſsione affliguntur,
timorem ex improuifo incu tiunt. Proptera Titus Liuius fcripfit, Quin &
umFabiuin Maximum in con fictu febre quartana fuille liberatum... Terra Lemonia
contra venena miram: babet efficaciam. Nterpræſtantiſsima auxilia contra
venena,terra Lemniaconnumeratur, quæ ad Cantharides,& adLeporem ma rinú
adeò pręſtat, vt quadam proprie. tate, deuorata, omnevenenum per vomitum
expellat, quemadmodum mul tis experimentis hæc omnia didicifle.
Galenusconfitetur, Lumacalapidem,partümulierum facilitati. Icitur Lumaca,
lapidem nobiliſsi.. me virtutis in capitcretinere, qué fi trio I tritum
ftranguriofis liquore aliquo conuenienti dederis, vrinam foluere, i breuiterq;
fanare comprobatum eft. AL mirabilem baberingrauidamulierecó. Senfum:quippe
appenfam fi ſecum por tauerit,in abortum minimè incidet, fin autem tempore
partus tritam,cum vino capiet,multa facilitate pariet: fiquidem lapides
himeatusmuèaperiunt, è qui-. bus fætui facilior datur tranfitus. Ex: Ifidoro..
Kamum fympathian in aliquet bruto mirabilem. elle Izaldus lib. 1. arcan:
&Podinus: lib.3,theat.nat.obſeruatű,exper tumque audiuiſſe aiunt,Vaccam,Quem
Equam, Afellam, Canem Suem, Felem; fimiliaq, foeminei generis animalia do
meſtica, & manfueta, dum vtero gerunt, autinterire, autabortum parere, fi
mas ex quo conceperunt,ma&tetur autocci.. datur,tam valida eft,ac
vehemens-illo rum inter fe fympathia. Hoc autem an verum fit,confiteor,
menondum fuiffe expertum.. oletno Oleam -arborem puritatis virginitate of
amantifsimam. Liva fimanuvirginea plantatur, & educatur,,vberiores fructus
præbe redicitur:, vſque adeo puritatis eſtamā tiſsima, & labis nefcia.
Hacde cauſa, ve Teor,abantiquis ſapientibus olea, Mi neruæ dicata, &
confecrata füit. Audiui equidem àmultis, alearum à laſciuis mulieribus non
femel fuifle collectas fructus,calq; fequenti amo parum fru &
ificaſſe,ExCarolo Stephanointideraruftia Aftronomiam Medicis effe neceffariam.
PRudens Phyſicus Aftronomiam in telligere debet, aliter perfe& usMe dicus
effe nequit.Cum autem ægros -Cųe rare intendet, Lunam afpicereoporte bit, fi
enim plena cſt,crefcitfanguis, & humiditas in homine, & beftiis, &
me dulla in plantis, ita voluit Hippocr.inl. dediſciplina Mahemas: qui apud
Galore peritur.Cum ergo quis in morbum in ciderit,fi Luna è combuſtione
exit,tunc iei creſcit infirmitas vfque ad oppofitio bis gradum, quo tempore per
a &to cceli themateaſpicienda Luna eſt,an cum alia quo planetarum ſocietur
fortunato, vel & infortunato;numin malovelbonofue. titalpe & u; &
an dominúdomus mortis. afpexerit; ita enim de morte, & vita; de morbi
longitudine, & breuitate infire morum accuratiusconie &turarepoterit..
Ex Hippers. 10ak. Ganjucto. Saturni,Martiſque coniun tionem inTauro,
Bobuspeftilentiam pradicere futuram. A. Strologorum ex multaobſeruan tia
decretum eft, cum Saturnus. Hupiter,& Mars, vel iftorum duo fimul iun
&ti fuerint ſub humano figno, cona. currenti ad eam ftellarum fixarun vea
Denoforum animalium afpe & u,morbos peftilentes hominibus effc futuros. Ex
diuerſitate autem Zodiaci brutis quan doque contagium appariturum, faluis
hominibus. Vnde notat Auguftinus Sueſſanus in comment.Apotelaſmatum Pro. Lomai,non
multis ante annis,obferualle, cum SaturniMartiſque coniun & io in Tauro
horrendiſsima frigora'excitallet, magnam Bobus calamitatem eueniffe. Ques autem
licet imbecilliores, füper tites tamen fuiffe. In Boues tamen pe ffis illa
defçuit propter cceleſte fignum, ad quod terreftris Bos refertur. Quæfi fuiffet
in Ariete, forfitam in Oues graf fata effet. Anno 1479. in figno humano Martis,
& Saturni fuit coniunctio (tefti monio Ficini ) & peftis crudeliſsima
ho mines inuafit,,vt& prius anno1408. & omnium peſsimaanno 1345. ex
trium Planetarium infimul conjun & ione. suffiiu bituminismulieres ab
byfterice '. 3 Vltis experimentis comproba audio,, lieres ab vtero ſuffocatas
lubitòad ſanie. tatem reuocari, & quod mirabiliuseft, Hyſterică extemplobituméacceſsionen
corrigere, fiue crudum, fiue vſtum mu. licrum naribus admoueatur. Propterea
mulieres,quętali pafsioni obnoxięfunt lans paſsione liberari. CA lana exceptum,
fiue goſsipiocolloap penſum,Medicorum conflio (Mizaldo · auctore ) in romullis
locis habent, vt e, crebo olfactu paroxyſmum arceant. Cantharides quandoque
ſolo olfa & u fangui. nens, veltactuècorpore euacuajſe. Antharidumvis,
& venenú in fane guine purgando per vrinam, apud paucos incognita eft,
quippe in potui ex ceptas non modò veſicam exulcerare, verumatque
fuffocationes, & horrenda ſymtomatainducerecomprobatum eft. Imò tantæ
feritatis funt, vt quandoqué & tactu,vel olfactu hec efficiant,vt cui
damchirurgo Mediolani ſucceſsit, qui bis fanguinisprofluuio correptus fuit per
vrinam,folum portando cauterium ex cantharidibus in Byrfa. Ex Micbarle
Rafraljo. Podeortum fit adagium, Naniga Anticres. } MXneotericisMedicis,nigrum
Vlta obſertatione &à prioribus, & neotericis, helleborum ad infanos,
& mente captos peculiare auxilium eſſe, probatum eſt. Huiuspotio licet
periculoſa fit, cú cau telatamen fumpta, mirabiliter ijs pro deffevidetur.
Hellebori virtutem De. moſthenes innuere volebat, dum acti. onem mouens
Aeſchini, vt ſeſe pur. garet helleboro dicebat.Hoc in Anti. cyris duabus
ele&tiſsimum, & magniva. loris naſcitur, quo nauigare oportere a dagium,
quiab intania Canari cupit vt Strabo lib.9.Geograph,loquitur. Hinc Stephanus
deHelleboro loquens addit, Anticorenſem quempiã fuiſſe, quiHer çulem dato
Helleboro infania libera uerit, Grauidas simio fale prentes, parerifetus fine
vnguibus. Noneftàratione aliepum, quodab Ariſtot.dicitur 7 de biftor.animal.c.4
mulieresgrauidas, fi nimio ſale in cibis vſæ fuerint,fætusparere finc vnguibus
vngues enim,vt dixit Hipporc.in lib.de care FOS. 1 Carnibusex glutinoſa, & viſcida
materia geperátør, hincaecedente Galitorum v. Tu,materia illa viſcida adeo
attenuatur, &adimitur, vtfacilè illorum ortusde. ficiat.Comprobatur
hocetiam in ladá, tibus, quibusex aſsiduo, & nimio ſali torum vſu,lacomne,
paulatim deficere conſueuit. Oui badiin conuiuijsiucundi, feftiuiquelas
beantur. N conuiuijs profecto,vt hilariter'iu: Du { 11 X G 3 epulétur,tron
femel ludi aliquotper io cum apparantur qui omnes in iftanti um riſus,
&cathihnos mutantur. Inter multoshi erunt Feftiui:Si lintea;& map pæ
calchanti puluere confricantur, qui foti fe deterſerint ea parte nigrifient;li
ceti lintea prius candidiſsima apparue. sint.Si cultri fuccocolocynthidis, vela
fòe ta & ifuerit,amara oíaex ijs incita le tiétur:ex afla fætida autem
cuncta fæti da audientur:Si fuperpaſtillos nuper e fixos inſtrumétorü chordas
minutim in difasproieceris inftar vermium à calore V contracte apparebunt,
naufeamque rei inſcijs mouebunt. quibus vinum potui dabitur,cui caftancarum
cruftæſubtili ter tritæ fuerint inie & xà ventris «crepi
tibusſollicitabuntur. De amorisorigine aliquet controuerfia. OlentesPhyfici
amoris originem, velpotius furoris amatorijreperi te indaginem,ex
correſpondenti homi num complexione, leu verius ex con formi ipfius fanguinis
qualitate,nempe calida proficiſcivolunt, hancenim como plexionem valde amorem
gignere af firmarunt, Aſtrologi inter eos amorem exiſtere aiunt, qui in codem
aftrorum gradu conſiſtunt,vel qui in aliqua con Itellatione ex æquo
participant, & con formes ſunt,tunc enim fe redamare có. fingunt. Alij
Philoſophi amorem naſci afferuerút, quoties noftra luminainde.
fideratumobic&um conijcimus,voluat cnim quoſdam fpiritus ex ſubtiliſsimo,
puriſsimoque fanguine cordis noftri in rem concupitam exhalare, acque ocyſsi *
IN me ad mè ad oculos noſtros recurrere, ibique a in vapores'& 'humores
refolui,quifen. fim ad correlapſi, diffuſiq;per corpus, in oculis, rei dilectæ
quandam idem, inſtar fimulachri, & imaginis,non aliter, quam in fpeculo
macula permanet ve nenofi oculi, vel menſtruatæ,auriginoſi, aut fimili aliquo
morbo infecti, impri munt.Hacde caufa miſerum amafium, hiſce nouisille &tum
fpiritibus,qui natu ralem fuam fedem repetunt, & ad cor permeant, perditam
libertatem fuam dolere, lamentarique cogi affirma. Nonnulli autem naturalis
fcientiæ ad. 'modum ftudiofi,cum multa de amoris fcaturigine eſſent
imaginati;nec veram tam furiofi morbi originem inuenif. fent: in
hæcproruperunt:Amorem effe neſcio quid,natum neſcio vnde, qui vee wit neſcio
quomodo, &accendit nefcio quo pa&to,certam aliquam rem, &per ſonam.
Hominem apud Indos longiſsimam pitam babuiſſe. F Apud Lufitanicæhiſtoricæ
fecènti ores ſcriptores(interquos eft Fer din. Caſtanneda:)fidei probatiſsimę,
longa narratione, & certa, cuidam nobia li,apud Indosannorū, quibus vixit
tre. to centorum, & quadraginta fpatio,iuuenis tæ florem ter exaruiffe,
& ter refloruiffe: inuenimus:atque ex cuiuſdam Epifcopi relatu
nouiterpercurrimus.(Hocprofe to mirabile eft, & paucifsimis à Deo conceſſum.
At non minori admiratione illud dignum eft,quod à Langio de Or benouoproditur,inſulam
quádam fu. ifle repertam, Bonicam nomine,in qua fontis reperiatur ſcaturigo
cuius aqua vino preciofior fenium epota in iuuen tutem cómPomba. Ex lib.
1.debominis vita, vbi de Priorifla anu facta, & reiuueneſs eente fcribitur.
Hydrargyriminer aquomodo inueniatur. Ńter metallica ônia,hydrargyro ex
cellétius vix inueniri aliud cryditur, cum ad infinita tale accómodetur.Soler
tiinduftria opus eſt, vt vbi eius mineræ fit ſcaturigo coniectores deprehendant;
propterea menſbus Aprilis, & Maiiſub aurora, ſereno autem cælo afcendétes,
vapores in montibus fpe & ant; ſi enim inftar nebulæ fuerint, non altius
feat tollentis,fed humillimæ, ac quaſi terrae ad hærentis, argenti viuiibi ſedem
eſſe allequuntur. Ex Cardanode Subtil. Aqua mirabilis pro viſus obfuritate.
Periam aquam, quam ſcribuntre ſtituiſſe viſum cęco nouem anno. rum.R.ſucci
apij,feniculi, verbenæ,cha medryos, pimpinellæ, Garyophilatæ,
Caluię,chelidonię,rutę,centinodię,mor { usgallinæ,garyophyllorum, farinæ vo.
latilisan.vnc.j. piperis craſsiuſculètrití, nucis muſchatę,ligni aloes an.drach.
iij. Omnia imergătur in vrina pueri, & lex: ta partevini maluatici.
Bulliátbreuite pore, tú exprime,& percola.Repone va le vitreo benè obturato.Hora
sóni fingu. las guttas ſingulis oculis inftilla. Holler. Roris
marinipraftantiſstma'virtutes, Lanta illa, quam Romani, & Itali Roſmarinum
dicunt, inter plantas: nobiliſsima eft, magiſque quam ex F 2 iſtimetur
excellens, quamuis mulcitu. dine, & frequétia vilefcat.Eftenim fem per
virens,nulli nocens, & multis infir mitatibus inimica maximè comitiali
morbo, quiferè dæmoniacuseſt. Radix eius cum melle purgatvlcera, tormini. bus
medetur, & medendis ferpentum i & ibus cum vino bibitur.Prodeſt etiam
contra morbum Regium in vino cum pipere. Et tanto contra maiora mala præualet,
quanto maiori gaudet tutela, & fauore cæleſti, à quo omnis virtus
confouetur. Naturefagacitas in difficillimis morbus fac mandis magna ift. Agna
eft naturæ fagacitas in ali quot morbis ſanandis,qui medi. corum auxilijs
perdifficilc eft,vt ad fa nitatem perducantur. Ketulit Alexan. der Veronenſis
lib.2. Anatem.c.9.tr ulie rem Venetam,acum crinalem, qua cirri capillorum
intorquentur, quatuor die gitorum longitudine ore detinuiſle, dú obdormiſceret,
fomnoque ſopitam de M glutif Etv ghuiuifle: decimo autem menſe, quod m mirabile
eſt, per vrinam eminxiffe.Lan. Er gius etiá in alia iuuencula,quæ aciculam
deuorauerat, id etiam eueniffe fcribit, e Naturæigitur induſtria maxima eſt. *
Lapidis compofitio ignē fricationereddernisi. Ricatione cuiuſdam lapidis
facilli meignem excutere poterimus. Hæc eius eft compoſitio. Capimus ſkyracis,
calamitæ, ſulphuris, calcis viue, picise an.drach. iij. Camphorædrach.j,Alpalit.
dre iij critahæc pobanturinvalesce Teoroptimèconcoctecca Hapidécouertátur.Hic
panno fricatusu ceditur,fputo veròemoritur.ExRole! Naturam beftis,ad corporis t
ütelammulta remedia indicaffe. PlurimaşürNaturæ beneficiaquebê ftiis fuiffe
conceffa legimus.Hæcpro fectoruminans Plutarchus, præadmi. rationeinextaſin
raptus,Maturan mulo.. to plura in pecudes, quam in hominem contuliffe dixit.
Quippefibeſtijs Fors bus accidit.Naturamoxantidotum in F dicauit. Hinc Palumbes,
monedula, merulę,perdices, Lauri folijs deguftatis humores fuperfluos
expurgant. Lupi, Canes,Feles ſięgrotant,vel li excreme torum colluuie ftomachum,
vel viſcera oppleta fentiunt, gramina comedunt ra, re perfufa,herbam frumenti,
&rapiſtru decerpunt:quibus ſtomachum, aluumg; exonerant.Columbæ,turtures,pullique
gallinacei in morbis heliofelinum degu far. Teſtudincs morſus ſibi in flictos
ci cuta perfạnant.Cerui volnerati dictami paſtufagittas, excutiunt.Ivuiteladůmu
res venatur, ruta ſe munire confueuit,. vc validiuseosoppugnet. Vrlimandra-. *
goram quærunt in mala valetudine. A. priauté egrotanteshedera ſe colligunt.,
Ceteraverò animalia pro virę tutela di uerfa alia retinent auxilia.Ex
Arifter.pl njo,Nipho,&aliis. Lapidem Aetitem mulierum partus. accelerare.
Maison Agnam intulitnatura Aetitilapi. diin partu prægnantium accele rando
efficaciam: quippefiearum coxis argento cóuolutus partu inſtante fuerit
ligatus, miram ytero generabit láxitam tem,ex qua prægnantesfacilius parient.
Ab Aquilis pręlidium hoc'captum reorg illa enim dum arctiores ſe ſentiunt &
oua cum difficultate pariunt, Ae titem quærunt, ex quo laxiori matricis
orificio facto,leniusoua excernūt.Hinc Aeritis S-apis, Aquilinus di & us
eft, quiaz Aquilă hos in nidum portant,ibiq;verii reperiuntur. Intellexi ex
feminis, pria marias aliquot hos lapides in vſu,& pre cio habere,beneratas
partuslaboresfu Bleuare. Hellebori nigriradićem, Viperemorfus in bon Aysſanare.
(N magna æſtimatione apud multosis Helleborinigri radix habetur, ipſa enim
inter carnem, & pellem iumentià Vipera demorfiinſerta proculdubio faa -
mat.Confiteor profe &to fubulcum qué dam porcorú numerüigne perfico, fiue
cryſipelate peftilenti pollutum (hunc morbum vulgares, eo quod porcorum caput
in excreſcentiamagná deuenit,apo pellap (męobſeruante adfanitatéducti funt..
pellant Capoatto.) fola huius radice om.. nes incolumes feruaffe.In porcorum
au. ribus cultello circulum ad viuum fane guinem formabat,deindecentro,ex ſtye.
lo ferro perforato,radicisfruſtulum éfo. fingebat, ad paftumý;porcosmittebat,
ita equidemſolo học auxilio, omnes Hippiatros in equorum faciepitorum euul,
maculas albasfacere. N hominum canitie frequentescapil. larum euulfiones, vt
nonnulliin viu habent,vituperantur, eo quod illorum cuulſa niaior
generaturcmitics:Hippia atri enim cum maculas albas in equo-... tum facie
fingere intendunt, frequeno tiſsime pilosextirpant, qua continuata
euulſione,pilos excreſcere albos exper tum eft. Queapud Veteresmagis
erantcelebrata: pectaculam Nterorbis terręcelebrata {pe& aculag, Mauſolæum,
hoceft: 9.Maufoli ſepul chrum ES Noun
ehrum;Coloſſus folis apudRhodiosios uisOlympici fimulachturm,quodPhidias
-fecitex ebore:MuriBabylonis,quos ex. citauit Regina Semiramis; Pyramides in
Aegypto; Obeliſcus in via nobiliſsima Babylone à Regina ſupradicta erectus,
Rodigingso Marinum Vitulum à Cåeli fulmine non mo leftari. O pauci ſunt
ſcriptores,quiMaria num Vitulum, (multa obferuatiu. one peracta) à fulmine
incolumem effe perhibent.Propterea Seuerum Imperaitorem Lecticam fuam
Vitulimarinico riocontégi voluiſſe legimus,hoc enim animal ex marinis, à Cæli
fulminemio nimè percuti audiuerat. Inde fa &tum elte vt veteres,
pauidi,pefulmine ferirena tur, tabernacula ex iftiuspellibus con-.. tecta
retinerent,ita profecto àCæli fula. mine præſeruari poflcputabant. ExPline.
Captaminter bruta maxima Epilepsia tentari: Ippocratesin lib. de facro -morbou:
H Fs (si liber ille genuinus eius est) vt ab ' Èpilepſia homines præferuari
valeant monet, neque in caprina pelle decum. bendum effe,neq; eandemgeſtare
opor tere,beneratus tale animal; maximè ab Epilepſia tentari. Hocetiam
Plutarchus rerum naturalium perfcrutator indefef ſusaſleruit:propterea
veteresSacerdotes ab eius carne,ve morbida,abftinuiffe fe runtur, neguitantibus
aut tangențibus. modo, aliquid eiusmorbi induceretur.. Dinum in Asthmatisçura
ſele &tiſsimim.". V TInum pro fanando Aſthmate ab, mo, quo pater eius
cum fælici ſemper: fucceflu vſus eſt,adducitur. Habet yie. ni dulcis, quaie
potiſsimùm Verpacia eft,non craſsi,ſedtepuis,mellicraticoctii an, lib.decem:puluer.
Foliorum Tabe. bacciexicc.in vmbra vnc.j radicum polypodii quercini
recentis,acminutiſ.. fimeconcili ync.iij.radicum hellenij re..
motomcditullio,& inciſarum unc. iij..:? macerentur horis 48.poftea
verocolentur per manicam Hippocratis vocatam, conſeruetur vinum inloco frigido.
Dá - tur vnc. vj. pro vice; ſingulis diebus,; horis ante prandium quinque.
Homines a phrenttide correptos sania fortiores fierii On pauci admirantur, cur
homi. nesphreneticiflicet in ſanitate debiles fuerint prius ) ipfis fanis
fortiores: euadant?Equidem à morbi naturato- · tum procedere verendum non eft:
cum autem in phrenitide magis, ob exficcationem lædantur nerui fenſitui, quam
motiui, nulli dubium eft, tales quo ad motum ipſis ſanis fortiores, &
debilio. res, quo ad virtutem fenfitiuam fieri;: ratio omnium eft,quia
operationes,ner uorum fenfitiuorum humiditate magis perficiuntur: fecusmotiui.
Huicadiun gitur, quod phrenetici (mente læſa ). doloremnon fentiunt,idcirco
fortiores.com Ek Arculano. Tuberum efufrequenti, bomines in epile Pliam
incidere. 2 M2Aximopere (ve valuit Simeon Zethus) ſuberum continuattis v fus
vituperatur: adeo enim hornines crebro eorú eſu afticiuntur, vtepilepti ci;vel
apoplectici fiant. Apud veteres autem in pretio habebantur,illifq; cum Colo
quandam affinitatem,nec niſi to. nante loue nafai, credidit antiquitas.. Vnde
Iuuenalis: Facient optat atonitrus CHAS - Offri de corde Cerui à morfibus
venenofas; hos minespreferu476. Irabilis eſt profecto oſsiculorum, proprietas,
quæ in Ceruorum; corde reperiuntur;geſtata enim ad præ feruandiim à beftiarum
venenofarum morſibus, & i & ibusmaximeproſunt. In officinis tanquam
præſtantiſsimum an.. ridotum contra venenum, & febres pe tulentes,hxc eſſa
conſeruatur, &cum feelicifucceffu mediciindiesad hæc valere experiuntur::
multi tamen pre. ofic.cordis ceruipi, os.bubulum tradunt in magnam languentium
perniciem, & ped.com M propi eterمه 27 that medicorum afamiam.Ex Alexan.fro
Be Pedido. Hemicranian lapide Gegatisſummoueri. MW Vleo experimento Democritus:
Hemicranian, lapidis Gagatis ſo'a ad collum appenfione tolli com.. probauis
fcribit enim huiufmodi lapi. dem geftatum ſeinperniagis ponderare, quam
antequam appendatur: quafi in eo quædam attrahendi in fe fe humo. rem,à quo
dolor in parte cranij fufcitam. tar proprietasreperiatur.Mercurialis.
Epilepritof non perpetuoconcidere nee quefpumam facere. Vicomitiali morbo
laborátnánili in magoa ventrico !orum cerebriz cralo s humoribus obftru &
ione conci dere, & fpumam ferre confueuerunt: ſe cus vero in alijs cauſis,
vtin quadapu.. ella Aretina Beniuenius obferuauit. In cidit illa in Epilepfiam,
tamen neque concidebat,pequeexorefpumam emito. tebat. Sedſtanscaput hinc indecücere
wice uice, ac fi quid infpicere vellet
mous bat; nihil interim loquens, nihil fenti ens.Cum auté ad fe reuerteretur,
inter rogata quid egiflet, penitus ignorabat. Cauſam Beniuenius exiſtimauit,
quod non caderet quod contra & io, & tenfio ad cerebrum non
ferretur,cumfolus va por ſurſum aſcenderet: ex quonullor gore cerebrum ipfum
intentum, abot dinatis motibus-reliqua membra pre feruare potuit. Vermes rubros
in hominum cerebro, in qua dam epidemia natos effe. y Beneuenti,cum multi
ignoto morbo decederent è vita, medici tandem, hoc morbo quedam mortuum
incidere voluerunt, & in huius cerebro vermem cubeum breuem inuenerunt,
quem cum mulrismedicamentis vermesoccidendi vim habétibus interficere
nequiuiſſent, fruſta raphani inciſa in vino-maluatico vltimo decoxerunt,quo
vermis occilus eft,atque hoc eodem remedio deinde - mili morbo, quali epidemico
affe & i omness. Omnes curabantur. Foreftusex lib.Corne tỷ Roterodam.
Capillorum defluuium ex Laudano curari. TOn femel morboacuto egrotantia bus
(-ſiad fanitatem reducuntur è capite capillos decidere expertumelt. His
facilliinè fuccurritur huiufmodilia nimento, quo 'capillorum defluuium non
folum amouetur verú etiam amiſsi irerum renouantur. Laudanum cum vi. ño, &
oleo rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem coquitur, quo caput v niuerfum
linitur; breuique capillatum redditur, Ex Bayro.. An empiricis
tradararemedia,mortem ! non paucis:attulije.. ftrum baudelt, remedia, quæ ab
Kempricis adhibentur, morté aliquádo hominibus attulife, ij a. nulla ra. tione,
nullaq; methodofuffulti, fed fola experiméti indagine,nec caufasmorbo Tum verè
cognoſcere,nec ordine auxilia applicare poſiúnt.Proptereamilesquida
inmorboinueteratoluinepotis,quicapi. Member Aximopere (ve valuit Simeon
MZethus) ſuberum.continuattis V.. fus vituperatur: adeo enim, hornines crebro
eorú cſuafticiuntur,vtepilepti ci;vel apoplectici fiatt. Apud veteres autem in
pretio habebantur, illiſq; cum Colo quandam affinicatem, necniſi toe. nante
loue nafai, credidit antiquitas.. Vinde Iuuenalis: Facient opfataronitrua,
Cen45 -offi de corde Ceuiàmorfibus venenofisshos minespreferuatge -Irabilis eſt
protecto oſsiculorum, proprietas, quæin Ceruorum corde reperiuntur;geſtata
enimadpræ • Tóruandum à beſtiárum venenofarum I morſibus, & i&
ibusmaximeproſunt.In officinis tanquam præſtantiſsimum an-. ridotum contra
venenum, & febres pe.. bilentes, hæcoſſa conſeruatur, & cum. foelici
fucceffumcdiciindiesad hæc va lere experiuntur:: (multi tamen pro. ofic.cordis
ceruidi, osbubulumtradunt in magnam languentium perniciem, & M pedice medicorum
afamiam.Ex Alz xan.fro Bem nedido. Hemicranian laide Gagatia ummoueri. Viro
experimento Democritus Hemicraniam, lapidisGagatis fola ad collum appenfione
tolli com.. probauis fcribit enim huiufmodi lapi. dem geſtatum
ſempernagisponderare, quam antequam appendatur: quafi in eo quædam attrahendi
in fe fe humo rem,à quodolor in parte cranij ſuſcita.. tar
proprietasreperiatur.Mercurialis. -Epileptites nonperpetuo concidere nee que
fpumam facere, Vicomitiali morbo laborát nánili in magoa ventricolorum cerebria
crais humoribus obftruatione eonci dere, & fpumam ferre confueuerunt: ſe
cus vero in alijs caufis, vt in quadá pu ella Aretina Beniuenius obferuauit. In
cidit illa in Epilepfiam, tamen neque concidebat,pequeexore fpumam emit tebat.
Sed ftans caput hinc inde cucere vice, ac fi quid inſpicere vellet mout
bat;nihil interim loquens, nihil fenti ens.Cum auté ad fe reuerteretur,inter
rogata quid egiflet, penitus ignorabat. Caufam Beniucnius exiſtimauit, quod non
caderet quod contra & io, & tenfio ad cerebrum non ferretur, cum
folusva por ſurſum aſcenderet: ex quo nullori gorecerebrum ipfum intentum, ab
of dinatis motibussreliqua membra præ feruare potuit, Vermes rubros in hominum
cerebro, in quae dam epidemia natos effe., Beneuenti, cum multi ignoto morbo;
decederent è vita, medici tandem, hoc morbo quedam mortuum incidere voluerunt,
& in huius cerebro vermem rubeum breuem inuenerunt, quem cum
multismedicamentis vermesoccidendi vim habétibus interficere nequiuiſſent,
fruſta raphani inciſa in vino maluatico vltimo decoxerunt, quo vermis occiſus
eft,atque hoc eodem remedio deinde se smili.morbo, quali epidemico affe &
ij, omnes Nous ) omnes curabantur. Foreftusex lib.Corne-, i Roterodam.
Capillorum defluuium ex Laudano curari. "Onfemel morboacuto egrotantia bus
(-ſiad fanitatem reducuntur ) è capite capillos decidere expertumelt. His
facillimèfuccurritur huiufmodilia nimento, quo capillorum defluuium non ſolum
amouetur verű etiam amiſsi irerum renouantur. Laudanum cum vi. ño, & oleo
rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem coquitur, quo caput y niuerfum
linitur, breuique capillatum redditur, Ex Bayro.. An empiricis
tradararemedia,mortem ! non paucis:attulife: ftrum baudelt, remedia, quæ ab
tempricis adhibentur, mortéali quádo hominibusattulife,ijn. nulla ra. tione,
nullaq; methodo fuffulti, fed fola experiméti-indagine,neccaulas morbo. Tum
verè cognoſcere,nec ordine auxilia applicarepoflunt.Propterea miles quidā.
igjorbo inueteratoluinepotis,quicapi N + 136 tis achoribus erat fædatus,
finecautio. os,more empiricorum,nec ætate obfer uata, vnguentum ex arſenico,
ſulphure viridiæris, femine ſinapis confe&tum capiti appofuit;ita enim ex
quodam lio bro remedium collegerat, & mane ſee quenti puer ille, qui erat
duodecim an norum, in lecto mortuus inuentus eſt. Hi profe& o fru & us
empiricorum ſunt. ExValefio.. Triplici auxilio homines longauam vitam Af
quirerepofle. Ifi hominum frequens luxus exo NA vita
songior,ſaniorquevideretur,hi ay tem in luxum,epulas, & otia effuli, vix
trigefimum exceduntannum, abſque. fene & utis aliquo veftigio,vita enim los.
gæua,non luxu,& profufione nimia, fed triplici tantum remediocomparatur;fie
quidem pareitas cibi, & potus, bonus cibus,& moderatum exercitiummorta
- lium vitam, ex Philoſophorum decre to,producere valebunt.Bartholom.Males **
Dino Gagorio. Nmin Quo paéto fingultum
cohibere valeamus. Onleui angaſtia angultum ho• mines cruciare quandoque vide
mus adeò quod multiin longiſsimā via. giliam huiuſmodi affe & u ducti funt,
Multi funt, quieximprouifo timorem ſingultientibus incuitientes,votum alle
quumtur: alij verò auricularidigito ito bentintus aures diu confricari;Lyfimam
chus tamen apud Platonem, fternuta. mento afperfione aquæ frigidæ, & re
{pirationis coñibitionefingultum cxčke ti propalauit. Quopado plebrios, tincios
en admiration nem -dustus. Plebeiprofe &to qui populi parsfino plicior
eft,ex leuifsima occaſione fa. cilè in admirationé ducuntur. Si optas autem vt
adftantes credantvel magico Çarmine, vel quodammiraculo te open. rari, manècum
Verbaſcum flores aperit æſtiuo tempore, iispræſentibus leniter moueto plantam:
flores enim paulatim decidunt, & exiccatur, cum magno ile. lorum ftupore,
fiquidem illius plantæ hæceſt proprietas, vt (Sole accedente ) flores decidant.
Quod fi magis irridere velis inutiliter aliquid murmurabis, vt admiratio
excrefcat, vltimòtandemor mpia in rifum finiantur. Ex Porta. Memoriam è thure
epoto maximè Augeri. Maximo hominibusadiumento eſt firma memoria, triftitiæ
verò, & Jabori, imbecillitas, iis præſertim, qui bonarum litterarum ftudio
incúberec ptant. Ita autem cófirmatur.Thus albife Gmuin in pollinem attritum,&
cú vino, li hyemsfuerit,velaqua deco & ionis paſ fularü, fięſtas;epotum,inLunęaugmen.
to,oriente Sole, necnonmeridie, & oC- t caſu, mirum in modum memoriam aya
gere fertur. Ex Rafi. Quo pačtofamis importunitascohibeatur: Vis Taurum
Philoſophum, eiufq; mendo famisimpetu? profe& o dumfa. maemaximèmoleſtabatur,
eius importurnitatem, compreſsis hypochondriis & ventris ſtri & ione
compefcebat. Apud. Aulum Gellium. Mulierem grauidationis tempore pallefcere.,
debilioremque effe. TOnlinerationemulieres, quoté pore vterum gerunt, virore
pallia dæ fiunt, purus enim illarú fanguiscono tinuò ex corpore deftillat,
& in vterum à natura demittitur, vtfætú tú nutriat; tú eius procuret
augmentü.Cum autem ipfis paucior in corpore-refideat fanguis neceſſe eſt fieri
pallidas, atq; alienos ci Bos appetere.In ſuper exco,quia fanguis folitusipfis
minuitur,debiliores fieri ne celle eſt. ExHippocr. lib. 1. de morb.mulier..
Myrifticam nucem à vira geftat am, vigo rofiorem fieri. MIrabilis eft
nucismyriſtice, quava cant muſcatam, cum homine fym pathia: ſi enim à
viro.geftatur, nomodò vigore proprium cóferuare, verù etiam
turgere,magifq;fucculentam, & ſpecio ſam ficrialkunāt, pręfertim
fiiuuenilis adultæque ætatis homines circumferát Ex Liuinio Lem. Hepaticos,
Gtienoſos decodochamading fanari. INter præſtantiſsima remedia, quæ I
hepaticis, & lienofis adhibentur pri mum Chaniædrium locum retinet: fie nim
ex aceto deco & a,per pluresdies ex. hibetur,hepaticos,atquelienoſos pro.
culdubio fanat: multisequidem experi mentis comprobatum eft tale decoctí
viſceraab infar &tu liberare:propterea ini febribus chronicis, eo quod
obitruction tres mire abigat, fdelici fùcceffo à multis: pro fingulari ſecreto
audio vſurpari. Pulfus deficientes,&intermittentes in ix. uenibus mortem
prædicere, O Vanti timoris in languentibus,pul sus deficientes, vermiculantes,
& formicantes exiſtant,apud Medicos notiſsimum eſt: ij enim ex proſtrata
natura exorti,exitiú efle in foribus aftédūt. In. termittentes autem duorúpulfuum
ſpa tie tio,non modò in omnibus fufpe & i ha bentur, verum etiam omnibus
maxime iuuenibus exitiofifunt; diſséticGalenus, qui in pueris, &fenibus non
ita fore ti mendos afleruit.Huius rei habuitexse. rimentum Proſper Alpinus in
Iacobo Antonio Cortulo octuagenario,pleuri. tiro, & febreardente vexato,
cui pulfus fuerunt cùm intermittentcs, tum defi cientes; tamen ille citò
conualuit.lib.s. de med. method. Mitbridatis Regis, ad venena maximum Antidotum.
D Euico Mithridato Rege maximo, in eiusArcanis Pompeius inuenifle in peculiari
commentario ipfius manu exarato compofitionem antidoti dici Inr.Cóftabat ex
duabus nucibus ficcis ite ficis totidem, & ruræ folijs viginti fimul
tritis, addito falisgrano.Si aliquis hoc iciunus allumeret, rullum ei venenum
nociturum illa die affirmabat, Ex Plinio. ONO Slidera Quo artificio offa,
velebora colorari valeant. I offa,vel ebora coloratahabere de lideramus,ca in
primis oportet abim munditiis purgare; deinde in aluminis aquadecoquere,tum
demumin vrină, vel calcis aquam in qua diffolutum fit verzioum, rubrica, aut
cæruleus color, fiue alius quem volumus immittere, & vna iterum coquere.Cum
autem perfri gerata in eodem etiam liquore fuerint, extrahenda ſunt; &
pulchra, & bellè tin eta habebimus. Alexius Pedemont. BRICA Bryonieradicio
è vinoalbo decoctum, hyfte. ricam paſsiorem reprimere. Ryonia in
fedandamulierum hyſte rica paſsione,egregiam habere vir tutem multis
experimentis dicitur.Ex multis obſeruationibus in quadam mu liere, quæ quotidie
ferè per multos an nos hocaffectu laborauerat, à Matthio lo experta eft. Hæccum
ſemelper heb. domadam, cius confilio, ſub fccti ingressum, vinum album, in quo
ip fius radicis vncia efferbuerat, hauſſet ex illa paſsione optimè conualuit.
Ne tamen amplius in fuffocationes deueni ret vteri,perannum integrum hoc me
dicamento vía eſt, nec morbus iterum recidiuauit. Quo fuffitu Serpentes
venenati à domibus, velpradiis arceantur. Vlta equidem reperiuntur, quo rum
ſuffitus adco o diolus eſt, vtà loco, vbi is. fiat,penitus arçeantur. Scribit
Florentinus in Geo pon. Venenatam feram numquam accef luram, vbi adepsceruinus,
aut radix Centaurij maioris, autLapisGagates aurDictamus creticus,aut Aquilæ,
vel Milui fimus cú ftyrace miftus fuffatur. Ex Gal. autem habemus in lib.de
med. fac. parab.ad Solonem.Pyretrum, ful phur,cornu ceruinum, pinguedinem,&
pulmonem Afini accenfum,ac fuffitum, cuncta animalia venenoſa efficaciter fu -
gare compertum elle. Herpetes exedentesTabucoicereto felicitors Sanuri.
Terorymus Aquapenders inl.:.de Tumoy prenat.6.20.5xedcotes her petes teſtatur
curaſſe quoad totum cor pus, ex ſero Caprino expurgatione con fecta,fæpèautem
cum fa !fæ parille de co & ione:partes affectas aquis therma lbus D.Petri
lauabat,vltimoiis, felici cum fucceſfu ſequens admouitCeratú. R.Succi Tabacci,
ſeu herbæ Reginæ vnc. iij.Ceræ citrinæ nouiſsime.vnc. ij.Refie næpinivnc.j.
Rofinz Tyerebintinæ vnc.j.Oleimyrtini quantum fuffic. pro formando Ceroto. Vina
alba, qua induſtrie inrubramu tentur. A Lba vina abſque vllo detrimento in
rubra(auctore Mizaldo ) tatim Conuertuntur,lipuluerem mellisad du rilsimă
conliltentiam deco&i, & ficcati in vinum albuin proiecerimus, &
tran Suaſandomiſcuerimus,Idautem minori faſtidio efficier lapathorum radix, fi
re cens, vel ficca in vinum mittitur. Flores in Aegyptoprope Nilum inode tar os
exiftere. O Dorin ficco fundatur, eidemq; in nititur;hinceuenit(auctore Theop.
6.de cauf.plantar.) vt fru & us agreſtesvro - banis ſui generis
odoratiores,eo quod - ficciores exiſtant vrbanis,habeátur.Heç quoq; caufa
eft,quod in Aegypto mini mèodorati flores naſcantur;vt n. Plini - us prodidit,
Aegypti aer à Aumine Nile tum nebulofus, tum roſciduseſt: cuius cauſa odor in
foribusadimitur. Abfynthium ventriculum roborare ſo lum adftri& ione.
Vantam Abſynthium in roboran do ventriculo vim retineat,in mul. tis locis à
Galeno exprimitur:bancau tem virtutem non ab amaritudinem fed propter adftri
& tionem abfynthio inefle verfimilc eſt. Conſtat hoc totum ab eius fucci
natura, qui corroborandi facultate deſtituitur, ex eo, quod ter rez partes, in
quibus adſtringendi vis poſita eſt, ab ipſo feparantur. Succus itaque folum
amarulentiamhabet, quz tantum abeft, vt ventriculum roboret, fed vt potius
illum infeſter. Ex epote Chalcantho, albos pilos è capi te decidere. Icet
Chalcanthi, fiuc vitrioli vſus, e reſumpti, apudGalenum ſuſpeatus habeatur: à
multis tamen audio maximè commendari. Inter graues fcriptores, Rbaſes eft,qui
29. Continentis, 6.24. ſe habuifle amicum quendam ſcribit; qui potata vitrioli
drachma, propènoctem pilos omnes, quos in capite habebatal bos, abiecit.Res
profe &to mira eft, pbrenitidem ex nigro Coralio felicitar Sanari. Oralium
nigrum, quod Antipallas, fiue Antipatkes dicitur,inPhrenitide morbo corrigendo,
& fanando perquá Airam habere facultatem exiſtimatur. Hoc nigerrimi.coloris
eft, & ob varie. tatem in magno precio tenetur, & cótra huiuſ HORTvĆvs
G & NI ALIS. 14h ** Merete huiuſmodi affectum tanquam præftan tiſsimům
remedium vſurpatur. Ex Ense lio de Gemmis lib. 3: Lethargicosà Satureia capiti
admota excitari. Vltis experimentis obſeruatum reperio,Satureiam cumfloribus
vino incoctam, & calentem occipitiad. #motam, Lethargicosdifficili ac
pertina E ci sono oppreſlos, ac veluti raptos exci tare, & reuocare.Vt
autem curæ folici $, or fit exitushuius decoctiguttæ aliquot fe infirmiauribus
inftillandæ funt. Hana diſchius. I peftilentias quasdam occulta anispat hia ho
minum corpora depafcere. M Vlta reperiuntur,quæ occulta qua dam antipathia, cun
&tis hominis bus aduerfantur. Huiuſmodi fuit aura illa peſtilens, quæ ex
arcula aurea in quá miles forte quidam inciderát (referente Iulio Capitolino )
in Babylonia orta eft, Ex hac nata fertur peſtilentia, quæ in - de Parthos
orbemý; compleuit. Huic haud abfimilis, vel prauior vtique fuit G peſtisilla,
quæ anno 1348.ab oriente in cipiens (teſte Guidone Cauliacenſi ) vniucrlum fere
orbem peruagata eſt, tảntaq; lauitie peragrabat, vt vix quar ta hominum pars
ſuperſtes euaferit. Bra M. Infantes eiulare quoties lar, nutricum mammas
papillas pangit. Slidua experientia comperimus f A mammasnutricum, &
papillas lancinat, & pungit,quippead infanculos tunc nu trices redire
videntur ftatim; cum pa pillarum mordicationem, ſiue vellica. tionem ſentiunt.
Duplici autem id fieri caufa credendum eft; vel quia quo tem porecoctionem
infantulus perfecit, eo dem momento nutricis vbera complen. tur, vel quia
tutela Angeli Cuftodisin fantis nutricem ad officium, leuiſsima vellicatione
follicitat.Hoc verius vide. tur eo,quod modo citiusmodo tardin fanteseiulant:
& vtriuſq; ſtatus non lem per idem eft. Ex Bodino lib.3.Theanatu. Sales Han
7 Salis Prunella virtus, &compofitio. al prunella,ob fingularem vim do
lores mitigandià quauiscaufacalida &inflammatione excitatos, quam reti-,
net, a nodynum minerale à chymicis apo pellatur. Eius compoſitio talis eſt:Para
tur ex,nitro optimo; quod in cruſibulo. funditur, paulatim ſuperinijciendo flom
res ſulphuris,quieiuspingaedinem tole Junt, idqueadeo pellucidum, purum que
reddunt; vt fi luper lapidemmar moreum effundas; omninò clarum, &
dlaphanuin appareat vitri inſtar: quod? đšinde Sal ſjuelapis
prunelle.dicitur,Sa lutare eit remediú ad ardentiſsimills febrem Hungaris
familiaré extinguento - dam, & edomandam:cuius ferocia tana' ta eſt, vt
ægrotantium linguas prorſus nigras, & prunis ardentibusfimiles ef ficiat.
Cum autem tanti ſymptomatislę. vitia extinguatarhuius vlu,leniatur, &
opprimatur: Sal prunellæ apellatus eft. Eft præterea idem remedium magnum
diureticum,& diaphoreticum. Querceta mus in Pharmacopes. 63 Hy ilico appetere.
1 adduxeram: qui Leonem, Gallum ve.. Hydrophobos è poto Catuli coagulo aquami
Iris laudibusCatuli coagulum in Aetio, ex tollitur: Illud enim fi femel tantum
ex aceto Hydrophobici guftauerint;ſta rim eos,aquæ pofus cupiditatem capere: ob
id medicamentum hoc præftantiſsi muth iudicamus, in huiuſmodi enim afa fe &
u, nulla falus ſalubrior iudicatur, quam aquæ potus: quo deficiente,mors in
foribus ſemper eſte Cur Leo Gallum timeat abfolutaz " izquifitio.
CVVmquodam die Cercelliani gra tia apud Carolum Cifellum luriſ conſult.
clariſsimum, meique amiciſsi. mum effem, forteinter nosde Gallina tura orta
fuir diſputatio; illa preſertim, cur Leo illum timeret? Pro dubii folu. tione
Ficinú inlib. z. de vit a celit. compar: reri ſcripfit, eo quod in ordine
Phoebeo, Gallus eſt Leone ſuperior. Hoc etiá ex Proclo confirmare volui, qui, Apollinca
Dæmonem;qui alias fub Leonis figura apparuerat, ftatim obiecoGallo diſpa ruiffe
prodidit. Ifle-autem quia bonarú Jiteraum citra legalem fcientiam admo
dumftudiofus et contraria rationeLeo i. nis timorem euenire contendebat. Ada
ducebat Leonardum Vairum in lib. 1. de Fafcino, quiex Gallorum oculis ſemina i
quædam, ac fpiritus exire profitetur gr I quibus Leonib'dolor,acmeror incredia
bilis inčuciatur, inde veluti effafciñatas ritere.Ego quidem licera Lucretio
hac etiam opinionem fuftentari viditlemi tamen poft,pleraque vltro, cirroque
inter nios de re hac ventilata;confeſſus füi apud me neutram opinionem vide ti
validam. Vbienim naturales rationes præualēt,nec ad Aftrologicas,nec adoc
cultascófugiendium eft.Leonesquoniá bile faya, & copiacaloris abundant,faci
le fit,vt ex fonoraGalli voce comoucka tur:ita profecto Canesex leui etiam al 2,
G4 terius 30 II terius latratu faciunt. Infuperrubicun da Galli criſta,flammæinftar
rutilantis, primo afpectu,colorisratione,bilem in Leonibus celeri motu excitat,
vt panni rubri armenta quædam fugare, & mo uerefolent,inde fit, vt
quodammodo Leones &afpe&tum, & Gallivocem ti meant. Haud tamen
credendum eft in iis (ledato primo impetu ) perpetuotimo. rem ex hac beftiola
durare, & induci poffe. Corues, morientium feditatem ſentire, ob id
fuperte&um infirmorum crocitare. Orui, quia hominibus meliorem habent
odoratum, vt voluitÀrift, corporis morituri fætidum odorem de longe fentiunt:
fecus eft in hominibus, licet prope maneant. Propterea ſuper te & um
infirmiCorui volitant, &cro. citant, quando eius corruptio, &fædi tas
magna eft, vt ea paſcantur: huiufmo dienim animalium genusrerum foeti
darummaximeauidum eſt; quibus pa fcitur: Charlie [ citur: idcirco in bellis,
&in peftilenti tempore, cum corpora mortuorum vel hominum velarimaliū humi
ia&a funt; Coruorucopiaprcualet.Homines vulga tes, & quiparú prudétes
funt;dů Coruos crocitantes fuper te &tum infirmiaſpici unt, illum
moridebere afferunt:hoc au. tem falfum eft: ii enim tantum fæditaté
inſequuntur. Sæpè tamen Déus permit tit Dæmonesin Coruorum, & aliorum animalium
forma ſuper domos: vel in domibusmorientiúapparere, quando be ftialiter
vixerút. Et Bernardino de Buftis. Quo artificio es aduratur, ut cinnaba.
ricolorem acquiraté Iæsvífum colore cinnabari, & ad ru bedinem verlum
habere volueris, o quemadmodum vult Diofcorides; AC i cipe
æristaminascuttricoftę profundas: non ſint autemęris alias fufi, quia in hoc
ſemper ſtannum commiſtum eſt, Has e ſuper ignitos carbones apta, cum autem i
illæ rubeſcere incipient,ſulphurispul.. uerem tenuiſsimum leniter deſuper có iicito,
Sleepin ijáto', videbisenim (cellante fulphuris Máma) Pris (quamu'as euidenter
extra hi,& euelli.Tumodol.perfe & e nó pol. Te cuelli cognoueris,
addito ſulphur. remtoties, quouſque lamulæ eradicari videantur:caue tamen
nevrantur, & ad nigredinem vergant. Extinéta tandem Sulphuris flamma, &
refrigeratis lami. nis;æris rubei ſquamulas habebis magni valoris,quasloco
Hydrargyri præcipi-. tati in medicamentis recipies alias aut tem huius vires
apudGalen. & Dioſco videto. Theodorus Ga4, quedinfelicitertex Arist,',
deHydrophobia conuerterit, à crimine abfoluitur. Heodorus Gaza vir do &
iffimus, dumArift.tex.8.de hiftor,animal.c. 22 traduceret,omnia animantia
voluit à Cane rabidodemorfa, ip - rabiem ági,. ac mori, excepto homine. Hoc
autem qqantum ſit falfum,quotidianademon Strát obferuantia. Homines n. demor
fi; in rabiem aguntur, & pereunt; niſi Tectè curentur, vtcuidam (pauci sunt
menses) hic iuueni accidit, quià Canc rabido in manu demorfus, nullo adhibi, to
to medico, fed folum circulatoribus com fiſus, in 40.die in furorem deuenit;
quo temporelicetme parentes vocaffent,fas s &o tamen
preſagio,quodbreuimorere I retur, tanquam deploratū reliqui. Hęc
igiturTheodoritradu & io pleroſq; in vi rioslabyrinthos deduxit:multin.,tum
i vtGazá defenderent,tum iavtArifto telem ab erroris ſuſpicione vindicarent,
textum ita acceperunt animantia omnia à cane rabido correpta interire, hominē 3
verò folum abſque periculo non ferua. rizita expoſuitIulius Pollux. Alii verès
inter quos eft Leonicenus, textum malè fuifle conuerfum, veleſle depra suatum
contendunt, & fic loco a pocos i legendum mpirs afferunt, quafi ho
mocorreptus, &in rabiem, & mortem deueniret, fed non ita citiùs, vt
ceteris animalibuscontingit.Hic fenfus quoad - negotij veritaté ver
eſt,quiahômo pro i pter oprimú téperamétum, tardius, qua: cætera violatur:tamen
Ariſtotelisinten. 2 tio neutiquam eſt ipfe enim ex profeſſo hominem à rabie,
& morte ſeruari fcri pſit,cuius textů Gaza fideliter traduxit, neque
deprauatum, neque commutan dum exiſtimo, quia mens Philoſophi peruerteretur.
Vtauté Ariftopinjoom nibus innoceľçat; hydrophobiamin ho minemorbum elle nouum,
illiuſq;tem peftateincognitum proponimus,ex quo iure expofuit animantia omnia
é: Canis rabie emori, homine excepto,quia hæc lues in homine nondú innotuerat.
Con-. firmat opinionem noftram Plutarchus 8. Sympoſiacorum, in probl.9. dum
exfen tentia AthenodoriMedici ſcripfit, hy drophobiam eſſe morbum nouum, atq;
apparuiſſe tempore Aſclepiadis, qui Sub Pompeio Romæ claruit. Confir mant etiam
hoc Scriptores ante Aſcle piadem, quideHydrophobia mentio. nem aliquam haud
faciunt:e od lima. nifeſtum fuiffet, non video cur lub fie lentio tantum morbum
occultaſſent, E go quidem Hydrophobiam antiquitus haud extitiſſe,perſuaderemihi
nonpof fum:innotuiſſe autem veriſimile eft, nó ob aliud, niſi quia morbushic
non ſtaa tim à vulnereaperitur: Siquidem multi in 40.die rabiunt, aliqui poft
fextum, autoctauum menfem,vel etiam poſtane num, vt fcribit Gal. Auicenna
adnota - uitpoftfeptimum; Albertus poft duo decim.Propterea
antiquitus,&precipue Ariſtotelis tempeftate,huius morbi cau fa
nóaduertebatur à Medicis innoteſce bat quidem aquę timor taméàcanisvul nere
& tabiem, & illa praua ſymptoma ta oriri imaginabantur: idcirco Ariſto
teles etiam, interillos, hominem com morſum à canerabido,necrabidum fi eri,nec
emori ſcripfit. Alai radicem pro expurg andis vomitu te nacibushumoribus à
ventriculo,effico cißimum eleremedium. Vanta Git Affari radicis non modo in
ciendo yon: itu,verum etiam in expurgandis àventriculo. & ab eius par
tibus, humoribus craſsis & tenacibus ef ficacia,fapientum aliquot edocuit
obler: uatio: fiquidem multinon folum in vis tiis ventriculi, ſed etiam in
quartanafea bre, aliisque longis affectibushac eua cuationefeliciſsimo
cũfucceflu va funt.. Præparatur è fcrup.ij.aut Drach.j.radio cis Affari, quæ in
hydromelite, aut para fularum decocto fit diſſoluta, cuitan - tillum cinamomi,
&firupi violar. ade iicitur. Ex Fernelio. In conftruendis ſepulebris
veteresfuiffeadu! modum diligentes... Xáca Veteres in conftruendis fer
Epulchris, webantur diligentia:id circo admiratione maxima dignum eft illud,
quodà Ludouico Vluenarratur memoria patrum fuorum fepulhrim fuifleerutum, in
quo ardens lucerna inuenta eft.Hæcibidem (vt infcriptio ata * teftabatur Jante
Ann.M.D.condita'erat, - & poſita: manibusautēcontreccata, ex templo in
puluerécóuerſa eſt.Ex Langit. Ganicula exortum à veteribus maxime fuiße
obferuatum. Canis cAničulæ exortus antiquitus à prifcis ex eius colore, deami
ſtatu côtecturam capiebant. Illan, fiobfcurior, & veluti: caliginofa
oriebatur, graui, & peftilenté foreannu;ficlara & pellucida ſalubre ac
proſperu predicebant.Heraclides Põticubi. Aegyptiorum de'quatuor elementis
opinio. Vatuor elementa feceruntAegy, & fæmiam conftituunt. Aerem marem
iudicant,quà ventus eft, feminā, quà ne bulofus, &iners. A quam
virilevocant mare,mulieréómnem aliam.Ignévocát maſculum;qya arder fáma; &
fæminami quà luct;& innoxius eft tactu. Terram fortioré marem
vocent;faxiscautibusq; fæminçnomen aſsignant, tractabili ad culturam. L:
Senecakb.z.Natur. Quaft. Pbreneticos aliquandomirabilia loqui. Mirabile eft,
quod aliquádoin Phre« neticisobfcruamus,isturum enim, aliquot(benè inflammato
cerebro )}in guaLatinaloqui vel carmina cóponere cum prius fuerint eorum igna
viſ funt, fed quod mirabilius eſt, Nicolaus Flo rentinus refert, fe fratrem
phrenericum habuiffe, qui futura pradixit, quæ euer nerunt, ita vt eius
prædictiones magna ex parte poftea veræ inuentæ fuerint:de quibus tamen
fanusexiftens,nullam ha: bebat cognitionem. Infantium rupturn; qua via Sanare:
valeamus. Vltis obferuationibus, nullum remedium; Salubrius infantium rnpturis
inueniri expertum eſt, quam extritis cochleis, thure, &oui albumine
emplaftrum confectum. Hoc enim fi pare in affi &tæ apponitur,& infantes
eo temporinlecto detinétur miram in fa nando' affectu retinet efficaciam. Ex
Matthiolo. Digitum anularem, maximam cum cords retinere ſympathiam. Valem
anularis digituscum corde habeat confenfum, in animi defe & ibus, & in
fyncope experimur. Qui e. nim à talibus paſsionibus vexantur,vel. licato
articulo anularis digiti,feu medi. ci, vel attritu auri ad eundem cum croci
momento eriguntur. Per hunc prefecto vis quædamrefocillatrix ad cor perue nit,ex
qua ab animidefe & u collapſi vi gorantur, & in priftinam valetudinem
redeunt. Ex Lennio. Carnes code quomodo cruda vje deantur. N lautis
conuitiis,nevoraces gulofi que carnes coctas comedant, ticarti ficium
parabimus.Excipitur:leporis,aut agni ſanguis, quem congelatum, & fico.
catum in puluerem comminuemus,hic: fi fuper carnes coetas fpargitur ftatim
foluitur, illæq; colorem proprium mu tantes ſanguinofæ videbuntur, venau
feabundus, reijcias. In comeffationi.. bus contra paraſitoshoc eſt ele
&tumra medium. Ex Vuerckero... Adoris plcera, labiorumque fciffuras exper
HomasThomaiusin Idea fuivirida rij, Nicolaum Zannonem Chirur. gum guim Rauennæ
retulit, mirabili fucceffu: & artificio,oris, gingiuarum linguæ,&:
palari, nulla alia re, quam radicis penta phyon, fiue quinque foliorum decocto
vlcera fanare,atque labiorum fciffuras linimento,ex oleoamygdalarum dulci-, um,
cera, &maſtice, quam breuiſsimè adianitatem perducere. Exapri
tefticulis,fterilitatem in bomi nibus remoueri. MA Agnaeft vxoratis inquietudo,
& Gerileſque exiſtere: propterea.vt à xan to infortunio liberentur,
prolemq; ha beant,peraliquot dies ieiuno ſtamacho vir, & vxor cum iure
galli veteristeſti culorumapri,que verrisin vmbra exico catorum puluerem
capiant:ita profectò. breui tempore optatumadipiſcentur, vt in multisfterilibus
ex quacunq; cau « fa non ſemel expertum eft.Ex Democrito. Bufonistibiisdentium
doloreseuanefcere.'. Nter maximos cruciatus à quibus; dolores perniciofiſsimiexiſtimătur,ad?
cò quod multi & in animideliquia,& in manias deuenerint, multi etiam in
vitę deſperationem.Huius doloris remedio. um in odioſo & abominabili
animali natura repoſuit. Aperiam hoc arcanum maximum. Tibiæ Bufonis, fiue' ranz
terreſtris à carnibus mundatæ, fi fuper dentes condolences fricabuntur,imme
diatè dolorem remonent; adeoque cru ciatus ceffabit, vt quafi in dentium ſum
perficie dolor collocatusvideatur. Ex. perire modo, & fruere tanti arcani
theo fauro. Ex Florauanté. Cepam ab Hippocratemaximèdeteftario ' £pam
Hippocrates afpeétu inagis, quam efú coinmendauit, viſu bonā, elu malam elle
dicens. Idcirco lucubram tionibus, & litterarum ftuţiis addi& is
fùmmècauenda eft: oculos enim vitiati &viſum obtenebrat,bilemque exacuit..
Villicis, & folloribus, qui literis non ind. cumbunt huius eſús maximè
collauda tur: eius enim calore vires ad opera exercitanda magnopere
excitantur.Ex Plinio.. C Anima 164 B1: 1 c: L L /, Animalibus naturam non modo
terra, perum etiam fi um pra termino conftituiffe. Agna fuit conftituendis
terrarum terminis, & fitu quibufdam animalibus: ne simul vbique viuentia,
& hominibus & fibi ipfis perpetuo effent nocumento. Pro pterea
animalium pleraque in diuersű à proprio addu &ta fitum vtplurimum ægrotant,
& moriuntur. Hinccolligi musin Meda, Sylva Italia, non niſiin: parte
repeririglires. In OlympoMaceo doniæ monte Lupi minimè habitant, nec in Creta
Infüla. In Africa nec Vrfig. nec Apri, nec Cerui, necCapreæ viden tur: In
Illyria, Thracia, & Epiro Afini paruigenerantur: In Scythica terraa.. tem,
&Celtica neclunti Alini, nec vio. uunt Leones in Europa, Pantheræ in Aſia,
Ibisin Aegypto lolum commora tur. In Creta: nec Vulpes, nec Vrfifunt, necaliud
animal maleficum pręter Pha langium. In Ebulo Cuniculi non funt, catent in
Hiſpania, & Balearibus, In Seripho inſula Ranæ ſuntmutæ,illæ au tem fialiò
transferuntur, vocales fiunt. In Italia mures aranei venenati ſunt hos tamé
regio vltcrior Apenninohaud generat. Ceruiin Hellesponto ad alie nos fines non
commeant. In Ithaca illati lepores no viuunt. Sunt & alia animalia quæ in
determinatis locis, &non vbiqi viuunt, & generantur. Apjefum in menfis
apud Veteres infauftum extitiffe. X veteribus maiores nullum A pij genus in
cibis admittere folebant defun &torum enim epulis feralibus ab ipſis erat
dicatum, vtex Chryfippo Pli nius retulit. Multiautem non folum ex hoc, quia
ſepulchra coronabantur,Api umà veteribus fuiſle damnatum à men ſis, fed etiam
quia eius eſu viſus dimis nuitur, & Epilepſia generatur autumát: vnde à
Mcdicis nutrices moneri conſue lo, (frequenti enim huius vſu, lactum
decrementum, tum malam recipit qua titatem ECO 9. i > Samen litatem )vt ab
Apio abſtineant,ne lacté tes in morbum comitialem proni fiant. Dicunt in eorum
caulibus nonnulli cru diti ſcriptores vermiculos naſci, eoſque fterilefcere,
qui comederint in vtroque fexu: Satyri teſticulum carnofiorem Veneris in.
cendia excitæreflaccidum vero extinguere. Atyrium; quod Canis teſticulos vo
cant,magnæ apud fapientes eſt conſi derationis:in hoc enim,tum Venerem
excitandi,tum reprimendi à natura vi. detur eſſe remedium collocatum. Quip pè
maior planta bubulus, quiplenior, & mollior eft,ex ſuperflua &ventola
eius humiditate, in potu aſſumptus Veneris incendia excitate cóſueuit: minor
verò, qui flaccidior, & aridior eft illa reprime re,Veneremque
extinguerevidetur. Ob id(vt aiunt) in Theſſalia mulieres molle teſticulum in la
&te caprino ad ſtimulan. doscoitus,& bibere,& hominibus inpo tu;præparare
ſolent.Quod autem in Sa tyrio mirabilius eft,aiunt, alterú alterius in poo Sier o in potu ſumptų potentiam &
efficaciam refoluerezlı vterque teſticulusvpà exhi betur. Sterilitatem
hominibus,à fterilibus animali " bespoffe prouenire. I verum eſt, quod ab
Athenæo pro dicur,Malluin ter in vita parere,relis quoque tempore fterilem
efle, quod in eius vtero naſcantur vermiculi, à quibus femendeuoratur non
abfque rationeex iftius naturahomines pofle fterileſcere. Terpſicles apud
eundem dicebat.Mul lus enim fi viuusin vino fuerit fuffoca. arus,atque id vir
biberitçrei venerea -o peram darenon poffe creditur, quod ex 3 Plinio etiam
confirmatur, qui veneris incendia extinguere fcripſit. Cynorhodiradicem ad
Hydropbobiam pluri mum valere. Dmorſum canis rabidi vnicum " A
Pemedii,quodá oraculoroperti proponit Pliniuslib.8.cap.41. Hæc radix Hlueftris
roſæ eft, quæ Cynorhoda apl pellatur.NarratB.Fulgofius de quadam s fæmina quæ
per ſomniú admonita eft, vt 12 Hvide vtradicem Cynorhodi filio à cane ra. bido
demorſo, & aquas iam metuenti præberet, quæ ftatim ex Hifpania affer ri
curauit radice qua Hydrophobicus ce, lerrimè fanitati fuit reftitutus. Ex Gem.
m4Cofmacrit. lib.1. ap 6. Hominis vitam quibusfignis long am,velbres nem
metiamur. Ominis vita pomo perfimilis effe videtur; quod aut maturum,deci. dit
Spóte,aut ante iniuria tempeſtatum, ventorumue impetu deijcitur. Vitae breuis
figna colligimus, raros dentes, prelongos digitos,ac plumbeum habere colorem.
Contra longæ, incuruos hu meros, nares amplas, & tria ſigna primis
contraria, multos ſcilicet dentes, breues digitos, craſfosque atque clarum
reti. nere colorein Forcius. Extra£tum Hellebori nigri ad morbos inue ter
atosmagnaeffe praftantia. N thrities atqueaffectibus inueteratis, iiſque
potiſsimum, qui ex atro, & meo lancho T! ta ļ lancholico humore excitantur,
extra Ecü migriHellebori,remedium praſtancil efimum femper clle
inueni.Capianturnie gr Hellebori radices à fordibus purga tæ, & in pila
terantur groſſo modo: in fundantur vino albo,& in vafe terreo e bulliantur
quousquc radices benè emol liantur, quo facto prælo exprimantur,& iterum in
vaſe terreo leniter ebulliat (deic & is tamen radicibs) quod fucrit
expreſsum. Acquiret fuccus (piſsitudi nem inftar picis, quicum modico cinna.
somo,& pulucre aniſorum miſcendus eft. Dofis in grandioribuseft fcrup.ſem.
in minoribusà granis quatuor vſque ad ſex. Datur cum zuccaro in forma pilalar.
Confiteor in obſtructionibus, in c pilepticis, retentione menftruorum ex
cralforum humorum infarctu, & in alijs inueteratis affectibus, mirabiles
huius remedij fucceflus vid.Conficitur eti, am extra & um fine expreſsionc,
& cffi. - Cacifsimum cſt. AdLejenem induratum ejufqueobfrationen
efficacifsimaprafidia TE 3 Inte Nter ea remedia, quelienem, &fple. neticos
ab obſtru &tionibus liberare reperta sút,mihi femper ex voto fuccef
GtAbſinthijRomanideco &tum,ieiuno ftomacho epocú,quod à Cornelio Cel fo
fummècoromendatur:Vt autem eura felicior ſuccedat poft cibum,aqua Fabri
ferrarij; in qua pluries ignitum ferrum extindum fit, Lienoſis præbenda eft.
Experientia id totum manifeftauit, ani Talia enim apud huiulmodi fabrose
nutrita, ob eiuspotum, exiguos habere lienes obferuatur. Beniuenius, ciuem
Florentinum per feptennium ſplenis fcirro malè affe & um curaffe gloriatur,
atque ſolo eſucapparorum, & aqua per lanalle.Debenttamé hæc remedia mul to
tempore vfurpari,vtfcopú attingat. Hominem quendam fuiffe repertum, mira
vaftitatis,&ingluuiei. NdixeratMaximilianusCæſar Ann, MDX I.apud Auguſtú
comitia: quã. do illi vir quidam, prodigiofæ vaftita tis, & craſsitudinis
oblatus eft;at in illo incredibilis, & inſatiabilis erat ingluuies itavt
integrű virtulü crudun,vel ouem UN It incođá vna vice deuoraret, nec taméfa.
mem expleta diceret. Ferunt(vt Surius) hominēBorealibus regionibus ortú fuiſ fe,
vbiob locorú frigora folent homines elleedaciores.Hoc taménon folú in Scp
tentrionalibus partibus,verú etiam alibi bi repertú cft:Voraces n.fupramodú
fuifle referunt Aeliano auctore lib.3.de var. hift.) Pityreú Phrygem, Cambeten
Ly dium,Charidamcleonymu,Pifandrum, Charippum,Mithridatem, Ponticum.Et e
Anaxilas comicus dicit, Cefiam quendā infinitæ voracitatis extitifle. Antidot
erum aliquet contra penenum ab ſeruationes. Rcareca Viperamorfus, per impofi
tioné tormentille à campo penſili colle etę,illico liberatus eſt,Altercum ingen
ti dolore, & ardore premeretur fuper | dextra spatula, & ita angeretur,
vt vix ſe s pedibuscontinere, oculis videre, & lo. qui poſſet, veritus neà
fcorpione eller comorſus,oleum bibit,multú vomuit,& à dolore leuatus eft,
& quod mirabilius, Ha in ſpatula
nihil erat ſigni,vbi prius fue rat dolor.Quidametiamà fimili dolore, &
tremore correptus ex aflumpto Bolo armeno cum aceto ſubito cuafit.Puellus etiam
putredinem timens, & vermes al fumpfit Scordeum, &liber fa & us
eft. Ex Franci.Thomaſio depeste. Quoartificio Cancri pixiextemplo sodi vi
deantur. Inum ſublimatum, fiue aqua vita magnam habet efficaciam ia rubi
ficandis cancris viuis: propterea fi vis homines in admirationem dicere,accipe
viuos Cancros atque in vino fubliaato fubmergas, ita enim confeftim ruber
cent,acli perco &ti eflent cantaeft illius aquæ caliditas, & energia,vt
inſtar ignis exardeſcat: admiratio tamen indenaſci cur, quod rubefa &
i,& viui ab aqua e. cmpti ambulent. Quorradoflamme excit etw inagha. I
calcem non extin & am accipias,Sul & lalnitrum in partes æquales, ac
bene omnia fimul ailccas, puluis perabitur, qui forqui in aqua proiectus
inflammabitur, ac ducem reddet: quod parui mométi haud Berit,prçcipuè ſinodu
luce indigebis.Po e terit id fieri in valčulo aqua pleno, vt™ quidá amicusmeus
dū no & u in itinere lefſerexpertus eft,qui totum mihi fideliter comunicauit.
9 vbivigent morbi, ibi maximè remedia oriri. M.Agna eft Naturę prouidentia ia
ado iuuandis hominibus,quippè obſeros suatú eft,vbi aliquimorbi copiosè vaga.
ctur, ibi remedia accomodataad illlorum exterminiūnaſci voluiffe.Hincinaphri
bea, quę ferpentú eft feracißima,aromata? tanquã eorű veneno antidota,oriuntura
In Argo Scorpiones plurimi videntur; propterea ibi Locuſta adverſus Scorpio.
nesinſurgensnafcitur: ApudIndos Os cidentales Gallica lucs viget,ibi lignum
SanaaGuaiacum di& á exoritur, & il. lincad nosdefertur.Catharides
veneno ierodunt:ex illis remediú caput, alias & e pedes earum exiftere
obferuamus.Quia Stellionibus mordentur, iiſdem in potu Ghana fumptis,fanantur
Crocodili adeps, fi in ipfius vicera inftillatur,ſuo veneno me deri videtur.
Scorpiones,Draco mari. nus, & Paſtinaca contriti, & eorum pla gis
impofiti,procul dubio fanánt. Na. pellusmortiferum venenum eft, vbita men
nafcitur,ibi Antorareperitur.cuius radices cốntra Napelliperniciem,fingu Jare
ſuntpræfidium. Animantium lac ab alimentis recipere gut litatem. Lacomnein
animantium corporibus alimeati recipere qualitatem adeo verum et vt
demonftratione nonegeat: liquidem nutrices ex prauo in vidure giminenon ſemel
infecifle infantesvifa funt,hac etiá caufa lacin ijs modò.craf fum,modò
liquidum,aut ferofum cer nitur,eo quod cibusaut craffus, aut in eiſsius
fuerit,modò infantium cóftrin git aluum,modò ſoluit,quod vel con ſtringentia
vel foluentia nutrices come derint,Hocin pecoribus etiam manife ftum eft:in
locis enim vbi hæc fcamoniú Helleborum,aut mercurialem comedit, vtiq; lacomne
ventré,& ftomachūſub vertit: quemadmodú Dioſcorides in Iul ftinis moribus
contingere prodidit: vbi ficapre albúveratrū pro pabulo habue i fint, primo
foliorúpaftueunmere, & ea rá lacnauſea n epotứcreare atq; ftoma chúvomitionibus
offendere ait: Cum a.. adftringétibus pabulis,robore,lentiſcogs frondibus
oleagincis, & terebintho pe cus hocveſcitur, lac ſtomacho accómoe
datiſsimügenerare veriſimile eft. Ex pulcbritudine, da deformitate aſpoetuse'
mures viuentibus coniectusari. MAgmá nobis afpe&tus pulchritudo
veldeformitasnon folurn in homin I nib,fed etiã animalibus,& plátis
preſtaci cóiectură,qua benignos vel prauosmon res & naturas veoarifolemus;
intuitu nó pulchri corporiszfpeciofiq; afpe &tusmité naturam, benignofq;moresin
homine illo perfiſtere conieéturamus: contrain I deformicorpore,turpiafpe &
u timemus. enim neſcio quid calliditatis, & malitie i In animalibus
laudamus catellos, canes Venaticos, & ſagaces, venamur in eis benignam
naturam, & mites mores: (6.. tra in Maloſsis,inLupis,Pantheris, & fi
milibus, timemus crudelitatem, maliti am, & voracitatem. In plantisex pul
chritudine venamur falutares naturas, ex deformitate autem noxias, Rola,Li
lium, & Iris nobis præftát argumentum, quamplurimis pollere virtutibus: con
tra Cicutam, Aconitum, Napellum.ex deformitate enim plantarumhuiuſmo di,mortem
nobis poſſeinducere arbitra arur. Ex Poria in pbyſiognom. 1: partibus
Septemrionalibu sdeficitate tes exaceri. Laus Magnus de gentibus Septena. rrionalibus
loquens: Sunt (inquit ) Biariniidololatrę, & hamaxobii,Scytha. rum
more,atquein falcinandis homini.. bus inftru & iſsimi; quippè oculorum, aut
verborum, aut alicuius alterius rei maleficio, homines fæpe ad extremam maciem
deducút & tabefcêdo perdunt.. In hamorrhagia fele&tißimum praſidium.
Nfluxu fanguinis narium copioſople.. 5i9; & in animi deliquia, &
fyncopim deur.. perati intercant. A periam quod mihi deueniunt, multoties etiam
tanti peri cali bicmorbus eft,vtægrià ſalute deb u,fem * per adhibere
profuit.Burſa paftoris co I trita, ficum ouialbugine, & aceto,com i mifta
fuerit, & frontiapplicatur, confe * ftim fanguis conftringitur;ve mihinon £
femel in infirmorumcuracontigit. Vi in febricitantibus fitis, lingua ardor
compefcatur. Nfebricitantiú querimonijs ex ſiti, & linguæ ardoribus,
Criſtalli vfus inter præcipua iudicatur remedium. It lad enim fi diù in aqua
frigida agitatur, &ore deindedetinetur, fitim & calore corrigit, atque
linguam humectat: ma ioris tamen virtutis eft lapis albus, qui in lysacis
capite reperitur. hic porrò ſub lingua agitatus non modo fitim ca
loremquerefrenat; verum etiam faliva in ore excitat: vnde febricitátibus,&
ma kimè, fiticuloſis prælentaneum iudicae tur effe præadium. Ex Lemnio. Skolen
Al ignis prefidia fuiſsimè in morbis CW AX: dis Aegypties TerueTATE. Var
Aegyptij admodum proclives in languentium cura,adignea prælia dia
eligeada,propterea vftione vtuntur afthmatelaborantibus,in ſtomacho frie
gido,humidoque ab humorumque dea Auxu, &facibus repleto,Hepar,& Lic nem
obduratum, &refrigeratum,multa cum vtilitate inucunt; Hydropicos ſub
vmbilico, &fub hypochondrio finiftro linea petia ignita adurunt. In
doloribus dorfi,lumborum,colli, & orenium arti culorum,in ſpina dorli,lumbis,collo,
& alijs partibusdolore cruciatis,hocpræſi-. dium frequentant, In tumoribus
à crue. dis, pituitofisquc humoribus generatis ad ignem confugiunt, tanquam
auxiliú quod citò multosmorbos curet, inopia queproprium efle autumant. Ex
Alpines de Medic. Aeg opri.. Centium, & populorum ingenia bifuris,
prouerbäs: excogitari.. Vlius Scaligeri vir acutiſsimi inge nij,Gentium,&
populorum naturas tum ex hiſtorijs, tum ex prouerbijs, at que ex ore vulgi ita
excepir. Alanoruto luxus:Africanorum perfidia: Europeorü acritas.Mótani afperi.
Campeſtres mol liores,deſides.Maritimi prædones, mi ftis tamen moribus: eadem
ratione In fulani quoqueſunt.Indimobiles, inge nioſ, magiæ ſtudioſi,numcro
fidenteso Affyrij,Syri ſuperſtitioſi. Perſæ, Medi Baštriani,Pyrrhi,Scythæ,Sibi,Phryges,
Cares,Cappadoces,Armeni,Pamphilij, mercenarij, atquealijsbellicoſi, Aegyp tiz
ignaui,molles, ſtolidi, pauidi. Afria cres infidi,inquieti.Aethiopesanimofi,
pertinaces, vitæ mortifque iuxta con temptores. Thraces,Myfi,Arabes,Mo.
ſchouitæ, Pæones, Hungari,prædones. Illyrij, Liburni,Dalmatrz, iactabundi,
Germani fortes, limplices, animarum prodigi, veri amici, verique hoſtes,Sue.
tij.Noruegij.Grunlandi, Gorri, beluæ, Scoti non ininus. Angliperfidi, inflati,
feri,contemptorës,ftolidi,amentes, in ertes, in hoſpitales,immanes. Itali con
Atatores irrifores,fa &tioſi, alieni fibiip kis bellicofi,coacti,ferui vine
(cruiant, E H Dci 318 ! CEL: 1: 1: Dei contéptores. Galli ad rem attenti,
mobiles,leues,humapi,hoſpitales,'pro-. digi,lauri,bellicoli,hoftium contempto
ges,atque idcirco ſui negligentes, impa rati, audaces, cedentes labori,
equites, omnium longè optimi.Hifpanis vi& us, afper domi,alienis menfis
largi, alacres, bibaces,loquacesyia & abjadi lor 3.Poc-, tices. SCMabaum,Solis
Lunaque coniunčtionen piuentibus oftendere. Irabile eft, quod à natura Scara-.
bæus animal notifsimúedidicit, omnibus enim Solis, L'unaque coitum apertè
demonftrat.Hicex bibulo fter core pilulam ab ortu, ad occaſum totá. döverlans,
in orbis imaginem effingit, quam xxviii.diebus peracta humiicro beobruit ibique
candiu abfcondit, dum ZodiacuniLunaambiens fiat interme.. itiis,&
fileat:tum foueamaperit, & fide-. THM coniunctionem denuncians,nouam pralem
cdit: hæc enim eft iftius beſtio la necalia nafcendi origo Ex Mizeldo.i. exo # Bobilin 2x Quorundam aimalistu natur &..
Oseft conftans, afinus piger,equus: libidineincenditur, petitąue impe.. tnosè
femellam;lupusmiteſcerenequit; Vulpes inſidiola, aſtuta callida: Ceruus
timidus;Formicalaborioſa:Apis parca: Canis gratioſus, ad amicitiam propēlus,
Leoſolitarius,expers focietatis,nunqua pabulum externum admittens, tanta vocis
magnitudine, aut fonitu, vt ſolo Tugitu celerrimaanimantia profternat; Visſa
pigerrima,ſolitaria,corporegraui, compacto, indiftin & o: Panthera vehea
menis,& ad impetus faciendospropenfa, pernixoyedi& a quaſitota
fera.Anguis fæniculi paſtu oculorum lippitudinem carat: Formica temporishyberni
pabu lum æfiate condit:Item - fides in canibus, in elephante manſuetudo,ftudium
ore of natus in Pauone, çura vocis amanæ ſuam, uiſque in Lufcinia.Forciuss.
Cervorum vitam,eße lengisimam. Piabat Magnus Alexander poſteria -jari, Ceruorum
vitæ loogicudinem oftenders,propterea multoscapi iuſsit, quibus aureos torques
in collo in neđi voluit: in ijs temporis curri culum erat expreffum,
&Alexandri deo creturn; illorum aliquot poft centum annosab Alexádri morte
capti fuerunt, qui adhuc ætatis ſenium minimè pręfe ferebant.Ex Plinio.
Mafculinum fuum citius in ptero, gianfo mining animeri.. X omnium ferè
Scriptorum opi nionemaremfætum citiùs in vtero, quam fæminam animari capitur,
aiunt enim marem io dextra parte matricis ex feminecalidiori concipifæminam:
verò ex ſemine frigido, ſiue minus calido in finiftra partematricis,
quæcomparatiuè ad alteram frigida eft.Hincmasdie40. foemina verò 80.vel90..vt
plurimuma nimaridicitur:quod frigidum tardum fit,&pigrum in ſua operatione:
calidum. autem velox: idcircò virtutem forma tricem invno femine velocius,
& citius mébra organizare, & formare, quam in alio obferuamus. Ex
DominicoTbolofano fuper Leuit.cap. 1 o. Pici PictMirandulaniingenium, quam
maximè collaudatum. A,&, + PiciMirandulani,& ingenium, & &
multiplicem do & rinam collaudabant, & miro ordine
extollebant:Quando(in quit Picus) ron eft,vthac in re mihi,aut meo ingenio
velitisbiandiri: quin refpi.. cite potius afsiduis vigilijs, atq; lucu
brationibus,quàm noftro ingenio plau 9 dendum: & fimul aſpicite fupelle
& ilem noftram,atque librorum thefauros:oité I debat porro Picus
bibliothecam egre. gio ornatuconſtructam,atque omnigem nis libris ex varia
eruditione refertam. Ex Crimite InHydrargyro onnis metallica Supernatare.
Akreexcepto. Ercij,vel fi mauis, Argenti viui; proprietas mirabilis cit, quòd,
omnia mineralia ferè,vtplumbum, fer Tum, æs, & alia ponderotiſsima(excepto.
auro )in eo fuperpatent: aurum ditem, * fundum petir, & eius recipit, cola
rem, quiignis tantùm opeabfumitut & in fumú mali odoris refoluitur. Hu. jus
nidor, & virulentia nauſeam, nocu mentumque adftantibus inducit: inde
membra ſtuporem recipiunt, & nerui relaxantur; vt fæpifsimèip inauratorio
bus obferuatur. Ex Lem. oleicinnamomai rara o pretiofa como pofitio,plerisque
incognita. Icinnamomiolcum ad diuerfas infira: mitates parare optabimus caperec
portet, cinnamomicontriti lib.j.quam adinftar liquid: pultis cum oleo amyg-:
dalarum dulcium commiſcere ftude bimus, tum demum duodecim dierum ſpatio in
loco tepido clauſo vaſculo fituabimus, poftmodum ex torculari totam id
exprimatur fortiter: hac ett nim methodo oleum, odoris,.coloris, &
faporiscinnamomihabebimusad vo tum. Hocadvires reparandas, & Vio letudinem
conferuandam rarum eft ro medium, prodeft parturientibus, & in ftomacho
debilitatotam interius,quàna exterius vfurpatur; ngritudines frigi 18g A E das
arcet, & in partibus corporis ro u borandis eft tantæ efficaciæ, vt vix ale
v toruin conſimile inueniatur remedium.. e Marimum Herinaechin
tempeftates:mariti w pracognofcere. Dmiranda profecto: eft' Marini Herinacei
proprietas: hic paruus pifciculus eſt, nullatenus tranquillita tis tempore
naturali propenſione futu ram præcognoſcit tempeftatem. Ea im. minente ita fe
præparat: faburram fa cit, lapidem ore percipiens, ne maris flu &
us,vndaqueimpetuofæ facile eum diocodimouere, atque huc illuc in pellere
valeant. Nautæ id afpicientes: fucuram tempeftatem à piſciculo hoce. do &
ti percipiunt, ob id anchoras & fue. des, & fe ipfos parant,
tempeſtatibus maris reſiſtere poſsint.Ex D.Ambrofia, Miracuimdam fontis in
Epiro Proprietasi A naturz proprietas illius fontis, qui in Epiro (vbi Dodonæi
louis tema. plum olim inftru &tú erat, quacaufa hic faces facer di &tus
eft ) inuenitur. Ille fri. gidus eft, & immerſas faces, ſicut cx teri
extinguitcum: autemfine igne pro culadmouentur,mirabiliter accedit, A bulenfis
fuperGeref.cap. 13. de hoc menti onem facit, afferitque huiuſmodi pro prietatis
cognitionem Adam, & conté poraneis fuiffe apertam, diluviogue &
gentiumdifperfione effle perditam.vide Pomponium Melam. mHecla ignem emiffum,ficcis.extingui,
to que verò nutriri. Dmirationem, &fidem omnem ſuperaret, ignem ab aqua
nutriri, & non extinguiintelligere,nifiGeorgi us Agricola,vif noftræ
tempeftatis me moria dignus,oculatus adfuiffet in He cla.Narrat hic in Inſula
Irlandia mon tem nomine Heclam exiftere,, ex quo ignis emittitur,vt hodie in
Vulcanopro. pe Siciliam,Sicaniam dicam, & Puteo lis in loco vocato le
Fumarole, obſer uamus. Ille autem à cæteris diſsimilis ficcis extinguitur, aqua
verò alitur. Ex lib:noftro de Hydrom:Naty. Hominum aliquot fubtilioris,
plerofque au tem groſsioris ingenij adeffe. Ropterea Aftrologi, & præcipuè
Al. bumas,hominum aliquos fubtilioris i ingenij,aliquosverò groſsioris inueniri
volunt: quia in eorum natiuitate Mer. curius, vel bonam,vel malam habet pòa'
fituram.In quorú enim natiuitate Mer. curius in domo,velexaltatione Solis fue
sit, ij ſunt ingenio prædici; fi verò fuerit + in domo Lunæ, nafcuntur
groſsioresor Ptolemæus, Bropoſ. 70. in quorum ortu | Luna reſpicit Mercuriú,
fapientes fieri voluit;contra autem amentes:quiaLuna virtutes naturales
infundit,Mercurius verò rationales:vnde eum virtutes naa turales,quibus
corpusguberdatur, rati onem reſpiciunt, ille nafcitur sapiens; cùm autem non
refpiciunt, amens. Hac etiam de cauſa efficitur mentis hebes, & obliuiofus,
qui in natiuitate Mercurium babuerit retrogradum: fi enim dire &tus
fuerit,ingenijceleris fiet. HancAſtrolo. gi ducunt rationem, quòd ftellæ nóim.
peditæ,luas faciant naturales operatio nes; oppoſitum autem,fiimpediuntur.
Hisdecaufis frequenter Aſtrologosve sa pronoſticare de moribus hominiume"
accidit; non quòd ita neceſſariò eue. niant, fi homo per voluntatem, ratico pis
legem magis, quam ſenſusſequi vo luerit:fed quia pronuseſt ad ſequendum
appetitum fenfitiuum, in quo Aſtra influunt. Raxael. Matr. in Addit. Bartol..
Bibyl. Galenum omniumporiamcorporis, folum perfe& ifsimè inter veteres,
morbos Caraffe. Ratapud Aegyptiosinuiolabile de cretum, vt fingulis morbis,
finguli adhiberentur medici. Hinc illorum 0. cularii, auricularij, &
alterius,morbo rum nomenclaturæ aliquot vocabantur: arbitrabantur enim fieri
non pofle, vt v nus omnium curarum difciplinam re&tè teneret; quamuis in
vnadoctus habere tur, vt BaptiftaFulgofuslib. 2. adnota uit. Galenus tamen
illic temporis inter veteres, naturæ miraculum, omnium corporis humani partium,
tanquamfa. E pientiſsimus,morbusperfe& ifsimè fo lus curare nouit. In
lib.de Pet. Art.Med.c.2. Grecos feriptores de Iudeorum monumenti rutibi
pertractafle Riſteas, cuiushodielibellus extat de Translatione In terpretum,refert;
Ptolomeum Philadel phum, fecundum Aegypti Regem poft Alexandrum, quæluille ex
Demetrio Phalereo, quem ille inſtruendæ biblio thecæ præfecerat, curGræci
ſcriptores,.nullá dehiftoriis, &monumétis ludæo rummentionem feciſſent
reſpondiffe autem Demetrium, tentafle quidem id facere Theopompu,&
Theode&tem,no biles in primis fcriptores, & quedá ex lu.. dæorum
monumentis ioleruiſle fcriptis fuis: fed mox taméluifſe temeritatis pe
nas:illum enim amentia: hunc cæcitate diuinituspercuflum; ſed poftea mali fui
caufam agnofccntes, & ex animo dolen tes, placato Deo,ſanitari elle
reſtitutos. Eufebius lib.8 De Prapar. Euang. A Cane qido demo- fum, inftarCanis
la traffe proditumeft. Ex corrupta imaginatiua non femel à cane rapido commorh
latrare vifi funt:cognouit enim NicolausFlorenti nus quendam, quià cane rapido
morſus, curationem vulneris minimè quæfiuit; exercuit hic per dies 35.negotia
ſua abſ. que læſjone, maneautéfequentis diei è lecto ſurgens retrò vxorem ſuam
inftar canis ſtetic, cæpico;pofteam latrare: dú autemab illa
reprehenderetur,lubridés ſurrexit, idque pluries eadé die reperi uit. Serò
corrupta ex eius ratio, & die 40.mortuusà morſu illato repertus eft. In
Arthritidey Chiragra, quando mors fuccedas. Arò mortem in Athritide, & Chi
R corporis ignobilibus humor refideat; hinc (nouo haud fuperueniente morbo)
tales àmortis periculo, vexatidoloribus vindicantur. Has tamen mori com pertum
eft, quando circa finiftrum pectoris finum, cui cordis turbinatus mucro ſubeſt
humorum colluuies den cumbat,atque Gniſtræ manus digitus an Bulan Di mularis nodum acquirat, ac valde intu i
meſcat.ex Lemnis. Lienen ad -corporis tarpitudimem maximè Talere,
Vantacoloristurpitudine,qui ab in dicuntur,exiſtant, in dies obſervamus, non
modò in illius obftru &tionibus, verùm atqueScirrhis, alijſque tumori -
ribus. Hioc iure dicebat Galenus z.de Natur. Facult. Quibus corpus florefcit,
his lienem decreſcere,ac vice verla,qui bus lien creſcic, illis corpus tabeſcere,
& o vitiofis repleri humoribus. Caufa om nium eft, quòd lien ab infar
&tu fa & us imbecillis,nequit(fa &ta humorum ſeparatione in Hepate)
melancholicum fuc cumad ſe attrahere: hinc demiflus ille cum fanguine
corporisatro colore ani. bitum maculat. Iumenta clitellaria in itinare fibilo,
da Cana In à laboribus fubleuni. Vlicęconcencusſongriſ numeri maximè homines
delectant, ob id multi & cymbala, & alia muſica inftrumenta
frequentant, vt animus à mæftitiis fubleuetur. Hac coniectura obferuatum eft:iumenta
clitellaria in la boribus, & itinere, cantu, & libilo al
leuari:propterea mulones, vt muli, ce seraqueiumenta dicellaria,& tarcinam,
& alia onera minus laboriosè fentiant, tincionabulorum torques in illorú
col. lisfufpendunt, quorum fonitu, huiuſ modi valdedele &tari cognouerunt,
& perinde refici, & à laſsitudinc fubleyari. Ex Vairo kb.z.da Fafcine,
Mafalas nigras in acutis morbis apparentes, exitium prefagics. Neer ligna,
mortem languentiuni, quæ præſagiunt in febris acutis, illud maxime obſeruatu iudicaui
dignū, quod à Sauonarola multa experientia com probatum eft. Sienim infacie,
ſeu genis ægrerum,maculæ nigræ obortæ contpi cientur,prcculdubio languentis
exitium minantur,quippè venenofæ, & peftiferę materiæ in corpore predominiú
redun dere arguunt, ex quo mors ſubſequitur. Has cum obſeruaſiet Sauonarola, ex
tali ľ prognognoſtico,magnumhonorem fua ifle confequutum refert. Acetum adictus
venenofos epotumplurimum valere. X Cornelij Celli obferuatione ace tum pertum
eſt:quippecùm puer quidam ab j. afpide ictus eſſet, & partim ob ipſum
vulaus,partim ob immodicos æftus, fiti premeretur,cum in locis ficcis aliumhu
morem nó reperiret,acetum, quod fortè ſecum habebat, ebibit, & liberatus
eſt: coniecturandum eft acetum, quamuis refrigerandi vim habeat, habere etiam
difsipandi,quo fit, vt terra reſperſa co spumet. Propterea eadem vi veriſimia
le eft, fpifleſcentem quoq; intus humo. rem hominis, ab eo diſcuti, & fic
dari fanitatem, lib.s.de ictu afpidis. A quodam piſtisgenere febrem illico ex
citari. N Arota flumine Inſulæ Zeilã quod. dam piſais genus reperiri referunt,
quod manuapprehéfum febrem accen, 1 dat.Equidem piſcesillic neutiquam el
culenti ſunt, liceat flumen fitpiſcofiſsi mum, qui tamen piſcem febrium appel
fatum retigerit,confeftini à febre corri pitur;ſed quod mirabilius eſt, demiſſo
piſce, ftatim liberauit.Cardanus, & 566 lig.in Exercit. Fæminas in
maresfuiße commutatas fabulo fum non est. Pudmultosauctores ex pluribus obferuationibus
notatum reperio, foeminas in mares quandoque commu taras fuifle:referam folum,
quod tempo reFerdinandi I.RegisNeapolisfueceſsit. Erat Salerni quidarn
Ludouicus Guara rea, à quo quinque filiæ fufceptæ funt, quarum natu maioribus
duabus, alteri Francifcæ, & alteri Carolæ erat nomen. Hæ ambæ cùm
perueniffent addecimu quintum annum,in mares mutatę funt: ijs enim genitalia
membrainſtar marių eruperunt,mutatoquehabitu pro mari bushabiciſunt:
Franciſcus, &Carolus nuncupati.Ex Fulgoro. Sene & utis incommodatam
corporis quàm Animai NKINGT ANTUT: Quanta fint in fenibus, & corporis,
& animi incommoda, non modò à Scriptoribus, verùm arquecontinua,ob
feruatione experimar,vt iure afferere libeat,hanc hominis poftremam ætatis $
partem miferrimam iudicari. Mortales enim cùm ad fene &tutem perueniunt *
cor eorum affcum eſt,caput tremulú, (piritus languidus, anhelitus færidus,
frons caperata, corpus recuruum, nares mucores deftillant, vifus debilitatur, i
capilli decidunt, dentesputreſcunt. In fuper ſenes ſunt iracundi, inexorabiles,
moroſi,nimis creduli, rarò obliuiſcun. tur iniuriarum,laudantveteres, prælen
tia damnant,triſtes ſunt, languidi, iniu cundi, &
alperi:ſuntauari,ſuſpiciofi, o. neroli,difficiles.Exquibus fene &tutem
fentina, & cloacam efleomnium ford ú, & immunditiarum ætatis noftræ
confia tendum eft.Ex Lauren. Cupero. + Magnum Alexandrum, corporis ſudorem ha
buiffe redoleni em. Rat Magnus Alexander tam re & a humorúarmo I 2 nia,
& temperamento conftitutus, vee iusanhelitus odorem balſamiexpiraret; imò
fudor, quem è corpore emittebat, tanta ſuauitate, & fragrantia redolebat,
vt quoties eiuspori recluderentur, gra tiſsimis odoribus perfufus crederetur.
Quod autem mirabile, & difficile credi tu eft,cadauer eius tam
fuauiterſpira bat, vt aromaticis ſpeciebus repletum efle iudicauerint.. Ex
Quinto Curtio,& lib. noftro de Hydron.Natur. Diuerfe quorundam hominum
virtutes, ornamentA. P tibus,tumanimi magnificentia col. laudantur,omnes in paucis
earum per. fe &tionem, confirmant. Porrò Ablalo nisformam, &
pulchritudinem extol lunt:robur, &fortitudinem Sampfonis: fapientiam
Salomonis: agilitatem, & celeritaté Afaelis:diuitias, & opes Creo G:
liberalitatem Alexandri:vigorem, & dexteritatem Hectoris: eloquentiam
Homeri: fortuuam Augufti: Iuftitiam Traiani: zelum Ciceronis. Veteran Baderoase
no canna, & in papyro penna fcribebate Veterim ruditas, &infcribendo
vari Arbara equidem,& mifera erat ve teruminfcribendo ruditas:ij enim primò
in cinere, deindein corticibus, & folijsarborum,pofterin lapidibus,mox in
lauri folijs, exinde in laminis plum beis,conſequenter in pergameno, & tan
dem in papyro fcribere politiſant.Erat præterea illis in modo fcribendi, ins
Itrumentorum diuerfitas: in petrisenim:. ftylo ferreo, in folijs penicillo, in
cinere digito,incorticibus cultro in pergame. Eorum etiam atramentum varium
erat, primum fuit liquor pifcis illius, quem nos ſepiam appellamus;deinde
mororú fuccus;ad hæcex fuligine caminorum; mox eft fynopica rubrica,aut minio;
vl. timò tandem ex galla,gummi,, & vitrio o lo fieri cófueuit. Bx
Strabonede situOrbis. $ InAngira prauosatiuspilulami rabiles Periamnunc pilulas
meas maxi mæ efficacia, quibus in angina 3 prafo А pręfocatiua à cratsis
frigidiſý; humori bus exorta, ſéper cu felicifucceeflu vfus fum.Interalias
obſeruationes, in quibus tale medicamétum libuit experiri, luc cefsit calus in
R. Petro de Stephano Archipresbytero Cercelli, qui ferè fufa focatuserat, quare
vocatus anno 16156 vt eius ſaluti confulerem; cognito mora bo, quòd ex craſla
& viſcida à capite de ftillatione fieret, pilulas meas in aurora
exhibui,non fine loſephi de Simoncin medicinaDo&oris, mei collegæ admis.
ratione, qui rennebat quodammodo. medicamentum. Eratpilularum come pofitio ex
trochis, alandahal, & Aloes an.Scrup.Sem.j.Diagrid.Scrup.Sem.cú ſyrup.de
líquiritia conficitur maſſa. Ex hac plurimępilulæ,vtfacilius æger de glutiret,
confe&tæ fupe:Hisdeglutitis, iuriscicerum fubitò cya mbum propine. re foleo,quemadmodum
in hoc feci, qui fine moleſtia euacuauit, & breui delituit dolor &
gulętumor,benè reſpirauit,be nècomedit, & vna die fanus factus eft,
cummaxima multorum admiration & lgtigia. His pilulis vfus eftGalenus ad
linguam tumefactam, vi lib. 14. Method s med. ſcriptum reliquit: Capitis noftri
capillos, plant arumnatura mo ximè aRimilari. M Agnácapitisnoftris
capillicumplá tis retinent fimilitudine: quemaddum n.plantę nónullæ humoris
defe& u. inarefcétes contabeſcút,aliç verò alienis naturæ ipfarum humoribus
occurſantes: o pereunt; fic &capitis noftricapillisaccia: -1 dit:vel n.ex
humiditatisdefe & u,quanu. triútur; vel ex eiuſdé prauitate corrum- 3
puntut, & decidunt.inc defluuiú & alir eapillorūdefe& us in
cap'oriútur.Ex Gal. Qya dia volucrum pennits varite coloribus tirgere valeamus:
I volucrú pennas variisco !oribus tin--, gere 1 ter abluereoportet; mox in aqua
alumi.. nis decoquere,atq; du calent,in aquá cro co colorarā, ſi flauas eas
cupimus, conii. * ciemus:lina.cæruleas, in fuccú, aut vinü acinorú ſambuci vel
ebuli.In diluto fio. ris æris virides fiunt: codémodo colore minij,atraméti,
alteriusue coloristin &tas habebimus. Agric Poftulanie,à meluannesBerardinus Agricolas,
Filicibus pro frumentoconfervant do in borreis pri. Oftulauit Mazzocca à
Vitulano,magna expe cationis adoleſcens, ob flagrantem in ſtudia amorem, cuius
familjaritas apud me gratiſsima eft:CurAgricolę pto fru mento conſeruando,
filicibus pro ftra gulis in horreis vtantur; Equidem hu ius ingenium, &
animi indolem fepè de miratus fum: proptera in recurioſiſsima complacere
volui.Vtuntur Agricolæ fie 1 cibus in horreis, vt cerealia à corrupte la
præferuent: quippè filix à proprietate generationi obeft, hinc agrifilice pleni
reputantur fteriles. Hinc filix epota ne cat vermes, &ex aluo deiicit: in
grauie dis necar fætum, mulieresque reddit ſteriles: quapropter multa ratione
agria cula (1.cet tanti arcaniline ignari) filio cibus pro frumentorum
ſtragulis vtun ter: quia illorum corruptioni maxime refiftuor. Terrestres
Lumbrices digitorum panaricium: fanats. Panae sol PAnaricium in latere vnguium accidit,
&interapoftemata numeratur,quod tantum inducitdoloris, vt patiens, ne. que
diu, nequenoctu dormire valeat. Prohuiuscuratione, & dolorislenitione
multimultafcribunt: egoprofe & dcer. tiſsimo experiméto multoties compro
baui, lumbricos terreſtres viuos ſuper pánaricium alligatos,præfertim in prin.
cipio,mirabilitet apoftemacompefcere, & fanare, vt vix diei fpatium affe
&tus pertranſeat. € Galega, atqueScordimir am,contra lüemo peffifentemefe
efficaciam. M Trabile obſeruamus Galege, & Scordii efle virtutem cótra
febres malignas, & peſtilentes; fi quis enim Galegęfoliainacetariis,
autcarniú iure femetindiefumplerit,afebre hactutus, & incolumis
præferuabitur. Idem (Gam leni teſtimonio ) Scordium efficere pro batum
eft:fiquidem ex.veterum quorú, dammonumentis aduerfus putredinem Scordium
fingulare effe. remedium tra đitur, vt j.de Antid.capaz. legimus:nam Is cum nteremptorumcadauerain
pręliog multosdies infepulta máſillent; quęcund que ſuper ſcordium.fortè
fortuna cocia derant, multò minùs aliis computrue. runt; ea præfertim
particula,qua(cerdi um attigerant:ob quáremomnibus per ſuaſum eft,tam reptilium
venenisquàm noxiis medicamétis quæ corpusputred ſcere faciunt, fcordum
aduerfari. Anni bal. Camil En. Nodos. in infantis ombilico filiorumrume-, rum
haud oftendere. Pleriqueexnodis inkantis primènato bliorum numerum ex eadem
matre: naſciturumcognoſcere profirenturthoc autem caretratione;fæpèenim fit, vt
illa moriarur, aut cafta viuat:vel plutesge neret filios, & pariat, quàm
nodorum numerus exiſtat;fiue plures viros habeat: è quibuscum alio plures, cum
alio paung ciores filios fuſcipiat. Proptereà certio. kiratione afferendum,in
nodorum vm bilici primi infantis coniectura, exiſtin, mosfæcundosvteros
plerumque plures ! nodosininfátis parerevmbilicofteriles; miebe autem paucos,
eofque non ad vnguem diſtincos, vt frequens obſtetricum obą feruatio
demonftrat, & vt euentui hæc talia, vtplurimum concordare.viden i tur. Ex
Carda. 8.de Oryalum quem ſolo afpeétu auriginoſosbom. mines ſanare. Irabile
eſt, quod de Oryalo aue ecircumfertur. Hæc potrò talem dicitur fuiſle naturam
ſortita, vt icteria cum affectum, à quo homines plerum que moleſtantur, ad ſe
valeat ſolo oculorum afpectu attrahere; proinde vocao tur I &teribus,fiue
Galgulus à multis, ab ' Ariſt. autéin biftor.animal.Goryon. Sed 1 quod
mirabilius eft, auriginofus homo ab alite viſus fanatur,ales verò moritur.
Homines, quandoque ſolo intuitu Ophtbaho miam contrahere. Vita obieruatione
animaduerti Ophthalmiam fiue lippitudinis morbũ quádoq; contagiosú elle, &
folo perinde afpe & uab hominibuscontrahi:: oculi enim tunc adeò
perniciofam vim. $ retineat, xt in alios propriumaffectum, 6 ciacus ejaculari valeant. Pulchra ratione hoc
Vairuslib.j.de Fafci, quomodofieri por fit, differuit:Siquidem animus malèaffe
& us fuum quoque corpusmalè habet; ob id fianimusaliquomcrore, aut vi. tio
afficitur,colores.corporisetiam im mutar:ſi enimab inuidiacentatur,pallo re,
&croceoscolore corpus. inficit. Inde fitetiam,winuidia tabefcentes,ftocle.
Jos.inaliquem. liuentes.defigunt, animi fimul venenum vibrent, &
quafivirule.. tis iaculis confodiant.Proptereamirumi non-ef, hominesaliquando
ſolo.aſpe & uindippitudinemincideres,vt Hieron nymus,
Thomafiusmedicusinſignis, (dú ipfe Neapoli ftudijs.vacarem ) defeipfo. teftatus
eft. Adlapidessenum,din neficefrangendos mine rabile remedium.. Vidam -medicus
ecuditus, ad lapin desfrangendostanquam admiran dium.parauit cibum,cuiusefficaciam
a. dedimirabilem eſle cognouit,včad.lapi.. desexpellendos non folumà
renibus,& retisa;ſed etiamab anulo comedentis, efficacius remedium haud
confedus fu. erit.Paraturex hepate, pulmone, reni. bus,tefticulis cum priapo
hirci, quæ cú & croco, cinnamomo, & mellemifcentur, ac ijs hirci
inteſtina implentur.Doſis fint duæ, aut tres.buccella Res porrò mon ftruofa,faveraeft.Ex.Micbaele
Pafebl. lib. 1.Metbed.Meck. Veterum medicornmpro conferuanda Sanin tate
collegium lans Rifx potentiſsimus Afiæ, & Syrie, quialter Alexanderdi
&tus fum, it (vt ex Ariftiin libisecret.fiuede Regin.
Principa.habetur)medicos præftantiores exregionibus Indiæ, GregiæMediæ,, ac
aliarum mundi parcium congregauit, quibus impofuit,vttalem inuenirent medicinam,
qua fi homo vteretur, nec. medicis,nec adia: mediciņa indigeret, pollicitufque
fuitRex dirüsimus maxi mumpræmiumefle daturum.Illi autem pro maturèconfülendo e
rrium dierum fpatio postulato collegiú iniuére. Mox ad Regem cùmomnes cffent
requiſiti Sanages Grocus Medicinæ peritiſsimus, qui pręter ceterosdo &
trina & fciētiarua tilabat omniú conſenſu Regiindicauit, quòd fumere quoủibet
manè aquábisplez noore,efficiat,vt homo fanusperfiftat, &alia haud
indigeatmedicina.blocpro feccò à rationealienu non eft:vtenim in Arabum,
Græcorumque antiquifsimis voluminibus inuenitur,aqua ponderofitatis ratione ad
ftomachi fundum ten dit,auget calorem, & citiùs comprimit, & digerit
cibos, digeftionig; maximè au: xiliarur,ceteriſk; mébris corporispluri
múconducit. Fabrorú exemploid torú inquiritur, quiin accenſoscarbones mo dicum
aquæ conijciunt,vt ignis vi'maioriaccendatur.Idcirco binos aquæclear ræ hauftus
manè potare, menfe Iunio præſertim, propter choleram reprimen dam, multum
confert ad fanitatem cone feruandam. EfBurtbolam. Moles in lib. de;
ſanit.tuer.. Alexandrum Magnum fudorem fanguineum in pugna habuiſſe. * Vdare
fanguinem puruminteradri Skadar randa, quæ rard luccedunt,puimera. SUT 1 tur:vbenim in aliquot fudorex láguinis i
iclore cruentus corpore malè affecto,: vifuseft; & is nequaquam
fineadmiratie one, & iftuporezita di illeexputo danguis:
nexortusfuerit,atquein corpore fano; ) vtique maiorem præſtat-negotijcaufam
inueftigandi cupiditatem; vt futiſsimè nobisinlib.de Hydraniofazatura.olimedia
to pertraétatuet Referam nunc quod, Magno: Alexandro euenit; dum eſſet in
extremevitae pcriculo conftitutus.Is cũ, in pugna quadamedererum fumma cum
Indis.decertaters lub @ diarioque milisere
deititueretoMilqucadedcholera:luccés, [useftzvékotocorpore purú languinédes
fudauerit; Barbariſgulecotus igneis filáns misardere vifus fit.Hocautemtantum
ijs terroris-ingcfsit, vt fe Alexandra.com mittere coactant, Lüpathium rantie
darworetaſtas,tenetrier mas, efung aprusreddere. Rat apud veteres Lapathiorum
vfus, pecu liare,eft,vt carnes; &vedulia cú hiselixata vel link dugaa
yesulta, & coriacea,terit titatem, & mollitiemacquirant.Propte. rea,quòdcibos
concoctu faciles przſta, bant,& aluumemolliebant à vecerum à mélis
raròhujuſmodi abfuifle legimus. Catoncorum feminum:muccaginem combusa fionibus
maximèopitulai Nter præftantifsimaauxilia, quæ có buftionibus: adhibentur',
feminun cotoneorum muccagipesretinent prin cipatum. Referam:Petri Foreſti in
pro prio filio experimentum, Ille matri obo. fequioſus,,cümtefta carbone ignito
re pletamkappostaret,cecidit & igneoculos. combuftitit: Putem cum temen
cotone. orum in quâ raſaceam coniecifset,atq;
muccagineoculosiçpiusabluiffet;mira culi-infarpuer-comualuitabfq; combus
ftionis veſtigio. Hoc etiãauxilio in f. milibus cafibus feliciſsimè ſemper vsű
fuiffe,idemconfirmat, In lib.6. Obf. Medo Aegyptiospermotas figuras,fenfus,or.
rummemoriameffingereconfueuiffe. A Egyptiorum fcientia,quia inter
cæterasprecelleroreratapud ve teres, (illa enim ab Abrahan originem habuit)
dcirco,& rudimento, &Hiero glyphicis ferè occulra indicabatur. Si à qui
illorum primi per figuras animaliú (CornelijTaciti teftimonio)léfusmétis
elfingebant, & antiquifsimamonumera humanæ memoriælaxis impreſla cer.
auntur, & literarum inuentores perhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis:
- látcerę reperiuntur,quæRegum illorum diuitias, acpotentiamdeclarant. Per a -
pis enim fpeciemmella conficientis Re. gem oftendebant. Siquem memorem s
fignificare volebant; leporem aut vul. pemauritis auribus, quod fummieſlent
auditus,& inlignismemoriæ,effingebát: fi veròmalum crocodilum:fi velocem,
vel rem citò factam,accipitrem; quonis hæc aliarum fermè auium fit velociſsie
ma. Si inuidum, anguillam, quòd cum piſcibus fit intociabilis.Si iuſtum,oculü:
Gliberalem, dextram manum, digitis paſsis:fiauarunn,ijfdem compreſsis.Per
inſtrumenta quædam, & membra hu. mana pleraque fcribe Jant. De bis vide Pie
arium, Diodorum, Srabonem. lum ritatem,
&mollitiem acquirant.Propte. rea, quddcibos concoctu faciles præſta,
bant,& aluumemolliebant à veterum à mėlis raròhujuſmodi abfuifle legimus.
Cotoncorsimfeminum -muccaginemcombuso fionibus maximè opitulari. Nter
præftantiſsimaauxilia, quæ có. buftionibus adhibentur',, feminum, cotoneorum
muccagines retinent prin cipatum.Referam:PetriForeſti in pro prio filio
experimentum. Illematri obo... fequiofus,cum teſtá carbone ignito re pletamkappúrtaret
cecidit& igncoculos, combuft Pitemaeumtemen cotone. orum iniquárafáceam
conieciſset,atq; muccagineocalosiçpiusabluiffet;mira. culiinffarpuce
-Conualuitabſq; combus ftionis veftigio. Hoc etiãauxilio in fi milibus cafibus
feliciſsimè femper vsű fuiffe,idem confirmat, In lib.6.obf. Medo
Aegyptiospermotasid pguras, fenfus, re rum memoriam effingere confueuiffe.
Aegyptiorum fcientia,quia inter teres, (illa enim ab Abraham originem habuit)
dcirco,& rudimenen,& Hiero glyphicis ferè occulta indicabatur. Si qui
illorum primi per figuras animaliú 5 (CornelijTaciti teftimonio )jēlusmétis -
elfingebant, & antiquifsimamonuméta humanæ memoriæfaxis impreſia cer.
auntur, & literarum inuentoresperhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis
látceręreperiuntur,quæ Regum illorum diuitias, ac potentiam declarant. Per a
pis enim fpeciem mella conficientis Re. gem oftendebant. Si quem memorem
ſignificare volebant; leporem aut vul pem auritisauribus, quod fummieſſent
auditus, & inlignis memoriæ,effingebát: fi veròmalum crocodilum: lì velocem,
vel rem citò factam,accipitrem;quonis bec aliarum fermè auium fit velociſsi
ma.Si inuidum, anguillam,quòd cum piſcibus fitinfociabilis.Si iuftum, oculu: G
liberalem, dextram manum, digitis paſsis:fi auaruin ijfdem compreſsis. Per
inſtrumenta quædam, & membra hu. mana pleraque fcribe vant. De bis vide
Pie. crium,Diadorum,cSrabonem. Quamethodo peftilenti tempore àluenos tueri
yalcancus. Retiofa,acbreuis theriaca reperitur, qua homines ab aere peſtilenti,
ad jun & o vitę regimine,præferuari poſsúr: Sumuntur caricæ,nuces iuglandæ,
folia rutæ, &iuni peri baccæ pondereæquali, confundanturfimul, atq cum
aceto ro faceo, vel communi diffoluantur; mox per pannum colentur, fuauiterg;
expri mantur;ſuccus verò, qui percolabit,fero uetur: vnúenim iftius cochleare,
mane ieiuno ftomacho ſumptum,non finit illa die hominemà peſtilentia corripi.
Ex Alpbane de Pefter Olivarum oleum unguium pun &tura mira biliter fanare.
IN fedando dolore vnguium expun, Aurisacu,vel ferro,atq; iisperſanan dis,nullam
remedium oleo oliuarum fa lubrius inuenitur; confiteor multa oba
feruatione,multisa; experimentis id toa tum comprobaffe. Honefta mulier; ac
vnicè dilecta, Laura de Otaro, mea vxor cariſsima, no femel, dum varia-ad femi liæornamentum,acu
contexerer, in vn guibus digitorum pun&a eft; limplicita menoleo oliuarumio
puncturiscollini to;&dolor confeftim euanuit, & falus introducta
eſt.Ego profe & ò ſemel pun. aus ferri cufpide ſubter pollicisvngue com
ſanguinis effufione, fubitò ad lini mentum ex oliuarum oleo, antequam
aquamtetigiſſem,deueni;quo adhibita dolor delituit,atque vulnus vnà breui ter,
& conſolidationé, & fanitatéhabuito Admirandüauxiliü ad vefica calculã,quoabt
que inciſione diffoluitur,& expurgtur. Nter admiranda auxilia, quæ ad cal
INTE culoſos adhibentur, connumerandum iudico remedium, à do &tiſsimo Hora
tio A ugenio experimento confirmatú in epiftolis addu& um,quo abfque inci
fione in vefica multorum Japides com minuit,& expurgauit.Réferam qua via
id, innotuita Aegrotabat calculo veſicæ cuiuſdam Typographi filius Romæ poft
varia aſſumpta remedia,cùm nulla lub fequutá noſlet ytilitatem,fecaricupidus;
de pretio cû Nurfino artificecóuenerate propterea Sacerdotem iufsit accerf ri,
vt ſumptis Ecclefiæ facramentis, fex le &tione moreretur, animæ fuiffet
confultum.Religiofus ex focietate Iefu, audita confeſsione, proponit illi phare
macum,de quo in leipfo, & in alijs peri culum fecerat: expeririæger voluit,
& magna aſsiſtentium admiratione fana s:Pharmacum ita erat concinnatum.
Puluerris Millepedum præparar,drach, i.ad fummum Scrup.iiij.aquæ vitæ vnc.
Sem.iuris cicerum rub.vnc. ix.velx.ca piatæger calidum,horis quinque ante
prandium. Efectus medicamenti talis fuit. Horarin duarum fpatio totum corpus
incalefcebat, anguſtiabatur z grotus fitiebat, ac ferè loco ſtare non
poterat,aliquandocirca pubem dolores vrgebant.Vrina hora quinta cceperunt
cralsiores:feddi,fed non multæ.Secunda die à pharmaco contingebant eadem,
fedvrinæcopioſiores, & craſsiores.Ter tia labulumapparuit multum. Septima
tandem adeò plena fabulo vifæ funt, ve rectequis diceret,easnihil efte quamfabulum
aqua diflolutum: omnia in me liorem ftatum redigebantur, ita vt, qui
proximèincididebebat, liber abomni malo nona fuerit die. Miliepedum ad
calculosRenum VP fuca preparatio. PRæparantur Millepedes ad Renum Velicæque
calculos talimodo r.Az fellorumquam volueris quantitatem, vinoquealbogeneroſo
abluito diligen ter, mox in ollam copiicito nouam, vi tro obductam, lutoque
aliquopiam ile lam incruſtato, demú in furno exiccen tur,ita vt poſsit in
tenuem puluerem rc. digi; tumverò affunde vini ciufdem gee neroli quantum
poterunt imbibere, & rurfus exiccato, ac tertiò imbibito & exiccato vt
ſupra,quartò veròpuluerem irrorato aqua fragarum deſtillationis &olei
exCalchanto Scrup.j. permifce to inuicem, & exiccato rurſus: vbi verò fic
fuerit exiccatum in tenuiſsimumque puluerem redactum,feruetur in vale vi. treo,aureo,yelargento.
Es codem. Frequentem ficoram efum fudorem parere abominabilem. Licetficorumvfus
multa hominibus commoda părturiat; ran & ij citifsi mè nutriunt, &
impinguant corpora, aluum emolliunt, & per vrinas, & per ambitum
corporis non pauca excernunt excrementa: tamen eorum continuus, & frequens
vfus fudorem generat abomi. nabilem, & corporis fæditatem; indici um huius
rei eft, quòd illorum eſu pe diculorum copia innaſcitur. Hinc apud Rhodiginum
lib.6.Antiquar. teet. Anchie molum, & Moſchuni Sophiſtas,legitur tota vita
fuiſſe hydropotas,acficis modò folitos veſci, & tamen robuſtos extitiflc,
ſed adeò fætentes,vt propter abomina bilem fudorem certatim in balneis aba.
liis excluderentur. Mulieres eximiam, &fuauemrerinete pinguedinem. Orpora
mulierum fuauiori, & ma: ori fulciuntur pinguedine, quàm hominium ipſa,quæ
profe& ò ob ſiccitaa tis, dominium,minùshumidi, & oleofia C ttatis
retinere videntur. Propterea apud Plutarchú 3.Sympol -4.habemus, vbi mul sta
cadauera promifcuè erất cóburenda, veterú tempeftate, temper decévirorú vnú
mulier brcímiſceri ſolitú: qualiil lud vnú tantú ſuppeditaret pīguedin is, vt
cętera faciliùs cócremari valuiſsent, Aſtu demonum, mirabiles in hominum.cor
poribus effectus procreari.: ribus Dæmonis aftu cffectus con ců, ſpiciuntur, vt
quando quis euomat am icus, clauos, pilos,oflamagna: vel quòd plumæ in lecto
fint ingeniofifsimè con ferta:multæ enim de iis obferuationes apud Hieronymum
Mengum in Malleo Maleficar. Paul:Grillandum, & Delrium reperiuntur. Quomodo
autem hæc fieri pofsint, talis eft ratio: aut enim ifta funt Diaboli
illufiones,ita quòd ea videátur, quz vera non funt, fiue per a&iua natu
ralia hoc efficiétia, ſiueper acrifiam,fiue per aeriscondenfationem;aut funt
vera; quippe Diabolusinuifibiliter huiuſmodi in hominis ftomacho intulit, &
exinde viſbi. Emin viſibiliter
educit,licet ram magna vide antur; nam &ea diuidere, & integrare poteft
faltem apparenter,eò quòd loca ſiter huiuſmodi corpora, & partes eorú, ad
nutum moueantur, & ad inuicem con glutinéter,Deo non impediente. Summa
Sylueftrina de Malefic. Carduum Benedi& um ab Hemicrania homi. nes preferuare.
X India Carduum Benedi& um pri mùmomniumad Imperatorem Fri dericum honoris
gratia fuiſle miſſum multi hiſtorici autumant, quod miris laudibus, ob
peculiares eius virtutes, planta hæccelebrabatur,&obidà mula tis Carduus
Sanctus dicitur. Hæcenim venena lupcrai, &confert cùm vlceri bus, tùm
vulneribus, eft præfentaneum remediumad peftem, necat vermes, & vtero
prcdeft, & in cibo, & potu viit pata, ab immenfoillo præferuat capitis
dolore, quemHemicraniam vocant. Ex Trago. Infantes preferuari Apoplexia.Epilepfia
fumpto prime fyropo de Cichor.cum Rhabar. vei Corallio, aut ſucco Rute. tibus
morbus epilepticus,apud au * Etores noftros paſsim legitur, ob id af. feetus
hic vocanturà nonnullis iLorbus * puerilis, liue mater puerorum: Vtau iem cùm
ab Epileplia, cùm apoplexia ghi præferuari valeant, multa obſerua tioneexpertum
eft,iis,antequam lacgu ftent, in primo ortu prebendo fyropum in cichorea cum
Rhabarbaro drach. ii.ab $ hacluepræſeruari,vt Nicolaus Florer - tinus fatetur.
Arnaldus Villanoua Co mit rallium laudat:nam fi diligenter triti të y Scrup.Sem,
infans hauſerit cum lacte, antequam aliquid guſtat, nunquam in Epilepſiam
incurrere obſeruauit. Ego quidem Marcello,Hieronymo, &Mare i co Antonio
filiolis meis ſuccũ ruiæ cum modico auro ad ſcrup. ii. cuilibet dedi, antcquam
lac guſtarent, &gratia Deiab Epileplia immunes exiſtunt.Helionora, K. quæ nunc
ablactatur, feremortua nata eft fumptoque & ieiunato paruo cochle airo
ſyropi de Cihor. cum Rhabar.re uixit, epilepfiam nunquam adhuc palla eft.
Menſtrualem mulieris fanguinema Tontta # nimaliaefe venenum. Nter naturæ arcana
reponendum eſſe iudicaui,quodàMetrodoro Sceptio traditur
demulierismenftrualifangui ne.Mulieres fiquidem fimenſtruationis ſpatio nudatæ
ſegetes ambiunt, erucas, vermiculos,fcarabços,ac alia noxia ani malcula
decidere faciunt. Tale enim à natura ijs virus inuentum eft.Non folú autem
huiuſmodi animalculis menftru alis mulierum fanguis nocere creditur, verùm
atque grandioribus; quippè cao pes, ex Plinij teftimonio menftruofan guine
guſtato, in rabiemutari vifi funt, quorú morſus inter difficillimos mora ſus
fanatu reputatur. At de re hac fupe riùsaliàs tractauimus. Thapfiam veficas,do
ademata corporifuper poftam excitare. Magna profectò eft Thapſiæ effi cacia in
veficis, & ædematibus ge nerandis,idcirco à nonnullis in peftife Eris
febribus vbi veficantia neceffaria súc cum felici ſucceſſu vſurpari audio.Cùm
autem corporis locum aliquem inflare quis deſiderat, veloſtentationis, vel cu o
riofitatis gracia, ponatur Thapfia in low i co conftituta:ibi enim breui
veſicas, & ædemata excitabit; vt tandem citra læ fionem id ſuccedat & breui
etiam fol jů uantur, cheriacam linire, vel curninum, i aut acerü fuperponere
oportet. Ex Car dano lib.8.devaret. | Antivfum inmedicinapro conferuanda va
letudine mirabilem obtinera proprie Mlimbi Irabilis efficaciæ aurum in medi
Lcina eſt:quippe innumeras illud pro corporis tuenda fanitate retinet vir.?
tutes.Eiusvſusin vino maximèexcellit capiunturpropterea aurilamellæ, quæ
ignitętoties in vino extinguútur,donec ferueat iſtud,mox colatur, &
vſuiſerua tur. Vigum bocpotatum ventriculo imbecillo fuccurrit, concoctionem ad
iuuat,foedum colorem emédat, & prin. cipalia membra coroborat, &
rcſarcia. Proinde obferuatum reperio,cor ab illo roborari prauos humores calore
fuo abi fumi,vitales ſpiritusclarificari, hepatia que plurimum prodeffe fua
virtute ile lius vſum. Multi certiſsimo experimen, to huiufmodi vinum vitam
prolongare cognouerunt,fpiritufque fynceros face re,atque virestotius corporis
renouare Nonnulli leproſis multum conducere Scribunt,ve ex Mizaldo, &
Zacharia à Puteo capitur. Quercetanus Auri falia in aliqua betonicæ,autabfinthij
confer lacommiſta, ac deglutita ſua fpecifica facultate vétriculú corroborare
fcripfit, Aliquot animalia ex nature eorumfimili tudine à veteribusfais Dầsfuiffe
dicat. veterum infania in rum falſa religione: quippe,& i nimalibus cultum
reddidiffe,infinitis ae lijs federibus, & naturalibusrebuscircú. fórtur.
Inter alia, quædago apud eos PO animalia erant, quæ ex naturæ illorum
proprietate, & fimilitudine, vtreor, ali quibus Dijs reperiuntur fuisſe
dicata. Hinc Canis Diana { ace: eft, Aquila lo 1 ui, Tigris Baccho,Pawo
luponi,LeoCy beli,EquusNeptuno,Cygnus Apollini, Anguis Aeſculapio, CoruusPhoebo
A finus Libero,GallusMarti,Colúba Vara neri,No& ua Mineruæ, Lupus Marti,
Anſer Iunoni,Soli Phenix.Ex Fonio. Veri V nicornu proprietas, eiusque cognisio,
Erum Vnicornu, quod in febribus peftiferis propinatur languentibus veilitate
maxima,in fyncopemaximo. Pere prodeffe videtur.Illud auté non ex eo
cognofcitur, quòd bullas excitet, vt plerique hominum ignari perſuaſi ſunt:
hocenim quodlibet cornu etiam facit: fed alia, diuerfaque methodo. Hoc eſt
præcipuum experimentum. Si ſcobem eius củ arſenicogallina,turturi,aut co
lumbædeuorandum dabimus, fi fuper Itesmanſerit, vel vnicornuftatim poft
arſenicum fumptum datum fuerit)verí K 3 & legitimum Vnicornu pronuntiabi
mus. Alii in aurificis fornacem demit. tunt, fiodorem cornu à ſe emittet,ve
rumefle prędicapt.Nonnulli experime toʻreferunt, quòd in vftionepon omni no
comburaturſed, augeatur potius minimeque in vſtione fætorem cornu *habeat, tt
in cornu ceruinioexperirilor elet. Ex Føreſto. Oxo artificio mulierum cinni
crocei euadant. CApillorum cullui mulieresmaximè vacát, illud autem
iisoprabilìus eft, vt Aauitiem acquirant. Referam mo dum, quo votum aflequi
poſsint. Su mito Rhabarbarifabæ magnitudinem, fæniGræci, croci fylueftris,
liquiri tiæ tabacci, corticum aranciorum quan.. titatem adtui libitum, paleæ
triticæ ft. militer, his quernum cinerem addito,, & incoquito, vt
tribusdigitisdefcen dat aqua, inde lauentur capilli: tanta enim fauitie“
redundabunt, vt illos aurcos eſledicas.,. Ex Porta in Phitogn. tipios A4
itib...Adexcitandum in fenibus nauralem caló lorem, eorum; vires deperdit
assenquandika confectio præftantiſsima. "Heſauris profecta comparanda eſt,
Marſilio Fici 4. no, in lib.z.devita producenda, Medicina Magorum appellatur,
quippe ſpiritus, naturalem, vitalem, & animalem fouet, confirmat,&
Toborat; & proptereaſenie bus præſtantiſsima eſt. Conſtat hæcex
thurisvnc.ij. myrrhæ vnc,j. auri in fo lia ducti drach. fem. contundere fimul į
tria oportet, atque aureo quodam mero confundere, & in pilulas ducere. Sumi
kä tur huius-mifturæ portiuncula inaurora ieiuno ſtomacho; in æftarecum aqua:
roſacea; in hyeme verò cum exiguo Quomodo febris in aliquo confeftim induci
palent.. VI febrem in aliquo velad oftentatio.. nem, vel ad remedium, curioſi
tatemque inducereoptabimus,(fiquidem in conuulfionibus, parakyſi, aliisque
frigidis affe & ibus,non parumaliquádo K4 febrew meri potu. 14 Sheh febrem excitare profuit, ) Scarabe cor buti in
oleo decoquantur, illogue arte ria brachialis iniungatur: tanta enim eſt corum
potentia, vt confeftim febris, & accenſiones corporis criantur. Ex Car
Nuno. Amultis animalibus anni tempora precognoſci. Tdcntur profe & ò
plerac; animalia anni temporaprecognoſcere:fiqui dem ex corum inſtinctu, illa
homines commentiuntur. Grues enim autumni tempore ad loca calida peruolant, hye
mis frigora fugientes. Hirundines ver nali tempeftate ad regiones noftras re
meant. Ficedulæ, coturnices. aliaque multa volucria, in anni temporibus,pa bula
commutare,aliaque loca adire con ſpiciuntur. Hæc autem non Ver, Autu mnum,vel
Hyemem dire & è præſentiút, quemadmodum nonnulli falsò ſibi per fuafi funt;
fed verius ex facta alteratio neà calido, vel frigido in eorum corpo ribus,fiue
occulta qualitate,has viciſsi sudines facere cognouerunt. Am ago Amantis ex
leuiſsima quidemoccafione sie furcenfere folent.: Viperditè amant,leui alioqui
mo mento iraici videntur: ratiohuius rei eft, quiainiurias, licet leues, graues
iudicant. Grauefiquidem exiftimatur, vtilleiniuriam in te committat, cui ma
ximeplacere ftudeas. Cæterùm quem admodum fubitò dolet», qui contra fui habitus
propenfionem facere quippiam conátur; ita &amantem facere conſpi cimas;moxtamen
rixarum,& odisper nätde, rurfusque fupplex iugumſubacta ceruice repofcit.Ex
Leona dojachine, IN Plenilunio, Nouilunio Pharmaci ex bibitionem àMedicis
maximè deteftai. Vlra rationc à Medicis in. Pleni junio, & Nouilunio
Pharmacam ehitatur: fiquidem Luna,cùm interme Hriseftzomhiijo caret
lumine,atqueſub radijs lotaribus ia &ta, & proinde ſolica caret
humiditate, quo fit vt corpora ne ftra magis licca maneant, & virtusteten
trix robuftior exiſtat. Idcirco fin No puilunio ipharmacum ægris exhibetur;a K
5 abfquedubio humores noxiosagitabit, atqueob retentricis facultatis inobedie.
entiam parum euacuabit.InPlenitapig ob Lunç porentiam corpora noftu yali de
calefcunt,humoresque augetur,Hing In pleniluniis no &tesicalidioreselle ex
perimur,cuius caufa, cailorem à centro ad circumferentiam attrahi, verilmile:
eſt's quas propter fihumores, corporis: noftriad ambitum tendunt, procul dus
bio pharmacum improbatur:illudenim à circumferencia ad centrum trahitmg. tumque
natureperuertit, quo facilefut cedit;vt virtus kadetur,&humorumsys
tiacuatio,velmale,veldeprauana.coring gat: Ex loann,de Pitch
19continuatamaſculorum generatione Jep, LR timanm mirabilembakere virtutem.:
TIG apud multos fcriptores repe rifles, feptimun mafculum com tinuatæ
generationis mirabilem habere virtutem interhæc noftra embammata minimehoc
adieciſlem. Volunt enim quando aliquis ſeptem filios maſculos Continuatim &
inter eos fæminam nul, Quod autem in
Hydrargiro mirabile pullam ſuſcipiat, ſeptimum mirabilem virtutem & ftrumas,
& alios plerofque effe & us retinere ſanandi, An autem ve rum fit,
ncſcio,cupio tamen à fapienti bus experiri. Forum Hydrargiri, fuperpofito
yclamine, 1: in molem Mercuriimatari, Yrifices dum valamineralla inau. rare
cupiunt, Hydrargiro pro bo peremoliendo vtuntur; illud autem in igneimpofitumin
fætores grauem, & fætidas exhalationesreſoluitur,pernici--- ofas quidem,
niſi abijscautè'euitantur. iudicatur, eft iftud, ſiſuper illius fumá linteolum
extendimus, in quo colligi. poſsit, vtique in argentum viuum fu moſitas illa
icerum conuertitur, & Hya, drargiram renouatur. Experimur hoc. etiam in
carbonum fumofitatibus in traffas fuligines reuertuntur, licet die uerfimodè ab
Hydrargiro,Ex Lemnie. Eæculas Bryonia viera mundificando mirane babere pirtutem.
5 K Singularis profe & ò fæcularum Bryo. niæ,tum pro matrice muodificanda,
tum ad hiſtoricas ipſius paſsionesſanan das eſt efficacia:quippe ex multis
expe. rimentis comprobatum eft,in huiuſmo di affiEtibus curadis inter
remedia,prin cipatum habere. Referam ipfarum con ſtructionem, Exprimatur pręło
ex Bry onix conciſis radicibus, & contufis fuca cus.crit primò
turbulétus,idcirco in va ſe aliquo afferuādus eft, vefæcalisma. teria
ſubſideat: detineatur in locofrigi doper paucosdies; in hoc enim fpatio
finclinato vaſculo,viturbulenta aguia) Separetur, & proijciatur) fæces
albiſsi mas inſtar amyli in fundo inueniemus quas iterum in pluribusvafculis
vitreis, aut terreis diuiſasin vmbra vt, exiccen tur feruabimus;ita
protectòintra paucas horaşexiccabitur, & formáanjyli acqui rarexpreſlum,
quã Bryonize foculá no minamus.Hac fingipoſſunt pilulex.aut xij. granorum
pondere, & cú palico ca ſtorci, & alfęferidę ſummü; ac precipuú. aratur
remediú cótra affcctusnarratos. Fæculæ huiufmodi etiamfi diffoluütur, inaqua
florum faþarú pro fuco ad orna tum mulierum,paneaſque defendas ef ficacifsimæ
funt.Ex Quercerano, Miſaldo, &Zubariaà Puted. Millefolium ad conſolidande
vulnera misam babere potentiam. Lurimis experimentis comprobatú audioMillefólij
virtutem ad vulne rum coitionem, indielğue nouis obſer: uationibus
confirmari.Referam folum quod ab Hellerioin Chirurg.adnotatur. Cuidam deciſus
naſus erat,qua osin car tilaginem definit: Ruſticus propenden tem partem
alteridigitis coniunxit,her bam tuſam,& èvino nigro tritam,quod Millefolium
appellant,impegit, rudius omnia colligauit, vede celerrimè reſti. tit fanguis
profuens, & vulnus pulchra e cicatrice brcui coijt. Chymicam aztem, reterum
tem; eftate floruiſe. Pud Veteres i maximo prctio ars p !eriſq;illiusftudio
vacabátur:inginte s A K7 enim diuitiarum copias illa methodo homines
componebant,quibus ditiores facti cum Regibus bellum adibant.Pro. pterca
DiocletianumCæſarem legitur poftquam Achillem Aegyptiorum Du cem o &
omenſcsin Alexandria obſeſsú: profligaflet, omneschymicæ artis libros,
diligenti ſtudio conquiſitos, deflagral. fe: pereparatis opibus, Romanisfacilè.
repugnarent. Ex Suidt, oOrolio. Quoartificio corpus glabrum reddi: poßit L Itet
varüs modis corpus depilatum; &glabrum reddipoſsit,nulla tamen via
præftantior eft,Varronis teftimo nio, quàm loca lauare aqua; vbi Bufo nes
decocti fint,donecad tertiam redcat: - quippè- fi tali decocto corpus Jauetur,
proculdubio glabrum,&fine pilis had bebitur.. Natiuitatis hominum tempora à
multis: obferuari On leuis profectò eſt.multorem: ſcriptorum obſeruatio in
homia. EN lp mum natiuitatis tempore: à multis enim occafiopibus temperamenta
corú. variant, &plerique àrnaturæ terminis, roaximédiftrahantur.
Porròquiinipfor terremotus i momento nafcuntur femper patent in tonitru ſemper
lan guidifumo qardenet Cometa coex ar... dendi complexjoneargentesfuntainter's
Lühiikempordebiles cuadunt, vel fals, temi Ariſtotelis teftimonio ) melan-;
eholici, & atrabile laborantes. Hydárrgýrum non effe vendnum in paura:
fumptums quam itme', fed adver: mes nes andas exiftere remedium ydrargyrum, vel
fimauisargenti vionm, quodà multis venenum exiftimatur, feliciſsimo fucceflu
contra vermes exbibeturjzáptægue certitudi-. nis illud in Hiſpania reputatur,
vtmu lienes, tenellis pueris, quila ĉçis vomi.. ty laborant, ad quantitatern
granorum trium in propria fubftantia propinare audgár:bacn, via morbuscellare
videtur: frequen A Hedmare frequentatisexperimentis. Ego quidem viduam mulierem
curani, quæ nouem dierum fpatio vomitibus continuis ex vermibuslaborauerat,
& ferè triduono comederatznec cibum retinere valuerat. Haiccùm fcrup.ij.
bydrargyri mortifica tii, cum tantillo adoniipropinaffem abfque vlla moleſtia
peraluum centum, & pluresemifitvermes, &eademdie lis berata eft, &
folita exercuit domi, & foris negotia,magna profe & ò parentum ſemper
eventu, domique continuò a quamhabeo, in quaHydrargyrum, in. furum retineo,
illaa que puerulis pro vermibus libentiſsimèconcedo, nec ad hucquempiam ex illo
noxiam recepifle expertus ſum. Vfuseft hoc remedioad
vermesmecandos,MatthiolusHoratius, Augenius, & plerique alii celebres viri,
qui omnes huiusauxilii maximè extol. lunt beneficium. Datur pueris in lub:
ftantia Scrup. ji grandioribus Scrup.ij. vel drach.j. Corrigitur illud, &
nrore ficatur in mortario vitreo cum zuccaro rubeo: ibi enim tam diù conteritur,
vt in partes inuiſibiles diffoluatur; ne au tem in priſtinam formam iterum
redeat, * olei amigdal,dulc.gurtulas binas adde re oportet, & cum zuccaro
rof. violato, vel cidoniato ieiuno ftomacho languen mtibus propinatur.Sciant
igitur curioſiin hac dofi nullum præbere periculum,in # maiori tamen non
dedi,neque concede tem:licet apud Aufonium Epigram.10. o legatur hydrargyrum
contra medicinas venenofas valere. * Datura flores, com ſemper, hominem in
ri(was; concitane. M ! Tra eſt Daturæ potentia in faſcinan.. dis, vt ita dicam,
hominum men tibus, adeò quòd, qui illiusflores, vel Temen ſumpſerit, à riſu,
cachinnisque non defiftat,donec més alienata ex plan tæ viribus in priſtinem
redeat tempera mentum, Apud Indos à furibus Datura vfurpatur;fores enim, vel
femen in ci bos eorum, quosdepredari volunt, exhi. bent, & in mentis
alienationé, & in riſum 2. conci. MA
it concitant: ita profecto furádi parantin duftriam.Durat illorum riſus, &
mentis error, viginti quatuor horarumtermipc.. Ex Gozdab Horto. Lupesſenio
confectos in renibus venenoſosgeo net areſerpentes. Agnum profectò in
præſentiarü arcanum aperio, multis hucuſ. que incognitum de luporum natura. Il
lud eft,cur à Lupis animalia commorfa modòfanentur,modòautemmoriantur..
Anquòdluporum aliqui venenoſi, ali qui verò ſine veneno exiftant?Equidem
CarolusStephanus lib7 Jus Agricult.cap.i. ſe obſerualle fatetur, ib Luporum
fenum renibus,primò ferpentes vno pede.Jona giores, & breuiores, qui
temporisſpa tio venenauſsimi effecti,Lupum enecás. Hac via facilius nobis
tribuiturconie &tura deLuporum morfibus.Si enimle piiuuenes fuerint,
animahaa, momor derint, ex benigniori eorum natura, mortem baud
inferunt,vtmultoties ob feruamus, niſifortè.vulnera in principi buscorporis
fuerint locis, vel tá grádia, vimori neceflc fit.Sin auté ſenio fuerint confe
& i,proculdubio leuiſsimo morſu animalianecabút,propter peculiare ve nenum
inLupo delitefcens,quod víu ve nit,vtpieraq; præmorla animalium, vel moriantur,
velmembrum morſum pu treſcat, vtfaltem difficillimè curetur. Ex. Gaſp Benkino.
Qualiartificio ab vxoribus homines mafcu losfilios fufcipere pale ant. Vita à
Scriptoribus ad marium M reperimus:hæcautem præcipua, & ve riora effe
exiftimaui.Primovthomo ex exceatur,folidiorig;vtatur cibo,atq; ra rius cócubat:
ita n. & calidius & fpiflius fe. méeuadit,fita; prolificum, &
aptiſsimum ad marium conceptum. Secundo mater, & incongreffu fuper
latusdextrum recubat & à coitu confeftim fuper illud conqui elcat: Siquidem
Hippocratesmaſculosin dextris,fæminas verò in finiſtris genera-. ri ſcripſit.In
dextris enim ab Hepate fo. uetur ſemen,quod eſt calidum: in ſini. ftris autem à
liene frigido quoquo pa.; do refrigeratur, & ad fæminarunt 3
conceptum'præparatur.Tertiò ſpiranti tibus Aquilonibus concubant, Auſtris vero
defiftát:Aquilo enim admares fuf. cipiendos accommodatiſsimum eft,Au fter verò
ad fæmellas. Capimus huius rei ab ouibus experimentum, quæ fiflá. te Aquilone
concipiunt, marem ferunt; Auſtro autem foeminam. Multi, inter quos Cardanus
eft,ad marium concep tum Mercurialis maſculæ elum extol lunt,hæc duos quafi
coleos pro feminie bus habet, & ab vtroq; coniuge depaſta, marem inducere
occulte vi exiftimatur. Magnumele in hac inferiora Lune con fluxum. Trabilis
profectò eft Lunæ vis in hæc inferiora: ipfa enim noctes illuminat, & fuper
humida poteſtatem haber,marisfluxus, & refluxus per quae draturasfuas
intētiùs, & remifliùs facit; quippèdum oritur,maria intumeſcunt, & in
æftuariafluunt, quoufque ad circu. lum meridianum illa perueniat; cùm autem ad
occafum inclinat, Oceanus ab æftuarijsrefluit ingurgites; quando ſub M Orizonte,
percurrit,mare ad confueca æftuaria conuertitur, quoad nocte me dia meridiei
circulum Luna atringat; poſtremdcùm ad Orienté tendit,Ocea Rusquoque ad folitos
alueos regurgitat. Ipſa in Agricultura rebus dicitur do, mina;propterea antiqui
gentiles, qui in terræcultura proficere optabant, Lund libamina ſpecialiter
obtuliſſe dicuntur; y ocabatur Diana, ſiue Latonia virgo, aut Plutonia coniux
velProſerpin. Leonardi asri deOdtimeftri pariu ſenten tiamdebilem effe. Peculatur
Vairus in lib. 2.de Faſcino, Cur partus odimeſtris vitalis mini mè lit,innuit
hic, vir alioquin doctus, talem partum non viuere, ob femen im perfectum:quia
non datur ſemen (vtar guit )quod ad illud tempus fætu procre. are valeat:
ſicutin genere triticiquod dam eft,quod tribus menſibusgignitur; quoddam verò,
quod nouem menſibus: fed debile eft huius fundamentum, quá do in Hifpania,
& Aegypto o & imeltres partusões vitales efle perhibcãt:Potior ergo
concluſionis ratio requiritur,quam nos alibi tábgemus. somniarumprofagizà Deo
diuinare, aliqus bus bominibus concedi. On omnibusfomniorum diuina N
doconcellavidetur,fed quibusà Deo ex ſpeciali gratia permittitur. Qui anim
fomnia proprio ingenio diuirare intendunt (dempta fomniorum intere pretatione,
quæ & caulis naturalibus in naſcitur, quorum præfagium ad media cos
pertinet) aut cæcutiunt, & delirant; aut dæmonum fallacijs inuoluuntur.
Iofeph apud Pharaonem, & Daniela pud Regem Chaldæorum (vt infacris habemus)
quia diuina afflati erant ſapi entia, fomnia diuinabant.Propterea mi niftris
fuis Pharaonem audita fui fom. nijinterpretatione,dixifle legitur: Num
inueirepoterimustalem virum, quifpiriru Deiplenusfit? & Rex Babylonis ad
Da. nielem:Audiui de te,queviäm fpiritum De orum habeas, ce
ſcientia,inselligentiaq, as Sapientia amplioresinuentafunsin tq.ExTa úello. Inter
Polypodium, & Cancrosmagxam in. eſſe antipathiam. Axima videtur inter
polybodie M, i quòd fi polypodiumſuper cancirú abie ceris viuum, breuiſpatio
tum pedum cortices,cum vngues ille eijcier:tanca eft i iſtius plantæ in illum
particularis viru 3 lentia,& efficacia.Ex Mashioto, Ć Dengan Ibidis,
ferpentesattonitos reddere. Irabilis eſt ibidis pennarumvis M contra ſerpentes,
quippe fi illius penna ad illorum quempiam inijcitur, Confeſtim in
veſtigiogreffus hæret: ad mirabiliustamé eft, quòd ſerpens quer pis
frondibuscontacta moriatur, quare circulatores aftantibus mirabilia fæpè
protrahere à racione inconucniens elle a non debet:multa enim iis funt, quæ ad
i mirandaiudicantur:quemadmodum eft Viperam viſo Fago perterri:experimé. "
to enim probatum eſt, illiusramo ante hocanimal iniecto, veluti attonitú fie
si, nec ampliusmoueri Hoc etiá cuenic Gha. ti ſi barundine feuilsime percutitur:
fin verò iterum eadem vipera incutitur confirmari videtur, & fugam repentè
adire. Mulieres rard inebriari, acbrd autem ſenes, Ontrariam naturam ſenile
corpus, Contd & muliebre fortita funt:ob id mulie. res rarò ab ebrietate
corripi afpicimus, crebò tamen'ſencs. Mulier quidem hu mida eft, vtà cutis
cenitate,& fplendo re.comperimus, fenex contra ſiccus, cucis
afperitas&ſqualor confirmat. M11, lier ex aſsiduis purgationibus fuperfluú
exonerat; ſenex autem ex corporis duri. tie,luperfluanonexcernit.Mulieriscor.
pus, quia variis purgationibus crat de putatum, pluribus foraminibus fuit có
fertum; non ſic ſenis corpus,propterea naturales meatus à corporis ſiccitate,
& duricie potiùs obſerantur. Hæc funt în caula, vt ebrii fenes facilè fiant,
muº lieres verò perquàm rard. Nam fià mu. liere largè vinumfuerit hauſtum,
illud magnam mulieris humiditatem incidens,vtiq;vimluam perdit; dilutiulý; fit,
& cerebriſedem non petit: nam per. varia foramina mulieris illius vapor re
Currit, & celeriter eius fortitudo euanel cit.In ſenibus vinum
contrarietatem no recipit: quia corpusillorum ficcum eſt; ob id vinum firmiter
adhæret, cerebría que petit, quia in durioribus membris; & aridis(vt ita
dică ) exhalatio nulla fit: hincab ebrietate facilècapiücur. Ex MA crobio
7.Saturn. Qua induſtria in vrgenti fomno, quis vac leat excitari. Agnus
Alexander,vt ingerendo imperio, occupatior eſſet,magnú contra ſomnum excogitauit
remedium, quoſi quis vtetur,facilèin ſomni graui tate excitari valebit. Ille
Vas æneu pro pè lectum conſtituebat, & pilamæneam fiue argenteam manu
compreſſam ha bebat,brachiumque ſuper vas illud ap tè componebat,vt pila in
ſomno elapſa in æneum procideret, & à fonitu excita retur, &
furgeret.Mira equidé fuit hu. ias ingenij dexteritas, licet hæc Alexandri
dormitatio potius quàm fomnus dici poſsit.Ex Ammiano Marcellino. Quibusfignü
corpora venenata cognoſci yaleant. L Icet venenorum genera multa fint, ex quo
difficile fit omnia figna repe rire,quibus cognofci valeant,afferam ta men qua
mcthodo corpora, quæ venenü fumpferint,intelligere poſsimus. Porrò magna fit in
corpore commotio, dum quis venenum hauferit;præcipuè fiillud calidæ fuerit
naturę:doloribus enim va lidis,atqueacutis in ſtomacho, & inte kinis
torbonibus languens cruciabitur, præcordiorum fentiet anguſtiam, fati gabitur
vomitu,& fuxu ventris, ſudor fuſcirabitur in fronte cum vultu frigi do:
colorægri erit pallidus, pulſus de bilis, inzqualis, & inordinatus,fynco pi,
&animi deliquiis affligetur. Hæchi omania, vel in maiori parte fuccedunt, o
porter celerrimèinggris.vomitum pro uocare, vt aflumptum vencnum eiicia ur. Ex
pal.Vilan. Luem Gallicam non modò homines,fed canes etiam inuidere. Tanta eft
morbi Gallici quandoque immanitas, vt non modò ex vno lan guente,vel
reſpiratione,tactu, autcom merci oplures homines ea lue polluan tur; verùm
atque canes, ſi vicera, vel vnguenta infirini lingere potuerint.Ex I perientia
hoc edocuit; viſus eft enim & quidam canis Gallica lue captus, quihe I
riſui emplaſtra linxerat. Ex obformatore if Iulii Scaligeri. 6. Poet. Quotermi
nocorporis hominispulchritudo conftitui debeat. Arii equidem funt Scriptores in
conſtituendo termino longitudi nis, & latitudiniscorporis pulchri:ihter
quos, ſententia loannis Goropii, in fua Gigantomachia, magis acceptanda vide
tur à fapientibus:colligit exHomeride Creto longitudinem hominis pulchri de
bere eſſe quatuor cubitorum, latitudi nem verò vnius cubiti. Cymrinum bominibus
palliditatem corporis inducere. More Multa profectd ſunt, quæ vultus colorem
hominum deflorare ob ſeruantur: fiquidem panis hordeacęi v fus facit homines
pallidos.Ex Ariftot. A quælutulentæ potus, vſus ſalitorum, & immoderata
Venus valde colorem de. turbant: inter ea tamen, quæ ex proprie. tate
decolerare putantur, Cyminivſus, &olfactus eſt. Duo enim de hoc exem pla
habentur apud Plin.lib.20.C.24.V. num fe &tatorum Portij latronis, qui, ve
illius imitarenturpallorem,cymino fre quenter vtebátur:alterum eſt Iulij Vine
dicis,qui, vt Neronen falleret,palloré Sibicymino conciliabat. Ex Mercurialide
Decorat. Regem Archelaum maximè Aſtronomie fi iffe imperitum. T
minibusneceffariaiudicatur,vt malè ciuitates, refpublicas;hominumo; cætus fine
illorumobſeruatione ij con leruare valeant.Vtique horum ope té pora,annos,
menſes, & horas metimur, &ſine his in, varia labyrintha inuolui mus mur.Hoc
apertè ille imperitus Aſtrono miæ Rex Archelaus oftendit,qui (vt vi ri ſummæ
fidei fcriptú reliquerunt) ob Solis Eclipfim,cuius caulam ignorabat, *
tantotimore correptus eft,vt regiam is clauferit,filium totonderit, iudicia è
fo ro fuftulerit, & iuriſdi& ionem penitts en intermiſerit: vltimum
enim orbis diem. eſſe arbitrabatur.Ex Magino. Mira grecilitatis quofdam bomines
fuilfe repertos. X Aeliano,& Athençoquofdam ho mines extremæ gracilitatis
fuiſſe * colligimus:legitur enim quendá Arche ftratum vatem fuiſſe, qui captus
ab ho ftibus tantæ gracilitatis repertus eſt, vt cùmlanci apponeretur, pondus
vnius obolihabuiſſet,quod incredibile,& ferè ridiculum exiftimatur.Philetas
Couse. tiaminuentuseft, quem ex gracilitate E vſque adeò inualidum fuiffe
fcribunt, vt ne à vento deijceretur, pondera ferrea pedibus, & foleis
geftare coge { retur, Anguit. Emine Anguillas cumAquilone mirambabere fyme
putbiam. Trabilis profe & ò conſenſus eſt, quem Anguillæ cum Aquiloni.. bus
habent: ipfis enim ſpirantibus fex. dies fine cibo, & aqua has viuere
fertur; cum Auftrisautem diſſentiunt, quippe his flátibus diu ſine cibo, &
aqua illæ vi.. uere non poflunt. Ex Bodino in Theat. Aſparagorum vſum corporis
facere pitorem. Nter ea,quæ nitorem; &pulchritudia nem tur, Aſparagorum
vfusconnumeratur, cuius efficacia à multis in corpore colo.. rando ferè
mirabilis iudicatur. Aſpara.. gi fætentem reddunt arinam, & perilla pratos
corporis expurganthumores:eb: id mirum non eft,fi,ijs euacuatis,corpus reliquum
non modò odoratum redda tur, ſed etiam nitidum, & coloratum: quippeex
humorum prauorum conge. rie, & palliditas, & defloreſcentia nobis
jonaſcitur, quibus ceflantibus, ceſat de. formitas, & colornitidus
exoritur. Ex Auicenna. Picem cum oleo; maximam babere colli gantiam. E X
congeneri ferènatura Picem, Rea ſinam, & hujuſmodi, magnam cum oleo
affinitatem retinereobferuamus:fi manus enim pice, vel refina fædantur vtique
eas oleum extergit,idque ob col": Tigantiam oritur. Oleum furfur tollit,
furfur aqua eluit; aquam demumlintco: ficcamus.Ex Cardino Mularumgenuse
propriapecieminime propag ari: MVlasequidem,& monftraconfimis lia,nec
parere,nechium genus prou pagare obferuamus:id fieri aiuntmulti;. ab
improportionato generandi tempe ramento: veriùs tamen cum Bodino in
Theau.Natur: hot contingere exiftimo, une fpecierú fit infinitas: natura enim
in finitatem abhorret. Ariſtoteles in Syria fupra Phænicesmulas parere ſcriplīt;
& Theophraſtus in Cappadocia illas genus 3, propagare voluit:tamen hoc
veriſimile haud eſt. Propterea magis credendum reor, in illis locis Aſinarum
quoddams: genus oriri mulabus conſimile, potiùs, quàm mulas, quarum partus à
noftris. prodigiofus, & funeftus effe dicitur, vt Iulius Obſeq.inlib de
prodig: adnotauit. Leones, Sole in Leone'peragrante,a'febribus, moleftari:
Irabileeſt, quod in Leonumfpecie contingit,dum Sol Leonis cælefte fignum
ingreditur:ijenim à febre tertia.. na in toto fyderis fpatio excruciantur:a deà
quòd fateri oportet, talium genus cum hoc fydere antipathiam habere &
tertianam recipere'; proinde Leoninaà multis hæcfeprisapperiatur,bene iudi.
cantibus, Leonemeſſe peculiarem. Leo. nes hoc temporetertio quoque die paſo
cuntur,neciemel etiam accidit, vt bidu um,veltriduum inediam ſufferāt, Ster
custunc ficciſsimum, & vrinam fatente excernunt,vt Ariſtotelesadnotatum re
liquit.Aiuntmulti, hocà natura forſitan eſſe factum,vt ferociſsimæ beſtiæ quo
quo pacto cohiberetur impetus, & à fre quentiori rapina coerceretur. Quo
artificio in fenibus barbas, albofque cam pillosdenigrare pale amus. Eferam
notabilem miſturam qua, ' R Jeant.Sumito lixiuij communis quantú volueris,
decoque in eo faluiæ, & lauri folia cum corticibusiuglandium viri. dium;
mox laua, aut ablue madefa &ta fpongia:ita enimnigredinem compara bis, quæ
diu durabit, &lætaberis effectu. Ex Porta: Mergum,& Anferem aquaticum
in Hydrsa phobiam plurimum valere Ntercuncta animalia adnotauit Arie ftoteles
Anſerem aquaticum folùm non rabire, ob id à multis huius efum in Hydrophobia
maximè celebrarur: mirifico autem experimento contra ram. bidi canis morlus
valere dicitur Mergus qui in aquis & maridegit, quippe ab Ace. tio,eius eſu
Hydrophobosillicoaquam efflagitare narratur. Lacertasmira magnitudinisapud
Indos iz... Meniria NInfula Sancti Thomę, quçdam La IN Ls certæ ſpécies miræ
reperitur magnitu dinis,quæ admodum illius gentibus fa miliaris, eft.In Ioſula
etiam Capraria,, quæ vna èFortunatis eft, ingentis ma gnitudinis hæc animalia
cerpūrur;habis tatores autépro ijs interficiendis, bom. bardis,fiue
ſolopetis,alijfque bellicis in. ftrumentis vtuntur. Ex Amate Luſsin Dia. ofcer.
In educandis iuuenibus, miran fulle aibe: niexfium induftriam. Moser Oserat
Athenientum in iuvenum educatione, vtij cothurnicibus, fio uc qualeis, aut
gallis pugnantibus ftudi. an impendcrent:Solent enim hiermo. di
volucres,vfquead extremam virium defeâionem certare. Qulo exemplo ad
ſubeundapericula; & vulnera contem merida, ifamınabant iuuencs increpan tès
au:bus minus ingenioſos effe homi. nes, non debere.Exsotino apud Lucianum
Serpentum eumapudl kudosfrequentari.. NCuba Inſula penes Indos,ferpentes loua
totius corporis ipecie, ac forma prediti inueniuntur,quippe ſelquipedis IM I
plerumque longitudine exiftunt,& ex terra, & aqua viuunt:Quod autem
apud illas rationes mirabilius videtur inlay tioribusmenfis, horum animalium e
fum,tanquam ibum ſapidiſsimum free quentari.Fx Petro Bembo. Quomifico,Po
ticaput; inmiram intumeſcentiam redderevaleamus. NterAgriculturæ arcana, non
infimi momenti methodus eſt, quaporri cam put in tumorem magnum reddere poro
Gimus.Aperiam abftrufum artificium:Si enim porri caput,arundine, vel ligneo
ſtylo pupugeris,atq; raporum,vel cucu- merum fomen vti foramine occultaueris
proculdubio propria capeo in tan tamtumorem deuenire, vtid prodigio- fum
iudicetur, Ex Mizaldo. Iwer Fraxinum, &Serpentes miram adeffe Antipathiami
Raxini fuccus ad ferpentum morfuss mirabili fuccelu à medicis vſurpa nec fine
ratione: hanc enim plans tam Serpentes, ex occulta antipathia ji miro odio
infequuntur: fiquidem illius L6 yobras OX tur, vmbras tùm matutinas,tùm
veſpertinas euitant,& lógiusaufugiunt. Retulit Pli nius lib. 16.cap. 13.ex
fraxino experi. mentum quòd figyrum frondibus fra xini,& igne apparatur, in
cuius medio ſerpens lit proiectus,procul dubio ferá in ignempotius, quàm in
fraxinu aufu gere:tantusefthorum diffenfus, &co. culta ſerpentum
inimicitia., Virginitatem in mulieribus, qua viaexperizi: paleamus. L Apathiū
maius in aperienda mulica rum virginitate aftantibus magnam retinet efficaciam:
ſi enim ex huius folijs faraturfuffumigium,fiue hęc fuper ig. nitos carbones
inijciuntur,vteffument, vbi mulierum fit corona, cum odor ad pudenda mulieris
perueniet, illius bon. nitatem,vel malitiam oftendet: quippe fi viro copulata
fuerit,abfque dubio v rinabit, fim verò fuerit virgo,vrina po tiùs
conftringitur, quam emictatur.Ide etiam faccre autumant,lignum Agallo chum,
fiue Xiloaloem, vel femen portu-, acæ fi fuper carbonesiniecta,adeò effument,
vt ad pudenda mulieris odor va leat penetrare: mouetur enim in deflo ratis
vrina quantò citiùs, fecùs verò in virginibus.Ex.Perta. Quomodo ex duabus aquis
claris, lac effings re illud valeamus.quod Virginale Pocatur. Ac illud,quodà
pleriſque ob colo Cris ſimilitudinem,liue ex nouo ori gine, Virginale
appellatur, ex duabus, aquis artificiosè corifedis exoritur ad multa equidem
corporis mala yti. Lifsimum.. Eius modus talis eft. Su mito lithargyrij in
puluerem redacti Vnc.ija acetialbivnc.si.commiſta infi-, mul per filtram lineum
deſtillato, & a quam clară habebis.Vtautem alteram componas, fumito Salis
gemmæ Vnc.), Aquæ cómunis, fiuepluuialis claræ Vnc. Mimiketo fimul, & fic
bimas habebisa quas magni valoris. Cùm verò vel ad oftentationem, vel
curioſitaré fiue ne. celsitatem lac Virginale conficere opta bis,aquas vtrafque
coniungesfimul mil cendogita profectò confeftim laquor la L7 Ereus M deus ſuſcitabitur, qui Virgineusvoca.
tur.Verrucæ in manibus fi hoc lacte per dies aliquot beneconfricantur, euanef
cunt. Impetigines,omneſq; faciei macu. læ,rubores, & ex foleardores,
hoclini. mento facillimè curantur. Caftrates lienem,velonorum vitellós durios?
res deglutire non poffe. Irabilc elt i: lud,quod in caftratis, circa cibum
obferuatur: hi enim nec lienem,nec duriores ouorum vitels losdeglutirepoffunt,
vt frequentiſsima apud multosinoleuirexperientia.Retulit Bodinus in
ſuoTbea.tales priùs fame fe necari pati, quàin lienem vorare por fe.Huius
reialia non creditur effe ratio, quã xſophagiiſtorú ex nimia adipecoão |
guftatio, & cóftri& io; cũ auté lienis fub-. Itātia spõgiofa
&flatuoſa fit,atq; in mã. ducationemagis infletur;facile fit, vtiji i ex
ælophagi anguftia talem cibum deo to glutire nequeant. Eadem ratio eftino uerum
vitellisdurioribus', qui ex ſuba Itantia glutinoſa,per anguftum non facie la
tranſeunt. Spatium humanæ vita, centum annorum fom cundum degyptios
compenſariin. teruallo. in. * " Vriofa magis, quàm veritari confo näns
mihi videtur Aegyptiorum aliquotopinio,dehominum vitęmenfu, ra:quippe illorú
multi, qui medcata cadauera feruart conſueuerant, ex quada conic & ura à
cordis humani ponderede fumpta in eam deuenerefententiam, ho. minisviram centum
annorum fpatio de Gniri.Sumebant experimentum in cora poribus, quæ fine
labemoriebantur; ho rumenim anniculi duarum drachmarú. pondtrisgcorretinere
videbantur, bini quatuor;& fic in iingulis annis, quo in anno quinquagelimo
bomines centum. drachmiscor in pondere retinere affiras mabant:à quinquagefimo
binas: dracha mas fingulisannis decreſcere, atque à cordis pondere detrahi,
minuijè dicea. bant, &fic in anno centefimo ad primum, fui ponderis:
fecundum iftorum conie... awan,corredibat.Ex Teicntio / arrone. Claro Pblibotomiam ex vena ſaluatella,
pleneticis: plurimumprodeffe. "VrabatGalenus ſpleneticum qué dam;&
cumdiù (vtipfe narrat)de illius cura eſſet ſollicitus,atque diligen. ter
remedia quæreret quadam nođeſó niauit,fe in infirmo de vena faluatella, quæ eft
interminimú,& annularem ma nus digitos ſäguinétrahere; quod fecit, &
fanatus illeeſt. Hoc diuinæ bonitati tribuendúexiſtimo, quæ multoties, ho mines
per bonosfpiritus dirigit, vt ca perficiant, quæ in corpornm valetudine
concernuntur.Ex Bartbol.Sibylla. Gymnoſophiftas apud indosmire,viſus, &in
genij dexteritatis inueniri. MIIrabile profectò illud eft; quod de
-Gymnoſophiſtis quibusdam apud Indos narratur. Hienim ab exortu, vf quead Solis
occaſū; oculis contentiscan. didiſsimi fyderis orbē intuentur,inglo bo igneo
rimantes fecreta quædam,a renilgue feruentibus perpetem diem al ternis
pedibusinfiftunt.Ex Solino. Quibus auxilysforumarum materia,per pri nis
paleasensachari. Bseruatum eft huiufmodi præfi O sibus euaneſcere.Adhibentur
primò in firmis aliquot clyfteria, ex fucco bryo niæ, & mercurialis,oleo,
& fale concin nata, quibus patiens tum gelu, tum ma. terias.viſcidas
copiosè purgari videbi. tur:mox cum oleo amygdalaru dulciū, vel mali aurantij
coleis, manè dilucu.. lo, cantharidum præparatarum grana quinque,velſex iuxta
corporis naturama. capiet.Cantharides autem per horas 24.. in aceto
infundantur,deindeexiccentur, &in puluerem reddantur.Hic enim ea.
rumpræparationis modus eſt. Huiul modiauxilijsftrumarummaterias, vri pas
euacuari compertum eft., Obferua uit hocDo & orPhyficusJoannes Domi. nicus
Donnus,cuitis familiaritas,animi queindoleseſt mihiſemper gratiſsima, mihique
tale remedium communicauit; robuſtis tamen corporibus folú adhibe ducéleo: ex
illius enim experiméto do lors BARCE- 1 II! lores ad inftar parturientis circa
pe &tine tale præſidium commouereaudiui. Alijs etiam modis, & auxilijs
(trupęcurătur, quippe fioleo,in quo rana terreſtris,tal pa vellacerto, (vulgò
dicitur racano )fi ue lacerta magna vocata ebullierit, diú ftrumæ,purgato
corpore, liniantur,abf que dubioexiccátur, & euaneſcunt.Het animalia viua
prius in oleo fuffocantur, cùm ad carnium ab oſsibus ſeparationé ebulliunt,
& oleum mirabile ad ftrumas componitur. Nonpulliad earum extir. pationem
caufticis vtunturmedicamen tis, quorú potentia caro aperitur, & ftru
mæetiacuantur.Componuntur hęc talia ex arſenici fublimati drach.j. lithargyrij
aur. & aluminis roccean.drach.ij.fabari vftulatur:numero quinq; hæc in
pulue. rem reda & a cum frumenti farina,aceto que acerrimo mifcentur, &
fit malfa, è qua orbiculi, vel plancentulæ formantur & exiccantur in Sole,
vel furno,admoué tur fuper ſtrumas, &fpatio horarum24. opus perficiunt,
Alexandri Magni magnanimitas in pofteros: ftudiofas. MVlta ratione Alexander
Macedo Magnusdi& us eft',cùm eius excel lentia non modò in litteris
apparuerit.. Ille quidem, vt Ariftoteles de animali bus
hiftoriasfcriberet,multa liberalitate in pofterum vtilitatem, octingenti auri
talenta, cum tribus hominum millibus dedit, vt fyluas,aularia, & viuaria,
omnis. generis diſquirerét, & opusab ipio per.. ficeretur.Illi autem per
Europain,Afriw. - Cam, & Afiam peragrantes,multa anima: tium gencra ad
Ariſtotelem attulerunt, quarum difle & ionibus, de vniuerfa fen? rè horum
natura accuratiſsimè Philofon phus fcribere potuit.Ex loanne Bodeno. I WA
Mulieres quafdam in oculis, equi effigiem, pel: geminaspupilas babere compertum
eft. NO On rarò quædam mulicres magæ reperiuntur, quæ vt plurimum a-. niculæ
funt, hominibus, animalibusý; vilu,nocentės. Solent hæ in fingulia, acut
oculis, velgeminam habere pupillam, (vt HieronymusMengus de Arte Exe orciſt.
adnotauit ) vel equi effigiem, quemadmodùm nonnullas Pontumin colentes habuiſſe
legitur. Referuntex iftarum oculis quofdam emittiradios, qui non ſecus iacula
& ſagitrę pro homi num cordibus faſcinandis exiftunt, ità profe & ò
totü pernicioſa quadam qua litate corpus inficiūt,breuique velnullo temporis
conſumpto interuallo,homie nes,bruta,ſegetes,arbores polluunt, & ad
interitum tæpè deducunt. sanguinem caninum HydrophobosCupareba PotumAutumant
Galenus N Serapio,& pleriq;fapiêtes,fangui nis canini potu,
canisrabidimorſum ca. rari teftantur: quæautem fit ratio,apud hos non legitur.
Referam tamen, quæ àMarſilio Ficino in lib. z. de Vit.produc. adducitur. Ego
opinor (inquit) ſali ziam canis rabidi venenoſam, impreſ fam hominis
pedilæſo,per venas paula tim ad corafcendere more veneni, nifi quid in
tereadiſtrahat.Si igitur interim canis alterius fanguinem ille biberit,fan guis
illecrudus ad multashoras natat in ftomacho, eum denique velutperegrie - num
deie & uro per alium. Interea cani. pus languis ifte,faliuam caniná fuperio
ra membra prenſantem, priufquam ad præcordia veniat, deriuat ad ftomachű: ná
&in canino ſanguine virtus eft ad faa liuamcanis attrahendam, & in
ſaliuavia ciſsim viftus ad fimilem fanguinem proſequendum. Venenum igitur à cor
defemotum, fanguiniqueimbibitum, in aluo natanti, vnà cum ſanguine per
inferiora deducitur, hominemque ita relinquit incolumen. Corallinam, ad
puerorum vermes necandos maximè laudari. COMOrallinæ, quam plerique muſcum
marinum appellant, in puerorum ť vermibusnccandis,miraeft virtus, & cf.
ficacia.Hanccirculatores in plateis vene dere folent,talegue remedium ad lum
bricorum internecionem, fummis lau. dibus extollunt. Profectò à veritate in hoc
negotio haud abſuot:hoc enim cão teris medicamentis, in rehacaccommo
datis,excellétius eft:experimento fiqui. dem comprobatum eft non modòlum.
bricos interficeretale præfidium; verùm atque eadem die, cùin aſtantium admi
ratione, oxpellere, vtiure dixit Mat thiolus, quòd quandoque viſus fit puer,
quiex aſſumpra huiuspulueris drachma, a centum vermes excreuerit. Qua induſtria,
labioram,meruum, capia tamgmamilarum citifsimèfifuras fanate vale anus. Periam
ele &tiſsimum præfidium, A tumque mamillarum fiffuris feliciſsimo fucceflu
fere millies vfus fum. Sumiro lithargyrii argent, myrrhæ, zinziberis an,vncj.redigantur
omnia in puluerem fubtilif. & ex cera recenti, melle,& oleo oliuarum ad
fuffic. fiat vnguentú. Vfus talis eft: primò liniantur fifluræ ex hu mana
ſaliua, mox defuper in tela exten fum applicetur vnguentum,ita cquidem paucis
diebus fanantur, Rhabarbarum cidoniatan, y terogerensabs que periculoalue
exonerare. IN graudis mulier bus, cùm grandi inorbo affliguntur, magna cautela
ſo lent medici medicamenta cuacuantiae ligere: vel enimhaud porrigunt,ne con
Ceptum diſperdant, & matrem occidant; velmitiſsima, & benigniſsima
excogi tant, & propinant. Multi Rhabarbarum ob eius caliditatem, &
amarulentiă recu fát: ſed perperá quidé, quádo illud cido nio Correptú, inter
ele& ifsima &benig piſsima connumerari debeat, Rcferam i qua induftria
à Ludouico Mercato,viro celeberrimo,prçparetur.Sumanturcoto nea, ab interraneis
repurgata, tes diuifa, (ſed fuperftite pellicula, quæ valde eft odorata) in
aquadonec tabuc rint ebulliant: mox per linteum colata, & exprefla,
optimolaccaro coquantur, & dumid fit,adiicies ad lib.j. huius con
diturz,vnc.j.Rhabarbari. Doſis cuius fit vnc.j.vel Aliud cidoniatum compo
nitur, quod eftgratius, & abfq; moleftia efficacius euacuat. Diuidatur
cidopium &fub God &in par 1 (264 & fublatis feminibuscủfolliculis,
parti um ciuitates puluere optimi Rhabar, negligenter triti,ac Drach.j.velj.-
aut ij.imp cátur, vel, ſi affectus poftulaueri agarici tantundem, vel foliorum
ſene; mox vniantur cidonij partes, papyro que inuoluantur, & ligata in
clibano,vel furnello coquantur ad perfe &tam co & i onem;poftremò abie
&tis medicamentis internis, pulpa manducetur. Hoc pro fe & ò medicinæ
genus fecurè cuacuat, & viſcera omnia corroborat. Animantium robur animi, à
femine inge terari. Vanta fit feminis efficacia, in aoda. cia hominibus
comparanda, nullo aliomedio ſecuriùs cognoſcitur, quàm caſtratorum natură
compéfare.Hipro fextò ſtatim atque teftibus priuantur, animi robur amittunt,
atque máſueſcár: fiquidem & à fpirituumcopia, & calore potiſsimùm
naſcitur audacia, quæ in teſtium natura valde { pongiola ge. merantur, & ab
ijs in corpus deferuntur.Ob id Galenus,in lib.1.de femine,le méSolicóparauit,
quod ſuo fulgoreorbe illuſtrat;iuxta cuius fulgorcs ſemē,& ipi rituú,&
caloris potentia, ferè corpusil luſtrare admonemur.Hinc Aegyptijſa
pientiſsimi,cum Regem fractum, hebe temq; repreſentare volebant,meritò Ti.
phonem caſtratum pictabant benè ani maduertentes,nil poſle verius hominem
infirmum oftendere,quàin hominem fie nc ſemine. Aegyptiorum aliquot ad
Quartanam febrens ſecreta experimenta. х bris quartanas Aegyptis familiaria
ſunt, hoc pro ſele &tiſsimo remedio ha bent,ægrotisdeco &tum ex menta
para. tum ad femilibram,calidum cum (polio ſerpentis puluerizatibinisdrachmisan
te accefsionem per horam propinare.A, lij cum decocto affati temporeacceſsio
nisvomitum procurant cum felici fuo. ceffu.Sunt & nonnulli,quiante acceſsio
nem pilularum drachmam exhibent. M He exagarici,gentianę,caftorei,mytrhe, rutæ
an, drach.ij.piperis longi,calamia romatici,crocian. fcrup.iv.theriacæ an tiquæ
drach. iij.conftant, & cum ſyrupo de granat. dulcib.conficiuntur. Aliis ve
ſitatiùs eft,exhibere drach. agarici,cum myrrhæ ſcrupulo, diſſoluram in pulegi
deco & o, Ex Alpino de Medic. Aegyp. Auesbacciarum taxi eſu nigro colore
fieri. Axus inter plontas virulentiam ha bere maximam videtur: quienim fub
iftius vmbra dormire audebit, in grauem affe & ionem incidet. In baccis
autem venenum potiſsimum viget.nam à viris comeftæ,ventris profluuia, atque
funefta pericula mouent: boues illarum vfu moriútur, quemadmodum &peco ra,ffortè
has comederint, Aues verò iftarum eſu minimè moriuntur, penna rum autem color
in nigrediné mutatus, Chelidonium Lapidem MIT APN epilepfiam baberepirtutcm.
VIItrus Chelidonii lapidis à pleriſque maximè extollitur: prelentaneum enim
Epilepticis réputatur remedium, adeò quòd non pauci iſtius vſu à tanta morbi
forociate liberati funt. Feruntin. Autumni principio,Luna creſcente, hũc
lapidem à ventre hirundinis extrahi, & contricum aliquo liquore epilepticis
in potum propinari:quippe facultatem re tinere dicitur, tenacem, & vifcidum
hu morem, qui caufa caducimorbi eſt exica candi. Multi,chelidonium non folùm
elu, fed etiam ſola ſuſpenſione, Epilep ticos à proprietate ſanare contendunt,
Ex Lomnio. Miram interafpides, & halic acabum inejſe Antipathiam. Irabilem
natura inter alpides, & halicacabum, quemaiorem veſi cariam inuenit
diſlenſum, & antipathi am:ijenim, fi iuxtà huiuſmodi plantæ radices quoquo
pacto corpora admoue rint,tanta ſtupiditate, & fomnolétia cor Tipiontur, vt
amplius nequeant excitari. Ariftotelem rerumcaufis maximum noſcena dis
adhibuiffe ftudium M M 2 Erat Aristoteles adeò cauſarum re, Erum cognitionis
ftudiofus,vedie cilè quiefceret, nifiad quæfitum exas ctum ſcrutinium deueniret:
ob id cumà. graui valetudineopprimeretur,atq; me dicus citra morbicausa,pleraq;
vetaret, fertur(teſtimonio Polybij ) sc.medico dixiſſe:Nemecures,vt bubulcú,
& for forem; fed prius caufas ediſſere, & ita pre ceptistuis facilè
memorigeratum habe bis.Cum autem in Chalcide exularet;ati que Euripi, qui inter
Aulidem Bcotia portum,& Eubeam infulam ſuntaugu iti freti,feptiesinterdiu
noctuq;alternis fluctibus ſtato tempore refluerent, ille maris recurſus
excogitans,atque caulam reddere non valens, tanto mærore affe & us eft,vtmorti
occumberet. Ex Iufting Martyr. Infates a nutricib mores,& téperiē recipere,
nfantes profe & ò à nutričibus non foi lùm circa temperiem, fed etiam mo
res multum recipere videntur.Ob id fat pienterà veteribus,Romulum à lupafu.
idela &tatum, proditum eſt, velhocfinx I erring erint, vel vera narrauerint;
fuit enimRo mulus ferinis moribus, callidus, fortif limus, &
incommodipatientifsimus.At præter hunc,multosà feris enutriros, & educatos
legimus; num autem hoc ijs, ex animi feritate fuerit tributum peſcio. Scribitur
Cyrum à cane fuiſſe nutritum, TelephumHerculis,filiumà cerua,Pelia Neptuni
filium abequa, Alexandrum Priamià vulpe,A egiſthum à capra,quo rum
inores,apudScriptoresnoti ſunt,vt apertènofcamus, quid nutrices infanti bus
afferant.Equidem quià capra lactá tur,ftulti fiunt, & fälaces;& ita
hircuselt;. quare ex hac conie & ura tales euadere in.. fantes, quales
fuerint& nutrices com perimus;fed mores virtute animi mode fari poffunt.
Qdo artificio vitrum diuidere valeamus. Icet vitrú folum ab adamante, cùm
plicabile haud fit, diuidiinueniatur, tamen alia induſtria etiam compertú eft
illud poſle diuidi,vt Cardanusrecenſuit Hic eft modus: Filum fulphure, &
oleo irabue, L M3 370 imbue,locum circunda,accende, repete, donec locus
optimècalefcat;mox confe ftim alio filo, aqua frigida madefa&to circundato,
& vitro in eo loco fractum, &diuiſum habebis.Ego quidéalio artie ficio,
& fecuriori vitrum, diuido,caſug; hoc mihi notuit. Habebat quadam die
cyathum vitri vino ſublimato,fiue aqua vitæfemiplenum, ad curiofitatem non
nullorum amicorum,a quamin flammá, accenfa candela,reddidi, vt vinum fub.
limatum accendi folet, confuiripta all tem flamma, cyathusin medio diuifus eſt,atque
co potiſsimùm loco, quema qua fupernatans attingebat.Ita ex curio.
loexperimento, vitruin diuidere apud alios amicosnon lemel valuir Gallinaceum
ftercusà fungorum virulentia bomines tueri. ' Vngorummalitia,ex multorum ex..
perimento, pleroſquevita priuauit quia autem homines ab illorum elu ob luxus
abſtinere nequeunt,referam quid àGaleno,tanquam arcanum,pro iſtorú. Fe
virulentia extirpanda,leu ſuperanda ada notetur.Erat in Myſia medicus quiho
mines penè ſuffocatos ab elu fungorum ad vitam ducebat, remedioa; tanquam
arcano quodam vtebatur: huncprecibus exorauit, vt tantum auxilium aperireta
Stercus gallinaceum ille adduxit, quo contrito ad- læuorem vtebatur, & cum:
oxycrato,autoxymelite propinabat in firmis, qui celeriter omnesadiutiſunt. Hoc
vſus fuitmox in quibuſdam Vr- r banis Galenus, & verum inuenit: nain: qui
præfocabantur, paulò poftvome bant pituitofum humoré omninò cral hiſsimum,
& exindeplanè liberati funt. Infuper Myſius ille vtebatur huiuſmodi
præſidio in diutinoColi dolorecú oxyo melite,propinato vino, velaqua, cum
felicifsimo fucceffu lob id Galenus ex Bolilongo dolore fpafmo correptos,ta li
remedio quoſdam perſanauit: nam & hoc colicum doloremaufert, qui caufa
ſpaſmi eſt.Ex Gal.16.simplic.cap.io. Varia deliramenta di vini
potentißimipotua.r exoriri. M 41 Multa Vlta equidem deliria in ijs,quia vino
potentiſsimo inebriantur, fecundùm humorum in corpore prædo-. minium ſuſcitari
ſolent:quippe iltorum nonnulliin riſum maximum mouentur, aliqui plorant,pleriq;
vociferantur, alij. profund ſsimo lomno quiefcunt.Refert Alphinus,in lib.de
medic, degypt. muliere quandam à vini potu largiori ebriam, primònimis euafifle
hilarem,atq; in ho.. mines la ciuiffe, quoscomplectebatur, & ofculis
tenebat;moxèrifu, & cantu, ad ram, & furias deueniffe ex quibus fami..
liares eam pertimentes, præcauebant;de. inumin mæftitiam,vtdefun &tos lamě.
tabili voce deploraret;poftremò à fom. no oppreflam,omnem ebrietatem digef
fiffe.Caufa omnium eft, quia vinum pri mòcalefacit,fecundò adurit,tertiò refri
gerat; ſi potésfuerit, & immodeſte poti. Ego profe & ò quendam cognoui,
qui a pud Marchionem primum Sancti Marci dominum meum erat in culina,vt lances
vaſaque culinaria in dies-collueret; vo cabant Iulium Colauentre. Hic epoto vino
grandi, quodBeneuento pro domi 13 ni menſa forebatur in tam immanemde uenit
ebrietaté, vt Dæmoniacus appare ret,os,manufq; extorquebat,in fe ipfum
fæuicbat, ia &tabatq; membra, & infinita agebat deliramenta. Aulæ
Sacerdos fa cris libris accingebatur ad exorcizandú hominem: quando vocatus,
ebrium illi effe faffus fum,meoqueiuſſu ferula,mo Te puerorum, circa
nates,flagelliſá; con tačius, breui ebrietatem dereliquit. Syrium inter
fydera.calidißime exiſtere matuth., Riente Syrio tantum aëris concipi.. præ
ardore langueſcant;canes in rabiem trahuntur;furiunt viperx, & ferpétes;
ftuant mariajaer occultam nocendi qua. fitatem recipit;ſemina, ia era ſub tali
ſy dere,minimènafcuntur: talis profectò eft Syrij natura. Exlib.2.de
Hydr.natur. Viterum in nuptis mulieribus varios fuiffe mores, o confuetudines..
3 MS Non N.DE dumprima On vna equidem
apud Veteresin. nuptis fæminis erat confuetudo: quippe conſueuerát homines in
finuPer. fico, littoreg;Orientali, Virgines nobi. les nubiles haud deflorare,
nifi brachijs, margaritarıım ļineis ornatæ incederent:: ab id illæ in
magņo.erantprecio.Deſije. a nuncmosille, & margaritæ vilius illice.
muntur.E « Garzi4 ab Horto. Catullus, in nuptijs Pelei, Tetbidw, aliam natat
con ſuetudinem, Virgo nupta, noctecun marito erat concubituva, ita tra &
abatur:ante coitum eiuscollinen.. fura filo circumdato meníurabatur,mae
nèhocrepetebant,quòd fi latius, quam vt filo comprehenderent, collum inueni
ebant, defloratam ça nocte cenfebant:ſin: Vitò dibilomaius,integram, aut antea.
fuille deuịrginatam habebant. Aļijalias. habuere confuetudines. Pupauetagrefte
mirabiliter Pleuriticum mere bum fanare, Efeet Galenuspapaueradolores miti gare,
atq; interanodyna reponiina multis locis referat;tamen agrelte,pleu, ritidem,in
lib deremed paras.facil.confel, - fus eſt perſanare. Aperiam quodà mo nacho
empirico mirabili fucceflu in hoc morbo fa & um vidi.Hic folia & ſemina
agreſtis papaueris,in vmbra exiccata,ſe cum continuo deferebat:cum autê quis
laterali morbo infeftabatur, eius confr lio ſanguinem à brachio ſecundum ca 1
nones extrahi curabat,mox deco&ú fo liorum in brodio pulli collatum, cum
drach.j.velj- iplius papaueris ſeminis capillamentorum, quæ poft colaturam
addebãtur,capiebat tepidè, & ieiunio * ſtomacho. In loco doloris hæc
Epithe. cata adhibebantur.Parabantur ex pul yere roris marini, &
ſalis,farina, & aqua" tres placentulæ,quæ ſuper calido latere in
firmam ſubſtantiam ducebantur: hiss locus,epithematis inſtar,fouebatur, &
breui tim dolor euanefcebat, tum etiá: apoftema rupebatur, & infirmus ad
fa. lutem magna admiratione priftinam rew. dibát, Corni plantam,
Singuinarie,vel SörbiHydrom phobiam curatam fufcitare. 1.1 ter 276 Je Nterrerum
admiranda, connumera tur aliquot plantarum energia, quæ ſopitam, atque curatam
in hominibus Hydrophobiam ſuſcitare, & renouare couſueuere. Pluries etenim
obferuatum reperio à Canerabidocommorfos, fi plă tam corni, yel fanguinariæ
tetigerintan. te annum exa & um, velfub forbo dor mierint, ineuitabiliter
in rabiem incide. Tę. Salius in lib.de affe&. part, virus hoc potius à toto
ſubſtantia, quàmàtempe ramenti ratione ſufçitari prodidit; nec enim à taląu,
necab vmbra intemperi es introducipoteſt. Itaquemirabileelt, ab iis lopitam
rabiem renouari, quod. fieri non poſſet, niſicum rabidalue, ha plantæ aliquam
haberent antipathiamy cuius alia potior haud adduci poterit ratio, quam
tetigimus, quod huiufmodi a proprietate hocperficiant. Qua induſtria penenum
illumptum deſcen.. diffe ad gibbum Hepatis pèlinteftina. rognoſcere valeamus...
iquopropinato,nullamajor me dicis, difficultas exoritur, quam veneni
refidentiam reperire, vtritè ca adhibe antur pręfidia, quæ talia oppugnare re
perta ſunt. Si enim venenum fuerit in ſtomacho,vomitum proderit excitare; fecus
autem,li tranſiuerit hepatis regio nes,Hiceft modus. Ponaturoui vitellus
cumalbugine, cum infirmi lotioin ma tula;fiinfra paucashorasnigrefcit, &
fee tet, venenum adiecoris gibbú peruenit; Tip verò rugetur,çitrinefcat, &
non fæte at, inteſtina haudtranfiuit. Hinc indica tionem corradimus, veneno ad
inteſtina Traiecto,non conferre vomitum prouo care, ExBAYTO. Plantas
peduconfimiles;congeneres retine YENİKHI€s. MVltis experimentiscomprobatum
Teperio,plátas,fruticelý; ligna, quę quadã aſpectus ſimilitudine cóueniunt,
congeneres retinere vires.Sic multi mea dicorum peritiſsimi locolingniGuaiaci,
Buxo vtuntur;loco falſę parillæ,ſmilace it aſpera, loco ſaſſafras,
žylucftrifoeniculo; pro polypodio, filicecligunt; protipfa M 7 na nyhor leum pro myrto,liguitrů; pro ea
buio,fambucum;pro china radicem no ftræ arundinis;pro Rhabarbaro, hippo
lapathú.Hçcn.facie corporeg; aſsimilá. túr,proindecöſimiles vires habere exia
ftimatur. Exlib.noftro de Hydran. Natur. Inter Arundinem. Fräcem,may nam inefſe
extipathiam. Aturali quodam odio inter ſe Fi lix, &Afando diſsidere
videntur: moritur enim filix, quæ ab arundinem: plantis circundatur; &
arundo quæ à fio licum virgultis: quo dudi experimen to agricolæ, arundinis
folia in colendis agris, vomeribus alligant, perſuaſi ab iſtorūdiſſenlu,
ſilices ab agris extrudere, &,vt audio votum in dies conſequütur. Apri
dentem ad Cynanchen, Pleuritiden mirabiliter valere. Agna eft efficacia dentis
Apriin NA ! uis eius oleo linino excipitur, ac locus affe &tus tangatur cum
pennę' extremitaa: tę,cx Arnaldo, & Auicenna habetur,bảo morbum
præfeptiſsimè curari.In curan da pleuritidenon minor eft virtus eius. propterea
folent practicantes admiſcere tum fyrupis,tum electuarijs huiufinodi dentis
puluerem,benèpoſcentes ab oc ! culta,&aperta proprietate talem pulue rem
prodeſſe: quippè extenuādi, & exic, candi vim habet. De hocdente mirum.
feribitur;occiſo enim Apro recentar,ip fius détes adeo feruere referüt, yt
capil losadmotos nonnunquam comburant. Id accidit., quia Apricalór magous eſt;
dumý; occiditur, ira & exercitatione fer uefcit; proinde dentespropter
denſam ſubſtantiam, magnamrecipiunrcalidita tem,cuius indicium ipmaeſt.
Aparagos ju arundineros fatosmirabiliter ex. crefcere. FAximuseft inter
arundines, & af par gos naturalis cófenſus;idcir... Iragos, &
pulchriores, & core pore?s atq; ſapidiores habere op tabit,ue, arundinetis
leminare procu rabitquippe ex naturali ſympathia mi rum in modum excreſcere,
& germinare, animaduertet. Meani co qui MVltis profe& ò notiſsima eft,
an Viero gerentes eſu cotoneorum induftrios; acuri ingenij parere filios..
Mirab Trabile eft illud, quodà multis de cotoncorum proprietate affirmari audio:
ſi enim.grauidæ mulieres,quàm læpius cotones-comedere folitæ fuerint, filios
& induſtrios, & maximaingenij pårere dicuntur:fiquidem cotoneis mia ram
hanc facultatem ineffe credunt. A. liud autem mirum in ijsreperiri apud
Mizaldum legi,grauidas mulieres háud parere, velfalte difficulter fætum ede
re,ſi in cubiculo, quotempore partus fuerint,cotosca feruauerint: credo ex
eorum conftringentiodore, velocculta. rationeid euenire. Heder am cum vinomiram
habere diſcordiam. tipathia, quæ inter hederam, & vinuinànatura infita eft;
fi enim ex hc deræ trunco cratera componitur, in qua vinum dilutumfuerit impofitum,pro
cul dubio vinum confeftim effluesfun detur aqua verò intus retinebitur,adeò vini
impatiens hedera exiſtimatur.Hoc ducti experimento nonnulli in vinise mendis
hederæ poculis vtuntur: ita e quidem num purum, vel dilutum vi num
exiftat;examinani, & cognoſcunt, Volatilium piſciumg;fecunditatis,Ginteria.
Tuprafagia. Oletin quibuſdam annis animanti bus quædam peculiaris peſtis graſſa
ri;hinc fit,ve (liannus valde pluuioſus extiterit(auium, volatilium, bombycú
ſericeorum,araneorum,erucarum,inte.. ritum videamus;piſcium verò ftirpiúq;:
fertilitatem, & valetudinem.Annus ay. tem ficcusvolatilibus (apibus
excepris) falutaris iudicatur;piſcibus verò perni... ciofius:ficut enim in
angulto aere, obim. pediram reſpirationein,fuffocamur, vi. uereque nequimus;ita
piſces in anguſtis aquis concluſi diu vicam agere mini mè poſſunt. Gallinarum
adipem(accharo obuolutam,vor modò a corruptela preferuari;verùm atque oleum
redderepretiofis fimun. Mira Mina Ira equidem eft facchari virtus, in
conferuandis àcorruptela adi pibus. Cum quadam hyemePrudenria filiamea
gallinarum adipes collegiſſeter acfaccharo albo benè conuolutasin va
ſculorepofuiflet,æftate ſubſequenti, il lud oleo femiplenum reperit, adeòpel
lucido, vtcumad medeferret excellen tius haud inueniri poffe iudicaui. Hoc
licet illa pro exornandis capillisvtere tur, tamen pro mitigandis corporis do
loribus,pro carnis (cabritie tollenda, ae liifque infirmitatibus vtiliſsimum
effe į cenfeo:Quod autem mirabiliusiudicaui: adipes illas:poft multos annos
conſerua.. tas, eodem colore,atqueodore, quo re-: centesin vafculo fuerunt
claufæ anim aducrti. A quodam Chirurgo amicoet ia nintellexi,humanam adipem
faccha. ro conuolutam;per longifsima tempo ra à carie, & rancido
præferuari: quodiſi. ita eſt, credo in omnibusanimantiumde. dipibus id
euenire.Qrare Magpatú cor pora condienda melius faccharo imple. ta, quàm
aromatibus pofle conſeruari crederem;eò magis, quia hoc præſidio, corpora in
propriocolore, vi deadipe dixi perfifterent. Cucameres naturali odżo
oleumabborreres - aquam verò appetere. INteſtina iudicatur diſcordia, quæ in,
ter cucumeres, & oleum ineft: nam, & ijaquam,appetere.à lege naturæ
viden. tur.Proinde virentes, atque è propriis. plancis pendentes, vafcula ff
aqua plena ſübterhabuerint,adeò longius extrahús, tur, vtaquam inſequiex
certitudine ex. iſtimentur; fin autem oleum fub his fue. rit eie & tum
procul dubio in feipfos, ve Juti vncus, retrahuntur;fiquidem ij olei
impatientes ex naturali antipathia co gnofcuntur.ExMatthiolo, Mandragoram
pitibusapplántatam,vim il tis infundere ſoporiferam. T Antam habét Mandragora
inducena, di ſoporem efficaciam, vteius pom vel comeſta, vel odorata,quandoque
ca taphoram exuſçirent. Illud autem mi rabilc eft, vitibus Mandragoram com
plantatam, propriam iis naturam infun-. dere, adeò quòd vinum ex huiuſmodi: confectum
ſophrem bibentibusinduce reconſueuerit, vt Rhodiginus adnota-, uit. De
Mandragora Iulius Frontinus hiſtoriam feripſit Strathagemwoz.Arn balà Carthaginenfibus
cõrra Afrosmit. ſus fuerat, qui cùn ſciret gentem illam vini auidam eſſe,in
quibuldam vini do liis, quæ in caſtris habebat, Mandragore copiam
coniecit,indeleui comiſſo bello, ex induſtria celsit, fugamque ſimulauit.
Barbari,occupatis caltris,auidèmedica. tum merũ cùmhaufiffent, in captapho ram
lapſi ſunt, & ab Annibale trucidatia: Quando, Aegypti mortuorum corpora
come dire foleant: E condiendis mortuorum corporibus, Aegyptiorum ex monumena
tis multa, tum ab Hérodoto, tum à Cæ. Jio Rhodigino exempla afferuntur. Ae
gyptii enimmortuoscondiunt, atq; do mi feruant: Ageſilai cadauer cera condi.
tum fuit, yt & Perfæ facere folent; Alex andri corpus melle colitum eſt.
Apud Iudæos exmyrrha, & aloe cadauera con diebantar,vé apud Ioanné
Euangeliſtam cap. Iceportabile equindependenciaenels C. 19. legimus:
quippeNicodemus myr rhæ, & alocs ad libras fermè centum mi. furam fecit pro
corpore Ieſu Saluatoris noftri condiendo. Magorum eratmos, non humare fuorum
corpora, nifià fer - ris ante laniata forent: Affyriorum Re gure fepulchra in
paludibus condita fu ile tradunt. Mellis vſum, vita hominibus inducere
diuturnitatem. Nenarrabili equidem potentia mel, corruptione cuſtodire valeret,
à natura productúeft:propterea Plinius l.20.maximè huius virtutem ad miratur, ClaudioqueCæſari
Hippocen taurum, exAegyptoin melleallatum, vt citra cariem eſlet, commendauit:
nam & hoc corpora computraſcere non ſinit; fiquidem multi fenium longum
mulſi tantum intinctu tolerauêre.Celebre eft mellis exemplum in Pollione, qui
cen tefimum annů excefsit: hicenim ab Au. gufto interrogatus, qua ratione,
&ani mi, & corporis vigorem, maximè cuſto difíet,hocreſpódiſſe fertur:Melle
intus, foris oleo. Proditur etiam Corficæ in fulæ populos, ex aſsiduo mellis
vfu, vi. tæ acquirere diuturnitatem, cuius rei li cet Diodorus non comprobet
exemplu eò quòd mel Corficú peſsimum cente at, tamen non per hoc vſum mellis ad
vi tæ produ & ionem improbauit. Gulinas ouaparere quolibet anni temporefi
femina urtica, velcanabisin cibis habuerint. Scripſit Ariftoteles6.de
Hiftor.animal. cap. 1, Gallinas toto anno oua parere, exceptis duobus menlibus
brumalibus. Hoctamen tempore, quo à fætura deti ftunt, ferninis vrtica, &
canabis auxilio faciliter gallinæ fæcundantur:fienim in cibis iſtorum ſemina
Ticca comederit, procul dubio tota hyemis tempeſtate, non modò calidis
temporibus oua pari ent. Hæc profectò earum corpora cale. faciunt, & ad
fæcunditatem diſponunt. Curyepbylatam infantium maculas è corpo Olent tenella
infantium corpora, dű vtero exiftunt materno, maculis 0 pore extricare.
Solenereexiftuntmaterno, quibusdam, næuis, lituris, veruciſque, quæ à matris
imaginatione fiunt, com maculari: hæcporrò quali ſigilla impri muntur,
&difficulter poft ortum elui poſluņi. Pro iis delendis principatum
habetCaryophyllata, cuius vis,& po tétia in huiuſmodi maculis extricandis,
mirabilis iudicatur.Sumitur enim plan ta hæc cum ſuis radicibus in fine menfis
Maij, quo tempore virtus vigorofror eſt atque à terreitate emundata, in alem
bicco deftillatur, mox ex aqua ſtil lata infantium lituræ maculæque Tæpius
lauantur, abſque dubio, eua. Deſcunt. Vrrica folia in lotio infirmi cuftodita,
vitam, vel interitumpreſagire. Ira equidem, ex abdito naturæ eſcrutinio, in
vica,morteq; infirmi praſagienda, vrticæ virtus,&potentia eft. Si enim
recensplanta extirpatur, ac -24.horarum ſpatio ia ægri lotio aderua tur,
vtiquefiviridis colore permanebit ex multorum experimentis,falutem, & vitam
infirmiſignificare dicitur:fin auté haud A cantu haud viridis cuſtoditur,colorema;
mura bit,mortem, velgrauepericulum deno tare, Ex Caftore Durante. Philomelam
axem miro conſenſu à viperade. pafci. Vis Philomela cx cantu dulciſsi mo
omnibus cognita eft; incogni tus autemeiusconfenſus eſt, quoà Vipe rà depaſci
permittit:dum enim ſub ar bore,in quacantans auis fuerit, viperam viderit
paulatim ex illa defcendit,&ad viperam accedit, vt illi fiteſca. Ex Thoma
Tomai. Caftorem fià canibus inuaditur, minimè te fticulos fibi amputare.
Linius,Solinus, & grauiſsimorú Scri ptorum multi,caftorem fibi teſticu. los
amputare referunt, quoties venato tes ipfum canibus aggrediuntur quafi confcius
exiſtat,quod(ijs reciſis ) à mof tis periculo ſit ereptus; fiquidem vena tores
hæc infequuntur animalia, vt ex his accipiant,quodad medicinam vſur patur.' Rci
autem veritate hi om. nes grauiter errant; quippe caftor, Ppioru testiculi
iuxta ſpinam inclufi funt, vt multis ex anatome obferuatum. eſtiſte rum error
ex velicis quibuſdam ortus eft, quæ in vtroque, maſculo & fæmina, loco
teſticulorum pendent, flauo plenæ liquore ad medicinam vſurpatæ. Has vocant
caſtereum aromatarii, teſticuii autem minimè lunt. Quo atsficio miliciæ Duces,
vt hoftes offen danti gnemmiſsilem perniciofum -con ponere valeant. APeriam
potentiſsimiigpis miſsilis, fiue artificiari compoſitionem,cuius potentia tanta
eft, vt eiusminimaItilla non modò hominem viuum, verùmat que ferrum comburere
valeat. Sumun turſandaracæ factitiæ lib. 1o. ſulphuris viui lib.4.oleiè rafa,
fiue ex adipealbur ni ftillari lib. 2. ſalinitrifib.j. thuris lib.j.camphoræ
vnc.6.vini ſublimati, fi ue aquævitæ optiinę vnc.14.Omniahọc lento igne bene
mifceátur; deinde fupa obuoluta, atque accenſa in ollis, in ho ſtes
inijciuntur. Ignishic, infernalis di citur,tum ex eo,quòd mirabilia agat; tū N atque
ex Paracelfi impij ceſtimonio, qui retulit fc à quodam Dæmone fuille hunc ignem
edocum. Demoſthmen lingua duritiem, quibuſdama Lapillis confregiffe. DEmetrius
Phalereusalloquutus.com, quomodo fibi curaſſet linguæ impedi menta ſciſcitatus
eft.Habebat enim ille linguam duram, & ſcabram, &proinde adoratoriam
exercitationem impoten. tiſsimam ). Sanatam refpondit atque la. xatam fuiffe
linguam raſpondit ex non nullis lapillisoreretentis, quibus loqui
conabatur.Cuius Demofthenis præfidi í um difficilem habentibus loquutionem
faluberrimum iudico, vtexpeditius fer mo citari valeat.Ex Plutarcho. Vinum
quoddam àferpentibus venenatum, pleroſque àdifficillimis morbisconfanaffe.
Trabilise{t hiltoria,quęáProlpe Milocro Alpino,lib.4.de Medic.Method. de vino à
ſerpentibus venenato affertur In cella vinaria quidem ciuis Ferrariz inter alia,vinidolium
habebat, quod (i ne operculo diù apertum extiterat: - & proinde compluresſerpentes,quos
vul gus angues, & anzasappellant,ingreſsi in vinum ſuffocati, &
putrefa& i fuerát. Multiægroti ex febribuschronicis; atq; difficillimis
vexati morbis ignari,quod ſerpétes in eomortuielent, vinum à ci ue emebant
illud, quod guſtui gratum iudicabant, & breui fanati ſunt. Alij ab huius
viniſama ſuaui, cum paucos dies bibillent,itidem lanati funt, & poft hos
alijitidem eodem modo fere innumeri. Quare vinidominus tantæ vini faculta tis
admiratusvinum e dolio torum edu xit, & ferpétes complures ſemi putridos
inuenit,qui ré manifeſtá planè fecerunt. Veteres equorum lacrymas inter auguria
recepiſſe. Agnifaciebant veteres equorum Llachrymas, atq; ex ijs auguriun
vaniſsimumrecipiebant.Propterea ante Cæfaris mortem ad Rubiconemcqui dedicati
ab eo flebant,idquemagno au gurio excerptum eſt. Illorum autem N 2 inanitas,ſiue
ruditas vt ita loquar, mani feftiffima nobiseft:fiquidétépeftate no ftra fæpius
equos collachrymātes afpici mus, necperinde ex ijs alicui ſiniſtri quid
accidereobſeruamus. Vt ipſe non Semelexpertusfum, æftate potiſsimum equos
lachrymari conſpexi, idcirco vel illorum naturá efle,velmorbú iudicaui.
Crocimerallorum compofitio. Fferam Quercetani, Croci metal. Jorumcompoſitionem,
qui potens medicamentum tam vomitiuum, quàm purgatiuum fimul eſt, variisque
affecti bus accommodatum. Præparatur cum zquis partibus MagnefiæSaturninæ,
& Nitri inuicem mixtis, & inflammatis in quodã crucibulo vt vtar artis
vocabulis, & remanebit quædam materia calcina ta in colore Hepatis, quz
puluerizata, rubicunda apparet inſtarcroci Martis, quæque dulcoranda eft: Doris
-grana x. vel xij.cum vino,aut ațio liquore. Hominis compoſitionis mirabilia.
Ntet mirabilia, quæin hominis com I pofitionecontingunt,illud quidem mirum
eft,quòd tali corporis fit colla tusproportione,vt partes omnes pera. que toti
cópofito correſpondeat. Licet auto in eius ftatuia nec certa nec deter,
minatareperiatur mēſura;ex hominibo enim aliquibreues,aliquilongi ſunt;la
pienus nihilominus perfectioré homi. nis ſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi
cauerunt, vel quod ſaltem feptem non trárcédar.Interproportiones voluit Vi
truuius cubitum quartam partem totius corporis exiftere; eandemſ;penſurat.
eſſed capitis vertice, ad pectorisinitisko Manus longitudo à cõiun &tione
ad mee dijdigiti extremūcorporisdecimapars: eft.Facies à capillorum radicibus
ad ex® tremum barbę,eade eſt menſura.Maior pollicis coiú & io,oris
eftaltitudo.Tota manustotius faciei menfura eft, Maior iudicisconiun &tio,frontiset
altitudo, cilijs fcilicet ad capillorum radices; cæ teræ autem iftius coniun
& iones, nafi longitudinem oftendunt:Hominisproe funditas, ſi ſub brachiis,
pe& ore, & hu merismeluratur,ftaturæ illiusmedietas: 3 reperi
inanitas,ſiue ruditas vt ita loquar,mani. feftiffimanobiseft:fiquide tépeftate
no ftrafæpius equos collachrymātes afpici mus, necperindeex ijsalicui finiftri
quidaccidere obſeruamus. Vt ipfe non femelexpertus fum, æftatepotiſsimum equos
lachrymari conſpexi, idcirco vel illorum natura efle, velmorbú iudicaui.
Crocimet allorumscompofitio. Fferam Quercetani, Crocí metal. A medicamentum tam
vomitiuum,quàm -purgatiuum fimul eſt, variisque affecti busaccommodatum.
Præparatur cuin zquis partibus Magneſiæ Saturninz, & Nitri inuicem mixtis,
& inflammatis in quodá crucibulo vt vtar artis vocabulis, & remanebit
quædam materia calcina ta in colore Hepatis,quz puluerizata,
rubicundaapparetinftar croci Martis, quæque dulcoranda eſt: Dofis -grana x..
vel xij.cum vino,aut alio liquore. Hominis compofitionis mirabilia. I'
poſitione contingunt, illud quidem mirum mirtim eft,quod tali corporis fit
colla tus proportione,vt partes omnes pera quetoti copofito correfpondeat.
Licet autē in eius ſtatura nec certa,nec deter, minata reperiatur mēſura;ex
hominibe enim aliquibreues,aliquilongi ſunt; la pienas nihilominus perfectiorë
homi nisſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi cauerunt, vel quod faltem feptem non
trárcédat.Inter proportiones voluitVi truuius cubitum quartam partem totius
corporis exiftere;eandemg;menfurami eſea capitisvertice, ad gedorisinitiúko
Manuslongitudo à cõiun & ionead mes dijdigiti extrema corporis decimapars:
eft.Facies à capillorum radicibus ad ex tremum Barbę,eadé eſt menſura.Maior
polliciscóiú & io,oris eftaltitudo.Tota manustotius facieimenfura eft,
Maior Indicisconiun & io,frontisettaltitudo,a cilijs fcilicet ad capillorum
radices; cæ teræ autem iftius coniunctiones, naf longitudinem
oftendunt:Hominisprop funditas, fifub brachiis,pe & ore, & hu
merisméluratur, ftaturæ illiusmedietas. 3 rreperitur. Cæteræ partes cum
aliistra. bentrationem,vtſuperius tetigimus. Apedumnaturam mirabilem effe. IN
Neer terreftria animalia,Aſpidum ne, tura mirabilis iudicatur. Ex his enim mas
& fæmina infimul vitam agunt, ta. tula; amoris affectus inter ambdsinge
ritur, vtfi cafu illorum alter occiditur viuens occiforem infequi, quouſque fo
dj,necem vlciſcatur,hauddeſinat.Quod autem mirabilius eft,ex Plinij, &
Ifidori Teſtimonio, occulta proprietate occiío on noicit,(talem ifs natura
indidit ) igi quemIrruit, licet in quantovis hominu agmine reperiatur.
Præceptum ergoo. mnibus eflc velim,vtocciſo iſtorum ani malium quopiã,celeri
fugaiter occiſor arripiat,ne à compare animali veneno fiſsimoinfeftetur,
Leporesomneshaudeffe bermaphroditos,con traVeterum opinionem. Mneslepores
vtriufq; lcxusexiſte re voluerunt Veteres, quod & M. Varro ctiam tradidit.
Error tamen eſt, vt diuturna docuit experientia, quama feulos fculos à fæminis
lexu eſſe diſcreros cognitum cft. Porrò tantorum inſcitia, abhoc, vt
reor,ortaeft, quia in leporum genere lępius, quàm in aliis animantibus
hermaphroditos reperimus: inde Hee brei naturæ arcana intimiùsſubodors tes,
leporéfæminino vocabulo léper ex planarunt,ARNEBETH, eò quòd in iis
foemineusſexuspræualet magis.Rej ve ritate noomncs hermaphroditiſunt,vt ex
peritiſsimis venatoribus audiui; exic & ione multorum cognoui,ficut.com iam
Bodinus edoctus fuit,vtivrhluth confitetur. Equidem Hermaphrodig plurimi
funt,fedfæcunditatem fervita. rumminimè recinéignecmares vnquam vtero gerunt,
necminus fuperfætant. Mirabilen eße Imaginationis po tentiam n vtero gerentibus
imaginationis po tentia apertè cognoſcitur.Si enim illæ inter virorum amplexus,
& fuauia,ali quid intensè cogitauerint, facilè in in.. fántium
corporisexternis partibus imax ginata imprimunt. Hinc variæ rerum formar Ire N forme,næui,lituræ, verrucæ, & alia figa na
in infantibus impreſſa conlpicimus, Lingmultæ ex leporum obeutu fætuse-, dunt
ſciſſolabello,aliæ fimis naribus,ore diftorto, vultumonftruofo,labris turpè
prominentibus,corporedifformi,ocu-, liſq; horrendis infantes genérant: quia
conceptus, vel grauidationis tempore, turpia,monſtruoſa,& horribilia fixa
co gitatione excogitarunt-Fæminisidcirce, præſertim nuptis,pulchrasimaginesda
mihaberecófulerem,atq;à turpibus av effe,ne pręuia imaginatione fætus mó.
Atruoſos, turpefá; concipiant. Veteres, Climaftericos annos admodum ti muiffe.
1 A mationis apud Aſtronomos exi ſtunt &re vera videtur in quolibet anni
feptenario quædam hominis mutation deò quod, ficuti in morbis dies criticos
timemus,ita in vita hominum annosClin mactericos,qui à multis ſcalares dicun
tui, quòd gradatim eueniant.Sunthi an ni, .Inte hos annos 49.63. magis
periculosos credunt; quiaconſtant è feptenario, duplici, &nouenario
complicato,obfero uatumq; àgrauibus auctoribusreperio, maiorem hominum partem
io anno 63. Mori contingere.Idcirco hos veteres ada modumpertinebant,&, vt
capiturin Gellio lib. Auguftus itaſcripfit ad Ça ium nepotem:Spero te lætum,
&bene uolum celebraffe, quartum & fexagefi mumannum natalem meum:nam,vt
vi des,Elimactericum communem fenio rum omnium, tertium & 'fexageſimum
annum euafimus. Dehis tractatum edi dit Iofephus de Roſsi à Sulmona vtilem
&jucundum. fMundiprimordiisinter homines, es ferpema tes
antiparhiaminfurrexiffe. IRRreconciliabile odium eft, quod inter homines,&
ferpérescadit,adeò, quòd expauefcit homo fi ferpentem inuenit, antvidet;magis
autem fæmina: fiquidé obſeruatum audio gravidam mulierem (vifo ferpéte )præ
timore abortire.Hu. ius difcordia illa ratio potiſsima eft quodàmundiprimordijs
ínterkanc, & QUnca Semuan -illum Gt ſtatuta inimicitia, & irreparaa
bile odium, quo altera-, alteram fpecia em inſequatur. Carolum V I. Francorum
Regem, Ceruum 4 latumpro infigniprimò habuiße. Iluanettum Rex Carolus venandi
cauſa fe contulerat, canum latratibus excitatusin fugam Ceruus, æneam tore.
quem collogerere viſuseſt, quem vena bulis,aut ferro appeti Rex prohibens,in
calles, & retia compellit.Erarin torque latinis litteris infcriptum:HocmeCçſar
donauit. Exeotempore Caroluserua alatum pro inſigni habuit; &alii,regibus
inſignijs (quęlilijsaurcis tribus conftát) circa latera, Ceruos duos apponere
con fueuerunt. Gaguilis in vita Carol. V I. HANC. Reg. Insaanimantia confenfum,
&difcas diane ineffe. Vllidubium inter animantia fym pathiam, &
antipathiam efle inter trpiantes ſubditur: fiquidem muſtelam miro eiulatu in
bufonis os deuorandam inueherelegimus; & bufonern in ferpen Npathi Lisa I
tis,botræ vocati, os ingredi.Inſuperci cutam, fturno eſle cibum; homini vero
venenum in dies obſeruamus: atqueveo Fatrum cotumices nutrire, hominem autem
lædere non eft ambiguum. Senaterem quendam, exconiuge liberos ſur dos,
&mutosfufcepiffe omnes. nature. omnesex, &mutos ſuſcipi,itaequidem à
Fernelio obferuatum eft in quodā Senatore.Cre didit Ambianus huius reiobfcuram,
& cæcam eſſe rationem, mihi autem altera fubeft, quæa Phyficis minimè
differt: fi quidem auditio grauis, atque ſurditas quæ à natalibus viſa fit à
conformatio nis vitio exoriens, hæreditarios mor bosgenerare creditur, &
perinde libe ros, exhuiuſmodivitioſis,ſurdos, &muin tos excitari:fæpè autem
non in filiis,ſed ! in nepotibus hæclues oriri videtur. Apud Garamantes.
mirabilem fonterros obferuari, Dmiranda profe& ò, eft fontis il.com
ARJiusproprietas, quiin oppido Der 1 bris apud Garamantes reperitur. Hices nim
die friget, no&c verò æftuat; adeò quòd memoratu incredibile videtur,
quomodoin tambreui temporis fpatio tantam natura ſui faciat varietatem. Equidem,
quinoéte fontem afpicit, ibi flammasignefqueæternos exiſtere cres dit:quiautem
die hyemales ſpectat: fca. tebras, vtique fontem perpetuò rigere exiſtimat.
Propterea Debris apud mudi nationes inclyta eſt: eius enim aqua qualitatem
excæleſti vertigine,mutare confpiciuntur.Ex Solino. Quo artificio Caminus per
ſuperiorem "api cem ſolum fumum emittere valeat. N Caminorum fru & ura,.non
modi aim tufferimus laboris, ne ignis fi molimtesin nos ipfos erumpant: fiqu.
dem in ventorum mutationc facile fit, vt fumi quandoque potius defcendant;
quàmadapicem aſcendant: ventorum enimvisillos deprimit, deſcenderequc
percaminum cogit. Egotale ad fumi ferlum impulfionem excogitaui artif. simm.Struktur
Caminus, cuiusfuperius fafti. zor faftigiu rotundú fit,ibique foramen la
pidibus fi &tilibus conſtructum fit: mox ahenum inſtar tympani ex-ære, in
cuius latere feneſtella extracta ſit, fuper lapi des affigito: ftylifớ
ferreisfubcingito; ita tamen,ve intus vagari, mouerique commodèpoſsitapta demum
fuper fer reos ftylos, & lebeten?' ex ære infuper vexillum,quod feneftellam
fubiec dia recto habeat,taliq;induſtria,vtin quo libet vexilli motu, moueatur,
& calda riumin gyrum,ita profe & ò è feneſtella, ventis
oppofita,fumuserumpet, & non deſcendet.Pleriq;, vt fpero, huit noftro
fcruinio,ineliorem addent Atructuram. meamque opinionem noníſpernent.
Adconftruendum celerrime Horologium muncrabile in paritte. Ncoritruendis,
pingendiſque ſolari, bus Horvlogiis, non modo lintā me ridianam,opuseft
imienire, vthorarum tempus fidele reperiamus, rerum atque Ortum, & Occalum,
Borcam, &All ftrum cum Aquinoctia, & Solftitia: in is.n.
Solarismotusquarnaxime variat. N 7 Ego quidem, vt labores fugiamus, tale
excogitaui artificium.Globum planum. extabula lignea formato in cuius medio
ftylus ferreus ſitus fit;diuidito mox glo. bum lineis,ex centro ad extremum du
cendo illius in 24,portiones, demumin globiapice horas ſignato, &vltimo in
patiete contra Solis radios affigito. Vt auté ex Solaribus vmbris diei, horas
ve nari poſsis,Horologium portatile afpici. conglobumý; ad horam illam accommo.
dato:ita profectò,abfq;alio auxilio, ce ferrimèHorologiumvmbratile in pari cre
habebis.In Aequinoctijs, & Solftitijs 1 eodem portatilis Horologijauxilio,fa.
cillimè ad horarum æqualitatem globů reducere poterimus. Infancium pir uitam, è
capitefluerem, quo artificio Chartaginenſes fiftere procurandTing, Xinfantium
pituita, in capiteredú. dante,plerique fuecedunt morbi in. ter alios, morbus
comitialis exoritur, qui à multis puerilis vocatur, quòd ijs,ve plurinum,eueniat..
Vt autem infantes ab huiuſmodi pręſèruarent Pæni, illorú vedas capitis lana
ſuecida inurere,pitu. itainý; fuentem hoc præfidio compefa cere conſueuerunt.
Athiopes infantes te ditos,ab ipſo quoq; natali die,in fronte adurút,ita profe
& ò tumcapitis, tumo culorü humorfiftitur. Apud Inſubress. ex teſtimonio
Mercurialis, & pleroſque populos,veícribit Scipio Mercurius,l ditos
infantes fetonein collo muniunt, quod falutáre experti funt aduerſus mor.
bos,qui à capite Huunt, Inmise rasis pluuie,quapotiora ixdiceniny præfagia.
pluuiam imminentem,tum ex Gallo rum cantu intempeſtiuo,tum ex fre quenti
cornicis crocitarione multi præ dicunt.Hisautem addendum puto muf cas(ca
imminente)pulice's, pleraqzani malcula à furore vexari, intentula;mer il dere:hæc
enini à vaporum inaerem ctc. rationc à radijs falar bus perturbantur. Infuper (pluuia
imminente )odoris fra. grátia in floribus sétitur;apes ad alueária -
sedcut;bufones, vermeſi;èterraakédut Brina vifa eft per dies præcedentes; catti
manibus caput, quafi linientes, compri munt; ouescapitacommotient:afini hu
miles habent aures; ftercora fumát, ma legue olent.Horum omniumratio, va
poresàSole exhumidisfublatifunt:pro. inde animalia,cerebra humida habentia,
nonnulla magis extorquentur. Vinum à Verrribus fuiffe mulieribus inter di&
um. Agna fuitVeterum à vinivfuab. Itinentia:illudautem adeò muli. eribus erat
interdi & um,vtcapitale iudi. cium inirct,quæ vinum biberet. Porrò inoleuit
confuetudo,vtcognati, & affi. mes, mulieres ofcularentur, ore explo rantes,
an ex vinum bibiffent. Idem ve fusMafsilienfibus, Mileliis, pluribus; Græcorum,
&Barbarorum gentibusin,. valuit, apud quos muliereshydropota, & viri
erant abftemiz: Intermemoran da illor um temporum,EgnatiusMetel fus, vxorem,
quod vinum biberet,fufte necafe dicitur. Quo artifii io è plumbo Antimonii
flores ex Habere paleamase Ape nij, fiue Stibinon femel extrahere Periam
artem,qua flores Antimo à plumbo valui, quo præſidioin multis corporis affe
& ionibus feliciſsimo euétu voor.Capito Plumbicampanam, è qua aromatarij
rofarum aquam ftillatitiam extrahunt; hæc habet æris fundum: tu verò txargilla
eligito,quodacerrimoa etto fupra medietatem implendum con fuilo,eaq; induſtria,qua
rofæ ftillantur, in aceti deftillatione carbonibus bene ignitisagendum cít:caue
tamen, ne totus fillet acetum, ne aqua extracta vftioné fentiat.Hæcaqua auri
colore eft, fapore xerò facchari, & mellis; mirabilis tamen tum in potu,
tum extrinfecè vfurpata, ob ftib j flores ex plumbo extre & os. vomitu,
& aluo purgat, ob id frigidis affectionibus,obſtructionibusý; vtiliſ. fima':
In vlceribus putridis, fætidis acoribus, ſcabie, herpere exedente, & aliis
huiuſmodi,maximi eſt valoris.Doe ſis in potu ſît vnc.ij. Deforisad placitū.
Clarorum virorum exitum aliquot inte felicem fuiffe Aniene fluuio Aeneas poft
tot vi. & orias, torque clara facinora periiffe dicitur: nec
diſsimilisRomulo, Cæfari, Alexandro,Annibali,Scipioni, Iugur thæ,Mithridati,
atque alijs innumeris mors ſucceſsit:per quàm n. pauci viriex iis, qui
clari,atque illuſtres tum virturi bus, tum fortuna habiti funt, quos non
infælix exitus,tanq: á pro exemolo,fós offentäuérit porterial text caligero.
Defipientiam, mulierum natuefamiliarem indicati. MVlieres vtero
gerèntes,fiàphrenia tide capiuntur,Galeni teftimonio, rarò confanefcere legimus,
vt fcribit tamen Cælius Aur.femper minus graui ter,minuſquc periculosè, quam
viri,mu lieres ægrotant.Hoc autem, vt Merci. sialis opinatur,ab alia ratione
continge re non poteft, quam ab ipfarum natura, cuius familiarius eft
defipere,quam viri. Mirabile Annibalis, contra Romanos nauala fratagemia.
Nfolita,& mirabilis Annibalis milita Eisafutia contra Romanos iudicarur: hic
enim bello naturali cum iis dimica. curus, cum impares vires habere anim
aduerteret,rale ſtratagema inuenit. Ser pentibus, quorumvenenumconfeftim
enecat,pleraſq;ollas impleuit,opertasq; repente in hoftes iaculatus cít, quorum
ictibus plurimi cecidere.Hifceftratage matibus vir hic tanquam alter ſerperis,
multoties hoftium manus effugere con fucuit.Ex Gdenoin lib.de tbet.Akrijon
Ambarum cum vino alicui exbibitum, cena feftiminducere ebrietaisn. Mbarum, quod
à vulgo Ambrageye ſea vocatur,fomiſsisatiopam falfos opinionib &
bituminofis fontibus,qui in maris profunditate exiftunt, oritur, Hocautem
primòliquidum eft,cùm ve rò aquarum impetu ſurfum rapitur, ex
aerisfrigiditatecondenſatur, & Amban rum fir:Siquidem in maris concauo, ple
raq; mollia,teneraque obfèruantur, & interalia Coralliú, quod ex aqua exea
ptum, citiſsimè lapideſeit. In Ambaro illud mirabileiudicatur, quod ab alique
antequam vinum hauriat,odoratum, ina sttar ebrii eladat: cum vinoa, propina tū,confeſtim
notabiléinducere ebrieta tem multis experimentis eft comproba. tum. Ex Simeone
Sethi Greco auctore. oleam Lathyris Tympaniam, Colicas, affe& iones
mirabiliter ſanare. Irabile quidem,quod è Cataputię -ſeminibus extrahitur,
oleum eft, quippein expellendismorbis,qui à filao tu luccile;frigidis oriuntur,
principem habet locum.Contundantur huius ſemi na, atq; in aquatam
diùebulliant,vt ex cocta videantur;mox oleum in aqua fu pernatans cochleari
colligendúeft. Mos eft apudIndos tale oleum cómodius per decoctionem, quàm
expreſsionem cola ligere. Vfurpaturhoc feliciſsimo fuccef. fuin Tympania,colicis,
iliaciſq;dolori. bus,ftomachiaffe & ione,aurium furdita te,atq, in iis
morbis,qui à ſuccis frigidis, fatua;fiunt. Huius gutta aliquo lique re in potu
ſumpta aquam citrinam euan euat,in articulorumq; doloribus pitui tam,
humoreſque frigidos. Extrinfecè vfurpatur in omni Hydropis ſpecie: vbi tamen
flatuofitas viget, maximam in expellenda proprietatem habere vi detur. Ex Don
Garzia ab Horto. Verenum à diſsimili extingui; à fimili vero angeri.
Hocpropriumelle veneni,àfapien Lrioribus proditur, à diſsimili ex. tingui,
& a ſimili augeri, & robuſtius fi erizea propter non femel à perfidisho
minibus exhibita venena nullius valo risfuifleobſeruatum eft,cùmeadiſsimi
libusfuerint fociata. Aconitú, & Napel lus miram retinent vim necandi, com
pefcitur accamen corum potentia à ve neno diſsimili, ex quorum diſsimilitu
dine,vtriuſq;vis hebetatur.Mira eftAu. fonii hiſtoria de vxore mæcha, quzma
rito venenum propinauerat, vt a. illud robuftius effet, Hydrargyrum miſcuit ex
quo toxici virtusdempta eft, & vir immunis euafit. Hoc epigrammate ille
monftrat; Texica Zelotypadedit vxor mecha marito, Necfatis ad mortem, credidit
effe datum: Miſcuit HA Mifcuit agente
lethaliapandera viui, Cogeret vt celerem visgemindanecem. Digid at ber fiquis
faciunt difiseta venenü; Ansideram fumet,quiſociala bibet. Ergo inter fefe dum
noxia pocula cortant, Cele lethalisnoxafalurifora Protinus,Go Vacuos duipetiêre
receffiua, Lubrica deie& is,quaria nota cibis. Quanpia cura Deumprodeft
crudelier vxor, Elçüm fata voluns,bina venena juuans. Cornelij Celfy de
valetudine fanorum bomsi num conferuandatutißimapræcepta. Nter
grauiſsimosmedicos,& fcripto res,nemo eft,qui in conſeruáda fano rum hominú
fanitate oculatior exiſtat. Afferă ciusverba ', ytfaluberrima iſtius præcepta
rectius intelligantur.Sanus ho mo,qui,&bene valet, & ſuæ (pontis eft,
nullis obligare fe legibusdebet, ac neq; medico,ncq; dcalipta egere.Húcoportet
varium habere vitæ genus, modo ruri eſſe,modòin vrbe,fæpiuſý; in agro: na
uigare, venari,quiefcere interdum: fed frequentius fe exercere.Siquidé ignauia
corpus hebetat labor firmat; illa matură lepc ſenectute,hic longăadoleſcentiá
reddir. Prodefteciâincerdúbalnco interdú,aquis frigidisyti;modòvngi,modòipsú
negli gere:nullú cibigenus fugere,quopopu. lus-vtatur:interdú in cóuiuio eſie,
inter. dum ab eo ſe retrahere:modò plus iufto, modò no ampliusaffumere:bis die
poti us quàm femel cibú capere, & fèper quá plurimum,dummodo hunc
concoquat. Secl vt huiusgenerisexercitationes cibi queneceſſarij
ſunt;ficathletici, ſuperua. cui. Nam, & intermiſſus propter ciui. les
aliquas neceſsitates ordo exercitati. onis,corpusaffligit, & ea corpora,
quæ more eorum repleta funt,celerrimè, & fenelcunt, & ægrotant. Hæc
firmis ſer: uapda fune,cauendumquene inſecunda valecudine, aduerfæ præſidia
cenſum mantur.Ex lib.i. Socrati à familiariDeironcde Plasonis indole Somnium
fuiffe immiſſum. Solene quandoq;malifpiritus homi nibus fomnia ingerere
futurarum re rú, vel Dei permiflione, vel vt nos ipfos dedecipiant. Hinc
Socratem legimus, vidiffe per ſomnium,oloris pullum ſibi in gremio plumefcere,
qui continuò exorcispennis & expanfisalis, in altum aduolans, fua tiſsimos
cantus edebat. Poftridie Pla tone adducto, hic eft (inquit ) Cygnus, quem ego
præterita nocte cam fuauiter canentem fomno videram. Hocfomnium, ve fcribit
Henricus de Aſsia, à fpirira fa. I miliari, ſub forma Cygni, quem Athe
nienſesVeneri dicarunt, fuit immiſsum Socrati, vt Platonem in diſciplinam re
ceperit ', à quo, quum ipſe uilil ſcrie ptum reliquerit, dulciſsimi ipfius
& Caluberrimai fermones proderentur, Magia ſeu inc antatianis ris. Onmeras
eſſe præftigias, quæ magica? arte efficiuntur; multis exemplis notum eft, fed
vno in primis, quod deſcribere vifum eft. Rufticus quidam magnis doloribus
ventriculi vexaba tur:: quos etfi variis, medicameutis depellere cogar zur illi
tamen non 1 ceffarunt, fed potius in dies recrudeſcere vifi funt. Quare
agricola doloruin impati ens, cultello ſibi guttur abfcidit. Dum au tem tertio
die mortuus ad fepulchrum ef ferretur, à duobus chirurgisin magna ho. minum
frequentia, illius ventriculus iraci. fus eſt. In ee (res mira, &
prodigiofa ) lignum teres, & oblongum,quatuor excha. lybe cultri, partim
acuti, partim ferræ in. ftar dentari, ac duo ferramenta aſpera re. perta
fuerunt:quorum fingulaſpithamęlos gitudinem excedebant. Aderat, &capillo.
rum inuolucrum globi inftar. Credibileen fanè, hęcin ventriculi cauitate
congeſta fu iffe, non alia arte, quàm Dæmonis aftu,& dolo. Quo artificio
epiftolam, in ouo celatam alicui afcribere valeamus Nter ſcripturarum
furtiuarum arcana non infinum locum tenere exiftimo, in ouo epiftolam celare,
atq; amico ſcribere, Videbis enim oui putamen illæſum, mun. dung; illo tamen
exempto, difruptos; cha paeteres apparebunt. Aperiam ſecretum. S? Atramento, ex
gallis, alumine &aceto con. fecto, in ouicortice literas ſignabis, votum
pffequeris. Has oportet in Sole calente ex ccare, mox ouum in muria concoquere
ita enim à cortice characteres euaneſcune, & ad interna gradiuntur:ſiquidem
putami. ne exempto, notæ oui durato albumine in ueniunturEx.Carolo Stephano. In
aquafrigida captanda maximum veterum fuiffeftudium. Aximam antiqui curam
adhibebát, vt aquam frigidam pro ætatis in. cendio temperando conferuarent:
quareex niuibus eam parabant, vt Athenæusretulit. Dequa re perbellè loquebacur
Seneca, & panas montium in voluptates transferunt, Alexandrini aquam
Soletepentem, in fene ftris ad ventorum incurfus exponebant, vt poctu
frigeſceret;manè autem inte Solis or ruin hani ponebant, folijſque lactucæ, ac
que pampinis iniectis frigidam tuebantur. HocGalen.parrat.6. Epidemior.
Plasarchu: 6.Sympus cotibus & filicibus aquæ inietti hoc fieri fcripfit.
Neronis autem in re har ftudium nobiliſsimum fuiffe proditur: ise genim,
vtninis voluptate, ablque njuisia iniuria fruererur, feruentem aquam vitro
immifiam in niues refrige jarimandabat:Ex Heur nie. Ecua Fæminas in prima
menftruorum eruptione in Venerem maximè incitari. e Erunpune,fceminis bera
exurgunt:Pana guis ille,inftar occifi animalis videtur, atq; in maiori copia
erumpit, cùm vbera ad du os digitos prominent, que tempore puella rum vocem in
grauiorem mutari confpici. mus, Illud autem maximè adnotandum eft, in prima
menſtruorum eruptione puellas in pudendis,valida tentigine, prurituque core
ripi,ex quo ad Venerem incitantur: quare per tempus illud cautè cuſtodiri
exiſtimo. Ex Arift.7.de Hift.anim. Qua induſtria Aegypti lapides à
vefica,abfiga incifione extrahant. Irabile quidem eſt Aegyptiorum ftudium in
extrahendo lapide à ve fica abſque inciſione, quando noftrates me dici,
lapidarij ſine illa facerenequeant, idque cum magno languentium vicę periculo.
Hiligneam cannulam accipiunt, octo di. gitorum longitudine, & digiti
pollicis latia tudine in opere abfoluendo. Hanc colisca nali admouent,
fortiterque infufflant;neau. tem flatus ad interioraperueniat, extre. mū
pudendimánu altera perftringunt, fo. samen deinde cannulæ claudunt, vt virga 0
% cabang M N eagalisiotumeſcat, latiorq; fiar. Quo facto miniſter digitoin ano
pofito, lapidem pau Jatim ad canalem virgæ, atq; in eius vasex tremun deducit.
Quivbipræputio lapidem appropinquare ſentit,cannulam à virgæ ca nali fortiter,
impetug; amouet, & lapis ex. trahitur. Ex Alpino. Mult a praſidia ab
animalibus, bomines accepiffe. On pauca equidem præſidia funt, quæ ad hominum
tutelam ab animalibus accepta ſunt. Chelidoniæenim virtutein ad oculorum morbos
ab Hirundine accepi. mus, quæ hanc conquirit herbam,vt furorú filiorum oculos,
vel vitiatos, vel.cæcos cu rer, Fæoiculi virtutem ad eandep tutelam ab'anguibus
didicimus, Ab Ibide, quæ in ftar Ciconię auis eft, clyftris vſum habui mus: nam
& illa roftre marinamaquam al lumere folet, illoſ; pro clyfteri vtitur, vt
ventrem nimis onuftum exonerare valeat. Inſuper marinus equus, Hyppopot mus di
etus, venarum fectionein nos docuit: illef. quidem mala oppreffus -valetudine,
ad re center fuccifas arundines graditur, acutio. riſ;cuſpidefanguinem è
cryrjuin venis adi mit. Quod autem in hocmirabile eft, vela guinem cohibeat, in
fimo, vel cono volutatur, & ica vitam tuetur, & fanguinem fim ftit. Ex
Plinio, alis. Equorum teft:cilos ad ſecundas depellendas miram babere pirt
utern. Ingularis profecto Equi teſticulorum ad nulierum fecundasdepellendas eft
pro prietas, adeò, quod teftatur Genſerus in e pift. Rufticum quendam,
quinquaginta in puerperis feliciter hoc vſum fuiſſe reme dio. Vfus eit &
Horatius Augerius in plu. ribus mirabili euentu: præſtantiſsimuin id circo à
grauibus auctoribus indicatur re ne diun),nam, & pluribusiam deploratis pro
fuit.Capiunturteſticuli equ: caftrati,& tria ftillatim conciſi in forno
exiccantur, quorü puluis quantum capitur tribusdigitis è jure bibendas datur in
neceſsitate; idé; fi opus eit, bis, auc ter reperitur. Humanam faliuam
Scorpiones interimere. Ominum faliua Scorpionibus infe ttiſsimum venenum eít,
adeò quòd ca tacti confeftim intereanc. Porrò ijs, ſaliua fora ſubſtancia
aduerfaelt, ve Galenus lib.io fimp, medic. experimento confeffus eft; ist. nim
à fola faliua morientem vidit Scorpio. nem, id; celeriter patientem à faliua
elue riencium, aut fit jentium; tard autem ab 3 illis,qui cibo, potuque fuerant
impleti,ina. liis autem proportione, Apium riſus,bominesridendo interfi. cere.
Scelerata eft herba quæ Apiamrifusdicia cur, quod ridendo homines interficiar:
fi quis enim gnftauerit ieiunus vtique ridendo exanimabitur, vt Apuleiusteftatus
eft: Ex hacillud adagium ortum habuit:Sardonius siſus; nam & Sardonia eriam
vocatur.Porrò on ex rifu, qui hác guftauerint, moriuntur fed potius,vt placet
Saluſtio neruos labio rum, & orismuſculosillius, qui eam come dit,
contrahere facit,adeò, vtridendo mori videatur. Qua induſtria Partbi, Scytheque
Sagittarum aciem venenajunt: AR'thorum, Scytarumque toxicum, quo fagicrarum
acies inungi folebant, humano fanguine, & viperinaſanie confta bat,
tantæquc feritatis erat hoc venenum, ve leui tactu animal interimerer, Equidem
Scythæ viperas recenter enixas venantur, eaſque diesal.quoccontabelcere finunt,
do necip fapien putre.cane, mox com visus hominis fanguine in ollam effuſo, eam
ex quifite coopertam; fimoque obrutam com putrefcere finunt, cuius demum.1. ick
or fan. PAT fanguini ſupernatans, fiue ferum cuni vipe rarum faniecommixtum
lethale Scytharum toxicum eft. Ex Arift. Plinio, & Langio.
Succinumpterogerentibus exbibitum, mire partum accelerare. Mvicis experimentis
comprobariaudio ſuccinum parturientibus drach. ſemis pondere ex vipo albo potui
dátum, mirè par tuin accelerare. Hoc eriam facit eius oleum, fi gutta tantum ex
aqua verbenæ parturienti propinatur.Quidātamen medicusHetrufcus (Fallopii
teftimonio )exhibebatfcrup.i.bora• cis in decoctomatricariæ, velfabinæ diffolu
tæ difficulter parientib.mirag; faciebat: bre ui enim temporis fpatio
feetus,vel viuus,vel mortuns egrediebatur. Habebat ille medi euis pro arcano
præftantiſsimum hoc auxili um tamen neſcio quomodo postea fuerit de fetum. Ex
Andernaco Serpentum oua genituramí per imprudētiam in petu haufta,ſerpentesin
corpe ribus procreare: Dmiranda fuccedunt quandoq; fym dem imprudenter cum ea
femina, vel ova ſerpentú hauriuntur, è quibus moxſerpentes generantur. Genſerus
in lib 2. hift animal cap, de Ranis Rubetis, bufones in ventriculis in
reftinifq; hominum haufta eorum genitura, fieri, &nutriri probauit. Iacobus
Manlius, in lib.experim.in cuiuſdam equitis, exhau * Ita cuiufdam lacunæ aqua,
vbi erantſemina Serpentum, in ventriculo plures angues fu. iflegenicos
prodidit: quibus per internalla extractis, medicorum auxiliis, fanus factus
eft. Leuinus Lemnius Vermiculos cauda tos, atg; infolita forma beſtiolas vomitu
ciectas nouit. In nonnullis lacertas à phar. maco fuifle eductas obferuatum
eft, vt Gé. maCoſmocrit vidit. Quare maxima in a quæ potu hominibus opus eſt
animaduerfi. one huiufinodi exhanftis, pernicies corpo. Tis conſequatur. In
deſperato coli dolore Hydrargyruin, v4. glandem plumbeamexbibitam, multos
confanaffe. Irabile videtur, Hydrargyrum,quod à mulis venenum reputatur, in
der. peraro coli'dolore exhibitum, plurimun prodell:. Equidem Marianus Sanctus,
ex multorum confilio, qui ab hoc lethali mor bo fanati fint, fuadet, fi
obstructio perfeue rauerit, & fæces per os extrudantur, hau fire cum aqua
fola argenti viui libras tres, Probat hic exratione vinetuin feu duplicatű
inteltinum Hydrargyri pondere explicari, fæces detrudi,vermelý; fi ibi fuerint
interi. mi, &ægrum liberari. Haud ab hoc difsi mili auxilio quidam nobilis,
poft alia ten tata ad morbi huiuſinodi acerbita tem ma. chinamenta, liberatus
eft. Hic hauftis olei amygdalarum dulcium fine igne extraćti vnc. iij.cum vino
albo, &aqua parietariæ mixcis, mox deuorata glande pluoibea ar gento viuo
illita, planè à colico cruciatit euafit, illamque exano abſquelaborerede didjt.
Ex Pareo lib. 16. Infæniculorumfeminibus, vim quando que exitialem deliteſcere.
Grauibus ſcriptoribus comprobatur, ſerpentes fæniculorum elu, &fene ctam
exuere,&oculorum aciem rnonare. Hinc iis affricantur oculi anguium, vt vo.
tum affequantur, Ex attritu foeniculorum feminibus, praya quædam imprimitur qua
litas, è qua venenati producuntur vermi. culi,quorum eſu multi in peſsima
deuene. runt ſymptomata, &ab alexiteriis rarò ad iusj funt, tanta huius
veneni potentia eft. Quare foeniculorum ymbelli,antequam co. medantur,
aperiantur, & diligenter concu, tjantur, vtå vermibus emundentur. Præ, OS
Habis A A ſtabit al quantifper in frigida macerare. Ex Balthajaro Pifanello,
Noua admirandag; prafidia, ad Ang i nam, gutturules apoflemata. Fferanı
fingularia auxilia, è quibus ex grauiſsimis fcriptoribus, ad anginam &
gutturis apoſtemata mirabilia contigiffe proditur.Lignum hederæ ad gutturis
apoſte. mata à proprietate valere fcribit Ioannes Marquardus: quippe obſeruatum
eft, come dentem excochlearihederæ ligneo, fiue bi. bencem in aliquo ipfius
vafe ligneo, num quam, vel raro in gutturis, vel vuulæ apo. temaińcurrere,
Rubeta cocta, &pro em plaftroSynachicis impoſita,cófefim liberat.
Vermes.quandog, in cordis capſula pro creari, è quibus mors ſubitanea
pleriſqueexoritur. Abulofum haud eft, vermes in cordege: nerari. Hoc enim
Melues docet, Holle rius, Marth. Cornax, Alexius Pedemonta. nus, & alij
loan, Hebenftrit, in lib. de Pette, Principem quendam ex morbi fæuitia peri
iffe narrar, cuius cadauere diffecto, vermis albus præacito roſtello, eoq;
corneo præ. ditus, cordi adhęreſcere deprehenfus eft. Exmedicis, ſucco alii
feram hanc, tanquain ex indubitato remedio, interimi probatü eft. Petrus
Sphererius (vt ScheukinsBarratti lem
fiorentinum morte fubitanea correpti, atq; diſſecatum obferuauit, in cuius
cordis caplula vermis viuus repertus fuit. Aiunt multi certiſsimo
experimenco-ficco allii,ra phani, & nafturtii hos vermes pecari, qui, ex
teſtimonio Pedemontani, in corde deli teſcentes,ſyncopim, Epilepfian, &
mortem inferre folent. Mares pleroſque in mamillis, mulierum instar, lac
producere. Icet marium mamillæ fpiffa carne in fuiffe productum obferuatum eft.
Nouit hoc Arift. vtlib. 1. dehiſt. animal. docuit. Veſali us non femel id
confpexiffe in 1: 4. 15. Anat. commemorat, & Hieronymus Eugubius in libell,
de lacte: fic & Cardanus,lib. 1. de Sub til. qui ianuæ vidit Antonium
Denzium, è cuius mamillis lactis tantum profluebat, vt infantem fernè lactàre
potuiffet. At hifto ria, quæ affertur ab Alex. Benedicto mira. bilis eft:
aitenim, Syrum quendam,mortua coniuge, è qua infans ſupererar, ybera filio
admouiffe, ècuius ſuctu tanta lactiscopia i pupillam manauit, vt exinde loco
matris nn trire valuerit. Ego quidem in duobus filiis meis, in primis diebus à
partu obferuaui, ab obftetrice.mamillas cofrectatas, lacimpulſo (magno multorum
ftupore) emififfe: idậ; in aliis etiam infantibus contpexi, Lumbricosquandoque
tantaprocreari pi Tulentia, vt interior a corporis perfurare valeant. Nfanda
equidé fymptomata à vermibus aliquando proueniunt: refert enim Om bibonus, lib.
4. de morb. infant. Lumbricos ex vmbilico cuiuſdam erupiffe. Tralliani
teſtimonio habemus, hæc animalia ob ali menti inopiam inteftina laceraffe,
fuiffe ob ſeruatum. Id etiam ab Aegineta confirma tur: jofuper Hollerius
confpexit, vermes per inguina, & vmbilicum prorupifle. Ma. gna igitur cura
opus eſt in horum redua dantia, ne interioracorporis valeant lace fare, A
Infamis vmbilicam, & Ceruinumpenem mirabiliter conceptumfacere. Lexander
Benedictus, 1.30. de curand. morbis,vmbilicü infantis, qui fponte caditquoquo,
modo in ciboſumprú, fiigno rauerit mulier,adconceptum facere, pro.
didit;illumg; in brachialibus à muliere ge ftacuin conceptum inhibere eredir.
Cerui. aum inſuper penena aridum, & in fari. namredactum, oboli pondere, à
coitu forminis datum; procul dubio ad concipien. dum prodeffe experimento
probat, Baueri. us tamen conf: 50.vterum ceruinum fingu lari dote ad conceptum
valere prædicat, Vlmi vſum, recentem Elephantiafim curare fuiffe obferuatum.
Inquam certum remedium, Vimi vfus in curanda recenti Elephantiaſi à laco. bo
Douinero, lib.Tic.7. prædicatur. Vidit enim adoleſcentem tali affetu laboranté,
& decoctionis Vimi vſu (factis faciendis ) conualuiffe. Ea equidem pro omni
potu vte barur in quolibet paſtu, cum pauco vino al. bo, &cantiſudores
mouebantur graueolen tes, vt vix illos cuftodes ferre poffent. Ita viſcera
purgabantur, &magaa yrinæ copia excernebatur, quibus excretionibus fanus
factus eft. Cyprinorum efum podagricis elle infeflum. Vamuis inter piſces,
Cyprinusnobi. lifsimus exiftimetur, cum optimum præbeat nutrimentum,
exquiſitiſsimigsexi Atat faporis; tamen podagricis infeftuin ef. fe obferuatum
eft. Nouit enim podagroſum Iulius Alexandrinus (vt retulit lib. 15.6. 6.. de
salubr. ) cui Cyprinorum efu pinguium, parata érat femper podagra, ve in manu
illi th effet, eo pacto accerfere, cùm vellet. G Puluere pellis leporine,
perniones à Sep tentrionalibusfanari. Laus, lib. 2. Rerum Septentrionalium,,
tilsimè perniones experiri fcripfit, qui mor bus, non aliis ab iis fanatur
remediis, quàm puluere pellis leporinæ. Plinius verò Rapú domeſticum feruen's
calcaneis impofitúla. nareretulit. Ego ex Carolo Séephano, inlib. de Ragraria,
in quodam expertus ſum reme dium, & bene fucceflit. Accipit ille, ficos
crematos, è quorum puluere, & cera yngné tum parat;hoc pernionibus
impofitum bre uiliberat patientes. Hydrargyrum loco amuletigeftatum à pefte
faſcinog corpora defendere. Arfilius Ficinus, & P. Droerus, in lib. M,
fienim auellana perforatur, &extracto in. teriori nucleocum acicula,
argento viuote pletur, & collo fuspenditur; mirum in mo dum à peſte corpora
tuta reddit: ira profe etò à peftifera lue fæniente fe defenderuut multi. Hoc
eriam præfidio mulieres lactan. tes, à faſcivatricibus, ne lac fic ademptum,
quo infantes alendi funt, præferuari poffe, i Thomas Iordanus, in libe dePefte,
prodidit. - Q " ppe multis experimentis obferuatum re, tulit (hoc fecum
geſtao - ullas prorſus laga. ruin, lamiarú aut ftriguin infidias lacrátibus
nocere. CNICO Meſpili lignum,collo appenfum grauidas ab abo orth preferuare. Wm
quadam æſtate apud D. Ioannem Nicolaumn Cucillum Brancacium, mei amantifsimun,
ytpuerum curarem interef ſem, fortè inter me, & Doininam D. Man. já
Cotoneam e Toleris, eius vxorē, de abor tus præſeruatione, tunc vtero gerentem,
có: uentum est. Retulit domina hæc Meſpili li gnum collo appenfum mirè ab
abortu gra uidasdefendere;idq; millies à fuis maiori bus foiffe expertum.
Confiteor in plerifq;, tale lignum fuifle à me expertum, atq;certú, & rarum
remedium ſemper inueniffe fe: fi quidein multæ aborrientes, & dolore, &
fã. guinis fluxu (appeofo ligno reſtrictæ ſunt, &ab abortuſeruatæ, adeò
quòdined parti cularem virtutem abortú prohibendiinefile seor, Qua
induftriabomines abſtemios reddere valeamus. Vleis experimentis comprobatum re
perio Anguillas, vel Mullos in vino M fuffo peri sfuffocatos vini faftidium
inducere: & enim ex eo bibant homines, procul dubio abfte mii fiunt.
Infuper philoſtratus in vita Apol loni, ona noćtuæ elxaca, & infantibus pro
cibo allata, hydropotos in tota vita illos reddere ſcripſit. Mizaldus, Ragam
viridem, ex iis, quæ in fontibus ſaliunt, viuam in vi. no fuffocatam, idem
efficere, fi tale vinum potetur, prodidit. Rotundam Ariſtolochiam mirè piſces
ftu pidos reddere. Ira eſt Ariſtolochiæ virtis in piſces: ipfa enim illos odore
ad fe al licit,moxftupidos reddit. Proprerea fi eius radicem contritam, calciq;
commiſtam, fiue eius decoctionem cum calce pacato flumine aut maris littore
piſcatores confpergent, piſces agminatim confluere videbunt. Ili autem puluere
deguftata, veluti examina ti ſupernatantes capientur. Puellam veneno ab
infantia nutritam, Alexandro ab Indorum Rege fuiße miffam. Ndorum Rex Alexandri
fortunæ inuidés, vt illum interimeret, miræ pulchritudi nis mifit puellam,
ratus forfitan Alexandru confeftim cum ea concubiturum. Illa au tem Nappelli
veneno ferè à cunabulis erat educata, propterea more Serpentum ſcin tillances
habebat oculos. Hos Ariftotelesar piciens, caue tibi ab hac (dixit ) 6 Alexan
der; nam virus peftilentiſsimum alit, vode tibi exitium paratur. Poft paucos
dies pleri q; proci huius commercio venenari periere ex quo Ariſtotelis
praſagium mirabile fuit iudicatum. Ex Auerroe. Quale fitigneum prafidium,
quodin morbis ab Aegyptis, & * Arab.bus vfurpatur. N lib. deMedicina
Aegyptiorum prodi. dit Alpinus, quo pacto illiin morbis cor. pora adurant.
Accipiunteniin lineam peti. am cubiti longitudine, latitudine verò tri um
digitorum, quam ad formam pyramydis aptant goſsipioque implent; ipfius latior
pars, parti adurendæ applicatur, alterumg; capuc accendunt, comburió; cam dia
per miteant, ye faſciculus crematur. Continuò ramen dum cutis vritur, ferro
circumcirca accingunt carné,ne caloris incendio aliqua oriatur inflammatio.Hocinfuperinuolucro
parando obſeruant, vein medio meatus ex iftar fafciculi: ita enim euentatio fue
refa piratio aliqua paratur, In vftione autem per aćta offium medulla in
carneaduſta, quoad eſchara cadat yantur.Hic vrendi modusAe. gyptiis &,
Arabibus familiaris eft. Olim in Creta familiasquaſdam mirè faſes:
natricesadfuiffe A quoſdam, tum fæminas in hiſce parti bus animalibus,
pueriſque laudando faſci num attuliffe: adeo quodij;fiad ouile, por cileque
quodpiam adiuiffent,confeftim in teritum pleriſque produxiffe: Quare mirum haud
eft, quod legitur in Creta quaſdam fa. milias adfuiffe, quæ laudando faſcinum
is. ferebant. His profectonatura quædam ferè venenofa efficitur, & ex
oculis inde fpiritus efflant venenatos,quibusanimalia,pueri, & grandiores
faſcino maculantur. Laudando autem venenum promptiusoperatur: fiqui dem laus
propria, gaudium affert, quo cordis fpirituumque dilaratio oritur, & veneno.
a ditus præparatur.Ex Fracaſtorio - de fymp. sta Antypat.rer. Cyprint verticis
oſsiculum mirabiliter Epilep. ticisfubuenire. N Cyprini caluarix vertice
quoddam re peritur ofsiculum triangulare lapidisin ftar, quod in curanda
Epilepſia; principeng loců obtinereaiunt. Táta enim efficacia epi lepticicis
fubuenit, vt morbusis numquam reuertatur,Hoc, vbifuturæ in vertice calua six
Cyprinicômitrútur intus fubfiftit,prop I cerea terea ſi illa capello
penetratur, ſtacim fora profilit,Andernacushoc ofsiculum nummi Germanici
cruciferi appellati,magnitudine exiſtere prodidit,atque ſalutare eſſe Epilep
fiæ remedium, Calphurnius Bestia Romanus qua pia vxores dormientes interemerit.
Nonnulliex veteribus in venenisnofçé & dili gentiam inter alia Aconitum
venenorus omnium elle ocyfsimam comprobarlot: fi quidem tactis huiufinoti
veneno genitali bus lexus faninini animaliuin, eodem die mortem inferre viſiun
eft.Hacvia Calphur nius beitia, veditaretur forſiçan, vxores dor mientes
interemit, de quo à M.Cæcilio ac cufatus eft.Hincilla -atiox peroratio eius in
digito mertuas. Confimili induftria Ladica laus Neapolis Rex, cum cuiuſdam
medici Prochytami filiam adamaret, cum eaque concumberet, Florentinorum
confilio ex cinctus eſt, AcetoStitillitieo Bythagoram vitam longiſsi
meproduxiße. Afecit:feripfit enim eius viulongāhonia nes vitá conſequi, &
vfquead eius extremum: finem permanere integrè, & dextra valetu dine.lole
cu quinquagefimum ageret awaum hoc
remedio vfus eft &eius vfu ad centefi. muum, & decimum ſeptimum
productus et integer & nulla vnquam aduerfa valetudine tentatus: cuius
optimam facultatem admira. tus, confanguineis co umuuicauit, vt illings vfum
haberent. Oleiom lixiuio mixtum in lattis fpeciem tran fire. ' rmè experimen: o
oleum lixiuio mixtú, fi diuag retur,in lactis ſpeciem tranfire, comprobatum
eſt: eft enim lixiuium tenue, atque calidum,oleum autem cum aêreum fit à
lixiuio attenuatur, & proinde aerem con cipit,ex qua albedoiunaſcitur. In
aquis etis am, quæ diu agitantur,lactis ſpecies quædam exoritur ex confimili induſtria.
huius indi. In cium ſpuma eft, quæ cun fic tenuis, aérem concipit, &
dealbatur, Ex Cardano. Quainduftria Scythe abſque cibo, potu per plures
diesexiftant. Miraett herba Scythicæ operatio, qua scythæ per plures diesfiue
cibo, po - tuque viliere dicuntur. Hanc ij circa Boeri. am inueniuntcreſcentem,
& ad famem ficou timque tolerandam vtuntur: fi quidem guftu dulcis, vt
liquiritia eft, & in ore detenta fa mis, fitifq; fenfum habetar, Idem apud
cales C: Hippice præſtat, eò quòd hæc planta equis confimilem generet effectum.
Aiuntmulci, Scythas his herbis duodesos eriam dies, fac mem, &ſicim non
ſentire.Ex Martbiolo. Catellos calorem natiuum augere, membros rumque dolores
conſopire. P Ro excitando nativo calore, membro. rumque cruciatibus
demulcendis, Carelo li præſtantiſsimi(Galeni teſtimonio,7. Me thod
med.)exiſtimantur:illorun autem hu. ius naturæ haud omnes habentur, fed ijpræ
cipuè,quibus pilus concolor eft. Propterea in Chiragra, podagra, & in omni
Arthri. tis fpecie cruciatus, quamlibet efferatos, parti affectæ adhibitos s
præſtantiſsime confopire àmalcis comprobatuni repe ris. plurima è terra
furſumtapi, iterumque deorfum cum pluuis pracips tari, Aximam
yellera,rang,vermiculi,lapil li,ligna,vabijgeneris frumentacealac, fanguis,
& id genus alia terræ permixta, quæ cum pluuijs quandoque præcipitari
afpici. mus,, nobis præftant admiracionem, adeo quod à cafu infolito plerique
perterriti, Cæli mipas metuunt; Celiat aixen admira. tio,fi eorúcauſas
penfitamus:hæc enim pri mo mò ventorum effluuijs, ventorumque inipe tu terræ
permixta furfum feruntur,mox cum pluuijs iterum deſcendunt. Propterea nec
ſemper mirum,autinſolens à ſapientibusiu dicatur: CorneliusGemma,
inCoſmitriticaca 6.hæc caufas legitimas à coeleftibus Syzygi. is habere
prodidit: fed tamen eo vſque pro gredi ſoiere,cum fpecie fua, tum magnitu
dine,vt etiam in portentis principem inue niant locum, Cum Pſylis, &Marfis,
Serpentes haudbabere inimicitiam. M Irabile eft, Serpentes, quià mundi pri
uerfam,inimicitiainque iniuere,cum - Pſyl lis, & Marfis nec odium nec
difconuenienti am retinere, Neceſſe ctenim elt, ve ijs aliqua miftio non omnino
contraria oriatur,auto dor, autaliud, è quo fpecies minus ingraca videatur; ita
profecto inter homines ipſos. criam contingit: quandoque enim fine cauſa
nonnullos odimus,alios amamus,prout re sum.fpecies ad animam noſtram perue.
niunte, quibus conuenientiam, & diſconnenientiain capta mus. Ex Fracastor
rian - ) Oling Olim vasta, ego robuſtafuifle bominuincor pora. Vamuis
Plinius,cæteriq;ſcriptores, ho ninum corpora, robur, vitam ſemper imminui
conquerantur;tamen olim Gigan ces extitiffe, &vaſta hominum fuillecorpo. ra
negandum non eft.D.Auguftinus lib.15.de Ciuit.Dei.dentem gigantis in quodam flu
mine inuentum fuiffe prodidit,quiminutim diuiſus,centum ex noftris dentes
ſuperabas. De Pailante ſcribitur admirandum.Hic Ae neam contra Turnum Regem
Rutilorum adiuuit, mortuustandem, & fepultus, vbi nunc Roma eft, (reference
Solino)Anno O. atingefimo poft Chriftum Dominum dam quiædam ædificia
Romefierentcafu in ſepul chro quo arte mirabili cum lucerna ardenti códitus
erat, inuétus eft, & integer erectus altitudinem nuricapite excellebat.Quid
de Aiace, & quid de Turno; & de ingenti,faxo, quodvterque in hoftem
conjecir, referatur nouúhaud eſt.Quid tandem de Oreſte, filio
Agamemnonis,cuiuscadauer oéto cub tirá longitudinem excedebat, atque de alijs
in numerisdicatur,apud fcriptores reperitur. Idcirco præter ftirpem giganteam,quæ
poft diluuiumimminuca eft, alia corpora vastitatem & robur maximum
retinuiffe conce. dendum eft; in præfentiarum verò homi. num corpora huiuſmodi
comparata, tam pufilla funt, vt præ illis inania effe videan tur. Ex Helinando
Chronographo. Equum Phaleris accin&tum pulcbris, acri oremfieri., chris
ornantur phaleris, tum acriores, tum pulchriores iudicentur. Eſt de his cla.
rum exemplum de Bucephalo Alexandri, qui phaleris accioétus Regijs neminem
præter Alexandrum (teftimonio Aeliani) ad fe aſcendere paciebatur, &
quoderat 18 illo mirabilius, veaſcenſus facilior effet, demittebatur cum
dominus equitare vole bat.Phaleris autem remotis,quilibet medi. aftinus
aſcendere, &tractare poterat. Ego quidem domimulam habeo,cuius tanta eft
ſagacitas,vt fi feruus meus ephipium parat, habenafque illa humilis,demiffa,
& quafi gaudens perfiſtic,viAernatur, hilariſque in. cedit, & acrior:
fin autem clitellas, calcitro fa, indomita, feraque confeftim fit, necta lem
ſarcinam, niſi vinctis pedibus ferre ſu Atinet, adeò quòd feruus ab opere
defiftere cogitur. Exitiofißimum effe homini,ſub Lunaradijs ſomnum facere.
Vnæproprium eft,in hæc inferiora hu miditatem immittere: quare exitioſum
elt,lub eius radijs diu dormire; quippè dor mientes obleruatum eft ægrè
excitari, atque proximos infanis fieri, Lunæ vires in lignis, quæ ad ædificia
colliguntur,potiſsimum ex perimur:conciſa enim Luna creſcente, funt ferè
emollira per humoris conceptionem, idcirco tanquam inepta à fabricis reijciun
rur. Agricola 'experimento cognouerunt, fruméta de agris in Lunæ diminutione
colo lecta diutius ficca permanere. Hæc à veterie bus Lucina vocabatur, & à
parturientibus inuocabatur: Lunæ enim diftendere rimas corporis,meatibuſgue
viam dare munus eft: propterea, tale ſydus partui ſalutare, illum.
queaccelerare putabant. Archelaum,Mithridatispræfe&tum, ligneam turrim
incombuſtibilem confeiffe. Dmiranduin profectò iudicatum eft
AArchelai,Mithridatispræfe&ti,cótra Syllam commentum:hic enim turrim ligue.
ain iocombuſtibilem condidit,quam fruftra ille incendere conabatur. Erat
currista. bulata alumine collinita, in ijs autem cruſta durior erat obducta,
& alumen, plumbique albi albicineres
pigmentis copioſè commifti: quia induſtria ab igne feruata ſunt. Confio mili
artificio,Ceſar ex larigna materia cir. ca Padum,Caftellum etiarn conftruxit,
Ex Lemnio. Viſcum quercinum fola fufpenfioneEpilepti. cis fubuenire. X
grauibusfcriptoribusmultiorbicua losè viſco querciofola ſuſpenſione vulgari
filo transfixos idem præftare in 2 molienda,& præcauendaepilepfia tradunt,
quod peonię maſculæ radix,aut ſmaragdus è collopendens efficere creditur,
Reculit Iacchinus in Epilepticerum curatione, fe mel ea ratione,qua ligno
guaiaco vtimur, Viſcum quercinum per dies 40. propinafre, & profuiffe
quidem, non tamen Worbum abituliffe,nequelicuilleiterum id temedij iofaciliori
morbo experiri. Isterbraſsicam o vites maxisnum ineſe dif fenfum. Focabilis
equidem difcordia inter braſsicam, & vites reperitur, propte reade
Reruftica fapientes fcriptores, VICCE à braſsica offendi, deterioreſque &
fucco, &odore, fi ſecusplancatur, fieri prodidere. Experimento hoc
comperitur:nam gerinen ijspropius cu accellerit, auerſü ab inimico Notabilis compulſum
odore retrograditur. Infuper G inollam, vbi braſsica elixatur, vini vel mi
nimum conijcitur, quippe nec braſsica cona coqui vnquam poterit, & quod
mirabilius eft, colorem proprium amitter. Hacmotira tione ſapiéres,ebriis
braſsicæ ſucçú propinát, quo ebrietas ſubitò foluitur. Conuiuates pa riter, ne
à vini copia potenciaģ; offendantur (Germanorum inftar ) braſsicam crudam primò
comedere debent: ita enim viruna ad ſatietatem, abfq; ebrietaris periculo haua
rire valebunt. Cati nigerrimiefum cerebrum, homines dementare, Ericulofum eft,
verſicoloris, &maximè nigerrimicati cerebrum alicui efirm prz bere: ad
iufaniam enim homines ducit, & quod peius, cerebri meatus obftruit, ſpiri.
Etuſý; impedit animales, Inter fcriptores Per trusApoinenfis, huius efuadeò io
ſanirehow' mines dixit,vt præftigiis quafiobnoxii videa antur. Ponzertus
pariter cati pilos venenoſos eſſe prodidit, citly; anhelitumfebrem heoti cam
induccre. Exbetulacorticibus, ardentesfaces comparari Etulæ cortices non modò
ignem confe. tim recipiunt, verùm atque flammam pariung Mha pariunt ardentem; quo fit, vepleriq;
faces, pro noctis obſcuritate fuganda, ex iis com. ponaot, bene rati lucidiorem
has flammam, quãpini fædam parere: ex liquore autem picis inſtar, qui dum
vtuntur deftillat, oriri hociu dicatur, cuius natura cùm facile accendatur,
mirum haud eft: talem effectum producere. Hæmorrhoidalemn berbam contactu Hamer
rboides fünare. Ira eft Hæmorrhoidalis vis, & poté. tia in perfanandis
Hæmorrhoides: fi enimhuius radicibus, Hæmorrhoidales do lentes tanguntur, atq;
illæ per diem circa fe. mur ferantur, & mox in camino fumanti (afpendantur,
procul dubio effectusfanatur: fiquidé Hæmorrhoides que atq; radices ex iccărur,
fiaccelcıyor: qua caufa herba ab effe ctu nomen deduxir, nec immeritò: namin
iftarum infiammatione, &doloribus, fi hu us radices contufæ applicantur,
confeftim, & dolor, & inflammatio mulcentur. Ex Ex Tante. Marine
Paltinuca radium,identium do loresmitigare. entium dolores multis experimentis
ex Marinæ pattinacæ radio mitigari vifi func; huius eniin radio, qui in piſcis
cauda cpa, situr, dentes tanguntur, & gingina ſcari. ! x herbis non paucæ
Ecale ſcar ficantur, quo præſidio quan cítiſsime dolor euanefcit. Prodidit
Dioſcorides, lib. 2,64p. 9. radiuin hunc dentes frangere, & e
urcare.quomodo autem hoc perficiat docu it Plinius lib. 3. cap 4. Conteritur
enim is, & cum Helleboro albo miſcetur, quorin miſtura fi dentes illiti
fuerint, fine vexatio ne extrahuntur, Plerasg, berbas, Solisexortum, &
occafuma ostendere, Solis ortum, & OC cafum noffe videntur tantaq;huius
lyde. ris ſectandi,talibus auiditas nafcitur, vt Gr. miter inter kas, &
folem magnam in ſe lym pathiam credamus. Profe&to fos calendula in Solis
ortu aperitur, &in occafii clauditur; ex quo villicorum horologium à nuleis
di citur. Sequuntur Solis fphæram non modo papauer, & illudtithymalli
genus, quod vo. cant helioſcopon; ſed etiam malua, lupini & cichorea;
intenſius autem Lotus herba re ctatur, &exortum quotidianum, &occafum
noſcit. Hæc (Theophrafti teitimonio ) cau lem, &florem veſpere mergit,
& circa me. diam noctem tota in lacum irruit, & adeo occulcatur, vt nec
manu admiffa quis valeat inuenire, verciturmox panlatimg; erigitur, &in
Solis exortu extra aquas confirrgit; for P 3 reing Temą; aperit, & patefacit, caliterá; etiam
num confulit, vc alièab aqua abeffe videa quarum Sodo Qualssin Sodomi, &
Gomorriveſtigiso riantur fru & us. LtiſsimiDei decreto quinq; vrbes 211a
ciquicus incentæ ſunt wuum, & Gomorrhum præftantifsimæ fiudj erbantur.Harum
in fauillis quædam noſcú. tur veſtigia; Giquidem cæleftis ignis reliquiæ adhuc
perfiftunt. Quod autem illic admira bile perfpicitur.viridancia fpectantur
poma, formaci vuarum racemi, nec quis elt, qui e dendi haud cupiditatem habeat:
illa. autem manibus capta faciſcunt, & in cinerem refol. uuntur,
fumuggsexcitant, quafiadhucarde ant. Ex Egeſippalib. 4. Magnam inter vterun,
ammasinef Seſympathiam. On exiguus inter mulierum vterum, & mammas
contéplatur confenfus: quip pe alterum alterius pathema oftendere on laruamus,
A venis inter has partes coniunctis maximè ratio ošteditoriri ſympathiá:ex iis
e nim materias ab vtrifq; contentis transferring &exonerari experimur.In
menftruorum re dundantia Cucurbitula fub mammisappofita, fluxum cohiberi ab
Hippocrate docemur, Lactis copia in
puerperis dum magna grauit q; fuerit, die feptimo puerperii octauo, 10 nog; in
vterum à naturaefunditur. Suppreisi menfes in virginibus, & viduis caftis,
non femel io mammasrefiliunt, & la & tis copiam fuſcitant. In mulierum
pubertate accedente menftruo vtramq; parteni creſcere vidernus. Quo artificio
Solis defectumfirmiter com prehendere paleamus. Aria induſtria pleriq; conantur
folis defectam deprehendere;hocautem có pertum eft, artificio illius
defectionem fir miter apprehendi, Pelues hora inſtanti capi. antur, quæ non
aqua, fed aut oleo, aút pice implendæ ſunt; ratio enim fuadet, humorem pinguem
non facile curbari, atq; imagines perinde, quas recipit conſernare. Equidem in
magines in liquido & immoto tantum appa rereconfueuerunt, propterea in
olen, & pi. ce, commodius, & firmius, quomodo Luna Solilc opponat,
& illum abſcondat accipere poterimus. Ex Seneca in Natur. Quaft.
Virginummammillarum tumorem acis cuta impediria Ac inter alias, cicuta pollet
efficacia, vt contufa cum vmbeila, atq; virginü B H mammillis impofita, tumorem,
& excref centiam valeat prohibere; fortaffe nutrimé cum impedit, quo minus
augeantur, vt in pu crorun tefticulis fuccedit, fi hæc adhibetur: ijenim
reatibus alimenti obtufis facilè ex iccantur. Aperiani in hoc loco quod à Bon
doletio nultis experimentis comprobatum Teperio de piſce Squarina: hicenim
mulie. rum mammis fuperpofitus, illas adeò con. ftringit, ve virginum mammillæ
appareant; credunt multi in genitalibus eundem fimili ter effectum producere.
Quercusgallis, anniprafagia comparari. Napoleon Onmodò à Plinio, verùm atq; à
plea riſq; rei rufticæ ſcriptoribus obſerua tum fuiffe comperio, à gallis
quercus maio sibus præfagium aliud anni, quodapud vece res in magno fuiſſe
pretio,&opinione legi. tur. Aperiuntur gallæ, quando integræ funt, ibig;
muſca, aranea, aut vermiculus repe. ritur: fiquidem planta hæc in gallis
huiuſmo di aninialium gignere confueuit. Si mufca volar, angi fertilitatem
& bellum futurum præſagiunt; ſin vermiculus repit, annonæ carentiam
arguunt; fi autem aranea profiliet fummam caritatem, & peftilentes affectus
prædicunt. His ego adderem, præfagia hu. iufmodi, fi Deo placuerit, confimiles
ſecta. tur elientus. Vitri puluerem, calculos comminuere. ron folum Galenus,
fed Anicenna, & mouendos vitri puluerem excollunt quomo do autem hæc fieret,
plurimum infudiui; tandem quæ ab Abecizoare componitur,mihi ex voto ſucceſsit,
& vitrum adurere didici. Capitur vieri albi, & perſpicui fruftulum,
quod terebinthina coll nire oporter totum, nyox tandiù in prunis detinere,
veexcandel. cat; hoc demum in aqua exſtinguicur, ſepti. eſg; iteratur, primò
tamen linitur, fecundò cxcoquitur, vltimò extinguitur; quo peracto, vitrum
conteritur, & in puluerem lubciliſsi mum mutacur. Propinamus languentibus
au rei pondus vel drach.j. cum vino albo, & ef ficaciter calculos comminui
experimur. Quo artificio aëris naturimexplorare valeamus. Eris qualitatem,
& naturam cum ex plorare libuerit, fpongia bene ficca, atq; munda ſèreno
cælo per noctem fub diuo exponenda eft; illa eniin fiſicca mane fuerit, ficcu's
P5 АБЫ liceus & aër erit; fi
humecta,nimbolus; fi anoll cervda,humidus,acroridus Inſuper ft recente pané
eadem induftria expofueris, di corrupto,ficuin contrahere videbitur;à fic co,
fiec ficcus;ab Humido aucem, à ftacu pro prionon mutabitur.Siaër fuerit
peftilens, carnesexpofitæ corrumpuntur,atque colo rem mutant;fic eciam &
adipes.Siaércraf fus erit,patebit in marmore, & filicibus, qnę in cali
natura admodum madere folent; cós tra verò in aere'tenui, liges humidus eſſet,
hę enim in tali con ica humeſcunt. Ex CATO dano. Quali fratagemate homines,
mortui Š videantur. Vltis experimétis confirmatum repe rio fublimatum, ffue
aqua vitæ cum fale miſce tur, ac in patina (ſublata qualibet alia lua ce )
accenditur in cabiculo, nocturno tem pore, vbi homines reperiantur; fiquidem
ipfi immobiles fuerint, fpeciem mortuorús repræſentabunt. Pleriq; vt Aethiopes
fin gant, lucernam accendunt oleo plenam, cum quo ſepia atramentum fit dilucum,
fi we calchantuni, aut ærugo, nec fine ratio ne:oftédit enim,lux eorû colores,
quæ in iis sát quæaccédācur: oportet tamen iu cubi culorcliquas luces adimere,
Nerein VA No Nereidesfaciehumana dy venufta, prezi que fuifferepertas Ereides,
quas vulgus Birenas appela lat, plurimæ in locis maritimisinué tę funt;quodauté
cátusdulcedine nauigātes hein foporem perliciant, & capiant,nos. in lib. 1.
de Hominis vita, abundedifferui mus, vbi de Tritonibus, Nereidibus, ho.
minibuſqs in maridegēribas, quos marinos vocant tractatur; Poetarumq; fabulæ
eno. dantur, Vidithas Theodorus Gaza & Gee orgius Trapezont ius, homines
nagnæ e ruditionis: Gaza in Pelepomeno exorta maris tempeftate, Nereidem
proiectain in lidcore reperije viuentem, & fpirantem, ynleu hrniano, facie
decora, corpore fqua mis hirto ad pubem vſq, cætera autem ia locuftæcaudam
definebant: ad hanc viſen dam magnus fuit concurſus, illa tamen e vac maefta,
crebrog, ſuſpirio fatigata & frequentia hominum circumdata gemitus dedit
& lacrymas emiſit,quibusmacus mi. fericordia,ad mare deduxit, vbimagno im
petu fluctus fecauit, & ex oculis omnium cuanuit. Quid Trapezontius,
pleriqs. alii viderint, in loco cita. to narrauimus De Apunx natura, earumque
mirabiliſa gacitate. Tu quidem anceps fui in fcrutanda A
pummellificatione,foetu, & cera:nam & apud auctores magna reperitur
controuer. fia, num illæ ge nerent, & aliundeprolem habeant.Poft auem
exactum fcrutinium cu iufdam amici va lido experimento Ariftoter lis opinionem
veram eflecomprobaui;fiqui dem Apese floribus fauos conftruunt, exar borum
lacryma ceram fingunt, & mella ex aëris'rore captant.Hæ primum fauos confi.
ciunt,mox fotin collocant, ore calidum ſpirantes,vt vitain recipiat.Mellificanræfta.
te, & autūno cibi caufa;mel autem autinale cleatius eft.Foetus in vere
ferotino debilis fit: nã & naiori ex parte emoritur. Multi aiunt oliuas,
& examinum copiam cógenerem ha. bere nataram: nam fi altera augetur, alcera
abundans fit: fi vna deficit,altera deprimitur ratio eft:nam mella ficcitates
augent;lobo. lem verò imbres; quofit, vt ſimuloliuæ, & sopia examinam fit.
Vinorum aliquot existere genera natura mirabilis. R aliquot vinorum genera mirabilis
naturæ quod? co A quod vua & guftu, & fenfuà cæteris minime diſcrepanr,
nec vinum á ymis; tamen quod Heracliam Arcadiæ fit, viros reddicinfancs epotum,
& mulieres fteriles: & apudcabyni. am Achaiæ abortum facic: & in
Thiffo vi num quoddam lomaum producit; quoddam verò, vigiliam Ex Tbeophraſto
lib.9. Plant. Quoartificio ignem manibus abſque læfione tractare valeamus. Pud
plerofque fcriptores inueni, ig nem fine læſione poffe tractari, fi tri.
tomaluauiſco cum ouorum albumine, ma.. nus liniuntur,ac defuper alumen
inducitur.. Hoc autem experimentuin à Magno Alber to captum eſt, apud quem
aliud legitur hu. ius negotijartificium:fi enim Ichthyocolle, & aluminis
æquales partes capiuntur, & ad inuicem commiſcentur, fiacetum his ſuper
funditur; quicquidtali miſcellanea illitum in ignem proijcitur, vtique non
comburie tür. Menftrua in ſenio ferèquibufdam fæminés 46 cidere. Vàm fallax fit
tum Ariſtotelis, tum ali orum iudicium,quodin mulieribuscir ca quadragefimum
annum,fiue quinquagefi mum menftrua deficiant, quotidiana demone strat
experiencia. Mulierem hic cognoui, Qyour P7 Victoriam nomine, eamque honeftam
& bene morigeratamshuic in anno 45.méftrua ceffarunt, & faufta
valetudine vixit,cum au tem fexagefimum ferè annum attingeret, ce teilli menfes
rubei,bonique coloris redie. De vberague, quæ priusflaccida erant,more:
virginum turgidula facta ſunt lactifque tan ta copia impleta,vt impulſu
ferretur: quarez, vt puerulú filiæ fuæ lactaret àmeadmonita eft. Alteram
cognoui, quæ vfque ad annum 65.femper menftrua paffa, & hodie viuit, &
menftrua fingulis menfibus fuentia habet Hæcautem raròcontingunt..
Bufonislapidem contra venena mirabileinha bere virtutem. Pleriſque lcriptoribus
excollitur lapiss ille terreſtrisinuenitur: ſiquidem contra venena folo
contactu valere expertü eft; propterea inflationes abeftijs venenatis illatas
diſcute re, venenúq; elicere aiut.Scribit Lemnius, tu mores, & dolores ex
forieibus,araneis, vel pis,fcarabeis,gliribus, aliifuevenenofis 2. nimalibus
caufatos fclo lapidis blaul do attritu.euanef cere Aquarum Fluuios natur&
mirabilis repe $ rire. N multis locis aquarum exortas, mira cfficaciæ
inuenirilegimus Scribit Arift. in terra Aſsirithidæ aquas naſci, quas cum oues
biberint,moxgs inierint, nigros agnos generare. In Arandria dnos ineffe fluuios
ad.. notauit, quorum alter candorem, alter nio gritiem facit pecoribas:at
Scamander am gis, quem Homerus Xanthuniappellauit, fia uas reddere oues
creditur. Mirabilers in concepta imaginationis effe per rentiam Maginationis
potentiam tam miram effe Phyfici confitentur ve viſa per cóceptum in partu
fæpiſsimè eluceſcant. Referam hi ftoriain admirandam ex Ludouico Vives 12; de
Ciuit.Dei de huius negotio conſcriptam In Brabantia Buſco ducis quædam vrbs
eft, in qua more eiufdem Prouinciæ quodam die rempli vrbis feſtum celebratur,
quo tempore varii ludi apparantur.Sunt aliquot, qui ſtato die diuorum perſonas
induunt:nönulli vera Dæmonů.Ex his vnus cū viſa puella exarfif. fet, &
demúfaltado ſe ſe recepiſſet, & apreprā Vt er at perfonatus vxore fua in le
&tum con. ieciſiet,ſe exeaDanonem gignere velle di.. cells D cens, concubuit, & concepit inulier:
clim autem in partuinfantem peperiffet,'s fimul ac primum editus eft, Calcitare
cæpit forma, quali Dæ nones pinguntur. Dentium.stupores à portulaca confeftim
amoueri: Entium ftupores,qui ab acidis.edulijs Connarci confueuere,ex aqua aut
luc co, vel frondibus portulacæ commanfis, quam citifsimèdiffoluuntur.Ipfe cum
qua-. damæftate cùm fiti maxima, tùm dentium: ftupore affligeretur,cömanfis
ipfius frondi bus, &à fit, &à ftupore fubito liberatussú, Ab amico
quodam audiui parculacæ fuccúi collinitum,abfque dubio verrucas exter
minare,mihiautem experiundi locus haudi adhuc datus eft. Ex Aphrodiſeo,
Ceraferum aquam ftillatitiam in Epilepfia ! fummumeſſeremedium. Ninitis
experimentis Ceraſorum aquam 10 laccurrendis Epilepticis conprebari reperio
propierea à loanneAgricola in lib.. Herbar.maximèetiam extollitur. Qua pro vita
producenda inter arcana natu 12 connumerentur. APudreru naturalium (crucatores
acer rimos inueni, idque in arcanis conſer wari Hellebori nigri fólia Saccharo
cómilta degluci deglutientem ad iuglandis magnitudinenia in offenſam
valetudinem, ad ſenectutem vſ. que conſeruari.InfuperSilicem ignitum lin.
teiſque parum madidis inuolutum,& pedi. bus applicitum,pernicioſos
valetudinis vaki pores extrahere. Quoartificio in mulieribuscrinesdenfiores,
copiofiores comparare paluamus. Nter ſelectiſsima prælidia, quæ ad capil lorum
copiam generaodam ineffe cre duntur,Maluæ radix connumerari poteft:: fi enim
caput mulierum livinio lauatur in quo elixa fit maluæ radix, & deinde fucco
maluæ crines, inungantur, profecto ya bercim prouenient, & cicila fimé.
Giulio Cesare Baricelli (n. San Marco dei Cavoti) è un filosofo. De
hydronosa natura sive de sudore umani corporis Hortulus genialis Thesaurus
secretorum De lactis, seri, butyri facultatibus et usu Indice
baricelli — implicatura sudorosa — de hydronosa natura — de medicinae
praestantiae — amazones cur mammas dextras resecaverint — olearum sterilitatis
praesagium — nili flumines proprietas — de mundi creatione — murium sagacitas —
pluviosa tempestatis prognostica — agricolas non semper tempestates et serenitates
praedictunt — valeriana miravis contra epilepsiam — transformationes hominum in
bestias non esse reales — daemonis astutia apud indos — quid picus de
scientiarum varietatis sentiret — subditos principis vitam ut plurium
imitari — rutam et allium serpentibus adversari — animalis oriri et vivere
posse in igne compertum est — lacus asphaltritis mirabilis naturae — pisces
marinos salubriores et rapidiores fulminibis esse — mulieris — hominos —
cibus — gigantes in orbem — mulieres — excellentia — falsissimum est
salamandran in igne vivere posse — sabbatici — lactandis infantibus menstrualis — pharmacum — animal — tauri —
faxa — aegypti reges — sterilitatis praesagia — aeris salubritatem — lintea —
hominibus — hydropes — plenilunio — nationibus — romulus — serpentaria —
echinum — animi pudorem — animalia — alexandri morti — sanari — cervi sudori —
vires — balnei — adam — rutam — verbenam — anima — aeris — sulphuris —
caraba — baccas — linguam — galli — homines — magis — fuco — cacoethica —
vipera — traulos — morbos — lupi — vitrum — pregnantes — periculo — pro
corporis — corporum hominum — utero — paterna — araneus telas — menstruali —
rutam — corpora — achatis — hominibus — hominem — utero — praesagium —
utero — tritico — scorpionum — hominibus — bubulo — epilepsiam — arbores
lapides — bardana — literas — homines — hominibus — hominibus — filios
parentibus signum — mare rebrum — hydrargyri — lupum — epilepsia — flatu corpora — pestilenti — efficacia — animalium
— seminis — basilicum — torpedinem — animalia — armenia — febre — lumaca —
amantissimam — astronomiam — martisque — passione cantharides — adagium — parere fetus —
iucundi —de amoris origine — aqua — virtutes — sagacitas — lapidis — naturam —
partus — amorfus — equorum — spectacula — marinum vitulum epilepsia — vinum — homines — homines — cervi
— gagatis — epilepticos — hominum — laudano — mortem — pacto — a viro —
hepaticos — mortem — mithridatis — ossa — bryonia — herpetes — vina alba —
flores — absynthium — chalcantho — coralio — lethargicos — infantes — prunellae
— catuli — gallum — corios — artificio — theodorus — radicem — dilligentes —
canicula — quatuor elementis — phreneticos — digitum — carnes — vicera —
testiculis — dentium — hippocrate — animalibus — apii — satyrii
testiculum — hominibus — radicem hominis
extractum — praesidia — hominem — antidotorum — cancri — quomodo — morbi —
animantium — pulchritudine — septentrionalibum — hemorraghia — lingua
ardor aegyptios — gentium — solis —
animalium — cervorum — masculinum fetum — mirandulani — hydrargyro — incognita
— tempestates — epiro — hecla — hominum — galenum — graecos — cane — athritide
— lionem — iumenta — acutis — acetum — piscis — foeminas — corporis —
alexandrum — hominum — ruditas — angina — capillos — volucrum agricolas — galege infantis — oryalum — homines — lapides —
collegium — alexandrum — laparhiorum — feminum — aegyptios — methodo — olivarum
— admirandu — millepedum — frequentem — mulieres daemonum
carduum — infantes — menstrualem — corpori — medicina — animalia —
unicornu — mulierum — naturalem — febris — precognosci medicis — masculorum — hydrargiri — bryonia consolidanda — chymicam — corpus — hominum —
venenum — semen — lupos — homines — luna — leonardi — hominibus polypidium ibidis — mulieres — industria corpora — gallicam — hominis — hominibus —
regem — homines — aquilone — usum — usum — oleo — genus — leones — artificio
mergum lacertas educandis — artificio — serpentes — virginitatem virginale — vitellos — humana vita — vena —
materia — alexandri — mulieres — hydrophobos
puerorum labiorum — utero semine — aegyptorum — taxi — epilepsiam —
aspides infantes — vitrum — homines —
vini — syrium — nuptis — agreste — hydrophobiam — hepatis — viventes —
arundinem cynanchem parere filios
vino — praesagia gallinarum —
aquam — mandragoram — corpora — vita hominibus — semina — infantium —
vitam philomelam castorem — duces lingua — vinum — equorum croci
hominis — aspidum
hermaphroditos imaginationis
potentian — climactericos — inter homines — carolum animantia
liberos — garamantes caminus horologium — infantium praesagia — vinum — virorum — familiarem romanos — ambarum — tympaniam — venenum
— toxica socrati magia — epistolam — aqua frigida menstruorum
lapides — homines testiculos humanam salivam homines ridendo — parthi — partum
accelerare — serpentum hydrargyrum vim —
anginam — vermes mamillis lumbricos —
infantis elephantiasim cyprinorum
leporine — hydrargyrum — gravidas
homines abstemios — aristolochiam — alexandro morbis — creta —
cyprini calphurnius bestia romanus —
aceto oleum — scythae catellos — plurima
— martis — robusta hominum corpora — equum — homini lunae — mithridiatu —
viscum — vites — betulae haemorrhoidalem — dentium dolores — sodomi — uterum —
solis — virginum — praesagia — vitri — aeris — homines — facie humana apum
natura vinorum ignem menstrua virtutem aquarum in conceptu imaginationis esse
potentiam dentium stupores epilepsia pro vita producenda mulieribus Giulio Cesare
Baricelli. Keywords: sweat, il sudore umano, sudore e la regola, stirgilo,
amore, Socrate, Aristotele, controversia sull’origine del sentiment dell’amore,
Socrate, l’idea di causa in Aristotele. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Baricelli” – The Swimming-Pool Library.
Baroncelli –
compassione – filosofia ligure – filosofia italica – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Savona).
Filosofo italiano. Grice: “I like Baroncelli – he can be hyperbolic – “Mi manda
Platone,” surely he only requested! My favourite is his ‘compassione,’ which is
‘calco’ of ‘sumpatheia’ and therefore at the core of my balance between
conversational egoism and conversational altruism.” Flavio Baroncelli (Savona) filosofo Nato e cresciuto a Savona, si laurea in
filosofia all'Genova nel 1969 con relatore Romeo Crippa, di cui diventa
assistente. Insegna Storia dell'età
dell'Illuminismo all'Trieste. Dal 1977
al 1981 è di nuovo a Genova, dove tiene la cattedra di Storia della filosofia
moderna. Nel 1981 diventa ordinario all'Università
della Calabria. L'anno successivo ritorna a Genova dove prende la cattedra di
Filosofia morale. Nel 1988 un grave
incidente motociclistico durante una vacanza in Turchia lo allontana per
qualche periodo dall'insegnamento e dalla ricerca, attività che riprende
all'inizio degli anni novanta come visiting scholar all'Madison, nel
Wisconsin. Nel frattempo collabora con
molti quotidiani e periodici, come La Voce di Indro Montanelli, Village, Il
diario della settimana, il Secolo XIX.
Tornato a Genova, diviene molto amico del filosofo Franco Manti,
segretario generale dell’Istituto Italiano di Bioetica. Riprende la vita
accademica per allontanarsene a causa della malattia che lo porterà alla morte
sopraggiunta nel 2007. Il pensiero di
Baroncelli ripropose un'etica planetaria alla luce del mondo globalizzato,
invitando a riconsiderare i valori e le identità storiche dei gruppi umani
occidentali riorientandoli a favore di un sistema di valori e di identità
individuali e culturali di tipo mobile e pluralistico. Ha qualificato le varie
culture come sistemi aperti in grado comunicare e di essere traslati o
esportati ovunque nel mondo, nella convinzione che gli esseri umani
appartengano tutti alla stessa specie e siano tutti abitanti dello stesso
pianeta. Pensiero e la ricerca
Profondamente influenzato da David Hume e dallo scetticismo inglese, si è
occupato in prevalenza di temi etico-politici come il razzismo, la tolleranza,
il liberalismo e il politically correct.
Altre opere: “Un inquietante filosofo perbene: saggio su Davide Home” (La
Nuova Italia, Firenze); “Sulla povertà, idee leggi e progetti nell'Europa
moderna, Herodote, Genova-Ivrea); “Il razzismo è una gaffe” “Eccessi e virtù
del "politically correct", Donzelli, Roma); “Viaggio al termine degli
Stati Uniti Perché gli americani votano Bush e se ne vantano” Donzelli, Roma); “Mi manda Platone, Il Nuovo
Melangolo, Genova Saggi "Giustizialismo" in Ragion Pratica, "Post-fazione"
a Lysander Spooner, No treason, "Etica e razionalità. Un finto
divorzio?" in Materiali per una storia della cultura giuridica, Il
riconoscimento e i suoi sofismi" in Quaderni di Bioetica, "Come scrivere sulla tolleranza" in
Materiali per una storia della cultura giuridica. Note
Franco Manti per la fondazione Pubblicità progresso, Manti, Diversity,
Otherness and the Politics of Recognition, in Nordicum-Mediterraneum, 14, n. 2, Akureyri,, Ospitato su archive.is.
Citazione: To Flavio Baroncelli, a friend I met only too late, / whose lively
intellect, critical sense, friendliness / and clever irony I just had time to
appreciate. Info dalla pagina del
Dottorato in filosofia dell'Genova. Registrazione audio[collegamento
interrotto] dell'intervento a una trasmissione di Radio 3 dall'archivio RAI
Trascrizione di un dibattito con gli studenti sulla tolleranza dal Enciclopedia
Multimediale delle Scienze Filosofiche di Rai Educational Necrologi Bertone,
Vittorio Coletti, Salvatore Veca e Pietro Cheli. Altri dello scrittore Bruno
Morchio e dell'amico Daniele Miggino. Sezione speciale della rivista
Nordicum-Mediterraneum dedicata a Flavio Baroncelli. Pagina di Wordpress su
Flavio Baroncellicon alcuni testi inediti. Flavio Baroncelli. Keywords: compassione,
filosofia ligure, Home, etica, ragione, giustizia. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Baroncelli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Barone –
linguaggio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo
italiano. Grice: “I like Barone, but I’m not sure he likes me! You see, in
Italy, there’s ‘scienze filosofiche,’ and ‘scienza’ was indeed a way to describe
philosophy! But at Oxford, you have to take the great go! Lit. Hum., and I
doubt Barone did! – ginnasio e liceo, as the Italians have it! Therefore, his
views on ‘filosofia e linguaggio,’ never mind his rather pretentiously titled
‘logica formale,’ ‘logica trascendentale,’ ‘algebra dela logica,’ etc. have
little to do with, well, Italian!” Laureato in Filosofia a Torino nel 1946 come
allievo di Augusto Guzzo e Nicola Abbagnano, visse a Viareggio. Professore di
Filosofia teoretica all'Pisa, dove fu preside della facoltà di Lettere e
filosofia dal 1967 al 1968, fu poi docente di Filosofia della scienza nonché
direttore dell'Istituto di Filosofia nella stessa università (1960-80). Insegnò
anche Filosofia morale alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Si dedicò
soprattutto a studi di storia e filosofia della scienza, pubblicando numerosi
libri. Nel 1979 curò l'edizione italiana delle opere di Niccolò Copernico.
Socio nazionale dell'Accademia delle scienze di Torino (dal 12 febbraio 1985),
della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli, e dell'Accademia
Nazionale dei Lincei, a Milano fu presidente del Centro del C.N.R. di studi del
pensiero filosofico del Cinquecento e del Seicento in relazione ai problemi
della scienza. Pensiero Particolarmente
interessato alla filosofia di Nicolai Hartmann, Barone ne trasse spunto per un
confronto tra la dottrina realistica e quella neoidealista. La sua riflessione
filosofica si sarebbe poi focalizzata sui problemi epistemologici e della
filosofia della scienza. Come
pubblicista affrontò temi etico-politici sul rapporto tra individuo e società
dal punto di vista della ideologia liberale e liberista. Il tema principale delle opere di Barone
riguarda la filosofia della scienza e la storia della scienza e della tecnica.
Si deve a lui la prima pubblicazione in Italia di una monografia sulla
filosofia neopositivistica. Il suo
pensiero si contraddistingue per lo stretto rapporto tra epistemologia e
storiografia della scienza, settore, questo, in cui Barone ha preso in
particolare considerazione il tema della nascita dell'astronomia moderna, da
Niccolò Copernico a Keplero e Galilei.
Intorno agli anni sessanta, inoltre, Barone si è dedicato con
particolare attenzione agli sviluppi culturali, epistemologici e filosofici
della nascente informatica. Altre opere:
“L'ontologia di Nicolai Hartmann” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Rudolf
Carnap, Edizioni di Filosofia, Torino); “Wittgenstein inedito, Edizioni di
Filosofia, Torino); “Il neopositivismo logico, Edizioni di Filosofia, Torino);
“Assiologia e ontologia: etica ed estetica nel pensiero di N. Hartmann,
Torino); “Leibniz e la logica formale, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicolai
Hartmann nella filosofia del Novecento, Edizioni di Filosofia, Torino); “Logica
formale e logica trascendentale, I, Da
Leibniz a Kant, Edizioni di Filosofia, Torino); L'algebra della logica,
Edizioni di Filosofia, Torino) Metafisica della mente e analisi del pensiero,
Edizioni di Filosofia, Torino) 1748: viaggio di Hume a Torino, Edizioni di
Filosofia, Torino); “Mondo e linguaggi” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Determinismo
e indeterminismo nella metodologia scientifica” (Edizioni di Filosofia,
Torino); “Concetti e teorie nella scienza empirica, Edizioni di Filosofia,
Torino); “Nicola Copernico, Opere (F. Barone), POMBA, Torino); “Immagini
filosofiche della scienza, Laterza, Roma-Bari); “Pensieri contro, Società Editrice
Napoletana, Napoli); Teoria ed osservazione nella metodologia scientifica,
Guida, Napoli); Verso un nuovo rapporto tra scienza e filosofia, Centro
Pannunzio, Torino); La fondazione dell'ontologia di Nicolai Hartmann (F. Barone),
Fabbri, Milano); Leibniz, Scritti di logica (F. Barone), Zanichelli, Bologna). Note Francesco Barone, Neopositivismo, in
Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani,
Barone, Francesco, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Sito ufficiale, su
francescobarone. Francesco Barone, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Francesco Barone, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Francesco Barone, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Francesco Barone, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Francesco Barone,. David Hume, il filosofo della non certezza di
Francesco Barone, La Stampa, Addio a Barone il filosofo che diffidava dei
paradisi in terra di Dario Antiseri, Corriere della Sera, Archivio storico. Francesco
Barone. Keywords: linguaggio, assiologia, la semantica di Leibniz, la sintassi
di Leibniz, logica matematica, logica formale, logica trascendentale, logica
aritmetica, Hume a Torino, simbolo, logica simbolica, Leibnitii opera
philosophica, assiologia ed ontologia, mondo e linguaggio. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Barone” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Barone –
dialettica fiorentina – filosofia italiana – Luigi Speranza (Alcamo). Filosofo
italiano. Grice: “I like Barone; at last a priest that takes Italian humanism
SERIOUSLY!” -- Dopo avere finito gli
studi teologici nel Seminario Vescovile di Mazara del Vallo, fu ordinato
sacerdote il 13 marzo del 1937. Frequentò, quindi, la Pontificia Università
Gregoriana di Roma dove conseguì la laurea in Filosofia trattando la tesi dal
titolo: L'Umanesimo filosofico di Giovanni Pico della Mirandola. Ebbe subito la nomina di Canonico della
Collegiata di Alcamo, poi dal 1949 al 1956 quella di Vicario foraneo e
Visitatore dei Monasteri; dal maggio 1951 fu nominato anche Canonico Onorario
della cattedrale di Trapani. Nel mese di
novembre 1956 fu pure nominato Cameriere Segreto Soprannumerario di Sua
Santità; fu quindi professore di lettere e filosofia del Seminario di Mazara
del Vallo e, per 16 anni, delegato Vescovile alla dirigenza dell'Istituto
Magistrale legalmente riconosciuto "Maria Santissima Immacolata" di
Alcamo. Per diversi anni, è stato anche
Rettore della Chiesa della Sacra Famiglia e della Badia Nuova; inoltre è stato
membro del Consiglio Presbiteriale diocesano e docente di Filosofia presso il
Seminario Vescovile di Trapani. Altre opere: “Il Santuario; Alcamo); “La Nuova
parrocchia di S.Oliva; ed. Bagolino, Alcamo); “Giovanni Pico della Mirandola profilo
biografico del celebre umanista; ed.Gastaldi, Milano-Roma); “L'Umanesimo
Filosofico di Giovanni Pico della Mirandola Studio del Pensiero Pichiano;
ed.Gastaldi, Milano-Roma); “Quattro saggi; ed. Accademia degli Studi
"Ciullo", Alcamo); “Donna IdealeIdeale di donna; ed. Accademia degli
Studi "Ciullo", Alcamo); “Didactica Magna di Comenius (traduzione
italiana); ed. Principato, Milano); “Scuola Libera, ed. Bagolino, Alcamo); “Il
Vero Maestro -Lineamenti di educazione; ed. Bagolino, Alcamo); “Verità e Vita;
ed. Cartografica, Alcamo, De hominis dignitate, di Giovanni Pico della
Mirandola, Firenze); “La Congregazione di Gesù Maria e Giuseppe nella chiesa
della Sacra Famiglia di Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo); “La più
bella preghiera, Alcamo); “Antologia pichiana: letture filosofico-pedagogiche;
ed. Virgilio, Milano); “La docta pietas, di Sebastiano Bagolino erudito
alcamese del sec.XVI; tip. Bosco, Alcamo); “Maria fonte di Misericordia e Madre
dei Miracoli Patrona di Alcamo; tip. Sarograf, Alcamo); “Dialogo con gli invisibili;
tip. Bosco, Alcamo). Note
trapaninostra,//trapaninostra/libri/salvatoremugno/Poesia_narrativa_saggistica/Poesia_narrativa_
e_saggistica_ in_provincia_di_Trapani_02.pdf
Tommaso Papa, Memorie storiche del clero di Alcamo, Alcamo, Accademia di
studi Cielo d'Alcamo, Papa, Memorie storiche del clero di Alcamo, Alcamo,
Accademia di studi Cielo d'Alcamo, trapaninostra,// trapaninostra/ libri/salvatoremugno/
Poesia_narrativa_saggistica/ Poesia_ narrativa_ e_saggistica _in_ provincia_di_Trapani_
Vincenzo Regina Tommaso Papa Identities-Biografie Biografie Cattolicesimo Cattolicesimo Letteratura Letteratura Categorie: Presbiteri italiani Insegnanti
italiani del XX secoloFilosofi italiani Professore Alcamod Alcamo. Giuseppe
Barone. Keywords: dialettica fiorentino, pico, umanesimo toscano, pico,
pichiano, pichismo, uomo, degno, la degnita dell’uomo. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Barone” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Barsio –
dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mantova). Filosofo
italiano. Grice: “I like Barsio – he reminds me of G.Baker – there he is,
Baker, succeeding me – and an American! – as tutorial fellow in philosophy at
St. John’s, and dedicating his life to Witters – So when reminiscing, in my “Predilections
and prejudices” about them years, I said, “God forbid that you dedicate your
life to the oeuvre of a minor philosopher like Witters – it’s good to introject
into a philosopher’s shoes as you attain to grasp the longitudinal unity of
philosophy, but look for a non-minor pair of shoes!” – “Barsio is a radically
minor philosopher – in that, he never had to grade – I always hated grading and
seldom did it! – since he lived under the Gonzagas at Mantova – and he just
phiosophised to the sake of the pleasure he derived from it! My favourite is
his elegy to his enemy, Pomponazzi – but his satirical curriculum vitae is
fantastical, but possibly true!” -- Noto anche come Vincenzo Mantovano,
frequentò le corti del marchese Federico II Gonzaga e di sua moglie Isabella
d'Este, alla quale pare avesse dedicato il poemetto Silvia e la corte del
marchese di Castel Goffredo Aloisio Gonzaga, al quale dedicò il poema latino
Alba. Studia filosofia a Bologna. Altre opere: “Silvia, poemetto in tre libri,
Pamphilus; Alba, dedicato al marchese Aloisio Gonzaga, signore di Castel
Goffredo; Labyrintus, dedicato a Federico II Gonzaga. Ireneo Affò, Vita di
Luigi Gonzaga detto Rodomonte, Parma., su books.google. Gaetano Melzi,
Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, Milano,
Giuseppe Coniglio, I Gonzaga, Varese, su books.google. Vincenzo Barsio, in Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ICCU. Vincenzo Barsio., su edit16.iccu. Marsio.
Vincenzo Barsio. Keywords. dialettica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barsio”
– The Swimming-Pool Library.
BARTOLI search.gianpaolo
--
Grice e Barzaghi –
scuola di anagogia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Monza).
Filosofo italiano. Grice: “Barzaghi is a genius; the Italians hate him! In his
“Compendio di storia della filosofia,” there’s no mention of Cicero!” – Grice:
“Barzaghi is the Italian Copleston – what is it with religious minds – cf.
Kenny – that have this inclination towards the longitudinal unity of
philosophy?!” – Grice: “Barzaghi just ignores the most prosperous period in
Roman philosophy; not so much Romolo, but whatever happened in Rome after that
infamous ‘embassy’ of Carneade, an Academian, Critolao, a peripatetic, and
Diogoene di Celesia, a stoic!” -- Direttore
della Scuola di anagogia, fondata dal cardinale Giacomo Biffi. Discepolo del
filosofo Gustavo Bontadini e frate domenicano, è stato l'interlocutore
privilegiato di Emanuele Severino sulla questione di Dio e del
cristianesimo. Nella sua opera Oltre Dio, Barzaghi si interroga
dapprima sull’essenza del cristianesimo per giungere ad affermare la necessità,
per il credente, di assumere alcune fondamentali posizioni filosofiche riguardo
la vera comprensione della realtà: «Se il Cristianesimo è essenzialmente la
partecipazione della vita di Dio, cioè della vita eterna, per comprenderlo
occorrerà porsi dal punto di vista di Dio, cioè dell’eterno» (p. 13). Secondo
Barzaghi, l’Essere assoluto «non può essere inteso come qualcosa accanto ad
altre cose, e conseguentemente diviene il punto di vista rigoroso per
l’ispezione del tutto» (p. 17). In questo senso, la filosofia di Emanuele
Severino, che si presenta come alternativa al teismo, offre in realtà per
Barzaghi il fianco a un nuovo percorso argomentativo in favore dell’esistenza
di Dio (un Dio però non inteso come oggetto: da qui il titolo dell’opera, che
evoca esplicitamente un’espressione di Dionigi): se ogni cosa è eterna, e tale
dunque è anche il suo apparire, esso deve continuare ad apparire, eternamente,
anche quando “non appare”. «Dunqueafferma il filosofo –, se tale apparire non
permane nell’orizzonte dell’apparire che è la mia coscienza, perché consta
l’apparire-scomparire dell’ente, deve comunque continuare ad apparire […] in
modo determinatissimo, dunque alla sola scienza di Dio cui eternamente appaiono
gli eterni. Non ammettere questa scienza di Dio, cioè Dio, significa ammettere
che l’apparire, che è pur un non-niente, sia un niente nel momento in cui non
appare più determinatamente, individualmente» (p. 24). Questa scienzachiamata
nel linguaggio tomista scientia Dei visionis«ha la fisionomia dell’apparire
infinito di cui parla Severino nei suoi scritti» (p. 17). Nel pensiero
barzaghiano, il punto di vista sub specie aeternitatis (dal punto di vista
dell’eternità) diventa la condizione imprescindibile di tutta la riflessione
teologica e filosofica. In teologia, solo questa prospettiva riesce a rendere
metafisicamente plausibile l’affermazione rivelata dell’«Agnello immolato nella
stessa fondazione del cosmo» di cui parla il libro dell’Apocalisse, così da
poter parlare di una «inseità redentiva dell’atto creatore». Nella riflessione
filosofica, poi, la prospettiva sub specie aeternitatis consente di avere uno
sguardo «dialetticamente onninclusivo», per cui ogni ente rispecchia in sé
l’eternità del tutto e di ogni altro ente secondo la nozione di exemplar.
Ne Il fondamento teoretico della sintesi tomista, Barzaghi propone appunto
l’idea di exemplar come cardine speculativo, approfondendo e oltrepassando la proposta
di S. M. Ramírez, neotomista spagnolo (1891-1967) di individuare nella
“dottrina dell’ordine” la struttura più sintetica di tutto il pensiero di
Tommaso d'Aquino. L’exemplar rappresenta «il minimo di complessità per muoversi
nel massimo della complessità» (p. 31). Ma per compiere questa operazione di
analisi, occorre esprimersi attraverso l’analogia, «riflesso logico
gnoseologico dell’ordine ontologico [e] mezzo inventivo ed espressivo del
conoscere» (p. 47), che acquisisce conseguentemente una notevole importanza nel
pensiero di Barzaghi. Nell’esemplare (exemplar) si trova il centro della
spiegazione causale, dal momento che in esso si presenta in modo simultaneo
tutto l’ordine che lega le cause aristoteliche: il fine, l’agente che intende
il fine, la forma implicata, e la materia che la deve accogliere. E l’esemplare
trascende la mera dimensione funzionalistica: in quanto contiene tutto
(compreso l’esemplante nel suo riferirsi all’esemplato), è una totalità, e
possiede quindi caratteristiche di liberalità e assolutezza: è «sottratto alla
dipendenza e al dominio» (p. 90). In una frase, che sintetizza bene il punto di
vista anagogico della filosofia e della teologia di Barzaghi: «Dio, conoscendo
se stesso, conosce tutte le possibili realizzazioni similitudinarie della
propria essenza, cioè tutte le essenze create e creabili» (p.
96). Seguendo infine l’esempio specifico di Bontadini, suo maestro, egli
fa risiedere nell’atto creatore intemporale la consistenza della totalità delle
cose, cioè delle creature, giacché queste sono «nulla come aggiunta a Dio» (p.
98). Secondo tale prospettica dell’exemplar, si può così realizzare, senza
aporie dogmatiche, la visione del Deus omnia in omnibus (Dio tutto in
tutto). Il dibattito con Severino Il primo dibattito fra Giuseppe
Barzaghi ed Emanuele Severino avvenne nel 1995 nella forma di disputa tra le
posizioni della teologia cattolica tomista e quelle della filosofia
severiniana. Il dibattito trovò, al di là delle aspettative degli
organizzatori, alcuni punti di possibile convergenza, che portarono il
filosofo-teologo alla pubblicazione di Soliloqui sul divino (1997), in cui
l’autore cerca per la prima volta di rileggere le intuizioni di Severino in un
modo che egli definirà più tardi voler essere quello con cui Tommaso d'Aquino,
filosofo e teologo cristiano, leggeva e faceva tesoro dell’insegnamento
filosofico di Aristotele, filosofo pagano. Ciò rese il rapporto fra i due
pensatori un dialogo di reciproca conoscenza e stima. Il 2 novembre 1999
Severino dedicò a Barzaghi un articolo sul Corriere della sera, in cui indicava
il sacerdote monzese come il fautore del più interessante tentativo di
riportare la sua filosofia al contesto cristiano da cui si era volontariamente
staccato. In tale articolo, il filosofo ateo definiva “aperto” il dilemma sulla
possibilità o meno per il cristianesimo di porsi come casa abitabile per l’uomo
contemporaneo, a patto però di diradare, sull’esempio di Barzaghi, la nebbia
che circonda il discorso religioso attraverso una ripulitura dei concetti a
partire dal punto di vista dell’eterno. Seguirono poi altri dibattiti pubblici,
come quello a Milano e quello a Bologna. Altre opere: “Metafisica della
cultura” (Bologna, ESD); “L’essere, la ragione, la persuasione, Bologna, ESD);
“Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell’essere, Bologna,
ESD); “Soliloqui sul divino. Meditazioni sul segreto cristiano, Bologna, ESD);
“Philosophia. Il piacere di pensare, Padova, Il Poligrafo); “Oltre Dio, ovvero
omnia in omnibus. Pensieri su Dio, il divino, la Deità, Bologna, Barghigiani);
“Maestro Eckart, Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo); “Anagogia. Il Cristianesimo
sub specie aeternitatis, Modena, ETC); “Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia
anagogica, Siena, Cantagalli); “Compendio di storia della filosofia, Bologna,
ESD); “Compendio di filosofia sistematica, Bologna, ESD); “La Fuga. Esercizi di
filosofia, Bologna, ESD); “L’originario. La culla del mondo, Bologna, ESD); “Il
fondamento teoretico della sintesi tomista. L’Exemplar, Bologna, ESD); “La
maestria contagiosa. Il segreto di Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD); “Il
Riflesso, Bologna, ESD); “Lezioni di dialettica, Bologna, ESD); “Il bene comune
secondo S.Tommaso d’Aquino, in “Communio” L’alterità tra mondo e Dio: la verità
dell’essere e il divenire, in “Divus Thomas”, Ambientazione teologica del concetto
di “gioia”,in I. Valent, Cura e la salvezza. Saggi dedicati a Emanuele
Severino, Bergamo, Moretti & Vitali); “I fondamenti metafisici della
mistica, in M. Vannini, Mistica d’oriente e occidente oggi, Milano, Paoline, La potenza obbedienziale dell’intelletto
agente come chiave di volta del rapporto fede-ragione, in “Angelicum”, Articolazione
teoretica della teologia trinitaria in chiave tomistica, in A. Petterlini, G.
Brianese, G. Goggi, Le parole dell’Essere. Milano, Bruno Mondadori, Desiderio e
abbandono. Maestro Eckhart e Tommaso d’Aquino: le due facce di un'unica
metafisica, in C. Ciancio, Metafisica del desiderio, Milano, Vita e Pensiero); Anagogia
epistemica, in R. Serpa, Antropologia, metafisica, teologia. Studi in onore di
Battista Mondin, filosofo, teologo, ciclista, Bologna, ESD); L’unum argumentum
di Anselmo d’Aosta e il fulcro anagogico della metafisica. Essere logici nel
Logos, in T. Rossi, Figurae fidei. Strategie di ricerca nel Medioevo, Studi, Roma,
Angelicum University Press, Anagogia: voce in “Enciclopedia Filosofica”,
Milano, Ed. Bompiani, L’epistemologia teologica di Tommaso d’Aquino. Analisi e
approfondimento, in G. GrandiL. Grion, Rivelazione e conoscenza, Soveria Mannelli,
Rubbettino,L’intero antropologico. Con Gentile oltre Gentile verso una
rifondazione metafisica dell’antropologia tomista. Ovvero le virtualità
tomistiche del discorso filosofico sull’autocoscienza e la corporeità umana, in
“Divus Thomas”. Il luogo poetico e contemplativo del sapere
filosofico-teologico. L’anima del giudizio scientifico, in “Divus Thomas” Mistica
cristiana come estetica assoluta, in
Mistica forum, Bologna, Lombar Key, Fenomenologia, metafisica e anagogia,
in “Divus Thomas”, Il bisbiglio del “Logos” e il suo riflesso nella ragione, in
“Divus Thomas”, Il destino sempiterno dell’Occaso. L’inseità mistica della
ragione, in A. Olmi, L’eredità dell’occidente. Cristianesimo, Europa, nuovi mondi,
Firenze, Nerbini, La commozione come filosofia del valore. Saper nuotare negli
affetti. L’ambiente invisibile della vita cristiana: il Fondamento, in V.
Lagioia, Storie di invisibili, marginali ed esclusi, Bononia University Press,
Bologna, Abitare teologicamente la natura. Lo sguardo metaforico di Tommaso
d’Aquino. Teoresi e struttura. Riflessioni e approfondimenti sulla
rigorizzazione bontadiniana, in “Divus Thomas” Creazione dal nulla o relazione
fondativa, in S. PinnaD. Riserbato
Fenomeno & Fondamento. Ricerca dell’Assoluto. Studi in onore di
Antonio Margaritti, Città del Vaticano, Ed. vaticana, Anagogia e teoria del
fondamento, in “Divus Thomas” Metafora. La trasparenza nella trasposizione, in
M. RaveriL. V. Tarca, “I linguaggi dell’Assoluto, Milano, Mimesis,, L’eternità
dell’essente in teologia, in G. GoggiI. TestoniAll’alba dell’eternità”. I primi
60 anni de ‘La Struttura Originaria’, Padova, Padova University Press, Dibattito
con E. Severino, in “Divus Thomas”. Il quadro anagogico e i segreti della
musica di J. S. Bach. La Ciaccona e il Contrappunto XIV de L’Arte della Fuga,
in “Divus Thomas”. A. Postorino, La scienza di Dio. Il tomismo anagogico di
Giuseppe Barzaghi... Data l'importanza
dell'anagogia nel pensiero di Barzaghi, gli è stata commissionata la stesura
dell'omonima voce sull'Enciclopedia filosofica (Bompiani), nonché, sul versante
teologico, la voce «mistica anagogica» sul Nuovo dizionario di mistica
dell’Editrice vaticana. RaiCultura: Dio
e il concetto filosofico di eternità del Tutto
Dialogo tra Emanuele Severino e Giuseppe Barzaghiparte 1 e parte 2 E. Severino, Nascere. E altri problemi della
coscienza religiosa, Articolo pubblicato sul Corriere della Sera, Dionigi, I
nomi divini (testo critico di M. Moranicommento di G. Barzaghi), Bologna, ESD,,
II, 3. All'alba dell'eternità. I primi
60 anni de 'La struttura originaria' (UniPa)
Apocalisse 13, 8 Cfr. G.
Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Nuovi saggi di teologia anagogica, Bologna, ESD, Santiago
María Ramírez op, De ordine placita quaedam thomistica, Salamanca, San Esteban,
Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Siena,
Cantagalli, UniPdL’eternità
dell’essente RaiScuola: Giuseppe Barzaghi.
Dio e il concetto filosofico… Si veda ad
esempio: E. SeverinoG. Barzaghi, L’alterità tra mondo e Dio: la verità
dell’essere e il divenire, in: “Divus Thomas” Severino, Nascere. E altri
problemi della coscienza religiosa
Dialogo Severino-Barzaghi a Milano
Giornata di studio dello Studio filosofico domenicano di Bologna RaiCultura. Giuseppe Barzaghi, Dio e il
concetto filosofico di eternità del Tutto su raicultura. Interviste ai
filosofi: Giuseppe Barzaghi su you tube.com. Giuseppe Barzaghi. Keywords: scuola
di anagogia, ana-gogia, il quadro anagogico, anagogia, greco ‘anagogia’.
Implicatura storica, la porta di velia, girgentu, l’implicatura di milesso, il
segno di boezio, filosofia italiana. Scuola di anagogia, Bologna, fidanza,
Aquino, filosofia romana, carneade, l’ambassiata greca a Roma, filosofia, la
scuola di Crotone, l’impicatura di Gorgia di Leonzio. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Barzaghi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Barzellotti –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “The
good thing about Barzellotti’s treatment of Cicerone’s dialettica is that he
pours in all his expterise on two fields: Italian mentality, Roman mentality –
so he can understand, in a way an Englishman cannot, the way Cicerone dealt
with the ‘dialectic,’ Athenian dialectic, if you wish, and turned it into a
‘Roman’ dialectic --. He of course never considers English interpreters, only
German! And refutes them!” -- “You’ve got to love Barzellotti – he is critical
of the idea of ‘Italian philosophy,’ but not of what he calls ‘The Oxcford
school of philosophy,’ – Philosophy has no country-tag; she belongs to
humanity; a DOCTRINE, or a school, may have a ‘national’ identification – And
part of the problem with Italian philosophy is that there was Italian
philosophy before there was Italy!” Grice: “My favourite is his tract on
Cicero, who he sees as an Italian!” -- Senatore del Regno d'Italia nella XXII
legislatura. Allievo di Terenzio Mamiani e di Augusto Conti, entrambi filosofi
spiritualisti, si professò poi seguace del Neokantismo. Si interessò
soprattutto alla storia della filosofia con particolare riguardo ai problemi di
psicologia artistica e religiosa. Ebbe la cattedra di Filosofia morale alle
Pavia e di Napoli. Divenne professore di Storia della filosofia all'Roma. Fu
ammesso all'Accademia nazionale dei Lincei. Nominato senatore del Regno
d'Italia. Fu iniziato in Massoneria
nella Loggia Concordia di Firenze, appartenente al Grande Oriente
d'Italia. Altre opere: “La morale nella
filosofia positive” (Firenze: M. Cellini); “La rivoluzione italiana” (Firenze:
Successori Le Monnier); “La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica”
(Roma: Tip. Barbera); “David Lazzaretti di Arcidosso (detto il santo), Bologna:
Zanichelli); “Monte Amiata e il suo
profeta, Milano: Fratelli Treves); “ “Santi, solitari, filosofi: saggi
psicologici” (Bologna: Nicola Zanichelli); “Studi e ritratti, Bologna:
Zanichelli); “Taine, Roma: Loescher); “L'opera storica della filosofia, Palermo:
R. Sandron). Note Vittorio Gnocchini,
L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, Cappelletti, Giacomo
Barzellotti, in Dizionario biografico degli italiani, 7, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
Barzellotti, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1930, giacomo-barzellotti. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Giacomo
Barzellotti, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per
le Soprintendenze Archivistiche. Giacomo
Barzellotti, su accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca. Opere di Giacomo Barzellotti, su open MLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Giacomo Barzellotti,. Giacomo Barzellotti, su Senatori d'Italia,
Senato della Repubblica. Filosofia Filosofo
del XIX secoloFilosofi italiani Professore Firenze PiancastagnaioAccademici dei
Lincei. Se questa ricostruzione, che vengo tentando, del
movimento filosofico nella seconda metà del secolo XIX in Italia,dovesse rigida
mente obbedire alle leggi di una storia della filosofia,alcuni scrit tori,che
rientrano nel nostro quadro, ne andrebbero certamente esclusi. Lo notammo a
proposito di T. Mamiani;e torna opportuno dichiararlo per Giacomo Barzellotti.
La prima legge della storia della filosofia è, che il suo oggetto è costituito
dal pensiero filosofico, ossia dalla metafisica, o concezione della realtà, che
voglia dirsi.E però non potranno far parte di essa gli spiriti che a questa
conce zione non abbiano comunque lavorato,o che non ne abbiano sentito il
bisogno o che non ne abbiano avuto le forze. Il Mamiani non ne ebbe le forze,
benchè vivamente desiderasse di pervenire a una filosofia, e ben presto creasse
a se medesimo l'illusione di esservi pervenuto. Il Barzellotti pare invece che
non abbia sentito il biso gno; e, ingegno letterario anche lui, abbia cercato
nell'attività este tica piuttosto che nella speculativa il vanto di scrittore:
più accorto in ciò e sia detto a sua lode del Mamiani, che per voler essere
quel che non era, non fu nè anche quel che fino a un certo segno,avrebbe potuto
essere. Il Barzellotti, invece, è stato uno degli scrittori italiani più
noti e più letti dell'ultimo trentennio del secolo: il suo nome può dirsi a
buon dritto che sia divenuto popolare: il solo forse tra quelli di scrittori di
cose filosofiche. Chi non ha letto i due volumi di saggi pubblicati dallo
Zanichelli: Santi, solitari e filosofi (1) e Studi e (1)Santi, sol.efil.,
saggi psicologici, Bologna, Zanichelli,2.a ediz.,ritratti?(1).A questa
popolarità egliappuntoaspirava,consciodelle attitudini del suo ingegno; e ha
messo da parte i problemi, a cui non era nato. Li ha messi da parte come
fanno tutti quelli che limettonodaparte,--negandone il valore. Ma nell'averlimessi intanto
da parte per suo conto è il suo merito e il segreto della sua fortuna
letteraria. Rileggiamo una confessione, che è nella prefazione ai Santi,
solitari efilosofi: « Più d'una volta al sentirmi chiedere quasi come tessera
d'ingresso ai posti distinti dell'insegnamento o al favore di certi
cenacoli letterari o filosofici una di quelle professioni di fede assoluta nei
dommi di qualche sistema,ho pensato involontariamente a quelle domande che le
signore fanno spesso nei giuochi di sala o nei loro albums profumati, mettendo
vi in mano illapis per la risposta:-- Guardi, mi faccia ilpiacere di dirmi o di
scrivermi qui, subito,che cos'è l'amore,e poi che cosa ella pensa dello
Shakespeare epoianche,secrede, del Goethe;ma chelarispostasiabreve,la prego,non
più che dieci righe,perchè,quaggiù,vede,ha da seri vere anche la mia
nipotina ». Vale a dire:il Barzellotti ha bensì aspirato ai posti
distinti dell'insegnamento filosofico.C'era avviato,era quella la sua car
riera:e l'ha percorsa ormai tutta con onore,fino alla cattedra di storia della
filosofia nell'università di Roma; ma egli non ha potuto mai persuadersi
che per occuparsi di filosofia bisognasse aver fede assoluta in un sistema:che
per mangiar frutta,direbbe Hegel, bi sogna contentarsi di mangiare
ciliege,pere,uva ecc.Non che pro prio abbia ricusato la filosofia, in generale.
La sua filosofia l'ha avutaanche lui; ma «diametralmente opposta»
aquelladichigli venne sempre chiedendo a qualesistemaegliaderisse;opposta
«appunto in questo: che il suo resultato più sicuro, e ormai consentito da
quanti oggi vivono la vita intellettuale dei nostri tempi, si è la
dimostrazione critica dell'impossibilità di chiuder la mente umana inunaforma
sistematica d'interpretazione dell'universo da potersi dire definitiva per la
scienza».Un'opposizione,come puòvedere chiunque abbia studiato con mente
filosofica la storia della filosofia, affatto illusoria:fondata sopra quella
confusione dell'universale e del particolare (per rispetto al concetto della
filosofia) messa in canzonatura da Hegel nel luogo citato dell'Enciclopedia. In
realtà, nessuna forma sistematica ha voluto mai essere definitiva; ma
s'è (1) St. e ritr., ivi, 1893. sforzata di organizzarsi a sistema,
per essere qualche cosa di filoso fico, per vivere nel pensiero, che non può
esser pensiero senz'esser uno. E lo stesso Barzellotti nota una volta che
perfino il Kant,il grande avversario dei sistemi,costrui anche lui la sua
Critica in forma complicata ma strettamente organata di sistema. E che
questo orrore dei sistemi significhi, pel Barzellotti,non negazione critica
della metafisica (com'egli, si vedrà,avrebbe voluto significasse), ma, a
dirittura, liquidazione,anzi evaporazione della filosofia, negata nella sua
universalità perchè negata in tutte le sue forme particolari;loattesta,non
foss'altro,ladichiarazioneseguente: che il valore intimo di cotesta sua
superstite filosofia « sta tutto nel penetrar ch'essa fa oggi del suo spirito
critico i metodi e la parte più alta delle scienze naturali e matematiche non
meno che delle morali».Sit diva, dum nonsitviva.L'ideale delfilosofo,Helm holtz
(tante volte citato dal Barzellotti): un fisico. Voltando,quindi,in
effetti le spalle alla filosofia,ilBarzellotti sentiva bene di non dover
riuscire ostico ai nemici della filosofia, ossia agl'ignoranti di filosofia. Le
sue idee intorno a questo punto della secolarizzazione delle menti,
riescono molto interessanti e istruttive, perchè aiutano a intendere tutta la
psicologia dello scrit tore:« Tra noi in Italia,oggi,lo so da lunga
esperienza,solo a far balenare un momento sul frontespizio d'un librolatestadifilosofia
c'è da vedersi impietrar davanti dallo spavento o dalla noia quante facce di
lettori s'eran chinate a guardarlo ». Di chi la colpa? Della filosofia o dei
lettori? Il Barzellotti avrebbe una gran voglia di gettarla tutta addosso alla
prima; m a poichè una certa filosofia deve credere di coltivarla anche lui,una
filosofia invisibile perchè cela tasi nelle scienze speciali o nell'arte, un
pochino di colpa l'ha pur da dare ai lettori, lamentando « quell'abito come lo
chiamerò d'antipatia o di pigrizia mentale? – che nella scienza e
nell'arte ci fa rifuggire dalle forme più alte e più complicate del
pensiero, che ci sanno di aspro o di esotico ». Ma, s'intende, il maggior torto
è della filosofia: È l'effetto del discredito meritatissimo, in cui la
filosofia cadde tra noi parlando per tanto tempo il gergo barbaro del pensare e
dello scri vere di troppi ormai che ne hanno fatto una casistica da medio evo
in ritardo,e che,o predicassero dal pulpito delle nostre scuole ortodosse,o
negassero Dio e l'anima mettendo in cattivo italiano i loro imparaticci
francesi, inglesi o tedeschi, hanno nella filosofia impedito tra noi quasi sino
ad oggi quella definitiva secolarizzazione delle menti che per tutto fuori di
qui segna da un pezzo l'avvenimento della cultura moderna. In Italia,un lettore che abbia familiare l'abito di mente
inseparabile dalla cultura e dalla scienza contemporanea,è raro che,aprendo per
distra zione o in mancanza d'ogni altra lettura,un libro di filosofia,non lo
faccia con quello stesso viso con cui un giornalista della capitale si la
scia,in viaggio,dare le ultime notizie di una crisi ministeriale da un suo
corrispondente di Cuneo o di Brindisi.E avrà anche torto;ma che dire,quando il
fatto stesso del mancare tra noi un pubblico di lettori per la filosofia mostra
chiaro che in Italia la filosofia non sa,meno rare eccezioni,farsi leggere,cioè
non sa pensare e scrivere,non voglio dire coipiùepeipiù,ma almeno
coipiùcolti,con coloro che pensano;il che poi significa ch'essa non vive ancora
tra noi la vita della mente contemporanea? La filosofia, per vivere la
vita di questa mente contemporanea, deve abbandonare il suo barbaro gergo. Si
potrebbe pensare dataluno che l'unico movimento di qualche vigore che si sia
avuto in Italia negli ultimi tempi,è quello hegeliano di Napoli. Ma quello,
secondo il Barzellotti, riuscìpiùascuoter elementi,chea fecon darle di germi
durevoli,a cagione appunto della sacra tenebra delle formule, nella quale
i più di quegli scrittori s'avvolgevano, del gergo tra barbaro e bizantino che
facevano parlare al loro pensiero oracoleggiante (1). Ma, che cosa è questo
gergo e quest'oracoleggiare se non la forma specifica della filosofia,inaccessibile,naturalmente,
non solo ai più, ma anche ai più culti, quando la loro cultura non abbracci
anche la filosofia; e la filosofia non liquida o vaporante nella sua astratta universalità,
ma solidae concreta nellasuccessione progressiva delle sue forme storiche, fino
a quella, alla quale una determinata ricostruzione della storia mette capo? E
la secolariz zazione dello spirito, e il farsi leggere della filosofia che
altro p o s sono significare se non distruggere quella differenza specifica
che costituisce il valore del grado spirituale proprio della filosofia?
Intendiamoci: non già che il filosofo debba scriver male. Il Barzellotti dice
della Vita del Vico che « ha dal lato letterario il difetto di tutti i
libri delgranfilosofo: èmalescritta»(2). E non è vero,com'è vero invece che è «
mal composta,oscura,involuta ). Oscuro e involuto rimase appunto gran parte del
pensiero delVico; e quindi l'oscurità e l'involuzione della forma. Ma il Vico
scriveva benissimo,esprimendo con efficacia potente d'immagini i (1) Vedi
lo scritto Il pessimismo filosofico in Germania e ilproblema m o. rale dei
nostri tempi, nella N. Antologia p.
56. (2) Dal rinascimento al risorgimento, Palermo, Sandron. suoi concetti;
ma,s'intende,quando avevadeiconcetti:laddoveè certo, come lo stesso Barzellotti
dice, che a lui mancò « la co scienza chiara, luminosa del proprio pensiero,
che è la parte prima ed essenziale dello scrittore ». In altri termini, egli
non pervenne alpossessocompletode'suoiconcetti,parecchideiquali,enon i secondarii,
rimasero in uno sfondo di penombra in quella gran mente che così largo
giro ne volle stringere nella sua speculazione, sbozzata con persistente
lavorìo intorno a una materia non veramente
omogenea,tradistoriaedifilosofia.IlVico scrive male dove e in quanto pensa
male; e questo è il Vico che non conta nella storia. Ma ilVico che conta,
il filosofo vero e proprio è uno scrittore sommo.E non potrebbe essere
altrimenti,perchè l'arteelafilosofia non sono due muse sorelle,ma l'unico
Apollo,lo spirito,che non sale alla filosofia se non attraverso l'arte, e non
supera mai se stesso, come avvertì per primo Aristotile, se non conservando se
stesso, crescendo sempre sopra disè.– Chiscrivemale,perciò,appunto perchè
scrive male non è filosofo. Ma lo scriver bene del filosofo non è lo scriver
bene del poeta;altrimenti verrebbe meno la differenza, tra l'uno e l'altro, che
nessuno vuol negare. E comeil poeta scrive sempre bene se vien poetando, così
il filosofo scrive bene anche lui se, anzi che pensare a scriver bene, pensa
piuttosto e riesce a filosofare, anche a costo di finire per ravvolgersi in un
gergo. Non c'è pure il gergo della poesia? O non era poeta chi diede
l'espressione classica della impopolarità essenziale delle forme alte dello
spirito nell'odi profanum vulgus? Pel Barzellotti,invece,il filosofo può
farsi leggere,se si contenta di metter da parte la filosofia. Nella menzionata
confessione, premessa ai Santi, solitari e filosofi (1), lo dice chiaro: « lo
vorrei, senz'aver l'aria di presumer troppo,poter dire press'a poco
quello che un amico mio diceva ai lettori d'un
giornale,annunziandovi la prima edizione del Lazzaretti: perdonate a
questo libro quel po' di filosofia che l'Autore ci ha voluto,a ogni
costo,mettere (giacchè patisce, poveretto!,diqueste malinconie);perdonateglielaingrazia
di quel tanto dipiùedimeglioche illibro visaprà farpensare
oviracconteràovidescriverà come opera d'arte».Vedremo fra pocoinche
consiste quel po' di filosofiadacuiilBarzellottinon s'èvoluto mai distaccare;ma
non bisogna dimenticare,che quel che di più e di meglio egli ha inteso di
mettere ne'proprii scritti (1) Santi, p. 52 n. Perchè dunque parliamo
qui del Barzellotti, e in questa parte dedicata ai platonici Ecco: queste
note, senza voler essere propriamente una storia,mirano piuttosto a rivedere
criticamente i giudizii correnti intorno agli ultimi scrittori italiani di
filosofia. Ora il Barzellotti, per giudizio comune, avrebbe partecipato al
movimento dei nostri studii filosofici, e avrebbe agito nella cultura
nazionale appunto come filosofo. Domandate ai suoi molti lettori se egli
sia uno scrittore di filosofia o un prosatore, un artista;
novantanove su cento vi risponderanno che è sì un artista,ma un
artista-filosofo, o meglio un filosofo-artista; uno dei pochi, o il solo
dei nostri filosofi, che abbia saputo liberare la scienza della forma
pedantesca della scuola e del barbarico gergo abituale, per esporla in
saggi eleganti, ossia in maniera accessibile a tutte le persone colte e di
gusto. Ripeterebbero, insomma, quel che il Barzellotti stesso ha sempre
pensato e detto di sé. Perchè, bisogna pur dirlo, niente riesce più a
render perplessi e a sviare igiudizii,di questa specie di sofisticazioni
della scienza,operate dai secolarizzatori o popolarizzatori della medesima. Il
po ' di filosofia viene apprezzato non in ragione del suo valore,che può
esser nullo,ma in ragione dell'arte, in cui si diceepuò parere che si siamesso;
l'operad'arte,egual mente, non è giudicata con tutta la severità che si
userebbe verso le opere di arte pura, che non avessero quella difficoltà
di una materia ribelle all'elaborazione artistica; e i critici letterarii,
inetti a giudicare quel po'di filosofia, indulgono a quell'arte gravida o
sazia di sapere. Perchè, s e h o detto che il Barzellotti è u n artista
più che un filosofo,non credo poi (se mi è lecito proprio questa volta una
digressione letteraria che possa dirsi un artista finito, e che il suo
capolavoro (Lazzaretti) siaun capolavororiuscito. È ilmeglio riu scito di
questi suoi tentativi artistici, pel senso vivo del paesaggio e dell'anima
popolare di quell'angolo della Toscana, in cui il Barè al di qua della
filosofia: è qualche cosa che può far pensare,una riflessione morale e
psicologica;è soprattutto opera d'arte.Dello scritto su David Lazzaretti, che
può forse considerarsi come il capolavoro del Barzellotti, il quale i nesso si
propos e ben sì di fare uno studio di psicologia religiosa,lo stesso autore
dice che « vorrebbe essere,se pure non pretende troppo,un'opera d'arte,ma
senzadar nel romanzo ».Vedi in questo fasc. l’art. del Croce, pp.
337-8. zel lot ti era vissuto fanciullo, e tornato spesso a rinnovare le
sensa zioni dei primi annim. Ma anche lì quel po'di filosofia come
stuona in quell'ambiente pastoraleenell'ingenua psicologiadel misticismo
lazzarettiano! E come appiccicato è lo studio sull'origineelosvol gimento e i
caratteri di quel moto religioso sulla cornice dell'im mediata azione, in cui
l'autore l'ha voluto inquadrare, per aver agioa descrivere meglio iluoghi,che
furono scena dei fatti del Lazzaretti,e individuare itipi de'suoi
seguaci!L'azione, troppo povera,è una gita di caccia,a cui l'autore per altro
non partecipa, restando sempre in disparte ad almanaccare sull'anima del
barocciaio di Arcidosso.Dopo la caccia c'è una colazione,sull'erba;e alacolazione
questa volta pare pigli parte anche Barzellotti. Ma quale parte? Egli titrova
nel cerchiounuomo del paese, Filippo, il,bigonciaio, un discepolo del
Lazzaretti; e subito ne profitta, dicen dogli che avrebbe avuto caro di sapere
« molti particolari intorno aDavid e alla vita che i suoi seguaci avevano fatto
con lui in quelluogo »,lisulla torre di Monte Labbro Il lettore,nemico
della filosofia, a cui il Barzellotti s'indirizza, s'aspetterebbe la conversa
zione dell'autore con Filippo,il quale dovrebbe farci entrare a poco a poco con
i suoi ricordi in tutto quel mondo morale che l'autore
civuolrappresentare.Difficileimpresa,certo;ma soloachi,come ilBarzellotti,non
avesse davvero il suo Filippo rivelatore vivo e parlante nella fantasia;
sibbene gli scritti del Lazzaretti,gli appunti delle relazioni fornitegli da
amici del luogo,le deposizioni dei lazza r e t t i s t i, e poi i volumi d
e l Renan, e l e opere dell’Hartmann e q u a l che fascicolo del Nineteenth
Century sul tavolino. Barzellotti,che pure ha scritto un bel saggio sulla
sincerità nell'arte,in quel punto della sua opera non si ricorda di quelle
sue giustissime idee: e dopo aver detto come inducesse Filippo a
parlare,continua: « Mi rispose con un leggero atto della testa che
acconsentiva,e ci mettemmo tutti amangiare ».Ma alla conversazione non ci fa
assistere.«E ora mi pare da vero tempo che anche i lettori conoscano per:filo e
per segno i fatti cui ho accennato tante volte, e li conoscano, quello che più
importa,in ordine alle loro cause e alle condizioni sociali e morali de'luoghi,
o, come oggisidice, dell'ambiente nelquale ebbero origine ».E segue infatti il
corpo,per dir così,dello studio sul Lazzaretti: centoquaranta pagine (1), in
cui Filippo e la colazione sondimenticati.Poi l'autoreripiglia:«Questecosemi
andavano per la mente cinque anni dopo la morte di David mentre
co'miei (1) Santi, pp. 121-262. amici stavo nel piazzale davanti
all'eremo di Monte Labbro.Passato quel silenzio profondo dei primi
bocconi. »;– e torna a saltar su finalmente Filippo,che però il B. non ci fa
mai udire.Sicchè nel l'immaginazione dell'artista durante quella
colazione,oltre che per tutte le considerazioni seguenti sul carattere della
fede di Filippo, ci sarebbe stato il tempo per andar pensando a tutte quelle
140 paginediroba! L'elemento descrittivo e drammatico resta affatto estraneo e
sovrapposto allo studio storico-psicologico. E questa so vrapposizione,questa
mancanza di fusione,che accuserebbe per sè, quando non vi fossero le
dichiarazioni esplicite dello scrittore,le sue preoccupazioni artistiche,
mentre egli realmente non si mette mai inunasituazionesinceramenteartistica, sono
il maggiordifetto che io vedo in questi suoi tentativi d'arte.- E un altro mi
sia lecito anche notarne,che è in fondo una conseguenza del primo,e mi fa
tornare al mio soggetto speciale: la lungaggine, la prolissità dello
scrittore:difetto da lui stesso additato come uno degli effetti più gravi della
rettorica, della vuotaggine di gran parte della lette ratura italiana. « Solo
chi ha poco o nulla da dire dice sempre di più di quello che dovrebbe dire
»(1).Appunto,la esiguità del con tenuto spirituale del Barzellotti gli ha fatto
scrivere molte e molte pagine a cui s'attagliano parecchie delle osservazioni
da lui fatte intorno a cotesto difetto della letteratura italiana, dominata
dallo ideale umanistico.Non c'è scritto di lui in cui sia detto breve e chiaro
quello che l'autore s'è proposto di dire;e spesso si stenta ad afferrare il suo
concetto, tra le molte parole non abbastanza precise e determinate,in cui egli
si sforza d'esprimerlo,cioè di concretarlo,quasi per una serie di
approssimazioni al pensiero, che non si riesce afermare inuna
formavivente.Tipica,per questo riguardo,mi sembra la prolusione letta a Napoli
nel 1887:La morale come scienza e come fatto e il suo progresso nella storia
(2). E valga per esempio questo squarcio,che ne tolgo a caso: Perchè è
bene che io lo dica fin da ora,o signori,anche a titolo di quella schietta
professione di fede scientifica che mi pare d'esser tenuto a farvi qui. Il
modo in cui io concepisco la legge intima dell'organismo e della vita delle
scienze morali o,meglio,delle scienze che io chiamo più propriamente umane,e
quindi dell'etica,che se ne può dire quasi il centro, non è quello stesso che
pare presupposto da quanti oggi ponendo, (1)Dal rinascimento al
risorgimento, p.206. (2)Rivista ital.difilos.del FERRI, con ragione,
l'esperienza a fondamento di tutto il sapere umano,non di stinguono con qual
divario profondo il processo di costruzione ideale del pensiero scientifico sui
dati sperimentali si faccia nelle dottrine naturali e in quelle morali e
storiche. Là l'ufficio, l'opera della scienza sta nel ritrarre, nel rilevare a
uno a uno, sino a i piùintimi, i tratti della fisonomia eternamente immota e
impassibile della natura, che anche nel l'inesausta ricchezza delle sue
produzioni, ripete eternamente se stessa; stanel far penetrare,se posso dir
cosi,la parola,più e più criticamente riveduta delle teorie e delle
ipotesi,quasi scandaglio che tenti un fondo impossibile però a toccare mai
tutto,sempre più verso l'ultima espres sione approssimativa di un vero che,
inesauribile in sé,sappiamo però essere e durare ab eterno eguale a sè stesso.
Ed ecco perchè, una volta messe queste scienze sulla via maestra del metodo
sperimentale, e fu, o «signori, merito imperituro della filosofia del sec.XVI,
latradizione del l'acquisto lento, faticoso, ma sicuro del vero,vi si stabili
con una fermezza che non ha pur troppo riscontro alcuno nella storia delle
scienze del l'uomo e della società. In questa l'opera ideale
costruttiva,la funzione che vi ha il pensiero scientifico di assimilare a sè il
vero dei fatti sperimentati e osservati e di trarlo quasi in sostanza sua, è,
mi pare, tutt'altro. È un farsi, uno svol gersi della vita e dell'organismo
riflesso della scienza insieme con quello spontaneo del vero umano e sociale
che si spiega,che fluisce inesauribilmente ricco, fecondo e vario ne'secoli.E
l'occhio delle scienze morali, intento a scrutarne le leggi,è simile a quello
di un osservatore che da punti di prospettiva via via sempre nuovi
studiasse, camminando, le forme,le proporzioni e la direzione di un'immensa
folla di oggetti che gli simostrano dinanzi. Sbaglierò; ma a me pare che,
tolti i fronzoli e i particolari inutili, il pensiero adombrato in tutta questa
pagina sarebbe stato espresso forse più chiaramente, se si fosse detto press'a
poco così: lescienzemoralisifondano,alparidellescienzenaturali,sul
l'esperienza;ma siccome la natura è sempre quella, el'uomohauna storia, le
verità scoperte dalle scienze naturali hanno una stabilità e fermezza
incompatibile con quelle via via determinate dalle scienze morali, alle quali
spetta di seguire il processo storico del loro o g getto. Egli è che al
Barzellotti, mente coltissima, è mancata proprio quella qualità ch'egli è
andato sempre cercando:l'intimità,il con tatto dell'anima con le cose. Quindi
l'artifizio e lo stento,la forma levigata, elegante,ma alquanto vuota e sonora.
Le sue professioni difedefilosofica,percuilodovremmo aggregareaineokantiani,
sono semplici adesioni formali, spesso ripetute con la premura di chi tiene ad
apparire spirito moderno, del proprio tempo (come (1) Nella N.
Antologia, Fil. Sc. Ital. egli ha detto di sè
tante volte); ma non corrispondono a una par tecipazione effettiva della sua
mente ai problemi critici e morali, ridestati dal ritorno a Kant.Lo scritto,che
secondo lo stesso Bar zellotti, dovrebbe essere più significativo per questa sua
adesione al criticismo (La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica
contemporanea in Germania ) (1); e al quale egli infatti s'è riferito ogni
volta che ha voluto documentare l'affermazione sul suo in dirizzo di pensiero,è
un'esposizione informativa,condotta innanzi senza un indizio di vero consenso,
che le considerazioni dei neo kantiani trovassero nell'anima dell'autore. E
quando verso la con chiusione questi dice che « la natura relativa d'ogni
nostra cogni zione sensata è inconciliabile colla pretesa che ha il dommatismo
di determinare positivamente l'essere delle cose in se stesse, di poter
penetrare sino alle sostanze e alle forze ch'egli suppone al di là de'fenomeni
» non puoi dire sicuramente se questo sia il pensiero di chi scrive,o il
pensiero di quegli scrittori di cui que sticihaparlato. Meno che meno potresti
cogliere ilpensierodel Barzellotti nel suo precedente scritto La critica della
conoscenza e la metafisica dopo Kant, lavoro prevalentemente storico, per cui
l'autore si attiene più alle storie del Fischer e dello Zeller, che alle
fonti originali. In una storia dell'idealismo postkantiano,di cui questo
scritto voleva essere un saggio (ma si arrestò allo Schelling), un neokantiano
vero non può non far apparire i suoi criterii filosofici;
e non c'è sforzo d'oggettività storica che possa fargli dire che
l'interpetrazione realistica (a cui tenne sempre più fermamente lo stesso Kant)
della critica risponde alla lettera del kantismo,e l'interpetrazione
idealistica del Maimon,del Beck,del Fichte, ri sponde piuttosto allo spirito.
Un neokantiano non avrebbe scritto che il concetto realistico del noumeno (come
qualche cosa che è in sè,indipendentemente dalle forme del conoscere,ed opera
sui sensi)è in Kant un residuo del dommatismo antico che la Critica non era mai
riuscita a spogliarsi interamente, e che stuonava coi risultati negativi e
idealistici della dottrina della conoscenza;e che era una contradizione (2): un
pensiero non pienamente consentaneo a se stesso in ogni sua parte. Al
Barzellotti il partito di superare idealisticamentelaCritica,come fece ilFichte,
dopo l'Enesidemo, pare «ogni giorno più,non che consigliato, imposto
inesorabilmente dalla necessità logica che trascinava le dottrine del Kant
alle loro ultime conseguenze». Ma tutto questo è detto,anziripetuto, non
con l'accento energico di una convinzione maturata per proprio conto;sibbene
con quella stessa indifferenza che è propria di chi osserva da spettatore
assolutamente disinteressato. Che cosa pre cisamente debba pensarsi di quel
benedetto noumeno,che è lo spettro pauroso dell'idealismo moderno,non sembra
che sia affare che tocchi l'animo del Barzellotti: il quale potrà dirsi a sua
voglia neokantiano(2);ma nonfarà mai ilneo-kantiano,perchè non sen tirà mai
veramente il problema filosofico. E non ha fatto quindi nè anche
ilplatonico,benchè all'indi rizzo dei platoneggianti italiani egli si
accostasse ne'suoi scritti gio vanili,il principale dei quali è la tesi Delle
dottrine filosofiche nei libri di Cicerone, in cui si vede ancora lo scolaro di
A. Conti edi T. Mamiani. Egli doveva pensare anche a sè quando,discor rendo
della Filosofia delle scuole italiane,— della quale fu sempre uno dei
compilatori ordinarii,e se ne poteva dire la sentinella avan zata verso le
letterature filosofiche straniere,di cui scriveva una cronaca;– disse: «I
collaboratori di quella Rivistahannopienali bertà di pensiero e di discussione;
anzi varii tra di essi professano dottrine molte diverse da quelle del Mamiani;
ma si raccolgono intorno a lui come al rappresentante più autorevole di
quel moto speculativo,che aiutò il nostro risorgimento e ci riscosse da una
inerzia intellettuale di più che due secoli » (3). Anche al Barzellotti,
insomma,piaceva di essere un filosofo delle scuole italiane,insieme col
Mamianielasuaonrevolgente. Anche aluipareva,p.e.,che il«merito innegabile della
scuola hegeliana(diNapoli)apparirebbe maggiore allo storico imparziale,se essa
avesse tenuto più conto delle disposizioni naturali e tradizionali dello
spirito italiano » (4). Egli dunque si mise nella schiera del Mamiani; e io non
potevo staccarnelo, non avendo potuto trovare ne'suoi scritti la dottrina
filosofica sua, che ne lo separasse. Vedi specialmente le proteste nella
pref, ai Santi,p.xxm n. (3) La filosofia in Italia, nella N. Antologia (4)
(1) Nella Rivista difilos,scientifica. Cosi nel libro sul Taine qui
appresso cit.,p. 168 dirà sempre: « La dot trina idealistica chefa del mondo
sensibile esterno un mero ordine di fenomeni e di segni datici dalle
sensazioni, debba dirsi, per ora almeno, l'ultima parola della scienza, venuta
a confermare la parte indubbiamente vera delle teorie del Berkeley e del Kant
».Vedi poi l'articolo su L'idealismo di A. Schopenh. e la sua dottrina della
percezione, nella Fil. dellesc.ital.; la cui conclusione favorevole ai filosofi
che « tempo e spazio accolgono in se elementi, a u n tempo, ideali ed empirici,
subbiettivi e obiettiv i, hanno il loro essere e la loro legge così nel
pensiero come nelle cose,così in noicome fuori di noi – non vedocomepossaacc
larsiconl'idealismo berkeleiano! Masipuòpar lare di contraddizione? (4)
Credaro nel Grundriss di UEBERWEG-HEINZE. Cfr. La morale come scienza e come
fatto, Riv. ital. di filos., e la pref. ai Santi,p.xxi n. Nella prolusione
con cui iniziò a Pavia il suo insegnamento ufficiale universitario, nel 1881,
Le condizioni presenti della filosofia e il problema della morale (t), puoi
ravvisare tutto lo scrittore. Ivi più schietta la professione di fede
neo-critica: l'idealismo da Fichte a Hegel accusato non solo di aver voluto
costruire luni verso da un sol punto, con un solo principio assoluto,ma di
avere altresì dimenticato « quello che le aveva lasciato detto il maestro, che
cioè,se i fatti senza le idee sono ciechi,queste alla lor volta, non cimentate
coll'esperienza, riescon vuote e ingannevoli » (tra vestimento del genuino
pensiero kantiano e disconoscimento del genuino pensiero hegeliano); la
riflessione filosofica definita per artifizio(2); approvato- comegià nella
Morale della filosofia positiva l'indirizzo psicologico-sperimentale dato
dagl'inglesi alla filosofia dello spirito; fatto buon viso alla loro teoria
della re latività del conoscere (dove l'autore vede un kantismo
ricondotto addietro fino a Berkeley (3); dato corpo in certo modo a quella
specie di eccletismo, che gli è stato talvolta attribuito (4), e a
cui egli stesso in alcuni scrittisi può dire che abbia accennato parlando
di una mediazione tra il criticismo e l'evoluzionismo (5); rifatta un'altra
volta la storia del ritorno a Kant, nonchè della scuola spe rimentale
inglese,per conchiudere che oggi il filosofo « non prova più in sè quello
che pure era,ed è tuttora,così proprio de'meta fisici, il sentimento superbo di
un preteso primato sui cultori dell altre scienze, la vana persuasione di
potersi segregare da loro nella solitudine di un infecondo sapere assoluto,
superiore alle indagini pazienti de fatti e all'esperienza, e ambizioso di
tutto darle, senza nulla riceverne ». Qui si abbandona,come ognun vede,
esplicitamente l'eterno proposito della filosofia. Niente di superiore ai fatti
e all'esperienza. Il filosofo non deve aspirare se non,come tutti gli altri
scienziati,a fornire col proprio lavoro alcuni pochi tra gl'infiniti dati, tra
le infinite verità d'esperienza e di ragionamento a c cessibili alla mente
umana nel suo sublime tentativo d'interpretare l ' unità delle cose e
delle loro leggi. Nien t'altro che dati ! Non c e r t o
«un'assolutadisperazionedelvero»,ma «una fede assai condizionata nel valore di
quelle forme del vero che la mente umana accoglie in sè successivamente »;
un « abito di mente critica inquisitiva per eccellenza, che non riposa mai o
quasi mai in una conchiusione, che rifà di continuo i proprii
convincimenti ». Abito di mente, insomma,da spettatore,non da artefice
della verità. E chi lo afferma si vede bene che,accortosi della vanità di
questo affaticarsi perenne nel tentativo sublime,quanto a sè,intende
mettersi da un canto,e stare a vedere.Qui, nella ricerca della verità, non
c'è l'anima del Barzellotti.Di questa ricerca egli non vede se non una
vita vana,dicui nessuno spirito può vivere.Onde vidirà: l'uomo è nato non tanto
a pensare quanto ad operare.E per operare ci vogliono quei saldi
convincimenti,che la scienza non può dare. Perciò è che la filosofia non può
prendere il luogo delle credenze religiose. Il Barzellotti non dice
propriamente perchè, e gira attorno a questo problema,che è dei più delicati
circa il valore della filosofia. Ma fa alcune osservazioni,che ritraggono lo
spirito dello scrittore. Non tutti possono vivere su principii, che siano
il risultato del ragionamento; infiniti sempre attingeranno la norma delle
azioni « dal cuore,dall'immaginativa, dalla fede, dalla per suasione affettuosa
immediata, da un che in somma non ragionato, m a sentito e intuito ».
Contro chi cred e, come il Renan, che p o s s a la scienza un giorno
trasformare e governare tutta la vita,bisogna notare che « delle due forme di
conoscenza ond'è capace la nostra mente, la concreta e diretta,o vuoi
intuitiva, ha sull'astratta e sulla riflessa infiniti vantaggi nella pratica
della vita. Se non che,tale appunto quale è, ottimo istrumento e guida
all'azione, la conoscenza intuitiva ha in sè questo di più specialmente proprio
e suo e d'opposto all'indole del sapere scientifico; appunto perchè
concreta, particolare e attinta dalla viva esperienza e quasi dal contatto
delle cose e degli uomini, essa è tutta individuale, e per ciò
incomunicabile:più che vera e propria cognizione, potrebbe dirsi un certo tatto
finissimo. La scienza stessa., in ciò ch'essa ha in sè di più intimo e
d'organico, presa come un tutto che si muove e vive d'una vita inseparabile da
quella d'ogni mente che l'ha in sè e l'ha fatta sua propria, riesce non meno
individuale e incomunicabile di quello che sia l'intuito, l'arte, l'esperienza
immediata,la convinzione istintiva ». Quindi l'inefficacia della scienza;
quindi il segreto della forza delle religioni,che s'impossessano di tutto
l'uomo. Perchè la religione abbia quest'afflato, che manca alla scienza, il
Barzellotti non dice.E la verità dell'osservazione consiste,a parer mio,nell'esperienza
personale dell'autore, di cui essa deve ritenersi un indizio. È la scienza
sua,da cui egli si sente ingombra la mente,non riformata l'anima,che non può
cacciar di nido la religione. Se la metafisica, l'alta veduta speculativa
investe tutto l'uomo nei grandi pensatori, egli è che il pensatore in fondo è
un artista.Onde ilBarzellotti plau dirà al pensiero del Taine (in Idéal dans
l'art): « che tra i diversi modi,in cui l'uomo coglie la verità delle cose,il
più potente e il più vero è l'Arte.Essa infatti penetra,per dir così,giù sino
al cuore del grande organismo della natura,e non si limita a darcene,come
falascienza,soloilprofiloesterno,leleggigenerali quantitative,ma ce n'esprime
l'intimo senso,ce ne fa sentire nel loro lavorìo se greto le forze vitali, le
potenze originarie e germinali » E al Taine tributa la gran lode di aver avuto
« anima e mente da ca pire come la scienza,che ci dà solo gli elementi generali
e comuni dei fatti e delle cose,non riesca nello studio dello spirito umano a
rendercene tutto il vero, se non è compenetrata con l'Arte, che intuisce il
particolare, l'individuale, ciò che sfugge all'analisi e al l'astrazione » (2),
E l'autore continua: « Qui sta con buona pace
dellapedanteriatogataditanticheoggisichiamanodotti– la superiorità
dell'Arte,se siagrande e vera, sulla scienza pura, quanto al comprendere l
a vita, il carattere e i sentiment i u m a n i. Si può esser certi infatti che
nessuno specialista, nessuno scienziato nello stretto senso della
parola,arriverà mai a scuotere una di quelle grandi verità della coscienza e
dell'ordine morale,che finora sono state trovate tutte dai fondatori di religioni,
dai metafisici sommi – artisti del pensieroessipure—
daipoeti,dagliscrittori,da co loro che il volgo degl'indotti e dei dotti chiama
uomini non p o sitivi » Ippolito Taine, Roma, Loescher E così ci accostiamo al
po'di filosofia del Barzellotti: a quel po'almeno, che è la nota metafisica
vera e sincera, che risuona nel l'anima sua. E questa nota suona spesso
negli scritti del Barzellotti, benchè non sia che una nota. La religione,dice
in uno scritto su L'idea religiosa negli uomini di stato del risorgimento, è
«qualcosa di analogo all'artee d'irriducibile,per una legge del nostro
spirito,ad altre forme della sua vita interiore »: « la cer tezza delle verità
religiose venirci dal sentimento e dall'intuito, e appartenere a un ordine
affatto diverso da quello della certezza che cipossonodare le dimostrazioni
della ragione» (1).– Enellostudio La giovinezza e la prima educazione di A.
Schopenhauer e di G. Leopardi: « L'uomo, egli (lo Sch.) soleva dire con parole
che esprimono forse l'aspetto più nuovo e più vero della sua filo sofia, ha le
sue radici nel cuore, non nella testa » Quindi quel sentimento,che in uno
scritto,anche precedente,sullo stesso Schopenhauer, è detto « ormai cessato da
un pezzo in Germania; ma dura tuttavia, e cresce nei lettori colti d'ogni
paese.: quello del bisogno che tutti abbiamo,ma che in specie gli studiosi
hanno di stringersi in più intima armonia colla natura e colla realtà »
(3). Questo estetismo o misticismo estetizzante venne al B. dai ro mantici
tedeschi,dallo Schopenhauer,oggetto di suoi studi insistenti? Certo non ha che
vedere col suo preteso criticismo, che è uno scetticismo ingenuo, appena
larvato. Ma visiriconnettenelsensoche, dimostrandoci il temperamento spirituale
dell'uomo, ci fa inten dere la sua naturale avversione alla vera e propria
filosofia.Questo estetismo a me pare appunto la tendenza naturale del suo
spirito; e non prende infatti la forma dimostrativa e sistematica,che in altri
scrittori si atteggia almeno a una critica gnoseologica del natura lismo, dal
Barzellotti non mai fatta; ma resta sempre una ten denza, che determina
l'indirizzo degli studii del Barzellotti, quando egli trova la sua strada.Più
che un concetto pensato e ragionato dalla sua mente,è un carattere reale della
sua mentalità:per cui egli si può dire che abbia trovato la sua strada quando
ha comin ciatoa scrivere I suo studiieritrattiesaggi psicologici, intorno a
scrittori,indirizzi di cultura,epoche o popoli:dove non ha certo teorizzato
sulla tendenza, che ho detto, ma ha obbedito ad essa, cercando il concreto,
l'individuum ineffabile, con l'intuizione del (1) Dal rinasc. al risorg. Santi.
- l'artista, vedendo, come
egli disse, « nello studio dell'uomo oltrechè un'arte d'intuito e di divinazione felice,la lenta opera d'una scienza
che ormai ha saputo prendere la sua via in disparte dai sistemi »:
rimettendo,insomma,in armonia sè con se stesso, riducendo tutta la filosofia all'arte,
cui natura più lo traeva. Se nonsivogliadire arte,dicasi storia; ma illavoro
mentale del Barzellotti non mira al di là della rappresentazione individuale
del concreto.E questa è la sua filosofia; la quale ha inteso a «unireilpiùpossibile-
egli dice l'arte alla scienza » e « provarsi a ritrovare sui modelli
vivi, che danno la storia, le biografie intime e l'osservazione delle cose
sociali,quanti più poteva dei tratti veri,parlanti di quell'anima umana, che la
scienza delle scuole e delle accademie ci ha per troppo tempo fatta conoscere
solo in copie vaghe,generiche,lavorate di fantasia e di maniera »(1). Da
S. Agostino al Lazzaretti, dalla psicologia delle tentazioni a quella del
pessimismo filosofico, dal Taine al Nietzsche, dallo spi rito paganeggiante del
rinascimento alla tempra morale della deca denza, alla religiosità dei nostri
uomini del risorgimento, al river bero della nostra anima nazionale nella
letteratura, il Barzellotti dall'8o in circa ad oggi si può dire che abbia
raccolto tutte le forze della sua mente intorno a particolari problemi storici
di psicologia, cercando così attraverso i procedimenti intuitivi dell'arte
quella ve rità alla cui visione non s'era potuto elevare col metodo razionale
del pensiero speculativo:spargendo, in verità,gran copia di osser vazioni fini
ed acute principalmente sulla storia dellaforma mentis, com'egli ama dire, del
popolo italiano.Se incotestaarte, peraltro, egli sia riuscito di solito a
toccare il segno,non è il luogo questo di ricercare: se dovessi esprimere il
mio giudizio, direi che per sif fatte indagini di storia psicologica al
Barzellotti manca,per otte nere la rappresentazione piena e viva dell'anima
umana,ciò che forma davvero lo storico e l'artista: lo sguardo diretto
all'intimo della individualità; la quale non si potrà mai ricostruire,se non
s'affisa prima di tutto il centro vitale del suo organismo; laddove il
Barzellotti gira troppo con considerazioni e divagazioni generali intorno ai
personaggi e agli stati morali presi a studiare.E gli manca altresì, per lo
più, quella piena e diretta conoscenza dei particolari, in mezzo ai quali
soltanto è dato d'imbattersi negl'individui vivi, in quelle anime vere, che il
Barzellotti è andato cercando. Santi. Di questa sua veduta estetizzante
dello spirito umano bisogna ricordarsi per intendere nel loro genuino
significato i motivi della comunicazione fatta dal Barzellotti intorno al
metodo storico nella trattazione della storia della filosofia al congresso
romano di scienze storiche: contro la quale insorse il vecchio Lasson
in nome della universalità della ragione e della scienza. Pel Barzel lotti
la filosofia dev'essere rappresentata dallo storico come la filo sofia di una
nazione o di un'altra,quale in una certa epoca essa si costituisce in stretta
attinenza con tutte le condizioni della cultura circostante, e sulla base degli
abiti e delle forme di mente individuali del filosofoo prevalenti nel tempo
dilui.E certo una storia per ogni parte compiuta della filosofia non può non
tener conto ditutta cotesta condizionalità dei sistemi filosofici; ma ad un
patto: che si rammenti non essere la condizionalità, nè qui nè altrove, la
realtà condizionata;e quando tutta la cultura contemporanea che agi sullo
spirito di Kant sia nota,e tutta spiegata la psicologia per sonale di questo
pensatore e del suo secolo,restare tuttavia da in tendere tutta la sua
filosofia, in quel che ha di veramente filosofico, ossia di valore universale
ed eterno. Qui la verità affermata dal Lasson,edal Barzellotti disconosciuta,
per quel suo occhio, fatto per vedere il particolare,cieco all'universale. E
poichè l'universale è l'intimità vera delle menti speculative,anche qui ei
conferma ilsuo difetto di attitudine vera a penetrare nell'intimo degli
spiriti. Egli vede i pensatori, e non vede il pensiero; e però non vede n è
anche veramente i pensatori. Ne son prova isuoi molteplici saggi
sullo Schopenhauer e sul Kant. Ma Barzellotti è stato forse letto
invano per la cultura intellettuale e morale italiana? Io non credo. Non è stato
un filosofo, e neanche un artista riuscito. Ma è pure stato un nobile
scrittore, che ha agitato molte menti e molti cuori intorno a questioni morali
e religiose troppo trascuratetra noi; è stato un lucido specchio di molta parte
della cultura filosofica straniera contemporanea; ed è stato un forbito
scrittore, imitabile esempio ai pedanteschi filosofanti italiani degli ultimi
tempi. -- Di alcuni criteri direttivi dell'odierno concetto della storia,
che restano tuttora da applicare pienamente e rigorosamente alla storia della
filosofia, massime di quel periodo che va dal Rinascimento a Kant, negl’Atti
del Congr. intern. disc. stor. (Roma). -- Fra i più malagevoli
ufficj della critica istorica è per certo il determinare come e quanto
contribuisca l'ingegno di ciascun popolo alla sua grandezza intellettuale e
civile, di quanto egli sia debitore alle tradizioni dei suoi maggiori, o alla
civiltà delle nazioni contemporanee; que stione ardua, e più che alla storia
appartenente alla filosofia, perchè risguarda una legge intima ed arcana della
natura, onde nell'armonia delle facoltà umane s'avvicenda l'operare e il patire,
il conservare e il produrre, la reverenza alle tradizioni e la libertà
dell'ingegno inventivo. Alla difficoltà d’un tale esame, la quale cresce a
misura che ci avanziamo verso i tempi più antichi,in cui fanno difetto i
documenti e le notizie necessarie ad illustrarne la storia, sono dovuti i
giudizj severi di molti critici in torno alle lettere e alla filosofia de’ romani
-- giudizj che introdotti da un pezzo nelle scuole, e avvalorati dal quasi
comune consentimento, negano del tutto o quasi del tutto indole nuova ed
originale alle manifestazioni dell'ingegno latino. Gl’argomenti che si allegano
per sostenere tali sentenze io mi dispenserò dal recarli, e perchè assai noti
nella storia delle lettere e della filosofia, e perchè tutti [Questa ultima
affermazione tanto più è conforme alla storia, in quanto, sebbene la maggior
parte dei critici odierni ricusi da un pezzo nome autorità di filosofo al
senatore romano, è per altro consentito da tutti che i suoi scritti filosofici
si conservarono chiari per benefica efficacia lungo tutta la decadenza delle
lettere e delle scienze latine, e per avere mantenuto e trasmesso nei principii
dell'Era cristiana, e giù pel Medio Evo le dottrine della filosofia greca alle
scuole de'Padri e de'Dottori] concordi nel sostenere che ai Romani, poco atti
sin da principio per naturale tempra d'ingegno, e di stolti per lunga età dalle
intestine discordie, dalla brama del dominare e dall'esercizio delle armi, e
finalmente abbagliati dallo splendore della civiltà greca, manca una libera
disposizione a ritrarre e a creare il vero ed il bello negl’esercizj della
scienza e dell'arte. Degerando, Brucker, Tennemann, Ritter, Kuehner ed altri. Ai
quali argomenti quando per sè non rispondesse abbastanza la ragione istorica, la
quale vieta potersi sempre dedurre da ciò, che un popolo fa in certe condizioni
di tempi e di civiltà, quello che in altre condizioni avrebbe potuto e saputo
fare. Se non mostrasse il contrario la scuola dei giureconsulti, che dalla
coscienza del genere umano e dalle forme logiche greche compose con tradizione
costante quella scienza del gius costitutrice delle nazioni europee, se l’ “Eneide”
emula all'Iliade, Lucrezio maggiore d'Esiodo, la Commedia di Plauto, le storie
di Livio, di Sallustio, di Tacito, la satira togata di Giovenale e di Persio,
l'elegie di Catullo non indicassero assai che il genio latino, libero nella
imitazione, sa aggiungere all'ideale del vero e del bello un che d'universale e
di solenne, un certo senso pratico e positivo, e un'intima rivelazione degl’umani
affetti, ignota fin allora ai gentili e resa più perfetta dal cristianesimo, io
mi restringerei alle sole opere filosofiche di CICERONE, che sono, parmi, una
fra le prove maggiori del come la scienza dei nostri padri, modestamente
operosa, recasse la sua parte alla civiltà universale. e all'età
del Rinnovamento. Ritter, Hist. de la Phil. ancienne, Paris, Ladrange. Kuehner,
M. T. Cic. In phil. E jusq. Partes merita. Hamburgi. La storia della filosofia
ci mostra di fatto che CICERONE fu a’ padri latini molto in pregio, e
segnatamente a Lattanzio che lo chiama eccellente, e lo cita nel de Opificio
hominis, e nelle Institutiones divinæ più volte; poi a Agostino che ri conosce
dall' “Ortensio” la preparazione al cristianesimo, e in più luoghi della Città
di Dio,e altrove lo cita o ne tira le dottrine; altresì a san Girolamo che
tanto l'amò da riferire in una sua epistola il sì famoso castigo avu tone
divinamente, poichè, meglio di cristiano, meritava chiamarsi “ciceroniano.” Fra
iDottori più principali è noto come Boezio togliesse da Tullio il pensiero
sulle consolazioni perenni della filosofia, e apparisce lo studio che di questo
egli fa sì da'pensieri e sì dallo stile; come Aquino ne arrechi l'autorità in
più luoghi della sua Somma, come Alighieri lo meditasse. Più tardi Erasmo
esalta CICERONE con lodi famose. Dopo, l’autore della “Scienza nuova” attinge
in parte dal libro “De Legibus” la filosofia d’un gius ideale eterno celebrato
nella città dell'universo col disegno della provvidenza. Ad una fama sì lunga e
sì costante, e che per certo dove avere una causa non soltanto, come si afferma
generalmente, in quella forma popolare e spontanea, onde le dottrine del
filosofo latino si porge all'educazione morale e civile, ma nell'intrinseco
loro valore speculativo, non disconosciuto nè anche oggi da uomini egregj
(Forsyth, Life of Cicero, London), contrastano singolarmente i giudizj di
alcuni critici. La opinion e espressa da tali giudizj, a volerla riassumere in
breve, è la seguente. M. T. Cicerone, ingegno universale, acutissimo e disposto
ai combattimenti dell'eloquenza, più che alle severe indagini speculative, pensa
e compì negli anni del suo ritiro dalla pubblica vita un compendio
largo, chiaro, eloquente della filosofia in servigio dei suoi connazionali
di giuni sino a quel tempo di tali studj, o costretti ad attingerli da fonti esoteriche.
Da questa pretesa insufficienza dell'ingegno speculativo di Tullio, dal fine
pratico e letterario ch'e'sipropose, e dal difetto di studj preparatorj la
Critica deduce la natura delle sue dottrine; le quali, benchè guidate sempre da
criterio sano, e da una retta applicazione del senso comune, non vanno troppo
addentro nei fondamenti della scienza, affermano per lo più senza esame maturo,
nè costituiscono, come le dottrine dei migliori filosofi, un largo e ben
architettato disegno di scienza. Brucker, Hist. Crit. Phil., Tennemann, G.
Bernhardy, Grundriss der Römischen Litteratur. Braunsweig. Facendoci a cercare
l'origine di tali giudizj abbastanza severi, parmi se ne potrebbe addurre
innanzi tutto una causa assai remota, ma in parte relativa al modo ben
differente, con cui gl’antichi e i moderni giudicano il valore di certi uomini
e di certi principj. Tale è la ri forma cominciata in Italia col Bruno, col
Cartesio in Francia, e in Inghilterra con Bacone, che spezzando ogni autorità
del passato, e quanto sino allora un'eccessiva venerazione avea recato a
fastidio, proclamò l'assoluta libertà della riflessione filosofica, l'assoluta
novità dei sistemi. Come s'intendessero quella libertà, e quella novità; e
quali resultati ne seguitassero alle lettere, alle scienze, alle arti, al
vivere privato e civile, come se ne avvantaggiasse o ne patisse la morale e la religione,
la scuola, la famiglia e lo stato romano, non è qui luogo a mostrarlo, e le son
cose oggimai troppo note. Nè io voglio negare i benefizj innegabili della
riforma,e soprattutto di quella introdotta nelle scienze sperimentali da
Galilei, e da Bacone; chè, se la riflessione libera ed esercitata desunse
mirabili frutti di dottrina da ogni campo dell'umano sapere, e se ne
avvantaggiò la scienza dell'uomo, ne crebbero l'erudizione, la filosofia, le
discipline morali e civili; perfeziona i suoi metodi la medicina, si levò
gigante la chimica, la geologia sfogliando il libro della natura vilesse le
età del mondo. Se tanti incrementi ne provennero alle industrie e alle
manifatture, onde il viaggiatore trascorre paesi e province con velocità più
che umana, e in mend’un baleno il salutori congiunge gl’amici, benchè separati
dalla immensità del l'oceano, di tutto ciò alla riforma della filosofia è debi
trice l'Europa. Ma le è pur debitrice di quella inquieta brama del sapere
speculativo, onde si successero sistemi a sistemi del tutto nuovi sui più
impenetrabili misteri della conoscenza umana, e quel nuovo si cerca da molti
nell'inusitato e nello strano più che nel vero; così co minciata in Italia la
licenza della riflessione esaminatrice sui fondamenti della filosofia, ecco il
panteismo superbo del Bruno e del Campanella. Poi, scontenti del panteismo, ci
diedero dottrine dualistiche il Malebranche e il Guelinx, l'idealismo e il
sensismo ci vennero dal Berckeley e dal Locke, lo scetticismo dal Bayle e dall’
Hume; più tardi le sconfinate immaginazioni degl’alemanni,e un ridurre Dio e
l'universo all'uomo, dall'uomo al pensiero, dal pensiero all'idea, dall'idea
novamente alla materia, ed ultima conseguenza di tutto uno scetticismo più
sconsolato, un correre con tinuo a una felicità e a una beatitudine ignota
senza raggiungerla mai;ecco i resultati dell'aver voluto tutto inno vare! Posta
in tal guisa la filosofia su questo cammino delle restaurazioni assolute, e
detto una volta che la scienza dee rifar la natura (non,come è chiaro,dovere
anzila scienza presuppor la natura tal quale essa è, con tutti i suoi dati, con
tutte le sue relazioni, dover verificarla, non annientarla), l'indirizzo
introdotto nell'esercizio del pensiero filosofico da quella folla di sistemi
eccessiva mente inquisitivi, doveva esser tale,che quando poi, soffermata un
istante la foga delle invenzioni, il pensiero istesso si sarebbe rivolto sopra
i suoi passi, e ne sarebbe nata compiuta e perfetta la storia della filosofia,
quella storia ritenesse come presupposto del suo metodo, che unico,o quasi
unico criterio per giudicare della eccellenza di un filosofo e della sua
filosofia, fosse l'assoluta indipendenza del pensiero esaminatore dallo stato
della naturale certezza, fosse in una parola la compiuta novità del sistema. A
questo criterio, desunto dallo scetticismo e padre di parziali opinioni, furono
conformati più o meno quei metodi falsi e incompiuti che si seguirono da oltre
mezzo secolo in qua nello scrivere storie della filosofia, onde ne derivò in
Francia e nella Germania una folla di libri, come ad esempio la storia
comparata dei sistemi di Degerando,e la storia di Tennemann,dove si giudi cano
le varie filosofie alla stregua del problema sull'origine dell'umane
conoscenze, e dall'avvicinarsi che esse faccian più o meno alle dottrine del
criticismo di Kant; e un tal criterio ci spiega come più tardi negli storici
più temperati e meno imparziali, segnatamente alemanni, e nei filosofi delle
altre nazioni, immuni dal criticismo, continuasse ereditato dalla riforma
questo soverchio studio dei sistemi inventati, esclusivi, che ricusano dalla
natura qualunque presupposto sull'efficacia delle potenze conosci tive, e se ne
avvalorasse l'opinione levata a cielo ne’diarj e ne’libri di filosofia, sulla
così detta individualità d'ogni sistema,e incomunicabilità delle dottrine
speculative. C o n siderate le quali cose,non dovrebbe far maraviglia se quel
tempo che corse tra lo scorcio del secolo decimosesto e i principj del
decimosettimo,quando Italia e Francia, stanche dell'autorità abusata dagli
scolastici, volevano innovare tutta quanta la scienza (e fu allora appunto,come
nota Brucker, che si tentarono i primi lavori speciali sulle dottrine dei romani
e di CICERONE),se quel tempo, dico, non era troppo opportuno a giudicare
imparzialmente una filosofia studiosa delle più antiche e venerate tradizioni. E
nel vero anche più tardi in tutto il secolo XVII, se n'eccettui coloro che
rifiutarono i dubbj del Cartesio, ma tennero il suo metodo d'esaminare la
coscienza, quali Bossuet, Fénelon e i più segnalati di Porto Reale, agli altri
che s'appresero ai dubbj, e venner giù giù negando i pregj dell'antichità, nemici
d'ogni tradizione, non poteva andare a genio davvero quella riflessione modesta
e tranquillamente efficace che il grande oratore avea recato sulle verità
eterne della coscienza, desumendone le armonie universali delle dottrine
temperate dal senno e dalla moderazione latina. (Vedi l'opinione che ebbero di Tullio
Pomponaccio e Campanella, citati dal Brucker. Ma d'altra parte, se per
ispiegare questa opinione si nistra invalsa in Europa contro la letteratura e
la filosofia d'un popolo, che fu per eccellenza il popolo delle tradizioni, giova
riportarci alle sorgenti diquella critica, ec cessivamente nemica al passato,
questi giudizj poco reve renti che oggi si ripetono dai più, apparvero solo
nella storia della filosofia nata ne'principj del secolo passato in Germania ed
in Francia.Tra I francesi, per tacere dei più antichi, Degerando vi spende un
capitolo nella sua Storia comparata dei Sistemi, dove enumerati prima gli
ostacoli che impedirono ai Romani un proprio esercizio dell'indagine
speculativa,nota opportunamente non essere stata abbastanza osservata dał
comune degli storici la grande efficacia che ebbe l'ingegno latino sulla filosofia
trapiantata, ond'essa assunse colore ed indole più positiva, e dalle soverchie
astrazioni si ricondusse al reale. Passa poi ad esaminare gli scritti di
Cicerone nel quale rinviene le note distintive d'ogni altro filosofo ro
mano,cioè una scienza desunta dalle greche tradizioni e composta con metodo
ecclettico dalle scuole differenti, una scienza accessibile ad ogni
intelligenza educata, e confa cente a spirar vita nell'eloquenza, ne'costumi,
nell'arte politica; scienza supremamente pratica e applicabile agli individui e
agli stati. Histoire comparée des systèmes de philosophie considérés
relativement aux principes des connaissances humaines, par Degerando. Giudizj
assai meno temperati comparvero in Alemagna, dove fiorendo mirabilmente le
discipline filosofiche e istoriche, e pubblicandosi tuttodì lavori speciali che
illustrano con somma accuratezza ogni parte delle lettere antiche, prevalse
però più che altrove la severità della Critica, che negava ogni nota originale
alle lettere e alle scienze C Tra i critici alemanni va
innanzi agli altri in ordine di tempo e di autorità Giacomo Brucker vero
fondatore della storia della filosofia. Ma considerando però il capitolo dove
egli parla della filosofia de'romani e di CICERONE, ti accorgi tosto che
quell'uomo dottissimo moveva egli pure dal presupposto non esservi stata in
Roma che una semplice continuazione delle scuole greche; e secondo le varie
specie di queste scuole divide lo storico il suo trattato intorno alle dottrine
romane annoverando CICERONE tra iseguaci della Nuova Accademia; quantunque
confessi poco appresso ch'ei non seguì alcuna forma particolare di setta, ma
inclina a quel Sincretismo istituitoda Antioco. Veramente Brucker nel proporsi
il quesito,perchè mai i romani e CICERONE non crearono una filosofia propria, non
ne accusa, come oggi Forsyth, la infelice disposizione dell'ingegno latino -- the
unmetaphysical character of the Roman intellect. Life of Cicero. Ma quanto ai
Romani in generale ei ne trova la causa nelle occupazioni della vita civile, e
nella setta Accademica, che criticando e sindacando tutti isistemi, svogliava
gl'intelletti da nuove speculazioni; e quanto a CICERONE, nella natura del suo
ingegno, più immaginoso assai che penetrativo, ond'egli (dice lo storico)
prefere il probabile all'esame profondo del certo, e delle dottrine rappresenta
nelle sue opere la parte viva e oratoria più che il severo ordine dei giudicj e
delle deduzioni,e la generale armonia del sistema. Brucker, Hist. Crit. Phil. Al
giudizio dato da Brucker si avvicina in gran parte quello di Tennemann,e nelle
loro opinioni v'ha molto di vero e di certo, oltre la solita accuratezza nella
esposi 8 latine, appoggiandosi ben di frequente a così deboli prove da
far credere quasi che la movesse un'infelice gelosia di nazione. Ora da qualche
anno in Inghilterra e nella stessa Germania si torna con più studio al passato,
e molte parzialità si correggono; ed io sono certo che ri composta in pace
l'Europa, ilprimo debito di giustizia alle memorie latine lo pagheranno gli
scrittori di quelle grandi e generose nazioni. zione dei fatti;ma per quanta
possa essere la reverenza dovuta ai due storici insigni della filosofia, come
non accorgersi che il loro esame,informato da un criterio an ticipato e
parziale, riesce insufficiente a cogliere il vero significato d'una dottrina,
come quella di CICERONE, la cui nota essenziale consiste nel rifiuto d'ogni
opinione di setta, e in un principio universale, che supera ogni si stema? Ma
se tanto può dirsi a buon dritto del Brucker e del Tennemann, merita più
speciale considerazione l'esame assai temperato,e per certo ingegnoso,che fece
degli scritti filosofici di Tullio, Ritter nella sua storia della Filosofia
antica. Le indagini dotte e meditate di Ritter movendo dai tempi antistorici
della Filosofia,e procedendo lungo i tempi della civiltà indiana, ionica e
delle colonie italo greche fino all'origine delle scuole socratiche, da queste
al loro declinare e disperdersi in una confusione di sistemi sparpagliati e
sofistici, giungono a quello ch'ei chiama terzo periodo dell'antica filosofia,
all'età che intercede tra ilcadere delle repubbliche greche sotto la romana, la
rovina di quest'ultima, e il sorgere del Cristianesimo. Due cause potenti egli
allega del nuovo indirizzo preso in quella età dalla filosofia greco-romana,e
le ritrova nella storia delle due nazioni, che allora si ricambiavano una
vicendevole efficacia nelle lettere, e nelle scienze, e nel vivere privato e
civile. Nei Greci, perchè la costoro scienza impoverita oramai dall'uso
eccessivo della facoltà creatrice nei tempi anteriori, dallo scadimento della
li bertà e dei costumi, e costretta, per accomodarsi all'in gegno e
all'educazione dei nuovi dominatori,a vestire le forme ed il metodo d'una
disciplina scolastica, non d e sunse più le sue dottrine immediatamente dalla
riflessione, ma ritornò agli antichi sistemi,li paragonò,li esaminò, li
accordò, desumendo da essi stessi e incompiutamente, non dalla natura intima
del pensiero, il principio del l'esame e dell'accordo. Nei Romani, perchè essi
non of frirono ai Greci alcuna guarentigia di riforme scientifiche, ma
vissuti sino a quel tempo in mezzo ai tumulti della vita civile,e fra lo
strepito delle armi,tranne una certa tendenza, che li moveva agli ordinamenti
giuridici, nè la natura, nè la educazione loro si porgeva punto alle indagini
della scienza. Quindi (osserva il dotto alemanno) era ben naturale che, date
quelle condizioni morali,civili e scientifiche, dall'accoppiamento dell'ingegno
greco e latino derivasse un Ecclettismo erudito; derivò infatti; e di questa
filosofia, l'indole della quale è sostituire la li bertà della scelta alla
libertà dell'ingegno inventivo, accomodarsi alla natura degli
scrittori,abbandonato l'or dinamento scienziale non fidarsi all'esame, e se occorre,
attenersi principalmente all'autorità del consentimento comune,eitrovò la più
importante manifestazione,oltrechè nel pendio generale dei tempi,nella
vita,nell'animo e nelle opere di Cicerone. Ei ne considerò con raro accor
gimento la vita,e vedendo come la parte ch'ei tiene nella storia della
Filosofia, è perfettamente d'accordo con quella che occupò nella storia civile
dei tempi; come furono le medesime qualità e gli stessi difetti che, se lo
levarono alto nella vita pubblica e nella filosofia, non gli consen tirono per
altro di giungere al sommo e nell'una e nel l'altra, ricercò queste qualità e
questi difetti nell'indole di lui, e non gli parve rinvenirvi accoppiata alla
vivezza dell'ingegno oratorio, al sentimento squisito del diritto, all'amore per
gli altri,e particolarmente pe'suoi,all'ope rosità indefessa,a una rara
previdenza dell'avvenire,quella sicurtà in sè stesso e quella fermezza di
volere che costi tuisce il grande scrittore e l'uomo di stato. Condotto, egli
dice, dall'efficacia di condizioni esteriori a filosofare, come nella sua
gioventù, mentre applicava la filosofia all'esercizio dell'eloquenza,egli avea
frequentato le prin cipali scuole di Grecia, così nel suo ritiro dalla pubblica
vita non seguì una dottrina particolare, ma trascelse il meglio di tutte; la
quale incertezza di studj, che non a p profondivano la scienza, ma la
assaggiavano appena, ri sentiva della incertezza della sua condizione politica,
perchè ei scrisse le sue opere principali durante gli scon volgimenti del
primo triumvirato,la dittatura di Cesare e il consolato di Antonio,tempi
calamitosi per la libertà, nei quali escluso da ogni ingerimento civile, e
fuggendo il cospetto degli scellerati, andava consolando la sua soli tudine
colle meditazioni della scienza. Era quindi ben naturale che il grande oratore,
vissuto da lunghi anni in tanto splendore delle pubbliche faccende, non si ripo
sasse volentieri negli ozj solitarj delle sue ville; la d e bolezza innata
dell'animo suo, come gli avea impedito di rimaner fermo al governo delle cose
civili, di valersi della sua autorità per contrastare ai principj della ti
rannide cesarea, ora gl'impediva di darsi a tutt'uomo agli studj della
filosofia; ed ei ne scriveva ad Attico, e all'amico dipingeva con vivi colori
questo penoso on deggiar ch' ei faceva tra l'amore onde era tratto agli studj,
e il desiderio di prender parte ai pubblici affari, tra la sfiducia sua nelle
consolazioni della scienza,e una sublime speranza che lo levava al disopra
delle umane cose. Da queste intime qualità dell'indole di CICERONE deduce
l'istorico Alemanno la natura della sua filosofia, ch'è,secondo lui,un moderato
scetticismo,espressione fe dele di animo titubante; scetticismo moderato,perchè
seb bene talvolta, oppresso dal peso delle sventure proprie e della patria, ei
mostri dubitare del vero eterno e della virtù, nondimeno conserva sempre
intemerata la nobiltà della vita, e il desiderio di una morte gloriosa; ma
tuttavia scetticismo, perchè riconoscendo la natura assoluta del vero, ammette
solo come verosimili le dottrine che ne d e rivano, e dubitando interroga tutte
le scuole, prende ad esame tutte le opinioni greche,e accordandole insieme più
con intendimento politico, che con vero criterio di scienza, ne vuole
arricchire il patrimonio della romana letteratura. Sennonchè tra le varie
dottrine in cui si di videvano le scuole greche, una ve n'era che s'accordava
mirabilmente agli intendimenti, e all'ecclettismo scettico abbracciato da
Cicerone; e questa era la dottrina della Nuova Accademia.Se Tullio infatti
poneva ilfondamento della filosofia in un dubbio moderato sui principj
delle umane conoscenze, la Nuova Accademia, guidata allora da Filone, che
gli era stato maestro nella sua giovi nezza, riconosceva come legittimo questo
dubbio, e lo temperava con la verosimiglianza; se l'oratore romano voleva che
le dottrine della filosofia conferissero ad a d destrare il pensiero e la
parola negli esercizj della elo quenza, nessuna scuola si porgeva meglio a
questa di sciplina della scuola dei Nuovi Accademici, che oltre all'essere
stata sempre frequentata da uomini eloquentis simi, si riduceva in sostanza a
un metodo disputativo; infine se egli raccoglieva le principali dottrine della
filo sofia greca,per comporne una scienza accomodata all'in gegno eall'educazionefilosoficadeisuoilettori,laNuova
Accademia,che disputava contro tutti e di tutto, che la sciava al filosofo la
maggiore libertà dei proprj giudizj, gli si porgeva opportuna a disegnare in
brevi tratti ai Romani lo stato della filosofia passata e contempo ranea, ad
innamorarne i lettori, senza perderli in vane e astruse dottrine, o incatenarli
a un sistema. Cice rone dunque (secondo l'opinione del Ritter) come ecclet tico
dubitante,come oratore e come espositore della filo sofia greca ai Romani, abbracciò
le dottrine della Nuova Accademia; e va notato particolarmente, sì perchè
questa è l'opinione più universalmente accettata intorno alla vita filosofica
di Tullio, e alla parte che tengono le sue dottrine nella storia della
filosofia, e perchè il comune degli storici ricollega quasi sostanzialmente a
quel si stema le sue opinioni sulle parti principali in cui si divide la
scienza. Così opina anche il Ritter, e prendendo ad esame le opere tulliane,
secondo la tripartizione plato nica della filosofia più comune agli antichi
(egli avverte però che,stante l'incertezza dello scrittore e delle dottrine e
la loro qualità, tutta pratica e positiva, la distinzione delle tre parti non è
abbastanza spiccata), rinviene in tutte più o meno chiaro,più o meno deciso il
dubbio della Nuova Accademia. V'ha dubbio deciso nella parte fisica, perchè ivi
abbondavano più che altrove le dispute e le contradizioni dei filosofanti;
dispute sulla natura delle cose, dispute sull'esistenza e sulla natura di
Dio e sua provvidenza, sulla natura dell'anima e sua immortalità; e di tutti
questi veri Cicerone o dubita compiutamente,o ammette solo una leggera
verosimiglianza. V'ha dubbio anche maggiore nella parte logica, anzi è questa
la più povera e la meno determinata di tutte le sue dottrine,e perchè ei la
collegava meno d'ogni altra agl' interessi pratici della vita,e perchè il
sensismo degli Stoici e degli Epicurei, che aveva a combattere, non potea tener
fronte agli argomenti della Nuova Accademia; finalmente v'ha dubbio manifesto
anche nella morale, perchè s'ei con traddice ricisamente alla ignobiltà delle
dottrine epi curee, la controversia tra gli Stoici e i Peripatetici lo lascia
indeciso da un lato tra un'idea trascendente della virtù, a cui lo muove la
grandezza dell'animo romano, dall'altro la fragilità di natura; incertezza che
pure lo segue nella politica, e nelle attinenze della politica colla morale.
Talchè Ritter movendo dal presupposto che la filosofia di Tullio non
fosse che eloquente dell'indole particolare dello scrittore e dei tempi, negò
ogni certezza e ogni legame di scienza in
ciascunasuaparte;ogniconcatenamentologicaledelle tre parti tra loro (perchè
quella logica e quella fisica non sono per lui che un'appendice della morale,
considerata da Tullio com'arte pratica della vita); negò ogni unità di disegno
scientifico, perchè mancava allo scrittore l'unità del principio fondamentale,
posto dalla riflessione, e a cui rispondesse l'universale armonia del
sistema.Onde a rias sumere in breve ciò che rappresentino alla mente del
l'istorico tedesco le dottrine tulliane,direi ch'e'le con siderava qualcosa più
e qualcosa meno d'un ecclettismo; ma una scelta a cui manca e libertà di
riflessione e criterio di scienza. (Hist. de la Phil. anc.) una manifestazione [Se
noi ci siamo alquanto trattenuti nell'esporre le opinioni di Degerando, Brucker
e Ritter, è stato segnatamente per due ragioni; la prima perchè poteva recare
non piccola luce intorno ad una questione che abbiam preso ad
esaminare,e su cui sono infinite le dispute dei critici e de'filosofi, il
giudizio degli storici migliori che vanti la nostra scienza; e in secondo luogo
affinchè i pochi cenni, che ne abbiamo dato,muovano gli studiosi a ricercare
con maggior diligenza le variazioni e iprogressi, che ha fatti sino a noi la
critica sulle dottrine filosofiche di Cicerone. Questa critica non pare
immeritevole di qualche considerazione, perchè rappresenta quasi in sè stessa
quel moto graduale dell'esame, e quel lento chiarirsi de' principj supremi, che
governano i fatti, o n d e si generava in Europa la storia della filosofia. I
primi tra questi storici,come Stanley e De Burigny, che nuovi del cammino, e
spaventati dalla grandezza dell'impresa, fecero lavori imperfetti e meglio
tentativi di storie, che storie vere, o tacquero affatto, o poco parlarono di
Cicerone che nella modestia delle proprie opinioni (magnus opinator) non aveva
dato un sistema. Negli storici se guenti, che abbiamo citato, e segnatamente
nel Brucker quella critica comincia a chiarirsi;vi si medita con più ampio
concetto la parte che ebbero i Romani nell'adu nare le greche dottrine, nel
farle proprie, e trasmetterle a noi;Cicerone v'è considerato,non già come un
filoso fastro qualelochiamò ilPomponaccio,ma comeunvasto e ben disciplinato
intelletto,che,scorrendo ilcampo della filosofia greca, ne chiamava a rassegna
ad uno ad uno i sistemi. E contuttociò quella critica era ancora ben lon tana
da un esame profondo e spassionato delle dottrine tulliane; dovevansi emendare
molte inesattezze, tor via molte preoccupazioni (qual era,per esempio,quella
che faceva di Cicerone un perfetto seguace della Nuova Accademia, e un
ecclettico dubitante), e, quel che soprattutto importava,trattandosi di M.
Tullio,che tanto ritrasse da Socrate e nel metodo e ne'principj,conveniva
cercare per entro alle sue dottrine l'immagine della vita e del carat tere
dello scrittore. Tale intendimento apparisce in alcune memorie del sig.Gautier
de Sibertche hanno per titolo,Examen de la philosophie de Cicéron, lette all'Accademia
francese delle Iscrizioni e Belle Lettere, nella seconda metà del secolo
scorso; dove si esamina accuratamente la parte oggettiva delle dottrine
tulliane, si dimostra il vincolo di sistema che le congiunge, e si difende
dalle accuse di scetticismo la fama del grande Oratore. Lavoro merite vole di
molta considerazione per sanità e profondità di giudizj, se a questa non
nocesse talvolta l'aver guardato più alla materia delle dottrine che alla loro
forma scien tifica, e considerato Cicerone come filosofo compiuto e dommatico
in ogni parte,anzichè avvolto di continuo nelle dispute degli opposti
sistemi.(Mémoir. de l'Acad. des Inscript. et Bell. Lett.) A questi difetti
sembra (come vedemmo) riparare in gran parte l'esame del Ritter, che sebbene
ritenga molto delle sue opinioni private e di quelle della filosofia che lungo
tempo ha dominato in Germania, nondimeno rias sume in breve quanto di meno inverosimile
può dirsi sul preteso ecclettismo ciceroniano. E dirò anche di più, che l'esame
del Ritter, fondato com'è in una conoscenza profonda delle opere di Cicerone,
contiene innegabili verità, qual è quella,per es.,che nello svolgimento delle
dottrine del grande Oratore esercitasse una singolare efficacia i suoi tempi,
la sua nazione, la sua indole propria; che speciale qualità di questa indole
fosse sovente un ondeggiare fra la fiducia e la dispera zione del vero e del
bene eterno,e che a queste dubbiezze contrastasse efficacemente il senno
pratico della natura romana. Ma d'altra parte noi siamo ben lungi dal credere
che il dotto Tedesco,e quanti innanzi e dopo ne tennero le opinioni, abbiano
considerato nel suo vero aspetto l'indole delle dottrine tulliane; chè, se non
può negarsi da un lato esservi in esse un che di necessariamente re lativo alle
condizioni dei tempi e alla natura dello scrit tore, e quindi mutabile, non
necessario e contraddicente alla natura assoluta e apodittica della scienza,non
è men vero dall'altro ch'ei pur rinvenne nell'intimo delle dot trine
contemporanee, e nello studio profondo dei veri eterni specchiati in sè stesso
e negli altriuomini,un criterio certo, universale, infallibile da costituirvi
la scienza. V’ha dunque nella filosofia di Cicerone questo che di oggettivo e
di soggettivo, di relativo e di assoluto, di mutabile e di necessario; m a
l'una e l'altra qualità si ricollegano insieme per nodi di universale armonia;
armonia di relazioni tra l'uomo di un tempo e l'uomo di tutti i tempi,tra il
romano e l'abitatore di tutta la terra, tra Cicerone oratore e politico e
Cicerone filosofo; armonia esterna e oggettiva a cui risponde quell'altra
interiore, attestataci dalla coscienza, tra il pensiero e l'affetto, tra la
volontà e la ragione,tra l'intelletto e le verità immortali. E certo a queste
considerazioni, disco nosciute dal Ritter e dagli altri critici Alemanni, badò
Raffaele Kuehner,autore sin qui del più compiuto esame delle dottrine di
Cicerone ch'io mi conosca,edito in A m burgo l'anno 1825,quando rispondendo al
quesito pro posto da uomini dottissimi; se Cicerone meritasse o no il nome e
l'autorità di filosofo,pensava che algrande Ora tore s'appartiene giustamente
quel titolo per l'ampiezza dell'ingegno,la vasta cognizione delle dottrine
contem poranee, l'uso ch'egli ne fece volgendole in latino a cul tura e
ammaestramento dei suoi concittadini, e infine per la facoltà unica in lui,
ond'egli seppe abbracciare tanta mole di scienza, fissare l'indagine della
riflessione sulle verità principali, e comparando tra loro le varie dottrine,
ricomporle coll'efficacia del proprio giudizio in unità di sistema.(M.T. Cic.in
phil.ejusq:partes merita, Auc.R. Kuehner.Hambur. Pars altera.Cap.VI; Utrum
Cic.philosophus judicandus sit,nec ne,anquiritur) E questi pajono anche a m e i
meriti veri e innegabili del senatore romano; e nondimeno ogni qual volta io
rileggo quelle sue opere, nelle quali spira tanta univer salità di pensieri e
d'affetti, universalità veramente latina, incui ilvero è sìprofondamente
immedesimato col buono, e tutta s'accoglie la sapienza delle scuole socratiche,
mi pare che la critica delle sue dottrine possa ricevere a n cora notevoli
perfezionamenti, sempre che col chiarirsi Posto ciò, non sarà difficile,
parmi, determinare con sufficiente chiarezza in quali confini si contenesse
l'effi cacia che l'ingegno di Cicerone ebbe nella riforma della filosofia
quand'essa fu trasferita di Grecia in Roma, e in quali vicendevoli attinenze
stiano tra loro quanto di già meditato e discusso gli venne dalle scuole
d'oltremare, e quanto vi seppe recare egli stesso rivolgendo il pensiero sui fondamenti
della scienza, questione che (conforme a quanto è detto più sopra) noi ci siam
proposti di chia rire nel presente discorso, fermandoci a tre punti segna
tamente:cioè,qual era la condizione della filosofia greco romana ai tempi di
Cicerone, e con qual metodo egli esaminasse e combattesse le dottrine delle
principali scuole tentando di conciliarle; finalmente qual filosofia derivasse
dalla deliberata opposizione e dal metodo compositivo del l'Oratore
latino. successivo di quella legge,che regola la filosofia nel tempo, se
ne va perfezionando la storia. Ora quella legge può solo spiegare, a mio
avviso,l'ufficio della filosofia de’Giureconsulti e di Cicerone, e dall'ufficio
desumerne la na tura e i principj. Può spiegarne l'ufficio, già manifesto e considerato
da molti rispetto alla Giurisprudenza e agli ordini militari e politici, alla
Religione e all'Architettura, che è di comprendere in sè il buono degli altri
popoli, tentando ridurlo a nuovi ordinamenti di scienza; può spiegarne la
natura, che è appunto quella comprensione universale, tanto diversa
dall'ecclettismo, che procede per accozzamento disordinato dei sistemi,anzichè
ricomporre le intime relazioni delle verità naturali sul disegno della
coscienza;finalmentepuòspiegarneilprincipio,cheèl'esa me
dell'uomointeriore,contrappostosull'esempiodiSocrate al dubbio, o all'esame
arbitrario e imperfetto dei sistemi contemporanei; tre punti importantissimi, a
mio parere, e che, ben meditati, danno luogo a chiarire i principali problemi
esaminati sin qui dalla critica sulle dottrinedel sommo Oratore. Gli storici
più reputati della filosofia si accordano tutti in mostrarci un manifesto
scadimento delle dottrine greche,il quale apparve dopo il fiorire dell'antica
Acca demia e del Peripato, e crebbe fino ai tempi di Tullio,
accompagnandosi,come suole avvenire il più delle volte, colle vicende degli
ordini privati e politici. I quali sin dalla prima metà del secolo V avanti
l'èra volgare venuti a mirabile altezza d'incivilimento, e generatori in pochi
anni di tanti miracoli di virtù e di dottrina, quanti presso altre nazioni può
appena rammentarne la storia di molti secoli,mancata la virtù che liaveva
nutriti,prima ancora d'invecchiare, si corruppero e precipitarono, rappresen
tando in sè stessi un'immagine stupenda, abbenchè fug gitiva, della vita
dell'uomo. E invero la gioventù della Grecia fu tutta in quei memorabili anni
ne'quali i suoi figli per ben due volte ricacciarono in Asia gl'invasori
Persiani, in quei combattimenti ne'quali la sua m a rina doventò signora del
Mediterraneo, ne crebbero i suoi commerci e le sue industrie, ne trassero
argomento a sublimi ispirazioni i poeti e gli artisti; così da quel primo
incitamento si propagò in tutte le repubbliche greche,e segnatamente in Atene,
un moto fecondo d'opere, d'istituti,di dottrine,d'eleganti costumi,che nutriva
in sè nella crescente corruzione del Gentilesimo germi di
rinnovamento,fecondati più tardi dalla riforma di Socrate e dalla filosofia di
Platone, nelle dottrine de'quali tu vedi scolpita quella vita operosa del
pensiero e de'co stumi popolareschi, quel conversare continuo, quelle di spute
in piazza e per via, quella reverenza delle tradizioni sacre,quel sentimento
profondo del divino e dell'immor tale che accompagnava la giovinezza del popolo
greco. Ma passata appena una generazione dal fondatore del l'antica Accademia,
le conseguenze della malaugurata guerra del Peloponneso si facevano sentire, l'abuso
scon II. umana sigliato delle libertà cittadine recava frutti di
servitù, e la Macedonia invadeva.Chè se quella può dirsi con qual che ragione
l'età virile del popolo greco,nella quale raf forzatosi di potenti ordini
militari e principeschi sotto il regno di Filippo, portò guerra con Alessandro
nel cuore dell'Asia,vendicandoiTrecento delleTermopili,èquesta una virilità che
giàdeclina a vecchiezza;e n'è indiziola filosofia d'Aristotele,superiore a
Platone nel severo or dinamento scienziale, e nell'indirizzo fecondo dato alla
riflessione sul reale e alle scienze d’esperimento,ma su perato da lui nella
sublimità della dialettica, nella vi vezza delle tradizioni sacre, e nella
idealità del sistema. M a ormai la discesa dei tempi non si poteva più tratte
nere; e la Grecia passata dal dominio degli Spartani a quello de Macedoni, dai
Macedoni, morto Alessandro e diviso il regno nei successori, sotto un tritume
di piccole tirannidi, non ebbe nè anche, come più tardi avrebbe avuto l'Italia
del secolo XVI,un legame di alleanza poli. tica fra i suoi stati tanto da
conservare un'effigie qua lunque d'unità nazionale,e mancò,come l'Italia del se
colo XVI,di quella efficacia di salde istituzioni che una monarchia prudente
suole introdurre nei popoli guasti da libertà licenziosa. Non è quindi a
maravigliare se quella stessa Atene, che avea veduto un Pericle non attentarsi
a spogliare delle apparenze civili l'autorità quasi regia consentitagli dai
cittadini, pativa più tardi la signoria d’un Demetrio di Falera,e quel popolo
istesso,che avea punito di morte Socrate accusato d'irreligione, salutava col
nome d’iddio un Demetrio Poliorcete, e lui pro fanatore d'ogni cosa e divina
accoglieva nei sacri penetrali del Partenone. Sono questi i segni più
indubitati della vecchiaia d'un popolo, e quel lento e continuo scadere
dell'ingegno e della vita del popolo, oltrechè negli ordini politici,appariva
in ogni altra parte della sua civiltà. Scadevano sempre più gli ordini
materiali, perchè a quel primo moto di commercj e d’in dustrie,nutrito dalle
libere istituzioni,era succeduto quel solito languore, quel ristagno
d'operosità, che è conse guenza necessaria (e noi lo sappiamo)
delle arti dei go verni assoluti;e la signoria de'mari, ristretta per l'in
nanzi agli stati del continente e dell'Arcipelago greco,si allargava ora ai
Fenicj, agli Asiatici, agl’Italioti.Si cor rompevano i costumi, e la corruzione
tanto più rapida procedeva, quanto più nel crescente oscurarsi delle anti che
tradizioni si sentivano funesti gli effetti delle cre denze gentili; e quella
vita di raffinata eleganza non più temperata dal moto e dalla severità
dell'educazione re pubblicana, si affogava ne'diletti del senso; e al senso,
non più al pensiero, servivano le arti del bello divenute adulazione di tiranni
e di meretrici; infine di tutto ciò come causa ed effetto risentivasi la
filosofia, di rado a v versando, più spesso secondando il pendio della corrut
tela universale. E noi, lasciato da parte lo scetticismo, che fece un breve e
inopportuno tentativo in Pirrone,di remo più specialmente dei principali
sistemi fioriti in questa età, e che spiegarono maggiore e più diretta effi
cacia sulla filosofia latina. Onde mossero dunque questi sistemi? Ritenendo
essi qual più qual meno, sebbene con notevoli alterazioni, il metodo e il
fondamento delle dottrine socratiche, co minciarono da un ritorno ai sistemi
che avean posto fine all'età antecedente della filosofia italogreca, ritorno
evi dentissimo negli Stoici, e che ci spiega com’essi, mentre derivarono da
Socrate la loro morale,e ne ritennero in parte il dualismo, retrocedettero in
fisica al panteismo degl'Ionj, e come contrastando alle lusinghe dei tempi
coll'idea sublime del bene, li secondarono poi brutta mente desumendo la causa e
la ragione suprema dalla materia e dal senso. E anche questa volta la
confusione del panteismo nacque da un modo fantastico e altutto ar bitrario di
conciliare ciò che si presenta alla ragione ed al senso,la immobilità
dell'essenza e la mobilità del fenomeno, il mutabile e l'immutabile, l'ente e
il non -ente, il necessario e il contingente, il relativo e l'assoluto; e più,
da un pervertimento del concetto di causa prima.Per pensare, 0, meglio,immaginare
quella conciliazione, bisognava porre un unico principio, in cui
esistessero ab eterno identifi cati in stato di quiete una potenza ed un atto
indeter minati ambedue, e che si determinassero poi al momento in cui
l'universo dall'indeterminatezza primordiale dovea passare alla forma e agli
atti successivi.Gli Stoici y'an darono alterando il concetto di causa prima.
Causa, essi dissero, è ciò per cui una cosa s'effettua; ora niente pro duce un
effetto, che non sia corpo; dunque l'essenza uni versale di tutte le cose è un
che di corporeo; e quindi essi partivano dal punto direttamente opposto a
quello dacuierano mossi Platone e Aristotele;chè,sel’Ateniese e lo Stagirita
concepivano la materia come negazione di essere (to un ow), e il primo
segnatamente poneva l' es senza assoluta nell'incorporeo e
nell'intelligibile,gli Stoici invece concepirono la materia corporea come il
primo principio e l'intima realtà delle cose tutte. Ma che cosa era questa
materia? Questa materia primitiva ch'è in Platone e in Aristotele, e che più
tardi troviamo negli Scolastici, senza qualità e senza forma, sostanza oscura,
infinitamentepassivaesuscettibilediforme,infinitamente divisibile,è una
finzione immaginativa, è una vTÓGeols (nel doppio significato antico e moderno)
collocata a capo delle cose tutte per ispiegarne in un modo qualunque la possi
bilità,ed eludere l'antico assioma ex nihilo nihil;ma non avvertivano que'
pensatori che, se v'è un caso in cui l'as sioma abbia un vero valore, è appunto
questo,poichè la materia pura potenza è un che vuoto,nudo ed inefficace, è il
nulla vestito dalla fantasia delle qualità del reale. Cercata la causa nel seno
medesimo dell'effetto, anzi iden tificata coll'effetto, il germe del panteismo
doveva svol gersi necessariamente,e sisvolse.Come?Si tornò al di namismo di una
parte degli Ionj, e poichè fondamento del dinamismo è l'ammettere che il moto
fenomenale delle cose si faccia per isvolgimenti di forze intrinseche ad esse,
si concepì nella essenza intima dell'universo,che a somiglianza d'Eraclito
dicevasi dagli Stoici essere il fuoco artificioso, rūp témuczor,un'energia
primitiva,un che infinitamente attivo,cagione unica di tutti i fenomeni delle
cose,e della loro forma determinata,perchè traendo ad atto le forze intime
della materia, ne va foggiando questo univers0 sensibile,(τον θεόν σπερματικός
λόγον όντα ToŬ zoopov. Diog.L.,VII,136,e Cic., De N. D. La falsa induzione che
per vizio d'antromorfismo finge le potenze e gli atti universali della natura
ad esempio delle facoltà umane,non si arresta qui, ma informa da cima a fondo
la fisica degli Stoici. Essi considerando che in noi principio primo di moto e
d'at tività è l'anima, chiamavano anima quella virtù infor matrice delle cose
tutte, e l'universo rassomigliavano a u n grand e animale; perchè, diceno
(usando un argomento di panteismo rigoroso adoperato più tardi dal Campanella
), se le parti del mondo sono animate,sarà animato anche il tutto, e se le
varie parti del corpo sono mosse dall’anima, e l'anima è governata dalla
ragione, anche i moti del mondo proverranno dall'anima universale, il cui princi
pato risiede nella ragione. Quest'atto, anima e ragione dell'universo per gli
Stoici era Dio; e quindi si capisce com'essi trasportando sempre nel divino le
facoltà del l'umano, concepissero Dio da un lato come principio prov vidente e
ordinatore, e dall'altro come energia primitiva, come causa e unità di tutti
imoti fenomenali,e perchè,m e n tre lo simboleggiavano sotto la cieca e
inevitabile neces sità del destino (dep.zpuéva), che contenendo la materia
l'agitava di causa in causa con movimento perpetuo, attribuissero a questo
spirito divino abitatore della m a teria la divinazione delle cose
future.(Cic.,De N. D.,De Divin., De Fato,pass.)Concependo in tal modo la
materia come contenuta e vivificata intimamente dall'unità della forza divina (unità
che per il principio della filosofia s o cratica distinguevano in forze
secondarie ed opposte),non è maraviglia che gli Stoici, tornando anche in
questa parte agli Ionj,attribuissero qualità divine alle grandi potenze della
natura, come agli astri,agli elementi,ai vizj, alle virtù,e segnatamente
all'anima umana,e ne deri vasse la loro interpretazione fisica delle mitologie.
Quindi dai principj della loro scienza naturale uscivano la logica e la
psicologia.Che cosa è l'anima?Essa per gli Stoici,come tuttele altre cose,come
Dio stesso,ècorporea;ma come forza primitiva e principio di moto partecipante
all'atti vità universale, intimamente è divina; e la sua unione col corpo la
immaginavano come una compenetrazione, sì per il loro principio della
compenetrazione delle so stanze, e sì per la somiglianza, che l'anima dell'uomo
ritiene coll'anima universale compenetrante e vivificante l'universo delle
cose;e come quest'anima universale, seb bene distinta in altre forze seconde,è
in sè stessa prin cipio unico de'moti e de'fenomeni delle cose, così in noi
tutti i fatti dell'anima riducevano all'unità del principio dominatore
(nepovezov ) che è fonte e causa motrice delle facoltà seconde. E qui è
notevole assai,che mentre l'in dirizzo dato all'osservazione dell'uomo
interiore dalla riforma di Socrate salvava gran parte della psicologia stoica
dalle conseguenze materialistiche del principio che la informava, quella loro
inclinazione a studiare i soli fenomeni della materia ricomparve nella dialet
tica, e ne proveniva il sensismo. Movevano anche que sta volta da un cattivo
concetto di potenza e di causa. E valga il vero. A quel modo stesso che in
fisica aveano pensato la prima potenza e la comune possibi lità delle cose come
un che vuoto e privo naturalmente d'entità e d'efficacia, così immaginarono
nell'anima la possibilità del conoscimento come una potenza nuda, inefficace e
priva di contenuto,simile, dicevano, ad una pergamena senza caratteri (ώσπερ
χαρτίoν άνεργον εις c.Troypapiv ), dove, svegliatosi l'atto dell'anima (come
l'atto primitivo di Giove nella materia) all'occasione delle sensazioni,
imprime le rappresentanze o le pav Tuoive delle cose. Che cosa poi fossero
queste fantasie è facile a immaginarlo, e ce lo dice anche il nome. Nel quale
comprendevano gli Stoici la totalità dei fatti interiori presenti alla
coscienza ed originati tutti dai sensi, nè potevano dare al conoscimento altra
qualità in fuori dalla sensibile, e perchè l'anima umana,come parte delDio
animantelecose tutte,ritiene ilsuo modo di conoscere,che conforme alla sua
natură è un cono scere sensitivo, e perchè essa stessa l'anima è corpo, e
perchè, l'essenza universale di tutte le cose essendo cor porea, non si può dar
conoscenza se non di corpo. Or che ne veniva da ciò? Ne veniva che ammettendo
essi da un lato ogni conoscenza derivare dai sensi, dall'altro non potendo
negare la natura dell'intelligibile necessaria, assoluta e profondamente
opposta alla natura del sensibile, ponevano le idee come una trasformazione
della sensa zione operata dall'anima, precedendo in tal modo i sen sisti
francesi. M a, di grazia, sì gli uni che gli altri sfug
givanoforseallanecessitàdellacontradizione? Ne rimaneva una intrinseca al loro
sistema e maggiore di tutte,quella cioè di negare all'anima un primo principio,
una capa cità naturale al conoscere e immaginare ch'essa poi ve nutale la
materia di fuori, doventi all'improvviso o p e rante e di operazioni tutte sue
proprie. M a in tal modo il sensista tira più là la questione, e non la
risolve; per chè,quando eisarà pervenuto a un dato termine dellasua
dimostrazione, io gli mostrerò com'ei si trovi in opposi zione diretta ai
principj su cui l'ha fondata. Dice:Nego nell'anima qualunque notizia primitiva
e fontale delle idee;e aggiunge:ecco però come nell'anima stessa si generano
quelle idee.L'oggetto esterno fa impressione sui sensi; i sensi per mezzo dei
nervi comunicano le i m pressioni al cervello,e l'uomo acquista l'idea
dell'obbietto sentito. Ma è qui appunto dov’io prego il sensista a darrestarsi.
Poichè, manifestatasi in noi la notizia, che al certo provenne dall'occasione
de'sensi, se la mente si volge a considerarla nella sua natura,vi riconosce
bensì da un lato un referimento esterno all'obbietto onde spe rimentammo
l'efficacia causale,ma d'altro lato vi scuo pre anche una più intima e segreta
relazione cogli atti dello spirito, e coi sommi principj del vero, obbietto i m
mediato della potenza conoscitiva.Tale contradizione che deriva dal confondere
insieme la natura del sentimento e delle cose e la natura ideale, non potranno
mai fug gire i sensisti, se pure essi non vorranno ammettere la
conseguenza più legittima del loro sistema,vo'dire il m a terialismo; al qual
proposito bene osserva il Leibniz nei Nuovi Saggi (lib. II), che coloro i quali
s'immaginano l'anima informa di una tavoletta,o di un pezzo di cera,in cui
nulla sia scritto prima della sensazione, trasferiscono in lei le condizioni
passive e inefficaci della materia. Se consideriamo adunque attentamente il
sistema de gli Stoici,esso ci si presenterà da un lato come un pan teismo,
dall'altro come un dualismo. È un panteismo se guardiamo a ciò che, secondo il
Ritter, ne formava il d o m m a fondamentale, all'unità primigenia e finale
delle cose tutte e al concatenamento o consenso delle parti della natura
informata dall'anima universale e divina, ond'era costituita per gli Stoici la
legge del Fato; ma è invece un dualismo,se vi meditiamo la opposizione tra Dio
anima del mondo e il corpo del mondo, tra la materia e la forma, il passivo e
l'attivo, il più e m e n perfetto nelle esistenze, l'unità assoluta di Dio e la
diversità delle cose,diversità che pur dee terminare una volta rientrando nella
indifferenza primitiva di Dio. La quale opposizione, che ha reso non ben
definito il giudizio di parecchi istorici sulla qualità di questo sistema, io
credo derivasse non tanto da quella medesima incertezza tra la confusione
dell'età orientale ed italo-greca e il nuovo bisogno delle distinzioni
dialettiche, che è pur manifesta nelle dottrine di Platone e d'Aristotile, quanto
dall'avere gli Stoici, più assai de'loro predecessori,esagerata l'in duzione
che dalla notizia dell'uomo litrasportava a quella dell'universo e del divino.
E fu qui dove peggiorarono assai dai sistemi anteriori. Peggiorarono in fisica,
perchè seb bene Platone nel Timeo dimostrasse che l'universo tutto quanto era
animato,e Aristotile,adombrando per via con
trariaildivenirehegeliano,trasformasselamateriaintutte lecose,ambedue
silevaronpiùalto,eoltrequell'universo animato e al di là di quella materia,l'uno
contemplò l'Ar tefice divino, da cui s'irraggiava nelle cose e nelle anime la
luce degli esemplari eterni, e l'altro intravide il fine supremo desiderato
dalla universale natura; peggiora E d ecco circa in quei medesimi anni,
nei quali fioriva Zenone Cizico,e spiegava le sue dottrine infette di panteismo
e di dualismo (verso l'a. 300 prima di Gesù Cristo), apparire la negazione
particolare dei sensisti e degli idealisti con Epicuro e con Arcesilao. E
quanto al primo, chi ben consideri la sua filosofia, vi troverà un nuovo e
sempre crescente pervertimento delle dottrine o anteriori o contemporanee; chè
se già era cattivo indi zio in Zenone e in Crisippo l'imitazione degli Ionj e
d'Eraclito, fu pessimo in Epicuro il ritorno ai sofisti della stessa età
italo-greca, e segnatamente a Democrito. Notammo anche come nonostante la
rigidità e l'altezza della morale stoica,vi si scorgeva chiaro un esame s e m
pre più imperfetto e parziale dellaumana coscienza;ora questo è anche più
manifesto negli Epicurei, i quali non si contentarono come gli Stoici, lasciate
da un lato le naturali tendenze,di porre la virtù e la beatitudine in un
sublime disprezzo dei beni della vita;m a scesero più basso restringendo l'una
e l'altra al godimento dei piaceri del corpo; e riducendo i piaceri dell'animo
alla speranza e al ricordo dei piaceri del senso.Nel che essi secondavano
bruttamente l'abbandono sensuale dei tempi; nè già mi reca maraviglia,in quella
età in cui,rotto il freno ad ogni licenza, si maturava negli ozj voluttuosi la servitù
della rono in logica,stante che se Platone,giunto alla nozione suprema
dell'essere,se ne faceva scala per salire agli universali divini, e Aristotile
distinguendo dal senso l'in telletto, poneva in quest'ultimo l'apprensione
dell'uni versale, gli Stoici non ammettevano che il senso, e dal senso
desumevano la necessità della scienza; peggiora rono finalmente in morale
all'osservazione compiuta e perfetta delle tendenze naturali, qual era
nell'Accademia e nel Peripato, sostituendo un esame sempre più povero e
sminuzzato della coscienza morale,onde il concetto del bene diventò più che
umano, e quell'idea solitaria e i m passibile della virtù parve quasi uno
scherno in mezzo alle infinite sventure deitempi.(Cic.,De Fin.,IV,V.
Ritter,XI,L. 1,2,3,4.) Grecia, quando la Nuova Commedia svelavaagliocchi
delle moltitudini affollate le più seducenti sembianze del vizio,e ne'ginnasj
d’Atene convenivano le meretrici a disputare co'filosofi,immaginarmi Epicuro
che siede dettando nei suoi giardini in mezzo alle gioje del convito i precetti
della morale.Eppure più secoli dopo in una etànon meno ar rendevole al senso di
quella d'Epicuro,e che precedè di poco quel tuono di uno dei più grandi
rivolgimenti eu ropei, v'ebbe chi nelle scuole de'filosofi difese Epicuro mostrando
velato nei suoi precetti morali sotto l'appa rente arrendersi al senso un
rigore più che da stoico; ma quel rigore, nota bene CICERONE (De Fin.), e r a
un finto stoicismo e una maschera da saggio,che mal si addiceva sul volto del
filosofo gozzovigliante,era una sod disfazione
ch'e’dava,malgradosuo,all'autoritàdelsenso morale e della pubblica opinione. E
poi,se quel sistema mancava d'ogni fondamento scientifico,come poteva cer care
nella necessità dei principj ilpernio della morale?E che tutto per Epicuro
fosse relativo,contingente,fuggitivo, nulla universale,necessario e assoluto,
lo mostra il con cetto ch'e’s'era fatto del giusto,stabilito da lui come una
norma destinata a tutelare la vita del saggio,e che quindi mutava
sostanzialmente a seconda degli interessi civili.Posto così a capo dei precetti
morali il puro sen timento animale,non poteva non derivarne una logica (o,come
Epicuro la chiamava,una Canonica) che peggiorasse il sensismo del Portico e non
movesse un passo oltre la sensazione. Infatti, mentre gli Stoici andavano
almeno fino all'idea che proveniva dalla percezione, e passavano dal soggetto
all'oggetto per l'attinenza di causalità (Vedi CICERONE nel secondo degli
Accademici), Epicuro,lasciata da parte l'idea,riconosceva il criterio del vero
nella sola realtà della sensazione, e negando che dal senziente si desse certo
passaggio all'entità del sentito, lastricava la via all'idealismo degli
accademici e alle dottrine scet tiche d'Enesidemo e di Sesto Empirico. Infine;
negata ogni interiore attività dello spirito, riconosciuta nella sola
opposizione dei resultati sensibili la verità e la falsità della
sensazione,ristretti i fondamenti delle inda gini scientifiche alla pretta
significazione delle parole, a m o 'dei Nominalisti; ecco in due parole la
logica dell’Orto (Cic., De Nat. Deor.) Nè a diverso cammino si volgeva la
fisica fondata da Epicuro sull'atomismo meccanico di Democrito. Ora,se ben con
sideriamo, questa dottrina naturale del filosofo di Samo paragonata al
dinamismo stoico è un nuovo perverti mento della ragione scientifica,e più che
con la filosofia del senso si accorda con quella della materia. E di fatto,
laddove gli Stoici che avean molto de'materialisti, pur trascendevano il
fenomeno sensibile,e vi rinvenivano l'intima energia, l'intimo atto che dava
vita e movimento alle cose, gli Epicurei lasciando da un lato la potenza
nascosta, se ne stavano contenti agli effetti, cioè alle trasformazioni
esteriori delle molecole materiali. Quindi la dottrina d'Epicuro intorno agli
atomi, mentre,come nota il Ritter, ha l'apparenza d'essere la confutazione
della sua logica materiale fondando tutta la scienza del mondo su quelle nature
elementari, non accessibili al conoscimento, n'è invece (dico io) la riprova
maggio re, perchè io non veggo in quelli atomi se non un abbaglio di fantasia
che pretende spiegare in modo ar cano i fenomeni più ovvj dell'aggregazione e
della dis gregazione molecolare.(De Fin.,L.I.)Che manchi,come io diceva più
sopra,nelle dottrine del filosofo di Samo qualunque criterio di scienza, si
vede quindi da ciò che in quelle intimamente repugna fra i principj e le con
seguenze. Egli non ammetteva nell'ordine dell' essere niente che non cadesse
sotto l'apprendimento dei sensi; ma
poseaprincipiodituttelecoseilvuotoimmensoegli atomi nè sensibili in modo alcuno
nè intelligibili. (De Fin.,L. 1. 6.) Credè immaginando la spontanea diversione
degli atomi dalla perpendicolare, sottrarsi alla inesora bile legge del Fato; m
a s'imbattè in un'altra potenza non meno cieca e inconcepibile, nella potenza
del caso. (De N. D.,L. I;De Fato, C. X.) Finalmente un ultimo indizio di quanto
poco conto ei facesse dei veri i m m o r tali presenti alla coscienza
dell'uomo, è che voleva spe gnere per mezzo delle sue indagini fisiche quel
concetto arcano dell'infinito per cui la nostra mente dalle cause seconde si
leva fino alla Causa prima, quell'intimo senso di stupore e d'ammirazione che
destano in noi,le tempeste, ifulmini,le meteore,icieli
sereni,lenottistellate,le so litudini de'mari, voce della natura a cui risponde
dal profondo dell'anima un'altra voce che ci parla di Dio. (Lucr.,De
rer.nat.,Ritter,L.X,C.II.Vedianche gli op. di Plutarco tradotti dall'Adriani:
1. Che non si può vivere lietamente secondo la dottrina di Epicuro;2. Della
superstizione.). Contemporaneo d'Epicuro, e un poco posteriore a Zenone,poneva
Arcesilao i fondamenti dell'idealismo ac cademico. L'incertezza delle notizie
intorno alla sua vita e ai suoi scritti ha dato occasione a purgarlo
dall'accusa di filosofo dubitante,dicendosi ch'e'non negava ilpositivo delle dottrinesocratiche,
ma soloopponevailsuodubbio temperato al dommatismo stoico di Crisippo (Vedi
Gautier de Sibert, Mem. de l'Ac. des Inscrip. et Bell. Lett., tom.XLIII),e
Sant'Agostino nel libro Contra Academicos, L. III, p. 111), ci rappresenta
questa dottrina come un domma filosofale, svelato prima nell'insegnamento del
l'antica Accademia, e ristretto poi nel mistero all'appa rire del sensismo
stoico, e adombrante l'intimo significato della filosofia di Platone: due
essere i mondi, uno intel ligibile, l'altro sensibile; quello vero, verosimile
questo, perchè fatto a somiglianza degli archetipi eterni; del primo per via
delle idee generarsi nel saggio la scienza, del secondo una semplice opinione
di verosimiglianza.M a quando io penso che il vescovo d'Ippona dettava quel
libro poco innanzi la sua conversione, scampato appena dal dubbio della nuova
Accademia, e che per guarire lo scetticismo inveterato del tempo cercava le più
riposte armonie della sapienza antica colle dottrine cristiane, attingendo
principalmente a fonti neoplatoniche; quando ritraggo dalla testimonianza
concorde dei più deglistorici che Arcesilao andò più là di Socrate, dicendo non
potersi nè anche sapere di saper niente, che aprì scuola d'insegnamento pro e
contro ogni opinione, negando in tal modo il vero assoluto e ammettendo
soltanto quello relativo ai principj d'ogni sistema; e che finalmente quel suo
idealismo operò direttamente sul dubbio univer sale degli Empirici; allora son
tratto ad attribuire a un pervertimento delle dottrine Socratiche, e alla
efficacia de’tempi quello che Agostino riferiva al semplice accor gimento
d'Arcesilao.(Cic.,De Oratore,III,18.)Socrate opponendo all'orgoglio del sofista
la modesta affermazione del saggio,negava potersi trarre da una cavillosa
dialettica l'onnipotenza della ragione, e dalle dottrine meccaniche degli lonj
il conoscimento intimo delle cose.Platone tenne fermo quel dubbio, temperandolo
col conosci te stesso, e sceso a considerare i più riposti veri dell'umana
coscienza, vi riconobbe il combattimento della ragione coll'appetito,
dell'intelletto colla carne, quel non so che d'immortale e di terreno ch'è in
noi, e che lampeggia nelle serene aspi razioni del vero,del bello e del buono,e
s'abbuja nelle tempeste de’sensi;quindi trasportando quell'intimo co noscimento
all'esteriore forma delle cose,e al giudizio della loro perfezione, ne derivò
la dottrina dell'ente e del non ente, della üln e del c o s. E qui (si noti)
consisteva essenzialmente il positivo e il negativo delle dottrine platoniche.
Poneva egli, è vero, da un lato il concetto della scienza nel salire dai
particolari agli universali,da ciò che muta a ciò che non muta, dalla
sensazione al l'idea che rappresenta l'essenza, e il fondamento della sua
dialettica stabiliva nel cogliere fra i molteplici ele menti de'fatti
particolari il concetto supremo che tutti li contiene.Ma d'altra parte mosso dall'idea
trascendente della scienza,e dalle tradizioni delle dottrine panteistiche
orientali ed eleatiche, onde germinava il dualismo, egli faceva del
particolare, del mutabile, del sensibile un che intimamente oscuro,e non
soggetto al conoscimento,perchè partecipante della materia che è l'opposto
dell'ente,e alle Matematicheealla Fisicaindagatrice de'fattinegònome di
scienza. Si dirà forse ch'e'rimediava a questa dualità riconoscendo necessaria
attinenza tra gliArchetipi divini e le cose, e nella mente dell'Artefice eterno
che le informava della perfezione di quelli, e nella mente dell'uomo per via
della reminiscenza, onde per lui si dava reale pas saggio dalla opinione al
sapere; m a la illazione del d u b bio, che scendeva dalle premesse del suo
sistema,non si arrestava, perchè, se a Dio è coeterna la materia,e l'una è
negazione dell'altro, chi mi assicura che fra termini sì disparati possa darsi
attinenza di conoscimento?nè,derivato da Dio l'intelletto, basta la sola
ipotesi ch'egli fingeva della preesistenza degli animi nostri in una vita
anterio re,e un debole legame di verosimiglianza tra iparadigmi e le cose,'per
verificare la certezza di quelle notizie che civengonodaicontingenti.E
perfermo,indebolitacosìdal principio della filosofia platonica la relazione tra
il cono scente e ilconosciuto,non v'era che un passo a negare o l'uno o l'altro
di questi due termini; e il termine intelli gibile negarono gli Stoici, alle
cui innovazioni aveva aperto la via il semi-panteismo materiale del Peripato, e
quella negazione sensistica esagerarono gli Epicurei col restrin gersi nello
studio della materia; restava a trarre l'altra conseguenza del sistema
platonico negando il sensibile, e ciò fece Arcesilao colla sua dottrina
ideale-scettica, scetticismo però non al tutto compiuto, perchè non n e gava
l'entità del vero nelle cose, m a poneva soltanto in dubbio la loro
corrispondenza reale coll'apprensione del l'intelletto. È dunque vero in parte
quel che affermava Agostino che la dottrina della nuova Accademia (o media che
voglia chiamarsi) ebbe la sua ragione d'origine nel fondo del sistema di
Platone,e la sua ragione di svolgi mento nel sensismo contemporaneo di
Crisippo, m a è anche vera l'osservazione del Ritter che quel metodo di dubbio
fu corruzione del metodo socratico, e resultò dall'idea della scienza qual era
nell'antica Accademia,idea troppo trascendente la certezza naturale,e che
togliendo l'atti nenza tra il soggetto e l'oggetto imprigionava il pensiero
nella coscienza solitaria, e al dualismo innestava la Critica della
conoscenza.(Ritter,tom.XI,C. VI.Conclus.) La quale non ancora matura e
compiuta in Arcesilao si svolse nei successori, perchè,laddove il filosofo
Pitano sostenendo la sua tesi contro i sensisti moveva special mente dalla
fallacia de'sensi e dall'oscurità della materia; Carneade,che gli
successe,introdusse in quella tesi maggior rigore scientifico,quando esaminò ex
professo l'entità della relazione inclusa nel conoscimento, e distinguendo
nella percezione sensitiva o rappresentazione due lati,uno ri
feribileall'oggetto,l'altro al soggetto,mostrò XIX secoli prima del Kant non
darsi vera certezza del sapere, per chè il conoscente trae in propria forma la
materia del conosciuto. V'ha egli dunque un nuovo peggioramento in Carneade? Sì;
perchè e'negò fede espressamente alla validità della ragione, dicendo non
potersi dare un crite rio certo pel ritrovamento del vero, e dovere contentarsi
il sapiente della semplice verosimiglianza; onde per lui l'idealismo accademico
si accostò sempre più alla nega zione universale, che compiendo le dottrine
anteriori di Pirrone, ricomparve più tardi;e n'è prova evidente il pas saggio
ch'e'fece dal dubbio sui fatti esteriori al dubbio sull'entità oggettiva delle
idee universali che si specchiano nella coscienza, manifestato da lui
ambasciatore per gli Ateniesi in Roma nel discorso sulla giustizia,dove to
gliendo nota d'universalità e d'assolutezza al concetto del
bene,abbattevaifondamenti dellamorale(Cic., De Rep., L. 1. Ritter,L.
XI,Cap.VI.) 5.E ildiscorsodiCarneadeudivanoaffollatiiRomani, nella cui patria
splendeva quella gran scuola paesana dei Giureconsulti dove l'idea della
personalità umana,e la n o zione del dovere e del diritto si desumevano da
principj d'immortale necessità, e dove la natura della legge dovea definirsi
più tardi congenita alla natura di Dio.(V. Cantù, St.
Un.Brucker,Degerando,Ritter,Kuehner.Cic.,Tusc.IV, 1,2,3.) È noto infatti come
fino dal secolo XVII G. Batt. Vico nel suo libro De antiquissima Italorum
sapientia indagando nella storia de’fatti umani iprincipj universali che
reggono il sapere, trovasse vestigj di antichissime e profonde speculazioni
ne'linguaggi primitivj d’Italia; il che,se non prova che presso quei
popoli, come ad esem pio i latini (intesi per lungo tempo e unicamente ai ne
gozj civili),fiorisse un vero e proprio esercizio d'indagini scienziali, mostra
però che v'era nel loro ingegno un'in tima disposizione a filosofare. E questa
disposizione d o veva attuarsi quando ilpensiero latino libero dalle stret
tezze presenti, e sollevato a un ideale più ampio,dal sen timento di nazione si
sarebbe volto a considerare l'umana natura specchiata in sè stesso, e
nell'universalità della storia. Queste erano le preparazioni e le cause del
fatto; l'occasione esterna venne dalla celebre ambasceria di Cri tolao,
Carneade e Diogene babilonese. (A. di R. 585. V. gli autori soprac.) Volgeva
intanto a metà ilsecondo se colo innanzi l'Era volgare,e Roma,vinto Antioco in
Asia, distrutta Cartagine,e sottomessa definitivamente la Grecia colle guerre
Macedoniche, e colla memoranda presa di Corinto,riceveva dai vinti la
tradizione delle arti e delle discipline civili per parteciparle novamente e
sott'altra forma all'Europa ed al mondo. Ma quelle arti e quelle discipline che
giungevano d'oltremare non più informate dalla libera spontaneità dell'ingegno
dei padri, educato alla scuola del sentimento civile e del magistero divino, ma
guaste dal dubbio della nuova Accademia,e infette da signorie corruttrici e da
profonda sensualità di costu mi,trovarono nei Romani dismesso l'abito della
severità antica, e omai volgente a rovina quella repubblica inde bolita dalle
mollezze d'Affrica e d’Oriente. Sallustio, C a til.,C.X.c.f.XI.XIV. Non
èquindiamaravigliarechenon ostante i tentativi di molti ingegni valorosi,
dall'unione di due civiltà semispente non nascesse un grande rinno vamento; chè
ogni rinnovamento è possibile quando nelle rovine dei popoli s'accoglie una
favilla immortale di vita, e un impulso efficace li risospinge ai principj; non
possibile allora,in quelli anni ultimi dell'Era pagana, in cui, ecclissato ogni
lume d'antiche tradizioni, spenta la famiglia e ridotto in pochi lo stato,
Europa, Affrica ed Asia precipitavano nella barbarie. Nè c'inganni quel moto
apparentemente efficace di letteratura e di scienza ma era 3
nifestatosi nelle città greche, e nelle corti di Pergamo e
deiTolomei.Tranne inRoma, dove fino allamorte d'Au gusto durarono potente
incitamento alla libertà degl'in gegni le sembianze,e la memoria degli ordini
repubblicani, nel resto d'Europa nell’Asia e nell'Affrica le lettere e le
scienze doventarono trastullo di principi e di cortigiane, o sollievo di popoli
in gioconda schiavitù sonnecchianti, o (come apparisce da Filone Ebreo,dalla
Kabbala,da Apol lonio Tianeo,Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio ed altri)
doventarono contemplazione solitaria di pochi stu diosi, onde alla spontaneità
dell'arte che crea sottentrò l'erudizione ragunatrice dei commentatori e degli
illustra tori, e il panteismo greco -asiatico da cui poi derivarono gli Alessandrini;
e un vero e fecondo avanzamento ebbero soltanto le scienze matematiche e
d'esperienza sostenute dai principi e dalle città mercantili e dalla agiatezza
dei tempi.Ma d'altra parte (ed è un esempio che s’è rin novato più volte)
indietreggiavano ogni giorno più le di scipline speculative;nè solo (come
vedemmo)quanto alla materia,ma altresì quanto alla forma scientifica dei si
stemi;perchè, se è legge connaturata all'umano intelletto che in quella
dirittura necessaria di relazioni, che passa tra il soggetto esaminato e la
riflessione esaminatrice, consista intimamente il metodo d'una scienza,una
volta guasta o distrutta la notizia dei veri principali, se ne scom piglia
l'indirizzo della riflessione, non si ravvisa più chiara l'integrità della
coscienza su cui cade l'esame,e n'è dis fatta la scienza. Richiamando ora in
breve le cose discorse, che mai ci mostra la storia della filosofia da Socrate
a Cicerone? N o n altro che un continuo scadere della riflessione scientifica
da sistemi più ideali e che al sentimento del divino e del l'immortale
accoppiavano il rispetto delle più antiche e v e nerate tradizioni, ad altri
infetti di materialità e dispregia tori d'ogni magistero divino ed umano;quindi
da dottrine che offrono più ampio disegno di riflessione,e più perfetto
ordinamento scienziale,si sdrucciola ad altre che alla c o m prensione totale
della coscienza e delle sue relazioni fanno seguire un esame
monco,spicciolato,minuzioso,eaimetodi positivi e dogmatici (benchè misti di
legittimo esame) im e todi semplicemente negativi e gl'inquisitivi. Questo è il
pen dío naturale del pensiero filosofico in quell'età,che dalle altezze del
disputare platonico ci conduce nelle ruvide a n gustie di alcuni trattati
aristotelici,dagli archetipi eterni, all'anima informatrice della materia
corporea, poi al Dio animante di Zenone e agli aridi sillogismi di Crisippo per
terminare nel materialismo d'Epicuro, e nella negazione della nuova Accademia;
che infine dalla interpretazione sublime della Mitologia,qual era in Platone,ci
guida all'in terpretazione fisica e storica degli Stoici e d'Evemero. Ma la
nuova Accademia di contro alle dottrine d'Epicuro,se non forse quanto alla
materia, era un nuovo peggiora mento quanto alla forma scientifica, perchè
Epicuro rico nosceva almeno molti veri, e offriva un disegno di pro prie
dottrine sulle principali teoriche della scienza; gli Accademici negavano
soltanto, e, tranne poche e sparpa g l i a t e affermazioni i n fisica e d i n
moral e, restringevano il soggetto della filosofia al problema del conoscimento;
ora da questo idealismo che solo ammetteva pochi veri par ticolari, e
scioglieva ogni attinenza del conoscimento coi proprj obbietti, non v'era che
un passo alla negazione scientifica d'ogni verità della scienza, e da questa al
d u b bio popolare e grossolano e ai sistemi empirici e positivi che non sono
più scienza. E anche allora fu detto o sot tinteso da uomini dottissimi che
unico criterio del vero era il mancare d'ogni criterio,che la scienza era ilm e
todo,e che unica e naturale forma del pensiero filosofico era la storia;e da
questi abbagli di critica stemperata che sirinnovano anche
oggiinFrancia,inAlemagna einItalia, nacque l'ecclettismo erudito degli Stoici e
de'Peripatetici, e le dottrine empiriche d'Enesidemo e di Sesto,come oggi dagli
eccessi della critica Kanziana pullularono gli Empirici Alemanni, l'Ecclettismo
del Cousin e la Filosofia P o sitiva di Augusto Comte.In quelle condizioni
della filosofia era,com'oggi,indispensabileunariforma,elariforma,come moto
contrario alle cagioni del male, dovea consistere segnatamente nel tornare
ai princip j della coscienza n a turale, abbracciando la universalità dei
suoi veri, e affer mando interoeindivisibileciòchelesetteaffermavano spar
pagliato e diviso.Fu questa l'opera immortale di Cicerone, e a tentarla egli
ebbe occasione e conforto dalle qualità dell'ingegno latino, mosso da antiche
tradizioni e da indole propria allacomprensione delle attinenze scienti fiche,
dallo stato politico e civile di Roma, e dal contrasto ai dubbj che laceravano
la scienza. Di fatto, se era pos sibile una riforma in tanto scadimento di
civiltà e di dot trine, più che altrove ella dovea tentarsi in Italia ed in R o
m a, dove le sacre tradizioni primitive s'erano conser vate più schiette per
opera degli affetti di famiglia e d e gli ordinamenti civili; durava ancora
potente l'efficacia della civiltà etrusca ed italica, ed ora dilatato il
dominio romano all'Europa, all’Affrica e a gran parte dell'Asia, vi
correvano,come a centro comune delle genti conosciute, la scienza, la letteratura,
le arti, le industrie, compagne della grandezza, e vi s'accoglieva,quasi a
compire la m a e stà della gran repubblica dominatrice,lacoscienza del ge nere
umano.Quindi in Roma era più che altrove potente ilsentimento dell'universale, condizionenecessariaal
na scere della Filosofia. D'altra parte,se volgiamo gli occhi alla Grecia,ci si
presenta un turbinìo d'opinioni e di sette a cui non tien dietro la storia; la
filosofia era lacerata in sistemi che ponevano la scienza nel paralogisma, e
sempre più tralignanti dagli istitutori scendevano il pen dío della negazione
universale; gli Epicurei e i Cirenaici, facili secondatori della corruttela dei
tempi, ogni giorno più sprofondavano nell'ateismo e nel senso;i Platonici e
iPeripatetici,come Cratippo,Stasea,AndronicodiRodi, Alessandro Afrodiseo si
diedero all'erudizione, e poichè non sapevano creare nulla di nuovo,rimestarono
con cri tica infeconda le dottrine anteriori; lo stoicismo con P a nezio e con
Possidonio, allontanatosi dall'aridità delle dottrine di Zenone, favorì
l'eloquenza trattando la filoso fia in modo più popolare,e ravvicinandosi alle
altre scuole socratiche; ravvicinamento anche più manifesto in Filone e in
Antioco,contemporanei ambedue e maestri di Cice rone, l'ultimo dei quali segnatamente
intese a conciliare il Portico colla nuova Accademia,e riconobbe la validità
del conoscimento. Infine secondavano da un lato quell'in dirizzo le dottrine
romane qual più qual meno imitatrici delle greche, e perciò prive di u n metodo
proprio e di proprie speculazioni; mentre dall'altro lato (sebbene al quanto
più tardi) si apparecchiava nelle dottrine de'N e o platonici e Neopitagorici
greci un congiungimento tra la sapienza orientale e le scuole socratiche.
Sembrerà forse a qualche lettore che dettando questi cenni sui principali
sistemi antecedenti a M. Tullio, ci siamo allontanati di troppo dai confini di
una semplice introduzione; m a il rimanente di questo discorso farà m a nifesto
che a ben chiarire la natura del filosofo nostro,i suoi intendimenti,lefontidellesueopereeilconcettoche
egli ebbe di riformare e riordinare la scienza, era neces sario distendersi
alquanto intorno alle scuole precedenti e contemporanee e all'efficacia loro
sulle parti della filo sofia. Per fermo allorchè l'oratore latino, fuggendo
nella solitudine di Tuscolo e di Cuma il cospetto degli scelle rati,poneva mano
all'Ortensio, appariva,come ben notailRitter,una straordinariapo vertà di
speculazioni scientifiche in tutta Europa; poche e sparpagliate verità
rimanevano intatte nei fondamenti del sapere; l'umana coscienza illuminata una
volta dai principj morali, allora in quella rovina d'ogni umano prin cipio
taceva, e al mancare della materia desunta dalla considerazione dell'animo
umano,la forma scienziale, seb bene apparentemente raffinata, impoveriva ogni
giorno. Impoveriva di fatti la logica, venuto meno colle dottrine di Zenone il
vero concetto del principio e dell'atto del conoscimento, e ridotta da
Arcesilao e da Carneade a cogliere solo, sfuggendo gli universali, le contradizioni
particolari dei varj sistemi;il semipanteismo stoico e dei Platonici
posteriori, confondendo sempre più l'ente col non-ente, il finito
coll'infinito, il relativo coll'assoluto, uccideva la fisica e s'attraversava
al buon uso dei m e 37 todi sperimentali; la morale per
ultimo risentiva d'ogni setta,massime della epicurea, le cui ultime dottrine ve
nute in luce nel secolo scorso dai papirj Ercolanesi colle opere di Filodemo
Gadarense, contemporaneo e famigliare di CICERONE, testimoniarono anche una volta
la vacuità e i vaneggiamenti di una scienza decrepita.(Vedi Hercu lanensium
Voluminum quue supersunt.Nap.,1793.) Pertanto in quelle condizioni di civiltà e
di dottrine due sole vie rimanevano aperte all'indirizzo del pensiero
speculativo; o un ecclettismo erudito, o un ritorno all'uni versalità e
all'unità della scienza coll'indagine dell'uomo interiore,del senso comune,e
delletradizioniscientifiche e religiose; impresa che, sebbene difficilissima e
degna di sublimi intelletti, non poteva esser sorgente a specula zioni copiose,
mirando più che altro a sceverare il certo dall'incerto, il teorematico dal
problematico, il necessario dal mutabile, il consentito dal disputato. La qual
cosa, mentre è una conferma dei meriti di Cicerone come filo sofo,e della
modesta grandezza della sua dottrina, ci spiega il divario notevole che lo
distingue dai filosofi contem poranei, e la brevità delle speculazioni latine;
e di fatti, se è vero che la storia della filosofia ci offre a quegli anni in
Roma un ecclettismo erudito, testimo nianza imperfetta dell'universale
disposizione degl' inge gni a ritornare sul passato, e a ricostituire la
scienza sull'armonia delle attinenze universali, è anche vero che Cicerone,
solo tra i suoi contemporanei, tentò ridurre l'ec clettismo romano a vera e
propria forma di scienza, imi tatore e seguace di quella scuola dei
Giureconsulti, che desumendo dalle consuetudini e dal gius naturale la santità
delle leggi, aveva aperta la via ad un ritorno della rifles sione filosofica
sulla coscienza morale. Quella sentenza del Segretario fiorentino, che af
ferma,doversi ogni umana istituzione ritirare verso i principj, fa manifesta a
chi consideri il cammino del pensiero e delle opere umane nelle età della
storia,una legge di scadimento e di progresso, di barbarie e di ci viltà, di
rovine e di restaurazioni, che si verificò in ogni tempo, così negli ordini
civili,come in quelli della filo sofia. La ragione di questo fatto m i sembra
chiara e nel l'un caso e nell'altro;è chiara negli ordini civili,iquali, se
hanno per principio e per fine l'adempimento delle necessità umane e la
conservazione del viver sociale,una volta allontanati da quello riescono a
contraddire la loro natura; è chiarissima poi nella scienza, e massime nella
filosofia, che costituita nel proprio essere di scienza pri ma da un ripiegarsi
della riflessione sul pensiero come pensiero,e sulle verità
universali,ricereimmediatamente dalla natura ilproprio soggetto,ipostulatiedilmetodo.
La filosofia dunque,come scienza sovrana che ha imme diatamente innanzi a sè la
ragion di sè stessa, è ripen samento del pensiero naturale e delle sue
leggi,è,in una parola, ripensamento della natura; la qual cosa concessa, sembra
doversi dedurre ch'ella abbia altresì nella natura la possibilità di un
indefinito svolgimento, e la possibilità delle proprie riforme, se pure non
vuol pensarsi che l'ef fetto sia inadeguato alla causa, e la vita dell'animale
e della pianta alla virtù generativa del proprio germe.A chi affermando
diversamente volesse mostrarmi, o che il pensiero non vale a trar fuori dalle
prime notizie, con progresso indefinito di dimostrazione,la scienza, o che la
riflessione del filosofo può introdurvi alcunchè non sup posto antecedentemente
dalla natura, io addurrei per ragione la coscienza, spettacolo sublime dei
fatti interni e dei più ardui problemi sulle verità principali, evidente e
misterioso ad un tempo,dove si acchiude come in ger me la possibilità del
sapere che si svolge ne'secoli, ad durrei per ragione la storia,che ci mostra
d'età in età i più grandi intelletti muovere alla ricerca del vero ignoto
dall'affermazione compiuta della coscienza, deftinirne le più alte questioni
concordemente alle tradizioni più a n tiche, e alla parola del genere umano e
di Dio, e fra i delirj e i vaneggiamenti delle sette conservare e tra mandarsi
l'un l'altro la Filosofia perenne. La testimonianza più lampeggiante di questa
verità ne’secoli pagani sono per certo le due riformedi Socrate e di Cicerone;
entrambi trovarono la filosofia perduta in dubbiezze infinite; entrambi la
rilevarono con uno sforzo supremo tornandola alla coscienza; l'Ateniese divino
in gegno, e iniziatore fecondo di un moto speculativo che non è ancora
cessato;più modesto intelletto ilRomano, ma non meno benemerito della buona
filosofia,per avere tentato, solo, in un popolo nuovo fino allora a ogni eser
cizio di speculazione e nell'universale scadimento della civiltà e della
scienza, ciò che il Maestro avea potuto compireincondizionimeno
avversedelsapereedeipub blici costumi. Per convincerci di ciò,basta paragonare
la Grecia dei tempi di Socrate con Roma dei tempi di CICERONE. E nel vero quel
principio di corruzione e di sfi nimento che il paganesimo già da lungo tempo
recava in sè stesso, s'era mostrato segnatamente in Grecia sin dal
D'altra parte i tempi in cui Cicerone, nato in ARPINO di famiglia provinciale il
terzo giorno di gennajo -- coss. C. Atilio Serrano, e Q. Servilio Cepione),
venne a Roma per apprendervi l'esercizio dell'eloquenza, che gli e via alle
cause del foro e al pubblico arringo, sono tempi di più profondi rivolgimenti
civili, conseguenza delle due grandi questioni che da lunghi anni empivano la
storia romana, la prevalenza degl’OTTIMATI sopra la plebe, la prevalenza di
Roma sopra il resto di Italia e del mondo. Cantù, St. Univ. Già sin da quando
tonò la prima volta nel foro la potente parola de’ Gracchi, un moto profondo in
favore delle franchigie popolari e dei diritti di cittadinanza romana s'e venne
propagando in Roma e nel rimanente d'Italia, e quel moto crebbe cogli anni, e
coll'ampliarsi della potenza repubblicana, e ruppe finalmente nelle dissensioni
civili di Mario e di Silla, e nella guerra sociale. Cominciarono allora
que'tempi pieni di sedizioni, di esilj e di sangue, ne'quali la libertà,
mantenutasi per tanti anni incorrotta, fu solo istrumento dell'ambizione di
pochi, e la gloria militare, guarentigia d'indipendenza, venne adoperata a
sovvertire le leggi; non più libera nel fôro la parola degli oratori,non più
inviolata la persona e le sostanze d'un cittadino romano, dispersa la pubblica
ricchezza, venduti a chi più li pagava i consolati e le
amministra l'entrare della guerra del Peloponneso; poichè pessimo segno
del decadimento di un popolo è sempre il succedere delle interne gare alle
lotte d'independenza; ma il vivo agitarsi della gente greca, calda ancora di
gioventù vi gorosa,ne'commerci,nelle riforme civili,ne'viaggi,nel
l'agricoltura, nelle arti, manteneva allora negli ordini materiali e politici
qualche seme di bene,e negli ordini in tellettuali volgeva le menti allo studio
amoroso del vero l'efficacia della filosofia italica, che avea recato dal
l'Oriente gran parte delle tradizioni primitive, la fantasia greca, intesa a
rendere l'animo interno nelle manifesta zioni dell'arte plastica, e infine una
gagliarda educazione del pensiero nella dialettica de sofisti. zioni
delle province, interrotti i giudizj, annullati i d e creti del senato e del
popolo; così passarono i settanta anni precedenti al regno d'Augusto, finchè
l'abuso della libertà messe capo ad un governo assoluto.Causa di tanta rovina
fu per fermo la crescente corruzione d'ogni principio morale, chè una libertà
partorita dal sangue di tanti uo mini grandi, e da secoli di virtù, non si
perde senza crollare i fondamenti dell'edifizio civile; e qual fosse a quel
tempo la pubblica moralità in Roma,ce lo dice Sal lustio complice e accusatore
dei delitti narrati. Sall., Catil. Quellacorruzione,profondanegli ordini
civili, non appariva minore negli ordini dell'intel ligenza; innanzi tutto
perchè, il progresso intellettivo di un popolo non andando mai scompagnato dal
suo pro gresso morale,e la scienza essendo un che vivo, affet tuoso, e
supremamente civile, l'armonia del sapere col l'armonia della vita è legge
innegabile nella storia delle nazioni; e secondariamente perchè la scienza era
stata sino a quel tempo più spesso istrumento di dominio in mano degl’OTTIMATI che
manifestazione della coscienza e dell'indole latina. Scendono da questi fatti
due considerazioni impor tanti sul nostro filosofo. Prima che, mentre (come
nota più d'uno storico) la letteratura e la filosofia fu colti vata in Roma dai
principali uomini di stato come arte di governo, Cicerone mostrò co’suoi
scritti ch'e'fece della scienza e della cultura, non già un istrumento per domi
narelarepubblicaesalireaglionori,ma,uomo dipace qual era,e conservatore degli
ordini civili che avean for mata la gloria degli avi, studiò la scienza del
vero l'arte del bello per contrapporla alla corruttela de tempi, e
all'oscurarsi d'ogni principio morale. La seconda con siderazione è che Tullio
s'oppose segnatamente, e con maggior vigore che a qualunque altra,alla dottrina
degli Epicurei.Ora,se consideriamo che l'epicurea era quella fra le scuole
contemporanee che avea posto più profonde radici in Roma,e che mentre ciò era
al certo l'effetto della civile corruzione, ne doventava poi alla sua volta. M
a qui c'imbattiamo subito in una questione importante. Cicerone e egli soltanto
condotto a filosofare da cause straordinarie ed esteriori? quando si pose a
scrivere aveva egli profondamente meditato sui più ardui problemi della vita e
dell'animo umano? possedeva quell'ampiezza e universalità di studj speculativi
necessaria per indirizzarlo nella via della scienza? Parecchi critici tra i
quali Ritter, Degerando, e Bernhardy lo hanno negato, e affermarono non potersi
chiamare “filosofo” vero esso che studia la filosofia come semplice istrumento
dell'arte di persuadere. Sembra altresì che una simile domanda gli e stata
fatta da taluni fra i contemporanei, quandoudiamo lui stesso, il testimone più
autorevole nella storia della sua vita, re plicare espressamente dicendo: io nè
cominciai tutto a un tratto a filosofare, nè da’primi anni della mia vita
consumai in questo studio mediocre opera e cura,e allora, quando meno parera,
io era maggiormente intento a filosofare -- De Nat. Deor. -- parole che
potrebbero forse sembrare dettate da soverchio amore di sè stesso, se i primiindizj
che ci rimangono de'suoi studj, e le opere antecedenti alle filosofiche non
mostrassero assai che il suo ingegno sivolse'sui principj, sui metodi e sui più
ardui problemi della scienza prima. Della qual cosa uno fra gl'indizj più certi
si è l'ain piezza e la comprensione ch'e'diede a'primi suoi studj, indizio
notevole per chi ricordi il disprezzo che i più fra i romani contemporanei
affettavano verso la filosofia relativistica di Carneade. Ma in Cicerone apparisce
un sentimento vivo, e quasi direi religioso, dell'unità della scienza; poeta
elegante e vigoroso, poi traduttore di cose filosofiche, udiva i più eccellenti
m a e stri d'ogni filosofia, studia con Q. Mucio Scevola il giure, coi più
autoreroli cittadini la scienza delle cose una causa, vedreino essere
immenso il beneficio che il grande uomo recò alla sua patria, più ancora che
come riformatore filosofo, come riformatore civile. civili, la
declamazione con Esopo e con Roscio, ed ebbe a maestri di rettorica Molone
Rodio, e Demetrio di Siria. Cic. Bruto, Forsyth, The life of M. T: Cicero, London.
Nutrito l'ingegno con tanta larghezza di cognizioni, appena si fece avanti nel
foro,si accorse,com'egli stesso ci dice (Brut.93,e pro Archia, V I), ch e a
costituire il perfetto oratore non e su f ficientela destrezzaelacopiadella parola,
ma bisognava che la materia scientifica desse pienezza e fondamento alla forma
dell'arte; quindi ei considerò sin d'allora la filosofiainunmodo involuto e comprensivo
come una scienza che abbracciava le regole della vita,dell'arte oratoria,del
diritto, d'ogni disciplina umana e divina, philosophiam matrem omnium
benefactorum benequedictorum(Brut.93); omnis rerum optimarum cognitio,atque in
iis exercitatio philosophia nominatur (De Orat.); concetto univer sale, che
apparisce in uno fra i primi suoi- scritti, nel de Inventione, dove parla delle
virtù secondo le dottrine platoniche, e introduce l'eloquenza fondatrice delle
città e del consorzio civile. Un tal concetto che certo doveva poi chiarirsi
cogli anni, e uscirne un disegno più specifi cato di dottrine morali e
speculative, mostra che il suo amore per la filosofia si accrebbe col suo
progresso nel l'eloquenza, talchè in lui (come osserva Ritter) l'oratore
preparò lo scrittore in filosofia, ed anzi leggendo attentamente il De oratore,
il Brutus e l'Orator vi senti spirare da cima a fondo un alito di speculazione
di scienza.Il dialogo De oratore è finto a imitazione del Fedro, e la tesi sostenuta
dei disputanti appartiene intimamente alla filosofia, poichè trattasi ivi di
sta bilire se l'eloquenza sia una dottrina universale od un'arte, s' ella debba
restringersi al puro esercizio del la parola, o allargarsi alla scienza delle
cose divine ed umane. E qui v'è contrapposto deliberatamente nelle stesse
persone dei disputanti il concetto più ampio e più universale,e per conseguenza
più filosofico,che Ci cerone avea del sapere, al concetto parziale e negativo
de'suoi contemporanei; Crasso infatti, che rappresenta l'opinione
dell'Autore, movendo dal principio che una sola è la sintesi delle materie
scientifiche,e che su tutte può e deve cadere l'esercizio dell'eloquenza,reputa
ne cessario al perfetto oratore quasi tutto lo scibile u m a n o, e conferma
questa sentenza coll'autorità degli antichi presso i quali l'arte del pensare e
del dire erano state sino ai tempi di Socrate indivisibilmente congiunte. Lo
stesso argomento è trattato nell'altra opera Orator, dov'egli cercò pure
l'ideale dell'oratore perfetto assumendo a principio le idee archetipe di
Platone; talchè l'armonia della scienza colla vita, dell'una e dell'altra colla
letteratura e coll'arte,l'accordo della materia scien tifica colla forma
oratoria, e della ragione col gusto, costituisce nei libri rettorici di
Cicerone una vera e pro pria unità di concetto. Considerando questo principio
universale,a cui il filo sofo latino rannodava le discipline letterarie,e
l'alto sen timento ch'egli ebbe dell'arte, io sempre meglio mi per suado che la
vita d'oratore e di politico fu per lui un apparecchio necessario agli scritti
speculativi. Più tardi, allorchèlalibertàvenneinmano degliscellerati,eilgran
cittadino si astenne volontariamente dall'esercizio della pubblica vita,tornò
agli studj non mai interrotti dalla giovanezza, cercandovi la pace che gli
negava l'animo addolorato per le sventure civili,una nuova occasione ad
esercitarvi l'eloquenza muta nel senato e nel fôro, un mezzo per confortare a
virtù le fiacche generazioni, e arricchire la letteratura della sua patria di
questa nuova gloria, sino a quel tempo non partecipata coi Greci (Tusc., De
divin., De off., Ad f a m. ). Chi considerasse partitamente un solo di questi
fini, senza comprenderli tutti nell'unità della mente e dell'animo dello
scrittore, mostrerebbe di non averlo compreso; a lui l'inclinazione oratoria e
l'amor nazionale porgevano il pensiero di un nuovo accordo della scienza
coll'arte nelle opere di filo sofia, onde si aprisse questo nuovo campo
intentato agli ingegni latini; i mali e le necessità del suo tempo gli consigliavano
le dottrine morali e civili come riforma dei costumi corrotti, e
dall'intendimento letterario,nazionale e morale insieme congiunti e
contemperati uscì per l'ef ficacia dell'ingegno,degli studj anteriori, e della
riflessione psicologica, la riforma speculativa. La quale armonia di cause
determinanti e di fini fra l'animo dello scrittore ed i tempi, è notevole in
Cicerone; perchè vi si fonda quella unione socratica tra il vero ed il buono,
onde la filosofia di lui, come quella d'ogni socratico, tanto più è affermativa
e solenne,quanto più gli argomenti metafisici hanno attinenza colle ragioni
morali, nè ciò per quello che oggi si chiama senso pratico, e che si crede
diviso dalla ragione speculativa, m a perchè appunto la ragione prima del
conoscimento si riconosce identica colla legge dell'operare. Se tali erano i
fini, con cui si accinse a filosofare, tra l'indole positiva e morale delle sue
dottrine, e il loro cri terio speculativo non v'ha per fermo alcuna
contradizione, chè anzi quella contradizione apparente,che Ritter e Bernhardy
han creduto di rinvenirvi, si dilegua tosto quando raccogliamo dalla piena
lettura delle opere filo sofiche un'idea complessiva del concetto della
filosofia, e seguendo le varie definizioni ch'egli ne diede,perveniamo fino al
punto in cui concepisce chiaro l'ordine scienziale. Il primo e più
notevole concetto ch'egli ebbe della filosofia, considerata come vera dottrina,
si è di una scienza moderatrice delle azioni e istitutrice della vita: vitæ
philosophia dux, virtutis indagatrix, expultrixque vitiorum; animi medicina
philosophia; a questo propo sito il conosci te stesso di Socrate ei lo prendeva
in un senso puramente morale, senso che apparisce più volte nella Repubblica,e
nelle Leggi, e nelle Tusculane, dove si agitano questioni relative alla vita e
ai costumi,e per quanto abbiamo da chiari indizj appariva pure nell’Orten
sio,opera perduta,dov'ei tesseva l'elogio della filosofia rac comandandola allo
studio dei concittadini come dottrina su premamente morale e
civile.(V.Hort.,fram.,e specialmente il fram. 21, L. I. ed. di Lipsia) Ora
siffatto concetto involgeva di necessità un criterio scientifico; innanzi tutto
perchè chi medita l'ordinarsi d'una dottrina scienziale, qualunque ella sia,ad
un eser cizio d'operazioni, si suppone averne penetrato l'intima essenza in cui
quel principio regolatore risiede; e poi perchè il vero relative alla vita,sebbene
manifestoin noi pel sentimento morale, s'attiene alle parti più vive e più
affettuose dell'essere umano,ond’è mossa la rifles sione a ripensare da sè
stessa e con proprj principj l'ordine speculativo delle conoscenze. Pervenuto a
tal punto il filosofo, non ha da fare che un passo per racco gliersi nella
coscienza morale, e quindi trar fuori con metodo ascensivo e discensivo
d'induzione e di deduzione tutto quanto il disegno dell'edifizio scientifico;
la qual cosa apparisce a chi prenda ad esaminare in Cicerone l'ordinamento
logico degli scritti morali. Dove si scorge com'egli procedendo di passo in
passo nell'induzione, dall'idea morale di legge e di diritto, che lampeggiava
nella coscienza d'ogni cit tadino di Roma,si levò a concepire un ordinamento di
relazioni e di gradi dagli esseri inferiori a'supremi; re lazioni che
intercedevano tra Dio e l'uomo per l'eccel lenza della ragione, tra uomo ed
uomo per somiglianza di natura intellettuale e socievole; e quindi usciva una
specie d'equazione ideale tra Dio e le creature, tra gli enti ragionevoli, e i
non dotati di ragione, per la reci procanza dei doveri e dei dritti;e vi
s'acchiudevano in germe Teologia naturale, e Antropologia, Cosmologia e
Filosofia del buono. Questo largo disegno di veri morali fu il principio da cui
Tullio moveva nella via della scienza, e lo mostrano i libri politici e civili
antecedenti in ordine di tempo alle altre opere speculative. 3. Ora
soffermiamoci un poco.Mostrato così per suc cinto quale idea egli avesse della
Scienza prima e dei suoi principj, domandiamo che cosa debba pensarsi sul
dubbio accademico quasi universalmente a lui attribuito. La questione su tal
soggetto,disputata a lungo dai critici e storici della Filosofia, durante
il secolo scorso,mentre gl'ingegni si dividevano incerti tra l'amore
dell'antico e la curiosità del nuovo,e l'Enciclopedia affermava dogma ticamente
le sue negazioni, mosse ne'più de'casi dal pre supposto che Cicerone,come
seguace della Nuova Acca demia, ponesse il dubbio universale a fondamento di scienza.
Così opinò Bayle,e,sebbene alquanto meno risoluti,lo affermarono Brucker, Degerando
e Bernhardy. Per combattere una siffatta obbiezione non rimanevano alla critica
che due sole vie; o negare di pianta lo scettici smo della Seconda Accademia, o
rifacendosi da un nuovo e più accurato esame delle dottrine di Tullio, cercare
quale e quanta efficacia vi esercitasse quel dubbio, o come metodo
semplicemente,o come principio fondamen tale ed interno. La prima di queste vie
fu seguita dal sig.Gautier de Sibert in una memoria scritta da lui sui Nuovi
Accademici,la seconda da Raffaele Kuehner.Ma il critico francese,sebbene
dottissimo,quando volle mostrare che la Nuova Accademia non negava la
possibilità della scienza, contraddisse alla storia, nè rispose al quesito del
come conciliare la certezza dei libri morali di Tullio col dubbio quasi
assoluto d'Arcesilao e di Carneade. L’alemanno mostra invece con maggior verità
come il filo sofo nostro, seguace della Nuova Accademia quanto al metodo
inquisitivo dei veri particolari,ne temperasse per altro il dubbio
ravvicinandolo alle fonti socratiche. Ma
ilKuehner,cheraccolseconstudioletestimonianze fatte da Tullio ne'più de'proemj
sulla bontà e la modera zione del suo metodo,non ha considerato abbastanza nei
libri morali come a quel precetto apparentemente negativo dinon cercare che il probabile,edirattenerel'assenso,con
trappongasempre,ad esempiodiSocrate,l'altrosuprema mente affermativo del
conosci te stesso.Nè il tornare che egli fa tante volte a raccomandare ilfamoso
placito del savio ateniese, si prenda come artifizio rettorico,o come vano e
miserabile ossequio alle tradizioni. L'esame più diligente e spregiudicato
delle sue opere (io lo affermo sin d'ora) mostra che il dubbio universale e
sistematico, il dubbio di Carneade,del Cartesio e del Kant,non antecedeva
nella mente dell'oratore-filosofo allo stato di scienza. Egli,prima
d'esserefilosofo,come uomo,come romanogiàsisentiva e si riconosceva nel vero;e
quel vero,a cui l'animo spon taneamente piegava sin da'primi anni per
inconsapevole virtù di natura,l'intelletto glielo mostrava più tardi adu nato,
e come raccolto nell'evidenza interiore; evidenza non solitaria,non priva
d'oggettività,non fenomeno puro, quasi paesaggi riflessi sulla tela da magico
apparecchio dilenti,ma uno spettacolo interno,a cuirispondevano. tre grandi
attinenze dell'uomo con sè stesso,coll'universo e con Dio; un'armonia d'enti
che la scienza dovea tras formare in armonia di principj. “Nam quum animus
cognitis perceptisque virtutibus, a corporis obsequio indulgentiaque
discesserit, volupta sed Delphico deo tribueretur. Nam
quiseipsenorit,primum. A questo proposito ci giova riferire le sue parole tolte
da un luogo eloquente del dialogo delle Leggi, dove egli stesso in propria
persona descrive il concetto ed il metodo della scienza prima. Ita fit (così il
testo latino, che io trascrivo per maggiore esattezza secondo l'ediz. di Lipsia
riveduta da Klotz) ut mater omnium bonarum rerum sit sapientia, a cujus amore
Græco verbo “philosophia” nomen invenit, qua nihil a dîs immortalibus uberius,
nihil florentius, nihil præstabilius hominum vitæ datum est. Hæc enim una nos
quum ceteras res omnes tum quod est difficil limum docuitutnosmet
ipsosnosceremus:cujuspræcepti tanta vis et tanta sententia est,ut ea non homini
cuipiam, aliquid se habere sentiet divinum ingeniumque in se suum sicut
simulacrum aliquod dedicatum putabit, tantoque munere deorum semper dignum
aliquid et faciet et sentiet, et,quum se ipse perspexerit totumque
temptârit,intelliget quem ad modum a natura subornatus in vitam venerit
quantaque instrumenta habeat ad obtinendam adipiscen damque sapientiam, quoniam
principiorerumomnium quasi adumbratas intelligentias animo ac mente conceperit,
quibus illustratis sapientia duce bonum virum et ob eam ipsam causam cernat se
beatum fore temque sicut labem aliquam dedecoris oppresserit, omnem que mortis
dolorisque timorem effugerit, societatemque caritatis coierit cum suis,
omnesque natura coniunctos suos duxerit, cultumque deorum et puram religionem
su sceperit, et exacuerit illam,ut oculorum,sic ingenii aciem ad bona eligenda
et reiicienda contraria, quæ virtus ex providendo est appellata prudentia, quid
eo dici aut cogitari poterit beatius?Idemque quum cælum,terras,maria rerumque
omnium naturam perspexerit eaque unde ge nerata,quo recurrant,quando,quo modo
obitura,quid in his mortale et caducum,quid divinum æternumque sit viderit,
ipsumque ea moderantem et regentem paene prehenderit seseque non unius
circumdatum mænibus loci, sed civem totius mundi quasi unius urbis agnoverit, in
hac ille magnificentia rerum atque in hoc conspectu et cogni tionenaturæ, diimmortales,
quam seipsenoscet!quod Apollo præcepit Pythius, quam contemnet, quam despi
ciet, quam pro nihilo putabit ea,quæ vulgo ducuntur amplissima! » Atque hæc
omnia quasi sæpimento aliquo vallabit disserendi ratione, veri et falsi
iudicandi scientia et arte quadam intelligendi quid quamque rem sequatur et
quid sit cuique contrarium. Quumque se ad civilem societatem natum senserit,
non solum illa subtili disputatione sibi utendum putabit, sed etiam fusa latius
perpetua oratione, qua regat populos, qua stabiliat leges, qua castiget i m
probos, qua tueatur bonos, qua laudet claros viros, qua præcepta salutis et
laudis apte ad persuadendum edat suis civibus,qua hortari ad decus,revocare a
flagitio, con solari possit adflictos factaque et consulta fortium et sa
pientium cum improborum ignominia sempiternis monu mentis prodere. Quae cum tot
res tantæque sint, quæ inesse in homine perspiciantur ab iis, qui se ipsi
velint nosse, earum parens est educatrixque sapientia. De Leg. Qui s'espone a
dettatura del nostro filosofo il suo metodo dell'osservazione interiore
induttivo e deduttivo, quale uscì dalle dottrine di Socrate e di Platone, e
si continuò, accolto dal Cristianesimo, lungo le scuole m i gliori
dell'universale Filosofia. Vi si distinguono tre cose: lo ciò che antecede; 2o
ciò che accompagna; 3o ciò che sussegue alla scienza. Lo stato che antecede la
scienza non è il dubbio, m a un riconoscimento pratico e speculativo
dell'ordine universale.L'uomo ha innanzi tutto un sentimento ar cano della sua
somiglianza con l'Essere infinitamente perfetto; e quel sentimento della
dignità umana, e quel l'aspirazione all'immutabile e all'assoluto in cui vero e
buono sono congiunti, e la ragione procede da uno stesso fonte identica colla
legge morale, risveglia in lui l'evidenza intima de principj speculativi,
ond’e’si leva alla cognizione di sè stesso e di Dio, capisce pei mezzi
l'eccellenza del fine a cui nacque, e costituendo in ar monia pensiero e
volere,premette la riforma morale di sè stesso alla riforma speculativa.Due
condizioni del sog. getto rendono possibile in lui la contempla zione dell'og
getto che è scienza:prima la retta disposizione dell'animo purificato
spiritualmente dalla morale, l'istinto sociale educato dalla vita civile,
l'istinto religioso santificato e nutrito dal culto; in secondo luogo rende
possibile la scienza la capacità delle potenze conoscitive, che non sa rebbero
potenze ordinate alla notizia del vero,se un che di determinato e d'efficace,
se una verità prima non le costituisse tali nell'essere loro;ma è prima necessaria
la retta disposizione dell'animo,perchè ilpensiero avvalorato dalcuore (animo
acmente) ravvisi nell'intellezione prima (adumbrata intelligentia), un
po'confusa e indeterminata, le notizie riflesse. Ciò posto, si procede allo
stato di scienza,e il filo sofo movendo dall'esperienza interiore, col soccorso
della Dialettica dottrina delle conseguenze e conciliatrice dei contrarj,
levasi alle ragioni supreme dell'essere, del co noscere e del fare,si forma i
concetti d'origine e di fine, di contingente e di necessario, di temporaneo e
di eterno, che gli sono via a discendere di nuovo alla notizia di sè stesso e
del mondo, notizia comprensiva ed universale che lo palesa inferiore soltanto a
Dio, eguale ai suoi simili, e cittadino dell'universo. 3. Dall'ordine
universale della Scienza prima discen dono due dottrine applicate, e strette in
vincoli di co munanza fra di loro: la eloquenza civile e l'arte dello stato.
Tali erano per Cicerone i fondamenti, ed il metodo della scienza. Ora ecco,
secondo che riassume un istorico recente della Filosofia, quali erano isuoi
criterj: « Nella coscienza di noi stessi Cicerone, come Socrate,più di So crate
forse perchè romano,sentiva l'universalità del vero, distinta dalle opinioni
particolari,e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso,
relazioni uni versali anch'esse; e però egli inculcava sempre di fermar
l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo,ossia nella retta ragione (De off); e
contro gli Epicurei fa valere gli affetti più generosi dell'animo (ivi, e negli
Acc.e ne'Tuscul.e quasipertutto);echiama insoste gno il senso comune e le
tradizioni umane e divine.Così ne' libri Tuscolani adopera l'autorità del senso
comune a dimostrare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima umana,e dice
ne' Paradossi contro gli Stoici: « Noi più adoperiamo quella filosofia che
partorisce copia di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pen
sardellagente.»(Proem.) E nelleseguentiparolede' Tu scolani si vede com’ei
raccogliesse,di mezzo alle opinioni varie,le tradizioni universali de'filosofi
e le divine;« Inol tre,d'ottime autorità intorno a tal sentenza (cioè l'im
mortalità dell'anima) possiamo far uso; il che in tutte le questioni e dee e
suole valere moltissimo (in omnibus, caussis et debet et solet valere plurimum
); e prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate); la quale quanto più era
presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ) tanto più forse
discerneva la verità.» (Tusc.,I,12).E tra'filosofi, ch'egli cita,preferisce
appunto Ferecide,come antico,antiquus sane;e indine conferma l'autorità con
quella di Pitagora e de'Pitagorici;il nome de quali, egli dice, ebbe per tanti
secoli tanta virtù che niun altro paresse dotto. E dice più oltre
che, secondo Pla tone,la filosofia fu un dono,ma quanto a sè,una inven zione
degli dèi: « Philosophia vero omnium mater artium, quid est aliud,nisi, ut
Plato ait,donum, ut ego, inventio deorum? » Nel che s'accenna il principio
divino della Sapienza e della tradizione.(Conti, St. della Filo sofia) 4. Se
per ciò che risguarda i principj e i fondamenti della filosofia egli mosse
direttamente da Socrate affer mando la chiarezza naturale del soggetto
scientifico,e l'efficacia della conoscenza, quanto poi al metodo più
propriamente detto, indagatore dei veri particolari, fu se guace, o come ci
dice egli stesso,restauratore della Nuova Accademia (deserte discipline et iam
pridem relicte ), restaurazione che, a mio parere, può e debbe chiamarsi una
vera riforma; perchè l'idealismo d'Arcesilao e di Carneade tralignava nel
dubbio, e, piuttosto che all'An tica Accademia, si ricongiunse agli scettici
dell'età italo greca e a Pirrone; m a Tullio attingendo alle fonti socra tiche
si riscontrò nelle tradizioni genuine della sua scuola. Questo fatto s'è
rinnovato in Italia nel secolo XVII, quando Galileo Galilei tornando al vero
metodo aristote lico dell'induzione, restaurava la filosofia naturale; più
peripatetico in ciò, come egli stesso scriveva al Liceti,di tutti i
peripatetici de'tempi suoi. Riassumendo il tutto in poche parole, Cicerone
attri buiva alla filosofia universalità di fini, di principj e di metodo, e
tutto ciò comprendeva,come Socrate,nel senso generalissimo della voce sapienza,
talchè dopo averla descritta ne'libri oratorj come un semplice esercizio di
raziocinio, e in alcune opere morali come una dottrina puramente pratica e
positiva,ne'Tuscolani e nel secondo libro degli Officj la chiamò con significato
più largo: scienza delle cose divine ed umane e delle loro cagioni. Suolsi
affermare comunemente dai critici e dai filosofi che Cicerone diè prova di
scarso ingegno speculativo non componendo le sparse verità in un sistema
ordinato. La quale accusa vuol bene determinarsi; perchè,se con essa
si nega che Cicerone aggiungesse copiose speculazioni alla materia delle
dottrine contemporanee, e che componesse le verità antecedentemente trattate
dalle scuole socrati che in un compiuto e perfetto sistema, ha ragione la cri
tica, m a la critica ha torto,se vuol negare che a Cicerone mancasse qualunque
disegno di scienza, o un proprio cri terio per l'ordinamento formale delle
dottrine. L'affermar ciò, rispetto a Cicerone, importerebbe nel vero affermarlo
pure di Socrate,e d'ogni altro riformatore; chè il sistema della filosofia di
Tullio (se così vuolsi chiamarlo), come quello di Socrate, non è ordinato
secondo un disegno po sitivo corrispondente all'ordine del soggetto ripensato
dalla coscienza, m a si svolge nella stessa opposizione alle sette, e in quella
opposizione egli scuopre il concetto della scienza,e il metodo,e i criterj che
gli son guida,indizio manifesto che,mentre da un lato egli demoliva le dot
trine sofistiche dei contemporanei, edificava dall'altro sui fondamenti
incrollabili della coscienza umana. Ora si avverta come il considerare in tal
modo questa temperata efficacia della speculazione di Tullio, che ri pensa e
rifà le dottrine degli altri con un proprio criterio positivo di paragone e di
scelta,in contrapposto alla pas sività negativa dell'eclettico erudito che
ricopia quelle dottrine e le raguna nella memoria,anzichè comporle nella
riflessione; è metodo forse non seguito fin qui dai prin cipali critici di
Cicerone,e tale che potrebbe condurre a meglio comprenderlo e giudicarlo col
chiarire molte que stioni, tra le quali non ultima quella sull'uso ch'egli fece
dell'autorità quanto ai fonti delle sue dottrine,trattata a lungo in Germania,
e sì bene dal Kuehner nel capitolo quinto, parte seconda della Dissertazione
citata. E tale è il metodo che noi abbiam preso a seguire, ond'escono
alcune conseguenze e regole pel nostro esame. In primo luogo, poichè solo per
nostro avviso, il contrapporre Tullio a'suoi contemporanei può dimostrare
quanta altezza d'ingegno e potenza d'analisi gli abbisognasse per isceverare
dalla confusione de'sistemi le verità principali, chiarirle e ordinarle in
forma di scienza, terremo l'uso d'esporre ogni volta le principali
opposizioni de' sistemi, e poi qual giudizio ne recasse il filosofo latino.In
secondo luogo avremo questo a principio di critica, notato da altri, che,
poichè le opere di Cicerone sono per la m a s sima parte dispute scritte, e,
come tali, ritraggono nei varj personaggj il conflitto delle opinioni, e le
nature differenti degl'interlocutori, convien distinguere con ogni diligenza
quando egli riferisce la propria, e quando l'opi nione degli altri, quando egli
stesso prende parte al dia logo, o si tien fuori, quando tratta ex professo una
m a teria,oquandosoltantol'accenna (V.Degerando, Brucker, Kuehner, Middleton.)
Finalmente si consideri bene che l'ordine di questo ragionamento mostrerà come
una pro gressiva verificazione dei principj supremi nella mente di Tullio, a
misura ch'egli passa dalla filosofia fisica alla logica, e poi alla morale; ed
è perciò che qualche argo mento interrotto in una parte delle dottrine, verrà
ab bandonato e poi ripreso in un'altra, quand'egli,conside randolo sotto un
aspetto diverso, sempre più lo verifica, e sempre più lo chiarisce. Le fonti da
cui trarre le dottrine di Cicerone, sono principalmente i suoi libri di
filosofia, che ci pervennero la maggior parte, se n'eccettui le traduzioni
Oeconomica Xenophontis,Protagoras ex Platone, Timæus de Universo (trad., come
app. dal proem., dopo gl’Accademici; i libri vriginali, Hortensius de
philosophia,Consolatio de luctu minuendo (scritta poco prima dei Tuscolani), De
Gloria, Commentarius de virtutibus,Cato,sivelausM. Catonis, Deiure civili in
urtem redigendo; de'più fra'quali rimangono frammenti. Gli altri, non interi
tutti, e che in ordine di tempo si distribuiscono cosi: De republica,De
legibus(composti dopo il De republica), Paradoxa,Academicorum (ne fece due
edizioni dette Acad. priorum in 2 libri, e posteriorum,in 4 libri;della prima
c'è rimasto il secondo libro, della seconda il primo; anno 709),De finibus
bonorum et malorum; Tusculanarum disputationum (compiti avanti la morte di
Cesare), De natura Deorum, De Divinatione, De fato, De officiis, Cato major de
senectute, Lelius de amicitia (scritto dopo il Catone maggiore
av.gliOfficj);furono variamente distinti dai critici secondo la loro materia e
la forma. Ritter li distinse in riposti ed in popolari, clistinzione che più
esattamente potrebbe ridursi all'altra de'dialoghi speculativi, come i libri
Accademici, de'Fini, delle Leggi,della Natura degli Dei;dagli scritti che hanno
È noto quanto siasi discusso tra i critici sulle dale dei libri di
Cicerone.Cilusa principale del dissenso è il non trovarsi d'accordo quauto al
determinare l'anno della nascita dell'Autore. Forsyth lo dice nato il 3 di
gennaio, ma aggiunge in nota a p. 2, che, secondo il calendario Giuliano, egli
sarebbe nato l'ottobre. In questo anno pongono la sua nascita Middleton,
Kuehner ed altri autori meno recenti;onde seguita che,mentre, a cagione
ll'esempio,essi fanno il De consolatione,l'Orlensio,gli Accademici, il De
finibus e le Tuscolane, e le opere De Natura deorum, De Divinatione, De Fato, De
Offi riis, Cato Vajor e Lælius; il Forsyth e l'edizione di Lipsia (riveduta dal
Clolz so quelle dell'Orelli e dell'Ernesti), riferiscono i primi cinque
trattati. Noi stiam o col critico di Lipsia, e col Forsyth,perchè mollo
recenti,e temperati assai nei giudizj.Del resto di parecchie opere si conosce
la data.Intorno a quella del De Republica e De Legibus rimane qualche
incertezza. Il dott.P. Richarz. in una dissert., De politicorum Ciceronis
librorum tempore natali (Wir ceb.), stabilisce avervi speso Cicerone oltre a
dieci anni, Questa ed altre molte dis sertazioni di critici tedeschi e
francesi, citate da noi,ricevemmo dalla cor. tesia dell'illustre A. Vannucci, a
cui rendiamo pubblica testimonianza di gratitudine. un fine pratico,ad
esempio gli Officj,dell'Amicizia,iPara dossi, le Tusculane e qualche altro. Noi
abbiam seguito l'altra distinzione più principale, ammessa da tutti icri tici,
e che fino a un certo punto concilia l'ordine logico o sistematico o tematico dei libri coll'ordine di tempo, tra le opere
fisiche – filosofia naturalis -- De natura Deorum, De divinatione, De fato, e
il Somnium Scipionis parte della Rep.), le logiche -- Academicorum, Topica, De
inventione, etc. --, le morali – De finibus,Tusculanarum, Paradoxa, De legibus,
De officiis, De republica, De senectute, De amicitia). Avvertendo che la distinzione
non siprenda troppo assoluta, ma che si guardi alla qualità che prevale. Fonti
secondarj, ma dausarsiconmolto riserbo, sono,secondo nota opportunamente
Middleton nella vita di Cicerone,le Orazioni e l’Epistolario; e noi vi
aggiungiamo le opere rettoriche, segnatamente il De Ora tore e l'Orator. La
distinzione accennata delle opere fisiche,logiche e morali risponde al concetto
della scienza, e al metodo della antica Accademia seguito da Tullio nell'ordina
mento generale delle dottrine, e ne partisce la filosofia nelle tre grandi
teoriche dell'essere, del conoscere e del l'operare. Premessi questi principj
generali, si passi ora al l'esame più specificato delle dottrine. Il prendere
ad esame con quella larghezza e diligenza,che è necessaria alla critica istorica,
le varie parti delle dottrine tulliane, è cosa invero che ricerca un abito non
ordinario di osservazione, e un sentimento vivo delle attinenze scientifiche;
perchè, sebbene, come fu notato nel capitolo antecedente, non si trovi
nell'Arpinate un pieno disegno di filosofia ordinata a sistema, basta leg gere
alcuno dei suoi libri speculativi per accorgersi tosto ch'ei ritraeva da
Socrate,non soltanto ilmetodo esterno del disputare e la sobrietà dell'esame, m
a altresì quella riflessione larga e compiuta, onde l'Ateniese coglieva
nel l'universo delle idee la unità della scienza. E di fatto socratici veri
sono, come ben nota Ritter,tutti coloro che videro chiaramente la necessità di
collegare la scienza de'fatti interni con quella dell'universo, l'osservazione
morale coll'esperienza e la fisica colla psicologia. Nes suno dunque fu più
vero e perfetto socratico del nostro Autore. Anch'egli si accorse, come già il
suo Maestro, che se un sentimento naturale, abbenchè indeterminato,
dell'attinenza tra il pensiero nostro e gli oggetti, mosse la riflessione
ne'primi passi della scienza a riconoscersi per illusione identica col mondo
esteriore,illusione da cui poi i Pittagorici, gli Eleati e gli Ionj traevano il
pantei smo,e uscì la dialettica de'sofisti, un secondo passo a ristorare la
scienza caduta nella materia e nelle astra zioni eccessive, doveva essere
l'affermazione dell'uomo interiore, e di quella sintesi intellettiva e morale,
sola realtà oggettiva, in cui mirando il pensiero potesse rav visaresèstesso in
attinenza colle cose con Dio.Suquesti fondamenti Socrate restaurava la vera
dottrina dell'es sere,dottrina che tratta di Dio,dell'universo e dell'uomo,
considerati nella loro esistenza, natura e relazioni su preme, e abbraccia in
sè le scienze fisiche e matemati che, la teologia naturale, la psicologia e la
cosmologia. Tutto ciò veniva compreso dagli antichi sotto il nome universale di
Fisica (usato in più luoghi da Cicerone ), e la Fisica includevano nella
Filosofia, perchè questa trat tando degli enti nel loro ordine universale
contemplato interiormente dalla coscienza,porge alle dottrine d'osser vazione
esteriore il soggetto e i principj. Or qui bisogna avvertire che questa unione
intima delle parti scienziali, sentita vivamente dalle scuole antiche italiane,
e confer mata da Socrate (il quale, nemico della fisica sofistica degli
Ionj,favorì invece coll'osservazione interiore la fisica buona), dava
occasione, come sempre, ad un bene e ad un male; il bene era l'altezza della
riflessione scientifica, che comprendendo nell'unità de'principj
l'intelligibile e il sovrintelligibile, la natura e il divino, scorgeva
sempre più addentro i legami che stringono la teologia naturale, la
psicologia e la cosmologia; il male era che le scienze sperimentali così intimamente
collegate alla filosofia spe culativa,mentre se ne avvantaggiavano da un lato
rispetto all'universalità, traendo dall'accordo colle altre parti del l'umano
sapere occasione a più vera e perfetta compren sione della propria materia,
dall'altra ne scapitavano quanto ai metodi, allorchè all'osservazione esteriore
o induttiva, che sola ci può condurre alla notizia dei corpi, si volle
sostituire la deduzione, che da pochi generalissimi, posati a priori, scendeva
di salto, come nota Bacone, al particolarede'fatti. Due
fontiperennid'errorenellescienze sperimentali furono pertanto il panteismo e il
dualismo; ilprimo,perchè,data l'unità di sostanza,ne consegue la medesimezza
dell'ordine ideale col reale,onde deduce il filosofo darsi vero passaggio dalle
idee alle cose,senza necessità di sensata esperienza; il secondo, perchè, fatta
coeterna a Dio la materia,ne viene alterato il concetto di finitudine, e il
mondo si pensa non più finito e tem poraneo, m a infinito ed eterno, e animata
la materia e incorruttibiliicieli;pertalmodo panteismo edualismo ci diedero la
fisica fabbricata a priori, quale fu nelle scuole dell'India,nelle
Pittagoriche, nelle Eleatiche, in Platone, negli Stoici e nei Peripatetici del
medio -evo. Le quali considerazioni son necessarie,parmi,a chiunque voglia
esaminare la metafisica di Cicerone, e chiarire come mai,mentre la fisica superioreeledottrinesuDio,
sull'uomo e sull'universo sono fondate da lui sopra prin cipj sì alti, vi
prendono pochissima parte e indiretta le indagini sperimentali. Ai tempi
dell'Arpinate in cui, venuta all'ultima corruzione laGentilità, si rinnovarono
esiesageraronotutti gli errori delle età anteriori, quello strano accozzo delle
scienze fisiche colle metafisiche era venuto al suo colmo, e potente occasione
di scetticismo era il contrasto delle opinioni. Ora v è un luogo sulla fine
degli Accademici primi,dove Tullio descrivendo in persona propria la di scordia
delle sette contemporanee nelle tre parti della scienza,e volendo
mostrare come quella discordia giusti ficasseildubbio dellaNuova
Accademia,sitrattienepiùspe cialmente sulle dottrine de'Fisici (Acad.) D a quel
luogo apparisce che il panteismo e il dualismo italico spingendo all'eccesso
l'induzione astrattiva, per stabilire l'identità della sostanza prima, avean
con cepito a priori un'essenza nascosta e universale delle cose distinta dalle
loro qualità manifeste pel senso,e che si convertiva in tutti gli elementi; m a
sulla natura di quest' intima essenza si disputava segnatamente tra le scuole
pittagorica, eleatica ed ionica. D'altra parte sor geva questione tra le
differenti scuole socratiche sull'or dine e sui destini dell'universo;gli
Stoici ammettendo una continua successione di mondi, affermavano temporaneo il
presente ordine delle cose; Aristotele lo diceva eterno; i primi trasportando
l'immagine dell'uomo nel principio supremo, concepivano Dio provvidente nei
particolari e negli universali; m a Stratone da Lampsaco e Democrito gli
rifiutavano ogni ingerimento nelle cose del mondo, inentre
Aristotile,accordandogli la provvidenza dei generi e delle specie, gli negava
quella dei particolari. Tal m e todo di ragionare a priori sull'essenza delle
cose,occulta intimamente all'umano intelletto,non piaceva a Tullio,
ond'e'consigliavaun piùmodestosapere; mostravacome la notizia, che noi
acquistiamo de'corpi, movendo dagli effetti, non comprende l'intima essenza e
l'efficacia delle cause, e se all'occhio stesso dell'anatomico, che pur p e
metra ne'corpi, non si manifesta l'attività che li avviva, molto meno ella si
manifesterà al Fisico, che non può tagliare e dividere la natura delle cose per
indagare i fondamenti su cui posa laterra. Procedendo di questo passo l'Autore
faceva vedere negli Accademici, nei Tusculani e nel libro della Natura degli
Dei,come i dubbj opposti alle eccessive affermazioni de'Fisici intorno alla
essenza delle cose si trasportavano dalla Nuova Accade mia sull'esistenza,natura
e destini dell'anima,sull'esi stenza e natura di Dio e sue relazioni
coll'universo, e sulle altre principali verità della scienza. Nei luoghi
citatiadunque e in qualche altro ancora,in cui l'oratore latino dipinge il
dissidio delle scuole sulle verità naturali, non può negarsi ch'egli si faccia
seguace della Nuova Accademia; e non pertanto s'ingannerebbe col Ritter chi,
attingendo di preferenza a quei libri che han fine principalmente metodico, e
dove le dottrine della Fisica superiore si toccano per incidente, ne inferisse
il dubbio universale di Cicerone sui fondamenti di tutta la scienza. Nella
fisica ciceroniana si vuol distinguere infatti le verità problematiche dalle
teorematiche; le prime ri feribili all'intima essenza e natura de'corpi, alle
leggi de’loro moti,alla costituzione fisica dell'universo;l'altre risguardanti
l'esistenza e natura di Dio, dell'uomo e del mondo, considerati nell'ordine
loro e relazioni supreme. Quanto ai problemi naturali,egli non impugnava la pro
babilità che la scienza pervenisse a risolverli, e, come primo presupposto
somministrato dalla filosofia alle dot trinesperimentali,ammetteva
lapercezionede'corpi;ma di contro all'orgoglioso dommatismo degli Stoici, degli
Ionj e degli Eleati gli pareva assai più degna del saggio la modesta
verosimiglianza della Nuova Accademia,e fu per certo impresa vantaggiosa alla
Fisica, in una età come quella quando gli errori del panteismo,e il difetto dei
metodi e degli istrumenti toglievano fede alle verità di sensata esperienza,
professare una modesta ignoranza del vero per arrestare in tal guisa i rapidi
progressi dello scetticismo universale. E lo scetticismo, diceva Cicerone, si
sarebbe aperta la via quando que'filosofi dommatici non avessero considerato,
come sentenziando con assoluta certezza di cose occulte e dubbiose, si
toglievano poi l'autorità d'affermarne altre d'evidenza maggiore; os servazione
importante e che mostra come anche rispetto alla scienza sperimentale Tullio
non professasse un dub bio assoluto, m a riconoscesse un ordinamento di gradi
dal verosimile al certo. Acad .prior.e De repub. M a la prova maggiore si è
che, mentre le intermi nabili e vane questioni ond'era ingombra la fisica, lo
la sciavano sconfortato e dubbioso,un desiderio nutrito dall'ingegno potente e
dall'animo roma no,loinvogliava delle indagini naturali,di quelle indagini onde
ci leviamo sopra noi stessi, e dispregiando la picco lezza delle umane
cose,proviamo un vivo sentimento del divino e dell'immortale. « Nè anche io penso
(così scrive Cicerone) che sidebbano tor via tali questioni dei fisici; poichè
viè un certo naturale alimento degli animi nel considerare e
contemplare la natura;ce ne sentiamo inal zati,e fatti più grandi, e nel
pensiero delle cose supe riori e celesti dispregiamo queste nostre del mondo
come leggiere e di nessuna importanza; anche l'indagine stessa di cose
grandissime e occultissime diletta oltremodo; se poi c'imbattiamo in qualcosa
che sembri verosimile,l'ani mo nostro è compreso da quel piacere che
supremamente è degno dell'uomo.» (Acad.prior., De fin.,IV,5). Innamo rato
quindi della fisica, come fonte di più alte specula zioni, egli rigettava le
fantasie grossolane di Democrito e d'Epicuro . De fin. Loda Zenone perchè
imitatore dell'antica accademia diligente indagatrice della natura (De fin.); e
i quesiti del l a fisica che lo mossero a tradurre il Timeo di Platone, gli
avevan det tato qualche anno avanti le pagine più eloquenti del trattato sulla
Repubblica; il ragionamento di Filo e lo stupendo sogno di Scipione. De rep., De
fin., Tuscul. Due conseguenze,per quanto ci sembra,discendono dal
contesto generale dei passi sopraccitati,e da una lettura complessiva dei libri
fisici di Cicerone: 1o che il filosofo latino, a misura che dalla ricerca delle
cose sensibili, e dell'essenza loro occulta all'intelletto dell'uomo,argo mento
de problemi, si levava col discorso induttivo ai teoremi della scienza,
scopriva illuminate da una luce interiore le verità più alte, sebbene in mezzo
alle tene bre del gentilesimononardisse determinarle; 2ache,ofosse la dottrina
stoica a cui pendeva,o l'indole viva e meri dionale del suo ingegno, nella
natura egli sentiva e rico nosceva il divino; e tale attinenza sentimentale e logica
della sua mente tra ilfinito e l'infinito,tra il contingente e
l'assoluto, tra il temporaneo e l'eterno gli era scala a pensare la relazione
ontologica;e questa poi per abito alsemipanteismo-dualistico di Platone e degli
Stoici lo conduceva probabilmente a immaginarsi l'intelletto umano emanato da
Dio,e Dio e le creature supreme disgiunte dall'universo de'corpi. In questo
metodo che sale per gradi di verosimiglianza dalla natura al divino, metodo
improntato sulle meditazioni socratiche,sta l'essenza della fisica di
Cicerone,e n’escono chiarite e per ordine le sue dottrine sull'esistenza e
natura di Dio, dell'universo e dell'uomo, sulla provvidenza e sulla libertà
dell'arbitrio. 2. La dottrina sull'esistenza e natura di Dio tiene il primo
luogo nella fisica di Cicerone.La causa di questo primato apparisce evidente
innanzi tutto per la sovranità incontestata dell'idea di Dio nella scienza.
Dio, oggetto necessario e reale assoluto ed eterno che si manifesta come prima
causa al di fuori di sè stesso nell'universo degli enti, e li governa volgendo
l i a d un fine immortale, che ne è prima legge,in quanto si rivela
all'intelletto dell'uomo nel mondo degl'intelligibili,come ragione
prima,signoreggia per fermo tutto l'ordine scienziale;e infatti,sebbene l'inda
gine della coscienza interiore sia principio e fondamento al sapere nell'ordine
della riflessione, è pur certo che i veri, i quali si dicono da’filosofi più
noti rispetto a sè stessi, e son centro d'infinite relazioni, come quello di
Dio,partecipano all'uomo quell'ampia veduta ideale,che sola lo conduce alle
armonie della scienza. Nè il primato del concetto di Dio si menoma punto se la
mente sale da ciò che muta a ciò che non muta,e dalla natura al di vino, una
volta ch'ella v’ascende guidata da un concetto necessario d'attinenza causale,
attinenza di termini cor relativi, l'uno dei quali è Dio stesso presente con
arcana e invisibile efficacia nel soggetto pensante. Anche senza l'unità assolutadeipanteisti,lafilosofiasicompone
dunque in forma di scienza,e la psicologia e la cosmologia si congiungono
insieme nel massimo problema della teologia naturale.La qual cosa è assai
provata dal metodo di Socrate, che movendo dalla coscienza produsse in
Platone una compiuta armonia di sistema, e aiuto il filosofo latino,
venuto in tempi di povere e scucite speculazioni, a ser bare un vincolo di
dottrine nei suoi libri di fisica, che scritti in ordine successivo di materie
e di tempo,debbono quindi esser presi ad esame da noi come un solo trattato.
Premesse queste cose, viene spontanea la domanda: quale
fosseilpensierodell'oratorelatinointorno a Dio.Se dopo una attenta lettura dei
passi delle sue opere, dove tal pensiero s'accenna,e un diligente ragguaglio di
questi passi tra loro,ci facciamo tal quesito, verrà spontanea pure
larispostach'egli dell'esistenzadiDio,diquelladell'anima e sua immortalità,
della provvidenza e del libero arbitrio non dubitava,e soltanto accoglieva una
più o meno decisa incertezza quanto al determinarne la natura; e il suo
criterio in sì ardua questione della filosofia era un vivo intuito e un
sentimento più vivo dell'eccellenza e della armonia delle cose palesata
internamente dalla coscienza morale, esternamente dai principj supremi di
universale consenso.(Kuehner. Scholten, Dissertatio philosophico-critica de philosophiæ
ciceronianæ loco qui est de Divina Natura. Amstelaed. In questo criterioioravvisoil
riformatore e il filosofo vero; il riformatore, perchè m o veva da ciò che v’ha
di più vivo e di più efficace nel l'uomo, dall'autorità delle tendenze morali,
il filosofo, perchè non se ne stava già al testimonio privato e indi viduale,ma
con deliberata indagine scientificacercavale note del vero nella ragionevole
natura dell'uomo, e nel suo carattere d’universalità. Tale osservazione è degna
d'es sere avvertita sin d'ora,perchè parecchi istorici della filo sofia,tra
iquali anche Ritter,considerando ilmodo ora dubitativo, oradommaticoconcui Cicerone
si esprimeinsif fatta dottrina, ilsuo riserbo nell'accettare le opinioni degli
altri, nell'esaminarle, nel ventilarle, han voluto dedurre che egli in questa
parte,filosofo di non troppo sottili spe culazioni, più che a una severa
riflessione, se ne stasse al sentimento individuale destituito da criterj
scientifici. (Ritter, Hist., Brucker, Degerando.) M a questi
storici non hanno considerato a quali tempi si abbattè Cicerone; tempi di
sfrenate passioni, di orribili scelleratezze, di guerre sterminatrici, ne'quali
ogni fon damento dell'edifizio civile crollava, e la scienza,abban donato il
sublime ministero di propagatrice del vero, si prostituiva alguadagno. Alloralavocedel
senso comune e degli affetti naturali, alterata dalla Gentilità, non so nava
nelle plebi,quale una volta,testimone dei veriuni versali e delle tradizioni
primitive; la voce del popolo non era più quella di Dio. Allora la tradizione
scientifica, che ravviata da Socrate s'era andata continuando, benchè con
notevoli alterazioni,lungo le scuole socrati che, pervertita dagli ultimi
sofisti avea perduto ogni sen timento del vero;talchèalfilosofo,chenon avesse
voluto o bestemmiar colle plebi o delirar coi sapienti, non ri maneva che
cercare iprincipj della scienza nella propria natura non corrotta e
nell'antichità veneranda. Ecco il fondamento che cercò Cicerone alle principali
dottrine della teologia,ed ecco icriterj che lo guidarono in mezzo ai
ravvolgimenti delle scuole sofistiche. Qui per altro è necessario notare
che,quando diciamo che in tempi di sì corrotta filosofia Cicerone ebbe e
metodo, e indagini pro prie,e guide non fallaci del vero,noi non lo rappresen
tiamo immune del tutto dalla funesta efficacia delle dot trinecontemporanee, nèintendiamo
ch'e'fossesì fortunato da ravvisare scevre d'errore nel santuario della
coscienza le verità principali.- Ebbe egli compiuta e perfetta n o tizia della
natura di Dio e delle sue perfezioni? conobbe senza mischianza d’errori i d o m
m i della spiritualità e i m mortalità dell'anima umana?ravvisò semplici e
schiette, senza infezione di panteismo e di dualismo,le attinenze dell'Ente
supremo coll'intelletto dell'uomo e col mondo? - I o so che tali quesiti furono
proposti più volte dagli storici della filosofia, e poichè parve che Tullio non
s e m pre rispondesse chiaro e deciso all'esame dei postulanti, gli fu negato
nome e autorità di filosofo, e valore d'in gegno speculativo. (Brucker lo
difese dall'ateismo; redi Bayle, Diz. Art.Spinoza).E veramente la
conclusione Il metodo ch'e'si propose apparisce manifesto dai tre libri D
e natura Deorum; e tal metodo discende dal fine di tutto iltrattato. Or qual
eraquelfine? Chiamare scenderebbe di necessità dai principj, quando si
potesse provare che la riflessione scientifica s'è trovata in ogni tempo nel
medesimo stato di certezza di contro al sapere naturale e al soggetto della
scienza,o che lo spirito umano nonsegueun cammino
diprogressivosvolgimentonellaetà dellastoria;e sela criticamoderna immune da
preoccupa zioni, adoperasse sempre una stessa severità imparziale nell'esame
d'ogni filosofo. Ma la cosa procede ben altri menti; perchè da un lato il
razionalismo alemanno coi suoi seguaci d'ogni paese, che ammette ogni
perfeziona mento scientifico come un prodotto spontaneo e succes sivo della
ragione nel tempo,non potrebbe,senza rischio di contraddire ai principj del
proprio sistema, negare che la forma logicale e il fondamento delle dottrine
dei filo sofi antichi sia rispetto a quel de'moderni notevolmente imperfetto;
d'altra parte il filosofo del Cristianesimo, che afferma oscurate e corrotte
prima della venuta di Cristo le tradizioni e le verità primitive, e restituite
dalla parola rivelatrice del Verbo quelle tradizioni e quelle verità
all'intelletto dell'uomo redento, non può non ravvisare nelle dottrine
cristiane un perfezionamento notevole delle dottrine gentili; infine, ed è
conseguenza del già detto, nessuno rimprovera ai filosofi Indiani, Italo-Greci,
a So crate, a Platone, ad Aristotele l'ignoranza, l'errore e le manifeste
dubbiezze intorno a parti sostanzialissime della scienza. Le quali cose
premesse, è inutile,parmi, far conside rare al lettore di Cicerone ch' e' non
vi troverà deter minato senza ondeggiamenti d'idee e d'espressioni il con cetto
di Dio; anzi dirò di più che tal concetto in parecchi luoghi delle sue opere
(come nel De natura Deorum ) apparisce più assai negativo che positivo. Resta
ora che cerchiamo in breve per quale indagine lenta e progressiva giungesse il
filosofo nostro a una verificazione sempre m a g giore di quel concetto
divino. ad esame le principali opinioni de'filosofi intorno a Dio,
discuterle,confutarle, e mostrare come le loro controversie sovra una parte sì
nobile della scienza siano ben sovente occasione e pericolo di scetticismo. Con
questo intendimento venuto egli ad esporre l'occasione del dialogo, racconta
come essendo stato invi tato nel tempo delle Ferie latine in casa
dell'accademico C. Aurelio Cotta pontefice e suo familiare e trovatolo insieme
con C. Vellejo, che allora avevavoced'esserein Roma ilprimotragliEpi curei,e Q.
Lucilio Balbo, stoico da paragonarsi ai più prestanti fra iGreci, cominciarono
questi a disputare, lui presente, della natura degli Dei, spartendo tutta la m
a teria in tre punti principali; vale a dire: se vi fossero Dei,quale fosse la
natura loro,e quale intervento aves sero nelle cose del mondo e degliuomini. La
qual spar tizione è conservata in appresso sì nell'esposizione delle dottrine
di Vellejo e di Balbo, come nelle risposte di Cotta, che replicando ogni volta
a ciascuno di loro, li confuta entrambi. Il dialogo sulla natura degli Dei,che
è dei più im portanti fra i libri speculativi del nostro autore, si riduce in
sostanza a una esposizione viva ed eloquentissima delle incompiutezze dei
sistemi sofistici, contraddicenti alla c o scienza e al suo naturale
riconoscimento, e si vede quivi come gli errori più perniciosi sul concetto di
causalità prima che è fonte a noi del concetto di Dio,accumulati da secoli,
corrompevano allora le speculazioni gentili. Il panteista, immedesimando Dio
colle creature, pervertiva l'idea della sua natura infinita e assoluta,
introducendo nell'ente senza difetti il maggior de'difetti,la negazione
dell'infinito e dell'assoluto; il dualista che svolge l'unità primordiale del
panteismo, segregando il Creatore dalle cose create e indiando la natura, si
perdeva nella contra dizione immortale di due infiniti coeterni, onde
moltiplicando il divino, l'annienta; il materialista e l'idealista l’un o
affogato nel senso, l'altro confinato nella fredda solitu dine dell'idea, o si
vedevano dileguare il concetto di Dio tra i fenomeni della materia, o lo
perdevano di vista nelle indefinite astrazioni; m a l'uno e l'altro riuscivano
a n e garlo,perchè sempre si nega per necessità di sofisma l'evi denza non
affermata per difetto di logica. Ora egli è a p punto questa legge inesorabile
dell'errore che Cicerone volle rappresentare mettendo alle prese l'Epicureo con
lo stoico, e sottoponendoli entrambi al sindacato della Nuova Accademia. E invero
quell'ardita e sconsigliata filosofia d'Epicuro che riesce sì lusinghiera
vestita dello splendore di Lucrezio, si mostra in tutta la sua nudità nel
discorso di Vellejo (Lib.I, dal C. VIII al XXI).Po neva egli come certo che gli
Dei sono,perchè la natura avea impressa negli animi di tutti la loro anticipata
notizia (apódnbev),e ne accennava vagamente l'essere e la figura, facendoli
eterni e perfettissimi e conformati a si militudine umana,ma non da materia
corporea e sensi bile,bensì da un fortuito accozzo d'immagini simili rin
novantisi all'infinito (imaginibus similitudine et transi tione perceptis); gli
Dei così costituiti dipingeva beati, e non curanti nè di sè stessi, nè delle
cose pertinenti agli umani. Ora è chiaro che le conseguenze d'una siffatta dottrina
eran ridurre la natura di Dio ad un puro con cetto della mente,ad un'immagine
d'inerzia non conci liabile coll'ordine e col moto d'ogni cosa creata. Ma a più
alto concetto di Dio si levava lo stoico Lucilio. Gli Stoici che,come vedemmo
nella prima parte,ammettevano contenuta nell'indeterminatezza primordiale della
materia passiva, oscura, divisibile, capace all'infinito di forme un'intima
energia che traendola all'atto ne costituiva la vita dell'universo, concepivano
Dio in questa vita,e m o vevano per affermarlo esistente dall'universale
consenso, dai prodigj,dall'armonia delle cose,e dalla eccellenza dello spirito
umano. Sostenuta da questi argomenti la prova fisica della provvidenza di Dio
che va dal C. XXXIII al LXVII del libro secondo, è uno dei più mirabili tratti
dell'eloquenza romana. Giunti a questo punto,se esaminiamo la polemica della
Nuova Accademia contro le dottrine d'Epicuro e di Crisippo, ci si presenta la
questione, a lungo agitata nelle scuole, qual sia in questo libro il vero
pensiero di Tullio su Dio,e se il dubbio accademico si manifesti in lui sotto
la per sona di Aurelio Cotta. I critici più antichi lo affermarono
risolutamente, alcuni più recenti come Scholten, Kuehner e Ritter, con qualche
riserbo. M a sì gli uni che gli altri si avvicinarono al vero senza
comprenderlo a pieno; perchè essi ponevansi ad esaminare quel libro preoccupati
dal concetto che Cicerone conforme a ciò che dice in varj de'suoi proemj,e nel
proemio del De natura Deorum, partecipassequividel tutto il dubbio fon
damentale e sistematico, il dubbio di Carneade sulle verità principali; laddove
bisognava invece considerare come il quesito proposto risguardasse intimamente
il complesso delle dottrine, nè quindi potesse essere risolto badando a qualche
frase staccata, m a solo serbando nell'esame la rigorosa armonia delle parti
col tutto. Alla qual cosa, se non m'inganno, noi ci aprimmo la strada sin da
prin cipio,quando distinguemmo nell'oratore latino due parti, e quasi due forme
dell'indagine scienziale; per l'una, che chiamerei intrinseca e dommatica, egli
si ravvicinava ai principj socratici, e ammetteva i fondamenti del vero nei
fatti della coscienza; per l'altra estrinseca e negativa, che eraildubbio della
Nuova Accademia, moderatamente partecipato da lui, egli confutava i sistemi
contemporanei con dedurre da più negazioni particolari una compiuta
affermazione del vero. Assumendo egli in tal guisa le dot trine d'Arcesilao,
più come istrumento metodico e inqui sitivo,che come sostanza delleproprie
opinioni,ed anzi, quel che è maggiormente notevole, rifiutando il dubbio
fondamentale sulla validità della scienza,stabilito da A r cesilao e da
Carneade, doveva avvenire (siconsideri bene) che il fondamento delle teoriche
tulliane contraddi più volte a quella sua apparenza di dubbio,talchè vi fos
sero in lui quasi due persone distinte, l'una delle quali negava,l'altra
implicitamente edecisamente affermava. Ora si avverta un poco come questa
contradizione, non però sostanziale,apparisca, più che altrove,evidente
nel l'opera che noi esaminiamo; e come,introducendosi ivi da un lato Cicerone
che assiste al dialogo senza prendervi parte, e dall'altro Cotta che vi
sostiene la parte di con futatorecol metodo della NuovaAccademia,èdato occa
sione alla critica di verificare con bastante certezza le sue opinioni,
raffrontando insieme la persona del ponte fice con quella dello scrittore. A
persuadersi di ciò ba sterebbe considerare qualmente, se Cicerone intendeva
celarsi sotto la persona di Cotta,era inutile allora che introducesse sè
stesso;ma egli si dipinse là in mezzo a que'disputanti, chiuso in un silenzio
veramente sublime, per rappresentare in sè l'immagine viva del sapiente, che,
sebbene certo per natura di veri infiniti, tuttavia procede cauto e riguardoso
all'acquisto della certezza scienziale. Noi affermiamo sin d'ora che Cicerone
possedeva da n a tura la certezza del teorema che prendeva a chiarire, perchè
egli stesso,alludendo a ciò nel proemio dove dis corre in persona propria, ci
dice che le discordie dei dotti intorno a materie importanti sono occasione
potente di scetticismo anche a coloro che han fiducia in qualche cosa di certo
(I. 14); e perchè i due primi capitoli del libro primo sono un testimonio
irrepugnabile del come il filosofo latino ponesse l'esistenza di Dio e la sua
prov videnza sui fondamenti della certezza morale. Il dubbio di Cicerone nel
libro De natura Deorum era dunque semplicemente verificativo delle ra gioni già
possedute, e avea per fine sostituire alla cer tezza naturale la certezza
scientifica. M a d'altra parte chi guardi le dottrine della Nuova Accademia,
quali ci sono rappresentate nella persona di Cotta,che le conduce alle ultime
conseguenze,siaccorge tosto che la loro indole negativa non era già apparente e
metodica, m a procedeva dall'intima essenza dell'idea lismo d'Arcesilao, il
quale dubitando d'una reale corri spondenza tra l'essere delle cose e le
potenze conosci tive, dovea dubitare pur anco della certezza naturale e del
senso comune, testimone per lui d'un'ingannatrice evidenza. Questa è la
ragione per cui Cotta nelle sue ri sposte moveva dal negare agli Epicurei ed
agli Stoici la nozione preconcetta di Dio, attestata dal senso co mune. Ora
siavvertacome la Nuova Accademia non affermando un proprio e fermo fondamento
di vero negli umani giudizj, e solo una tal quale verosimiglianza eguale per
tutti, mancava di prin cipj certi e positivi da costituirvi la scienza,e
conseguen temente anche di un criterio sicuro a cui ragguagliare la critica
de'sistemi contrarj. Questi sistemi, conforme alle opinioni della Nuova
Accademia, non erano quindi alcun chè di vero o di falso secondochè si
avvicinavano o si dilungavano dai principj irrepugnabili della scienza; con
tenevano tutti, sebbene in gradi differenti, la verosimi glianza concessa
all'umano intelletto, e solo quando il legame logico, che intercede di
necessità tra le conse guenze e i principj, non era strettamente serbato,
allora soltanto si dava in essi l'errore. Un tal criterio, sostan zialmente
negativo e relativo,abbisognava (sidirà)diun criterio positivo e assoluto
desunto dall'evidenza de'prin cipj supremi,su cui posa incardinata la necessità
logica d'ogni sistema;ma laNuova Accademia non vibadava, e ragguagliando
ciascuna filosofia colle premesse del pro prio sistema, tentava coglierla in
evidente contradizione. (Nelle opere di Cicerone passim.) Un si manifesto
contrasto tra il dubbio verificativo e scientifico del nostro Autore, e il
dubbio scettico della Nuova Accademia apparisce in ogni passo de'suoi libri, in
cui egli introduce la persona di qualche Accademico che confuta gli opposti
sistemi; apparisce poi più evi dente che mai nella conclusione del De Natura
Deorum, dove Tullio, uditi i filosofi disputanti, termina dicendo: la
disputazione di Cotta (Accademico) sembrò a Vellejo (Epicureo)più vera;a me
l'altra diBalbo (Stoico)più verisimile; il che è quanto dire che la Nuova
Accademia dubitando di Dio si avvicinava agli Epicurei, mentr'egli, certo di
questo vero,si allontanava dagli uni e dagli altri accettando in parte le
dottrine del Portico.E che dim e gli opoteva eglifareinmezzoalturbiníode’sistemi?Estinte
quasi del tutto le sacre tradizioni, il consentimento p o polare offuscato dai
vizj, da un lato, imbestiati nella materia negavano gli Epicurei la
spiritualità del concetto di Dio, e la sua provvidenza, dall'altro negavano gli
Accademici la efficacia del senso comune nell'affermare Dio,e sottili
argomentatori lo contrapponevano al male; ai primi Tullio opponeva nel proemio
citato la dignità dell'umana mente,ilbisogno innegabile della religione
consentito da tutti;ai secondi,l'efficacia del testimonio universale,gli
affetti dell'animo,isupremi principj della ragione e la libertà del volere (Tusc.,
d e Nat. Deor., De Leg., passim);del resto egli pendeva verso gli Stoici,e perchè
consentivano il consentito da lui, e perchè lo in namorava quel loro sublime
concetto della umana eccel lenza e dell'armonia delle cose.Come poi egli
movesse dalla coscienza morale, osservata al lume d'un criterio scientifico,
sarà dimostrato in altra parte di questo dis corso col libro delle Leggi, dove
l'efficacia esercitata nell'animo nostro dall'idea d'una suprema sanzione gli
faceva porre a proemio di tutte le istituzioni civili Dio provvidente,e
allegarne per prova la natura dell'uomo, solo fra gli animali, in cui sia
innata la notizia di Dio, e alberghi un animo immortale originato dal cielo. De
Leg. Premesse queste considerazioni, se ne possono dedurre tre cose. Il vero
intendimento di Cicerone nello scrivere il De Natura Deorum fu,esporre e
confutare i principali sistemi contemporanei, e a tal fine egli assunse come
istrumento metodico e inquisitivo il dubbio della Nuova Accademia,senza
accettarne lo scet ticismo; 2o Cicerone non rappresentò sè stesso nella per
sona di Cotta, m a soltanto la forma estrinseca del m e todo proprio; 3o Il
filosofo latino volle significare nelle parole del proemio, e della
conclusione,e nel silenzio ser bato in tutto il dialogo ch'egli aveva di Dio un
alto concetto, che quel concetto nella sua mente era certo di certezza
naturale, m a che in mezzo alle tenebre del Ge n tilesimo e alla discordia dei
dotti,non ardiva determinarlo in ogni sua parte, e sostituirvi una assoluta cer
tezza di scienza. Ora si domanda, perchè non riuscisse a Cicerone definire a sè
stesso questo concetto. Dimostra l'Ontologia come l'intelletto dell'uomo
investigando le proprietà metafisiche dell'ente in ordine ai concetti
universali, distingue l'essenza dall'essere di una cosa;quella come idea
generale rappresentante una possibilità di cose indefinita, questo un che
d'attuale, di esistente e di determinato in sè stesso. Ora si badi che ciascuna
cosa esistente, sebbene offerta all'intendimento dell'uomo dall'intelligibilità
universale della sua essenza, in quanto è esistente,vale a dire in quanto è un
atto reale dell'essere, cade per via de'sensi sotto l'apprensione delle potenze
conoscitive,e come tale è appresa particolare e finita; dall'apprensione poi di
molti finiti nella serie degli atti intellettuali la mente dell'uomo,soccorsa
dalla riflessione, le va si al concepimento delle cose infinite. Ma il concetto
dell'infinito, che è cima della piramide ideale,può es sere inteso in diversi
significati; l'un significato che ci offre l'entità assoluta, necessaria e in
ogni sua parte perfetta; l'altro che ci rappresenta una semplice entità
indetermi nata,e un mero portato dell'astrazione mentale.Però seb bene un
intervallo notevole disgiunga nell'intelletto del filo sofoe dell'uomo volgareitre
concetti del finito, dell'infinito e del non definito, merita di essere
considerata quella ragione qualunque di rapporto e di similitudine per cui essi
possono scambiarsi talvolta. La riflessione naturale aiutata dal lume della
scienza e dalla pienezza delle tra dizioni divine, avea concepito ab antico,
indi al termine dell'Era pagana ravvisò con evidenza maggiore nelle dot trine
cristiane l'idea dell'infinito assoluto, dell'ente per essenza correlativa
necessariamente all'idea del finito, vide in quest'ultimo, naturalmente
determinato e imper fetto,come non darsi possibilità d'attoinfinito,così nean
che necessità d'eterna esistenza,onde dedusse ilfinito procedere per atto
creativo dall'infinito, il temporaneo dall'eterno,il contingente dal
necessario.Tale è la teorica cristiana della creazione, fondata sopra una serie
logica di concetti, la cui necessità è confermata a noi tutti fino dai
primi anni in una voce interiore che ci parlò sublimi cose di Dio,in un
continuo desiderio,che ci travaglia inconsapevoli per tutta la vita in cerca
d'una perfezione immortale. Nel procedere che fa la mente a questo apice dei
concetti v’ha per altro un pericolo d'arrestarsi per via;chè sebbene
ilsentimento e l'intuito dell'infinito non possa verificarsi nell'uomo senza
una segreta unione del l'intelletto con Dio (qualunque poi sia questa unione,e
in qualunque modo s'effettui), e sebbene per l'attinenza di creazione l'atto
infinito ed eternale del Creatore costi tuisca nelle cose finite alcunchè di
somigliante a sè stesso, cioè un'indefinita potenzialità d'atti,di forme, di m
o menti,è però assurdo scambiare quell'attinenza coll'iden tità, e quella
potenzialità indefinita coll'infinito che la pone.Tale assurdo è l'origine del
concetto d'indefinito applicato alla causa creatrice.Fingasi ch'io pensi
iltempo, lo spazio, o l'indefinita potenza del mio pensiero; allora (e può
facilmente avvenire ciò che tutti provammo alla vista di pianure interminate e
di mari, o in un facile abbandono della mente a sè stessa), se in quell'arcana
presenza di Dio la fantasia prende il di sopra sulla r a gione, io mi
rappresento quell'ordine d'atti, di durate, di coesistenze come infinitamente
continuato, continuato per una perpetua remozione di limiti che, a dir
così,sono e non sono ad un tempo; e quell'abbaglio di fantasia si muta in un
concetto reale,ed io penso l'infinito,l'eterno, l'immenso di Dio sotto
l'immagine d'indefinito.Così nacque ilpanteismo in Asia,in Italia ed in
Grecia;e così pen sano l'assoluto i panteisti Alemanni, e l'Hegel segnata
mente. Veduta la differenza d'origine dei tre concetti di finito, d'infinito e
d'indefinito,si domanda ora quanto all'essere loro quale d'essi sia negativo.
Per fermo l'infinito,se ne togli il materiale significato della parola,
evidentemente nel suo concetto non ha nulla di negativo, desso che non ha
limiti ond'è costituita negli enti la negazione dell'es sere; non limiti di
contingenza,perchè necessario, non limiti di tempo, perchè eterno, non
limiti di modi e di mutazioni,perchè assoluta sostanza;anzi èinfinitamente
positivo come causa infinita, e perchè dotato d'efficienza assoluta pone dal
nulla l'effetto, e perchè ne rappresenta in sè in modo sopraeminente e
immensurabile le perfezioni finite.Il finito poi da un lato è negativo nella
sua essenza ideale, come rappresentante all'intelletto un che fornito di limiti,
dall'altro lato è positivo nel suo essere come atto sussistente e determinato;
l'indefinito che è propria mente l ' i po y dei greci, è negativo nell'essenza
e nel l'essere;nell'essenza c o m e astratta potenzialità del finito,
nell'essere come un qualcosa che perennemente diviene, e non è mai; e dico che
è negativo in ogni sua parte, per che se il positivo del finito consiste
nell'essere determinato come atto individuo e concreto, l'indefinito che nega
quella indeterminatezza, si riduce ad una pretta astrazione mentale e per
ultimaconseguenzarisolvesiinnulla.A chipoisi maravigliasse che ilconcetto
d'indefinito,cima delle astra zioni, si fosse pôrto per tanto tempo e a tante
nobili menti in luogo del concetto più naturale assai d'infinito a spiegare la
divina entità, io addurrei per ragione lo strano giuoco della fantasia che
nelle nature vivamente passionate si mesce alle operazioni delle potenze cono
scitive, addurrei l'oscurarsi delle sacre tradizioni onde avviene che
nell'animo abbandonato a sè stesso la divina luce dell'intelletto soggiaccia
agli adombramenti del senso, e infine, ultima conseguenza di ciò,la superbia
dell'uomo che Dio e l'universo volle rassomigliati a sè stesso. Io parlo cose
ben chiare a chi abbia sufficiente notizia della Storia della Filosofia, quando
dico che la Paganità tutta avanti l'Era volgare,e nell'Era volgare tutti i
filosofi più o meno infetti di paganesimo ignorarono ilvero con cetto
dell'infinito applicabile alla natura di Dio;dico il vero concetto,e non escludo
che anche tra'pagani alcuni, e segnatamente Platone,vi si accostassero in
parte; tale è l'evidenza suprema di quella idea all'umano intelletto, e tale il
sentimento non repugnabile che la creatura rav vicina al Creatore. Ma tornando
alnostro filosofo,egli,come tuttipiùo meno gli antichi, come tutti i pagani,
rimase molto al di qua dal concetto genuino e legittimo dell'infinito. C o n
tuttociò,sebbene nel De Natura Deorum rappresenti del concetto di Dio la parte
più negativa,tra perchè quivi egli procedeva per metodo d'eliminazione
confutando i sofisti, e perchè mostrò avvicinarsi all'idea indefinita che ne
avevan gli Stoici,è noto alla Storia della Filosofia che nelle sue dottrine
s'incontra sovente l'altro concetto più positivo degli attributi dell'anima
considerati come corre lativi, o analogici agli attributi di Dio. Questa
teorica, accennata in fine del De Natura Deorum, ritorna negli ultimi capitoli
della Repubblica,e nel primo libro dei Tusculani. Argomento di quei capitoli
della Repubblica è il sogno di Scipione Affricano imitato dalla Repubblica di
Platone, ed è necessario fermarvisi un poco, perchè, sebbene ivi si tratti
dell'immortalità come premio delle virtù domestiche e civili, e perciò la
materia contenga un intendimento morale,l'essenza di quelle dottrine si ri
connette intimamente alla fisica.La ragione poi è chiaris sima. Nel fondo di
tutti isistemi gentili, per quanto con nessi consottilissime prove, eanimatidaun
intimo principio diidealità,siannidava pur sempre una ragione dimateria lismo,
procedente dall'idea indefinita ch'essi qual più qual meno s'eran formati
dell'infinito,e che originandosi da un ristagno dell'immaginativa nei fenomeni
della m a teria e del senso,ivi la riconduceva pur sempre giù dalle altezze più
metafisiche della scienza. I Gentili, e segna tamente gl'Ionj, considerando in
tal guisa l'operare delle cause naturali,per quindi dedurne la prima causa del
l'universo,tra i fenomeni esterni posero particolare atten zione al moto, e
perchè al moto si riducono sostanzial mente tutte le trasformazioni della
natura, e perchè al moto s'attribuisce in generale la causa de'fecondamenti
terrestri; il moto poi richiede un'intima forza motrice delle sostanze,
altrimenti non si spiegherebbe come, data l'inerzia della materia,dall'una sostanza
e'si comunichi all'altra;ecco perchè negli antichi panteisti e semipanteisti, e
nei loro imitatori moderni primeggia il concetto di forza (Büchner, Forza e
Materia ); applicate poi questo concetto delle forze particolari
all'universalità delle cose, e immaginate un'unica sostanza a cui segua
necessaria mente un'unica forza, e avrete il panteismo dinamico di Capila,
degl'Ionj, del Timeo e degli Stoici.Questo sistema dinamico ritiene nel suo
fondo l'impronta del pensiero che lo concepisce. Di fatto, poichè in esso la
riflessione procede astraendo per ragionamento induttivo lungo una serie di
cause modali dalla più manifesta e determinata ad una occulta e generalissima
cui sidà ilnome di causa prima, e tra le cause modali,fornite di più intima e m
a nifesta efficacia,l’anima,che ha coscienza viva del proprio essere,è tratta a
concepire sè stessa per prima, ne viene che l'ultima causa si pensi ad immagine
dell'anima come un alcunché diuno,origine difattimolteplici,presente col
l'unica attività a ogni parte della materia informata,fonte di vita, di
movimento,di senso. Stabilita questa dottrina panteistica,apparisce chiaro
quali conseguenze ne prover ranno alla dottrina dell'anima. Il filosofo gentile
che dal concetto dell'anima è tratto a pensare la causa prima dell'universo, e
la natura di Dio che lo informa, discen dendo novamente da Dio e dall'universo
in sè stesso, immaginerà l'anima d'origine e d'attributi divini (h u m a nus
animus decerptus ex mente divina. Tusc.), ne spie gherà l'intima efficacia e il
modo d'operare delle sue facoltà a somiglianza della natura divina, e
finalmente confondendo l'eternità, attributo dell'ente infinito, col
l'immortalità che appartiene agli spiriti finiti, farà eterna e immortale
l'anima,dicendo con Platone che essa è una causa,origine di moto ad
altre,senzaorigine essa stessa e perciò senza fine. De Rep., e Tusc. Questa è
la sostanza del sistema panteistico (o semi panteistico) esposto dal filosofo
nostro negli ultimi capi della Repubblica. Ivi descrivendosi in modo stupendo
la costituzione dell'universo, si rappresenta la terra circon data dalle nove
orbite dei pianeti animati da divine menti, dei quali l'ultimo che
contiene tutti gli altri,è sommo e principe Iddio. D a questi fuochi sempiterni
disceso l'animo dell' Da queste considerazioni apparisce quanto sia intima
mente collegata alla teologia naturale la psicologia del filosofo latino.Se noi
volessimo recare per esteso la ra gione più generale di questo legame, e
spiegare coi filo sofi recenti quel modo d'induzione correlativa, onde la mente
negando al finito le sue limitazioni, si leva a cono scere l'infinito di
Dio,trascenderemmo di troppo itermini della presente questione. Invero la
notizia che all'uomo è concessa dell'assoluto divino,procedendo per analogie e
rap presentanze il cui contenuto ci è pôrto da elementi speri mentali, dee
riuscire di necessità inadeguata all'oggetto; uomo, è il divino esso pure
che governa e muove il corpo come il divino principe, l'universo;sempiterno,immortale,
rinchiuso nel corpo come in un carcere,e desideroso della sua dimora
celeste,dove restituito dopo la morte in premio delle virtù cittadine godrà
eternamente la compagnia degli spiriti immortali.In questo luogo son chiare le
remi niscenze di Platone e degli Stoici; ma degli Stoici v'è poco; laonde io
non vi riconosco col Ritter un prevalere del concetto stoico di materialità sul
concetto della spiritualità divina (Hist. de la phil. anc.); perchè, sebbene
Cicerone volendo abbellire della fantasia le sue dottrine fisiche ai lettori
romani,riproducesse ivi la parte più immaginosa e più sensibile del sistema pla
tonico del Timeo,è noto come quelle immagini nascon dono nell’Ateniese una
idealità di concetti sublimi,e più m'è argomento che Cicerone in questo luogo
si scostò dagli Stoici, il vedere com’ei faccia immortale non sol tanto l'anima
universale, m a anche le anime particolari, mentre per confessione del dotto
Alemanno, « era con forme alle dottrine degli Stoici il ricusare all'anima indi
viduale, come parte dell'anima universale, l'immortalità insensoproprio.» (Ritter,
Physique des Stoïciens. Vedi però nelle Confessioni del Mamiani, Ontologia,
acutamente accennata l'opinione contraria.) inadeguata, io dico, perchè
l'animo che giunge al concetto di Dio trascendendo infinitamente sè stesso,non
può far sì che nelle conseguenze di quella induzione non soprabbondi tuttavia
il sensibile e il contingente che si conteneva nelle premesse; e perchè in
quella via che dalla natura ci mena al divino,noi siamo ancora molto di qua dal
ter mine che dovremmo varcare,sebbene pur di qua piova su noi la luce
incommutabile dell'infinito riflessa dal l'universo a quel modo istesso che il
sole, non ancora spuntato sull'orizzonte, si rifrange scintillando nel mare. È
questa la vera causa per cui Cicerone, comecchè s'avanzasse d'assai soccorso
dall'indole sublime,e l'universalità dell'ingegno latino, non giunse però (e lo
vedemmo) al concetto ben determinato dell'infinito; ma è vero altresì che uno
fra gli studj più belli della Storia della Filosofia si è il cercare nei suoi
libri popolari e speculativi come il concetto di Dio,correlativo a quello del
l'anima, si va grado a grado perfezionando nelle opere fisiche, finchè perviene
alla sua pienezza nelle dottrine morali. Un primo passo di questa ardita
speculazione noi lo vedemmo nel De Natura Deorum,libro essenzialmente istorico
e disputativo, in cui Cicerone, avvolto nella di scordia delle sètte,e inteso a
paragonarle tra loro e a c o m batterle con ogni argomento,non sa affermar che
ben poco, e si restringe all'esame delle altrui opinioni; tien dietro a questo
nell'ordine de'suoi pensieri il Sogno di Scipione, dove il concetto di Dio si
determina meglio, e apparisce anche più chiara la tendenza alle dottrine
platoniche; m a quelle dottrine sono trattate ampiamente nel primo libro delle
Tusculane,testimonio del suo metodo che de sume i principj dell'osservazione
intima della coscienza, e si sforza, trascendendo il creato, di profondarsi nel
l'essenza di Dio. In quei capitoli si tratta dell'immorta lità, secondo il
metodo della Nuova Accademia;cioè vuol provarsi (giusta l'intendimento metodico
del libro) come ammessa o non ammessa la indistruttibilità dell'anima
umana,segua in ogni modo che la morte non è da te mersi; l'immortalità poi si
dimostra movendo dalla tra dal dizione degli antichi, tradizione efficace
quod propius aberant ab ortu et divina progenie, dal consenso univer sale che è
legge di natura, manifesto nelle consuetudini, nelle leggi, nelle cerimonie,
negl'istituti, e dal senti mento naturale, onde alberga nelle menti degli
uomini, e segnatamente dei grandi,il desiderio della gloria che Cicerone chiama
con bella immagine un augurio de'se coli futuri. Sostenuto da tali prove la cui
efficacia de riva dal fondo del pensiero platonico, egli per ispiegare la
condizione dell'anima dopo la morte, ricorreva a de terminarne la natura, e
contro gli Stoici che le aveano concesso un'immortalità temporanea, affermava
con ra gione essere più difficile assai pensare l'anima rac chiusa nel corpo,
che immaginarla libera da ogni m a teria, e tornata ad abitare nel cielo
ond'ella è discesa. In queste parole si accenna la spiritualità che prevale tra
gli attributi dell'anima; sennonchè il nostro filosofo,che avea penetrato il vero
senso scientifico della parola, dicendo: ciò che è spiri tuale, sebbene non
percepibile al senso, andar soggetto per altro all'apprensione del
conoscimento, venuto poi a determinarlo, rimase un po'titubante;onde,sebbenetra
cinque elementi, che secondo Aristotele costituivano la sostanza terrestre,
scegliesse il quinto non nominato, più che non inteso a costituirne l'essenza,
e rifiutasse le gros solane fantasie d’Aristoxeno,di Democrito e d'Epicuro, quando
se la immaginò separata dal corpo, necompose una dottrina non al tutto
spirituale. Concedansi queste incertezze, da cui non anda assoluto neanche
Platone, al bujo sempre crescente delle speculazioni gentili.Ma da modesti
principj si leva il filosofo latino alla sublimità della scienza. Egli è tanto
inclinato con Platone ad affermare l'anima come una natura perfetta e immune da
ogni contagio colla materia, che la vuol rinchiusa nel corpo come in un
carcere; colle dottrine della filosofia moderna ne inferisce la semplicità dal
sentimento unico ch'ella ha del molte plice;riproduce,come nella Repubblica, il
noto argomento platonico tolto dall'eternità de'principj motori, e chiama
plebei quei filosofi (gli Epicurei)che non ne consentivano l'efficacia; espone
anche l'altro che all'anima attribuisce l'immortalità per l'intuizione degli
eterni esemplari. Che dunque inferiva da queste prove? Egli stante la
incertezza de'filosofi contemporanei, non si perdeva a determinare in che
proprio consistesse l'essenza dell'anima, o dove la sua sede nel corpo; atte
nendosi al concetto di causa,rivendicava al ragionamento induttivo sui fatti
interiori la sua validità di contro al l'induzione delle scienze sperimentali;
e si volgeva agli empirici materialisti,maravigliandosi come negassero poter
concepire l'essenza dell'anima separata dal
corpo,essiche pur tanto poco conoscevano dell'initimo operare della
materia; argomento valevole anch'oggi a smascherare i pretesi nemici della
Metafisica,se la reverenza alla ne cessità logica de principj fosse mantenuta
nel fatto, come è predicata a parole,da quanti amano chiamarsi seguaci delle
discipline speculativ e. (T u sc., Cf. Cato M., de Am. Meditando i capitoli
della Repubblica e delle Tuscu lane, alcuni del Catone Maggiore e del Lelio, e
qualche squarcio delle Orazioni (Miloniana), si vede in tutta la psicologia del
nostro filosofo, anzi in ogni parte della sua fisica questo ritorno costante dell'induzione
correlativa;nè sfugga all'osservazione del critico una nota importante di
questa dottrina, e cioè che, sebbene parrebbe a primo aspetto avere Cicerone
desunto la cer tezza scientifica della esistenza e delle perfezioni di Dio
dalla contemplazione dell'universo e dell'animo umano, apparisce invece in più
luoghi che un sentimento vivo del l'eccellenza di Dio,nutrito dall'indole
religiosa, e dalle tradizioni latine, dà lume e certezza al concetto positivo
dell'anima. E invero, se egli mostra talvolta di dubitare della semplicità e
immortalità dell'anima u m a n a, dell'esi stenza di Dio e delle sue perfezioni
infinite non dubita mai.«L'origine dell'anima umana,egli diceva nel De
consolatione, non può in alcun modo trovarsi su questa terra. Non v'ha in
essa niente di misto, nè di concreto o di terrestre; niente d'aria, d'acqua o
di fuoco. I m perocchè tali sostanze non sono suscettibili di m e m o ria,
d'intelligenza o di pensiero, nulla hanno in loro che ritener possa il passato,
prevedere il futuro, c o m prendere il presente; le quali facoltà sono
unicamente divine, e non possono in guisa alcuna essere venute nel l'uomo,se
non discendon da Dio. La natura dell'anima è perciò d'una specie
singolarissima, e da queste comuni e cognite nature distinta; talchè, qualunque
esso sia, ciò che in noi sente e gusta,vive e si muove,deve essere per
necessità celeste e divino, e però eterno. Infatti Dio stesso,che èinteso da
noi,non può intendersi in altro modo che come una mente liberissima e
pura,sgombra da ogni concrezione mortale, che vede e move ogni cosa, e sè
stessa con sempiterno moto; di questa sorta e di questa stessa natura è l'anima
umana.» Con queste parole conchiude Cicerone nel primo dei Tu sculani la
dimostrazione dell'anima e di Dio, dimostra zione mirabile per lucentezza
speculativa, e per schietta e dignitosa eleganza; qui lo vedi abbandonato al
nobile istinto del genio, e a un'immortale devozione pel bello, levarsi nel
mondo degli universali, nella dimora degli spiriti eterni, e indovinare quasi
sui vestigj di Platone i fondamenti ove posa la teologia del teismo; salvochè,
se il lettore tien dietro al procedere delle prove, e al le game segreto che le
connette,s'accorge tosto come per l'abito d'indurre dalle cause modali manchi
alla sua d e finizione di Dio la vera trascendenza logica del concetto, sebbene
(come vedremo) ve lo ravvicinasse d'assai nel primo delle Leggi la viva
coscienza dell'ingegno latino. La maggior parte di coloro che ci hanno
preceduto nella critica di Cicerone, hanno esaminato diligentemente l'indole
delle prove a cui s'appoggiava la dottrina del l'immortalità, e alcuni andarono
tant'oltre, nonostante le sue continue e ripetute affermazioni,che da certe epi
stole consolatorie agli amici (la sedicesima e l'ultima del libro V,e la
ventunesima del libro VI, ad Diversos)de Principio etherio
flammatus Iuppiter igni Vertitur et totum collustrat lumine mundum, Menteque
divina cælum terrasque petissit: Quæ penitus sensus hominum vitasque retentat,
Ætheris æterni sæpta atque inclusa cavernis. » (De suo Consul. De Divin. dussero
ch'egli ne dubitava; m a a queste accuse rispose vittoriosamente Gautier de
Sibert nell'Accademia di Francia,e Kuehner piùtardiloconfermava.Delresto per
ciò che risguarda gli attributi divini, e se Cicerone ammettesse uno o più
dèi,e se quest'unico Dio facesse veramente eterno,onnipotente,necessario, immutabile,e
qual fosse conforme alla sua dottrina la condizione degli animi separati dal
corpo, questione trattata da parecchi critici, io son d'avviso che tutto ciò
non possa stabilirsi con assoluta certezza, varie opere del nostro filosofo es
essendo andate perdute, nè trattando egli espressamente tali materie nelle
altre che ci sono rimaste.E nondimeno per chi mediti senza preoccupazione i
suoi libri v'è tanto ancora quanto basti a mostrare,come in mezzo a una re
pubblica corrottissima e ad uomini scelleratissimi l'ora tore latino cercasse
nel concetto genuino di Dio e del l'immortalità un degno conforto alle sventure
civili, e un magnanimo entusiasmo alla sua parola propugna trice ultima delle
libere istituzioni; egli che in uno dei suoi poemi,composto nel bel mezzo della
vita politica, avea definito Dio con quella immagine sublime di vera poesia:
Oratornandoalla dottrinateologica, questosegregare la mente dell'uomo da ogni
natura corporea,e sublimarla a una parentela soprannaturale con Dio, il che è
già accennato nel sogno di Scipione,dove nel senso platonico la natura
materiale del corpo è opposta a quella del l'anima, e la vita nostra è chiamata
una morte ci dà oc casione a stabilire un punto importante della fisica di M.
Tullio, cioè il suo dualismo, o semipanteismo. Di tal dualismo mi pare
sipossano arrecare due cause;l'una comune
allaleggeconcuisisvolgonoisistemifilosoficinella storia,l'altra ristretta particolarmente
all'ingegno di Cice rone.Quanto alla prima causa,se ricordiamo ilgià detto in
torno al modo con cui l'uomo partendo da sè stesso conce pisce nell'indefinito
del suo pensiero l'indefinito di Dio,e l'anima lungo la serie delle cause
modali da sè,prima causa più manifesta e più vicina a sè stessa,immagina la
divina causalità, intenderemo come fra le contradizioni del panteismo quella
che subito si porgeva più chiara alla riflessione esaminatrice,fosse la
medesimezza dell'anima e di Dio infi niticollamateriafinita,passibile,imperfettaedalrifiutodi
questa contradizione uscisse il dualismo di Dio e della m a teria,dell'anima e
del corpo,dell'intelletto e del senso.Tal dualismo desunto da Platone, benchè
in fondo contradit torio esso pure,indica un vivo sentimento dell'eccellenza di
Dio e dell'essere umano, e mi piace riconoscerlo come proprio degli uomini
sommi; laonde è ben naturale vi dovesse aderire Cicerone, non tanto perchè
innamorato degli esempj delle scuole socratiche la cui efficacia infor mava
vivamente le dottrine romane, quanto perchè poco amante della incertezza delle
scienze sperimentali, e testi mone egli a sè stesso dell'altezza dell'umano
ingegno,la cui onnipotenza tante volte gli apparve ne'combattimenti immortali
della tribuna. (Vedi più luoghi negli Ufficj e segnat. L. III, c. XLIV, ed
opere pass.) E poi se quel dualismo soddisfaceva da un lato le aspirazioni dei
più grandi intelletti, e metteva la notizia diDio al sicuro da ogni condizione
del finito, d'altro lato il concetto astratto che dava di quello la scuola
socratica faceva nascere il dubbio sul come spiegarne le relazioni, pur
necessarie, coll'universo dei corpi. Tal dubbio implicava il solito quesito sul
come conciliare l'ente col non -ente, il finito coll'infinito, il relativo coll'assoluto,
la perenne mutabi lità de'moti fenomenali colla quiete immutabile dell'es senza
prima, quesito continuamente proposto dalla G e n tilità,nè mai risoluto,perchè
mancava a sciogliereilnodo il vero concetto d'attinenza creatrice.(Vedi
Platone,Sofi sta.) Quindi la mente desaggj ondeggiava di continuo da un
termine all'altro di quella contradizione immortale. Enrico Ritter, più volte
citato, esaminando il sentire del filosofo latino intorno a siffatto quesito, e
rappresentando con vivi colori quell'opposizione ch'ei pose tra la natura e il
divino, non ne conobbe forse la causa più vera; la quale gli sarebbe apparsa
evidente se in luogo di vol gersi soltanto all'indole dello scrittore, l'avesse
cercata in questa contradizione che affaticava da più secoli la filosofia
pagana. Ma il Ritter s'appose anche in parte, poichè quel vivo intuito delle
perfezioni divine ed umane, e della differenza tra la materia e lo spirito che
prima avea salvato Cicerone dalla dottrina d’un'unica sostanza, ora lo teneva
sospeso nelle contradizioni del dualismo, massima delle quali era il contrasto
tra la libertà divina ed umana e le leggi fatali della natura che spegneva ogni
fede nella provvidenza, nel libero arbitrio e nella religione degli avi. Come
il nostro filosofo mantenendo il dualismo inten desse di conciliare l'efficacia
della prima cagione nelle cagioni seconde col moto necessario dell'universo,
come spiegasse quell'atto misterioso di causalità con cui l'in finito si
congiunge al finito, e lo comprende e lo sostiene senza identificarsi con esso,
e, mentre faceva con Platone emanato da Dio l'intelletto,rivendicasse all'altra
parte del l'uomo,identica colla natura sensibile,l'autonomia de'pro prj atti,e
l'imputazione morale,è quesito di non poca dif ficoltà, sì perchè la sua
dottrina fisica del dualismo non è abbastanza accertata,e perchè d'altra parte
ne’libri che esaminiamo al presente, ma più ne'morali, s'incontrano
affermazioni decise e ben ragionate sulla provvidenza di Dio e la libertà
dell'essere umano. (De Leg., Fin., Tusc., N. D., Catil., pro Marcello, ad Att.,
ad Div. Certo s'egli non fosse nato nell'ultima età dell'era pagana, e avesse
accolta quella teorica della creazione ex nihilo, chiamata giustamente da
Terenzio Mamiani una delle maggiori conquiste ottenute dalla speculativa dei
nuovi tempi sulle età trapassate, (Conf.) ha tratto dalla notizia di Dio
creatore un concetto chiaro delle sue re lazioni col mondo, e i due ordini
naturale e soprannatu rale gli sarebbero apparsi intrecciati fra loro per quel
legame di causa che congiunge la teologia colla scienza del mondo.Ma
Cicerone,come tutti igentili,rifiutavala dottrina della creazione, sebbene
proposta alla mente dei filosofi e delle plebi forse dalla memoria d'antiche
tradi zioni, il che mostra un frammento del libro terzo De Natura
Deorum,conservatocidaLattanzionellibro secon do,c.8 delle Istituzioni divine.
Esclusa la teorica del congiungimento tral'infinitoeilfinitoperattinenzacrea
tiva,non rimanevano,come vedemmo, che due sole vie;o l'unità consustanziale di
Dio e dell'universo,o l'assoluta separazione di questo da quello, del
molteplice dall’uno, dell'assoluto dal relativo. M a la dottrina de'panteisti
menata alle sue ultime conseguenze,oltre all'incorrere in quella lunga serie di
paradossi e di antinomie che in parte accennammo, e la cui dimostrazione ha
esercitato per tanto tempo l'ingegno de'filosofi d'ogni parte d'Eu ropa,
repugnava secondo Cicerone all'indole pratica e positiva del politico e del
cittadino; laonde egli la c o m battè acutamente colle armi della Nuova
Accademia nel quesito proposto dagli Stoici sulla divinazione o previ sione del
futuro. Secondo questa dottrina che usciva dalle premesse della fisica di
Zenone,l'uomo poteva prevedere ilfuturo daisegnidellecoseanimateodinanimate,essen
dochè l'universo fosse collegato ab eterno da un ordine necessario di cause
efficienti;ordine necessario nell'uomo, che era una particella o determinazione
dell'anima uni versale;necessario nella natura,dove ogni fatto è gover nato da
leggi, e racchiude in sè la ragione de'fatti con secutivi; necessario in Dio
stesso che, immutabile per sè, si trasforma ne'fenomeni della natura come in
uno svol gimento fatale della propria esistenza. Questa dottrina che si finge
esposta dal fratello di Cicerone nel primo De divinatione,è poi confutata dal
l'autore nel libro secondo; e quel dialogo è di somma importanza nella storia delle
credenze umane,perchè trattando la gran questione del soprannaturale agitata ai
tempi di Tullio,riproduce nel calore della controversia quello stato penoso
degli animi,sospesi nell'incertezza dei più nobili veri, e in un'età in cui la
rovina del politeismo già preparava il rinnovamento cristiano. La conciliazione
tra l'ordine necessario del mondo e l'autonomia dell'essere umano è accennata
nell'operetta de Fato.Questo libro,o meglio questoframmento,dove si espone un
dialogo avuto dall'Autore presso Pozzuoli con Aulo Irzio, console, scritto, insieme coi due libri della
Divinazione,a supple mento dell'altra opera de Natura Deorum per sostenere la
libertà dell'arbitrio contro il concatenamento fatale delle cause, e temperare
le ultime illazioni de'panteisti e de'dualisti contemporanei. Il metodo
dell'osservazione, applicato nei soli termini della natura sensibile,menava al
lora (come oggi) alcunifilosofisperimentali ad accettarela dottrina del Fato
(detto dagli Stoici eiuzpuévn),inteso come un ordine e una serie di
forze,manifestanti la natura di cause, e che s'intrecciano fra loro d'effetto
in effetto per leggi costanti d'antecedenza e di conseguenza.Ora è chiaro che
da questa dottrina condotta alle ultime conseguenze,
uscivaalteratol'ordineuniversale,eilconcettodinecessità che lo sovraneggia. Era
alterato dal panteismo,dove ve rificandosi l'identità de'due ordini
soprannaturale e natu rale,ogni atto fisico ed umano si riduceva a un deter
minarsi necessario della causa divina; era alterato dal dualismo che opponendo
Dio allanatura,e immaginando quest'ultima come sospinta da un ordine fatale di
cause intrinseche ad essa,non poteva spiegare in eterno come in quest'ordine
naturale si dessero fatti liberamente o p e rati. Ma Cicerone si schermiva da
questi errori ricor rendo alla osservazione interna, e al concetto di causa.
Che cos'è la libera volontà? salità poi non dee intendersi costituita
dalla pura e s e m plice successione de'fatti,ma dallasuccessione lorounita
coll'efficienza degli uni sugli altri.Or dunque (riprendeva ilfilosoforomano
controCrisippo),argomentano benegli Una libera causa;lacail Stoici
dicendo che nell'ordine prestabilito della natura tutto si opera per cause
antecedenti ed esterne, m a non hanno ragione se vogliono turbata questa legge
della n a tura dall'operare dell'arbitrio; « poichè quando diciamo di volere o
non volere qualche cosa senza una causa, fac ciamo uso non buono di una
consuetudine del linguaggio comune, intendendo dire, senza causa esterna ed
antece dente, ma non senza una causa qualunque;di fattiil moto volontario degli
animi ha tale natura che è in nostropotereeciubbidisce,non peròsenzacausa;chè
la causa di tutto ciò è la sua stessa natura (XI).» Non ci è permesso riferire
qual fosse in ogni parte la dottrina diTuiliosullalibertàdelvolere,perchè il libro
De Fato racchiude importanti lacune; m a apparisce però da più luoghi ch'egli
la fondava sulla certezza dell'imputabilità degli atti umani,e per tal via si
apriva il passaggio dalle opere fisiche alle morali,nel modo che appositamente
e con ordine verrà dimostrato nel capitolo quarto. Concludendo, alle dottrine
sin qui esaminate si re stringe le serie delle opere fisiche di Cicerone. Nelle
quali vuolsi considerare com'egli avviluppato in una moltitu dine di sistemi
contradittorj e negativi,e costretto ad esercitare l'esame della riflessione
sopra una materia scientifica ingombra nelle parti più sostanziali dalle te
nebre del sofisma, distinse le verità disputabili dai teoremi della
scienza,sceverò con critica coscienziosa ilbuono ed il certo delle filosofie
contemporanee ponendo l'una a ri scontro dell'altra, e temperandole ne'loro
eccessi. Per tal modo le principali verità mantenendosi intatte, soc correvano
il pensiero a ricostituire l'Ontologia nei prin cipj della scienza cristiana; e
questo è davvero un m e rito insigne e innegabile della fisica ciceroniana,
come altri notati da noi sono la sua temperanza verso le affer mazioni
eccessive degli sperimentali, il concetto di Dio, ravvicinato alla dottrina di
Socrate,e sciolto,per quanto erapossibileallora, dallecondizionielimitazionidell'uomo,
la natura spirituale dell'anima,la sua libertà dimostrate in tempi di
abbattimento morale e di costumi nefandi. Su questi principj fondava
l'oratore latino la sua fede religio sa;chè se (come nota bene Vannucci) «
nella Divinazione ed altrove, allontanandosi dalle forme timide della Nuova
Accademia con argomentazione più forte che in ogni altro scritto combattè da
arditissimo novatore le credenze usate già come istrumenti oratorj e politici,e
mostrò il vano e il ridicolo dell'arte divinatoria, e dei prodigj, e delle
imposture sacerdotali; » Senatore e console di R o m a, egli voleva una fede
ritemprata alle sorgenti incorruttibili della morale, e che diventasse vero
fondamento alla rico stituzione civile della sua patria. 1. Se la scienza, come
affermammo più volte, è un portato delle naturali notizie; se, ritenendo essa
nel suo svolgimento la natura del principio che la informava, la unità dell'oggetto
scientifico, riconosciuta dalla riflessione, si fonda in un primitivo ordine di
veri presenti tutti al l'armonia della coscienza,che costituisce il soggetto
scien tifico; nessuno può dubitare che i principj della teorica del conoscere,
o della Logica non si colleghino intima mente con quelli della teorica
dell'essere, coi principi dell'Ontologia. Il fondamento di questo legame che, a
n teriore al fatto della scienza, si riproduce tal quale nella scienza stessa,
ha la sua ragione nell'idea della persona lità umana, da cui, come da unico
fonte, rampolla la triplice attività dell'esistere,del conoscere,dell'operare;
l'ha nella stessa natura del vero che unico in sè, se lo esamini sotto duplice
aspetto, è prima essere nelle cose, e poi si fa vero contemplato
nell'intelletto. La medesi mezza delle due parti suddette della filosofia
apparisce per modo indiretto nella continua attinenza che strin fra loro le
questioni più importanti della logica e del l'ontologia dai più remoti principj
della nostra scienza fino ai tempi a noi più vicini. È un fatto omai noto nella
storia della filosofia come il quesito fondamentale della logica, qual sia
la relazione che corre tra l'ideale e il reale, quale la corrispondenza tra le
leggi del pensiero e quelle della natura, e se dandosi passaggio dall'intelli
gente all'inteso,se ne costituisca la possibilità della scienza, quesito
contenuto ab antico nella materia delle specula zioni pagane, ricevesse la sua
vera espressione scientifica dalle dottrine critiche della Riforma. È altresì
noto ai di nostri come dalla posizione deliberata di tal quesito si diramarono
due scuole; il Criticismo francese e alemanno, e il Criticismo cristiano, che
cominciato dai Dottori e dalla buona Scolastica ne'tempi di mezzo,segue a
fiorire segna tamente in Italia ai dì nostri. Ambedue queste scuole, di verse
sostanzialmente nei principj ontologici del sistema, dissentono pure nella
logica. La prima desumendo le sue dottrine dal panteismo e dualismo antico,
resuscitato più tardi da un ritorno della civiltà cristiana ai dommi del
Gentilesimo,disconobbe l'attinenza manifestatrice che per legge di natura
intercede tra il pensiero e le cose, tra il soggetto e l'oggetto, e
quell'attinenza ode naturò in identità colle dottrine d'un'unica sostanza, o
riduce a separazione ammettendo col Cartesio un'intima differenza tra le qua
litàdell'esteso elequalità del pensiero, d'onde il sistema delle cause
occasionali del Malebranche, quello dell'armonia prestabilita del Leibnitz e lo
scetticismo di Bayle e Kant. La seconda scuola movendo dal principio che la
libertà del pensiero scientifico soggiace per legge di natura alla condizione
di non potere alterare l'ordine necessario degli enti fra loro, trovava con
sublime e trascendente concetto il legame dell'idealità col reale e nell'intima
essenza dell'atto creativo di Dio, che pose primitivamente una coordinazione
d'atti fra l'essere delle cose e gl'intelletti creati; e in Dio stesso nella
cui n a tura infinita e impartibile s'immedesima l'idealità colla realtà, la
realtà dell'essenza coll'eterne idee rappresen tative e causative degli enti
creati. Or che si deduce da c i ò? Che se il principio del Criticismo, ond'è
ridotto a problema il teorema della conoscenza, ha un intimo riscontro nei
fondamenti della dottrina dell'essere, e i si. Ma qui cade per altro una considerazione
importante. Il panteismo e ildualismo,sebbene alterassero dai fonda menti la
dottrina della conoscenza o distruggendo la re lazione ond' è manifestativo il
pensiero, o affermando un'incomunicabilità primordiale tra ilsenso e la
materia, principio di corruzione e d'ignoranza, e lo spirito eterno emanato da
Dio, non negavano per anco esplicitamente nè l'un termine nè l'altro
dell'attinenza conoscitiva;e quando in un sistema, sia pur guasta e
corrotta,sia pure implicitamente negata,siconserva nell'intimo significato
delle dottrine la piena comprensione del soggetto su cui
cadelascienza,qualunquedisputaintornoaiprincipalipro blemi si offre sempre con
probabilità di scioglimento alla riflessione esaminatrice. Quella probabilità
cessa quando sensismo, materialismo e idealismo, negando due parti sostanziali
del soggetto, l'intelletto e l'idea manifestante, causa e mezzo del
conoscimento, e la cosa manifestata, termine della cognizione, si chiudono la
via ad affermare intera la notizia dell'essere umano, denaturano il legame che
intercede tra l'ideale e il reale, e rendono impossibile la psicologia, ingannatrice
la logica. Un breveaccenno di questa legge necessaria che si riscontra nella
storia delle controversie filosofiche, l'abbiamo già fatto nella prima parte
toccando dei sistemi principali che apparvero dal primo scadere della scuola
socratica fino ai tempi dell'Arpinate; allora fu osservato da noi come a n
dasse di pari passo coll'oscurarsi sempre maggiore dei veri principali e delle
antichissime tradizioni l'impoverire della forma logicale dei sistemi,e come
l'ultimo grado di questo scadimento fosse segnato dal sistema d'Epicuro, e
dalle dottrine logiche della Nuova Accademia. Ora poi stemi che alterarono
questa dottrina sono contemporanei ai primordj della filosofia, antichissimo
deve essere il fon damento del Criticismo; e ne sono testimonj le più strane
teoriche sul modo del conoscimento procedenti dalla fisica de'sistemid'India,
d'Italia,diGrecia,come,ad esempio, gli atomi di Capila,gl'idoletti diDemocrito,leimmagini
fluenti d'Epicuro e di Lucrezio. ci sia permesso venire su questo
proposito a maggior particolari, perchè, giunti a questa parte delle opere di
Tullio dove conviene esaminare la controversia tra gli Stoici e l’Accademia
sulle dottrine del conosci mento,rappresentatada luineilibriAccademici,importa
massimamente il notare perchè e come ai tempi del filo sofo latino,o poco
avanti,ilproblema fondamentale della logica si fosseristretto alla percezione
sensitiva; e come dal punto diverso e dai confini onde le due parti dispu tanti
consideravano il quesito intorno al conoscere, di penda il valore delle prove
allegate, e il principio su premo che governa la controversia. 2. Venendo
dunque al proposito, il sistema d'Epicuro e le dottrine dell’Accademia, non che
lo scetti cismo e l'empirismo finale ci palesano quasi una spos satezza del
pensiero greco,che non val più ad abbracciare la totalità del soggetto
scientifico con quell'ampiezza di principj e di leggi con cui Platone e
Aristotele l'avevano abbracciata;ma un peggioramentoimportantenellaforma
scienziale già si notava nel sistema degli Stoici. Consi derate un poco la
sostanza di quelle dottrine,e vi troverete due principj che danno a tutto il
sistema due qualità e due aspettiben differenti.Il cardine del sistema di Ze
none è infatti l'unità primordiale e finale delle cose tutte, la unità della
sostanza prima indistinta e indeterminata, che poi si determina e si partisce
per l'efficacia del prin cipio attivo e divino svolgendo da un unico germe la
dualitàde'principj.La sostanzaprima,distintaallorain un'anima e in un corpo
universali, causa delle anime e dei corpi particolari, costituisce l'essere del
mondo che rappresenta la vita di Dio; quella vita diffusa in tutte le cose
animate ed inanimate le fa partecipare per un in timo principio di
compenetrazione alla natura e all'effi cacia di Dio,e l'anima umana,ch'è più
vicina a quella sorgente universale, ne ritrae maggiormente, informando e
compenetrando il corpo, a somiglianza dell'anima uni versale, e come quella
riducendo a un solo principio m o tore le facoltà seconde; talchè per gli
Stoici dall'unità dell'essenza prima esce identificato l'intelligibile col
reale, il pensiero cogl’oggetti, l'intendimento col senso. Considerato
inquestegeneralità il sistema di Zenoneabbraccia tutto intero il complesso dei
veri palesati dalla coscienza, alterandone la natura col Panteismo.Ma se vieni
ad esa minarlo più particolarmente, allora i molti principj con tenuti nel seno
fecondo della materia prima,e in lei de terminati più tardi, il divino e materia,
anima e corpo,intelletto e senso, pensiero ed oggetti,scompajono tutti,e
siriducono ad un solo; alla natura informe e indeterminata della materia.
Allora ti apparirà vizio capitale di quel sistema la riflessione esaminatrice
che, sebbene apparentemente voglia svincolarsi dal senso e dalla materia,
concependo a m o 'degli Ionj dinamici nel seno dei fenomeni naturali un'intima
energia infinitamente diversa dalla materia, e cagione di que'moti,non sa
dominare la fantasia, e ab bandonata al pendío voluttuoso dei tempi,trasporta
in quella forza primitiva e in Dio stesso, che la pone in atto, le qualità
corporee. Così la dottrina degli Stoici sin dalle sue radici s'infettava di
materialismo. Ora è tale il ri scontro dei veri principali nella legge
necessaria del co noscimento, che, oscurato il concetto di Dio e delle cose, se
ne oscura alla mente dell'uomo la nozione di sè stesso Non è dunque a
maravigliare se per gli Stoici al mate rialismo in fisica tenesse dietro il
sensismo in psicologia; quindi,giàloaccennammo,alterato ilvero concettodi
potenza conoscitiva,scambiarono inostril'occasionedel l'atto apprensivo, che ci
viene dai sensi,colla causa intima di quello,veramente causatrice, che è
l'attività dello spi rito;quindi,non bene distinto l'operare dei sensi e del
l'immaginativa dall'operare dell' intelletto, diedero al complesso dei fantasmi
le qualità del pensiero. In questo esame parziale e negativo delle facoltà del
soggetto, quale ci offre la psicologia degli Stoici, si nascondeva per fermo
una potente causa di scetticismo;chè movendo dal lato indiretto da cui la Stoa
considerava il fatto dell'umano conoscimento, e negli angusti confini in cui
restringeva la coscienza delle interne operazioni dell'animo,era facile
93 a sottili ragionatori trovare appiglio per dubitare di qual che
cosa o di tutto.Vi si prestava la natura dell'idea, che avendo il proprio
essere in un'attinenza manifestatrice, se la consideri identica ai fatti
animali, ti doventa un mistero; vi si prestava la natura del senso,
inesplicabile, oscuro e sostanzialmente erroneo, se non lo risguardi illu
minato dalla luce dell'intelletto; vi si prestava infine la fantasia perenne
creatrice del falso, facile a denaturare coi più vivi colori del senso gli
ultimi resultati della p o tenza astrattiva. Così dal sofisma degli Stoici (e
sofisma vuol dire sempre difetto) germinava quello dell’Accademia. Chè, se fu
cattivo abito della riflessione esa minatrice nelle dottrine di Zenone il fare
ombra dei fe nomeni materiali allo splendore delle idee,e ridurre quasi ciò che
v'ha di più vivo nell'umana personalità allo sviluppo meccanico delle funzioni
apprensive,fu pessimo nella Accademia,non già l'opporre ilvero all’er rore,il
compiuto all'imperfetto esame della coscienza,lo che essa non fece; m a
profondarsi nelle sole astrazioni, m a restringersi nel pensiero
vuoto,fenomenale, apparente, o al più negl'inganni d'un fallace conoscimento.
Quindi a una negazione di negazione si riduceva ai tempi di Tullio, o poco innanzi,
la polemica tra gli Stoici e la Accademia.Ed ecco (ciò che cieravamo proposti a
mostrare) perchè dopo i notevoli perfezionamenti che la dialettica avea
ricevuto dalle scuole italica ed eleatica, da Platone e dall'Organo
aristotelico, la teorica sulle fonti del cono scimento, complessiva di tanti
veri, s'era allora ristretta alla disputa sulla percezione sensitiva. 94
Tal disputa, dipinta con tanta verità di colori da Tullio nei due libri degli
Accademici Primi, e massime nel se condo (chè il breve frammento rimastoci del
primo degli Accademici Posteriori, dedicato a Varrone, si riduce ad una
semplice esposizione istorica delle principali scuole socratiche), rappresenta
in fondo la lotta di tutti i tempi tra ildommatismo inconseguente e lo
scetticismo presun tuoso. Quel venire ai cozzi di opinioni eccessivamente af
fermative con altre assolutamente inquisitive era, come dei nostri,
un portato naturale dei tempi di Tullio,tempi di contradizioni profonde, nei
quali, come oggi, da una parte tutto si disfaceva con rabbia sterminatrice,
dall'altra con puntigliosa rigidità si sosteneva qualunque lato anche debole e
imperfetto del vero,imperfettamente considerato. La superbia e ildisprezzo
erano le armi con cui si scon travano i combattenti, e l'una e l'altro stavano
bene a quelliuomini,eloquenti,come noi,nell'esaltareiprincipj, e non logici
quanto conveniva nel dedurre da quelli le gittime conseguenze; altrettanto
facili ai propositi gene rosi,quanto
difficilinell'eseguirli;filosofidaaccademia,e da piazza; politici predicanti la
severità antica nelle m o l lezze moderne; uomini a cui mancava la lena di
levarsi sulle ali del pensiero alle universali armonie della scienza nel
vero,nel bello e nel buono,capaci soltanto d'impri gionarsi nelle angustie
d'una dialettica ingannatrice o p ponendo sofisma a sofisma,contradizione a
contradizione. Quindi massimo argomento in questo, come in simili casi, del
difetto delle due parti che disputavano, era che, se tu esamini l'una e l'altra
con animo non preoccupato, e poi non imiti il Cousin, che dall'accozzo fortuito
degli errori volle ricomporre il corpo formoso della filosofia, quasi statua da
brani dispersi sopra antiche ruine, m a cerchi di compirle ambedue colla
pienezza dei veri atte stati dalla coscienza naturale, soltanto allora elle
t'appa riranno perfette, e risoluta la tesi, ti vedrai brillare al pensiero la
luce d'un irrepugnabile convincimento. La disputa è finta da Cicerone come
avvenuta presso Baule in una villa d'Ortensio, presenti lo stesso Ortensio,
Catulo e Lucullo. Gl'interlocutori principali sono Lucullo e Cicerone. Lucullo
sostiene le parti d'Antioco, del Portico, contro Filone, dell’Accademia. Tullio
quelle di Filone contro Antioco. Or qual era il principio da cui moveva, e
quali i punti più segnalati in cui si spartiva il ragiona mento? Qui occorre
ridurci a memoria un'importante osser vazione del Ritter. Il quale nella sua
Storia della filosofia antica, tenendo dietro all'indirizzo che la dottrina
sulle fonti del conoscimento avea preso da Aristotele in poi, quando nota
la differenza segnalata che correva tra gli Stoici e il filosofo di Stagira,
mentre questi moveva sì dalla sensazione, ma senza negare il resultamento del
l'attività intellettuale dell'anima, laddove gli Stoici, più vicini in ciò agli
Epicurei,cercarono di ravvicinare di più in più il pensiero razionale alla
sensazione concependolo solo come una sua conseguenza e trasformazione,
aggiunge inoltre che nell'evitare le grandi difficoltà, le quali si o p p o
nevano alla dimostrazione di quel loro sensismo, si rias sume intera la
dottrina degli Stoici intorno al criterio del vero. Ritter. L'osservazione di Ritter
è giusta. Di fatti per quella solita opposizione che trovi in ogni filosofo di
setta tra le tendenze vive dell'animo e l'indirizzo artefatto della
riflessione, si vedevano negli Stoici due disposizioni opposte che imprimevano
qualità contradittorie al loro sistema; da un lato il pendio del l'età e il
decadimento della forma e della materia scienti fica li inchinava al sensismo e
alla meditazione incompiuta del soggetto su cui cade la scienza; dall'altro la
tradi zione socratica e la voce non muta del senso comune li chiamava ad
abbracciare il complesso dei veri di natura, le facoltà dell'animo e i termini
loro, e a rendere p o s sibilmente perfetta la forma scienziale; antitesi
d'opposte tendenze che pur si specchia in quell'ondeggiare continuo del loro
sistema tra il panteismo ionio e il dualismo so cratico. Ora che ne veniva da
ciò? Dal lato imperfetto da cui gli Stoici consideravano l'umana coscienza
quanto alla dottrina del conoscimento, resultava ch'essi sbaglia vano il
concetto di potenza,di causa,di relazione, fondamenti primi di tal
dottrina;quindi la loro logica si re stringeva alla dimostrazione del
conoscimento acquistato per via de'sensi,di cui ponevano l'essenza nella
rappresenta.zione vera o comprensiva (parrugia 2270)atlyn), ch'è un patire
dell'anima,a cui risponde da un lato l'operare del l'oggetto sentito,
dall'altro l'operare dell'anima stessa che conseguentemente alla sensazione
ricevuta assente,giudica e ragiona.Ma qui, giova il ripeterlo, stave la fallacia
dell'argomento; gliStoicimovevano dalnulla,edaquelnullaface vano uscire la
pienezza del soggetto e dei principj costituenti la scienza.E veramente io non
negherò mai alla buona filosofia che ilfatto della percezione sensibile,intesa
come attinenza reale tra il sentito e il senziente, mi riporti al l'esistenza
di due termini de'quali l'uno è causa esterna e occasionale della sensazione,
l' altro è causa intima e veramente efficace; non negherò mai che l'illazione
di causalità mi mova ad affermare la reale natura dell'ente che opera sugli
organi de'sensi,e che il concetto di po tenza m'induca a concepire nelle
facoltà conoscitive un qualcosa che le costituisca operanti,un che di positivo
e d'efficace che risponde alla passività negativa del sentimento; m a io nego
agli Stoici quel loro metodo di facili illazioni, onde identificata la potenza
intellettiva col senso volevano dedurre in virtù di universali prin cipj da una
condizione passiva delle facoltà del sog getto l'efficacia dell'intendimento, e
dalla sensazione mutabile e fenomenale l'incommutabile necessità della
scienza.Ma ilfatodellalogicanon's'arrestava;egliStoici ristretti in tal modo
nelle angustie dei fenomeni sensibili, tanto più quanto levavano lo sguardo
alla cima del sa pere,rammentando le tradizioni del Sofo ateniese, vede vano
l'importanza di ribattere le prove degli avversarj che paragonavano la
mutabilità e l'incertezza de'fatti animali colla natura assoluta del vero
contenuta negli universali concetti,onde germoglia e si sviluppa la scienza.
Quindi proveniva il bisogno vivamente sentito da loro di movere da un fatto e
da principj indubitabili ed evidenti -- Acad. Quindi la necessità di
mostrare,primo, come si possa distinguere la rappresentazione falsa dalla vera;
secondo, come movendo dal reale della rappresenta zione apparisca che la mente
stessa che è fonte dei sensi, e che essa medesima è senso,abbia una naturale
energia per cui tende a ciò che la move al di fuori; mens ipsa que sensuum fons
est,atque etiam ipsa sensus est,naturalem vim habeat quam intendita deaquibus movetur.
Da questo concetto,fondamentale nella logica degli Stoici, [La prima
parte cadeva sulla domanda: se la perce zione sensibile avesse impressi in sè
certi segni della v e rità dell'oggetto rappresentato; il che negava la Nuova
Accademia,affermando che in una percezione,fosse pur vera, non era alcuna certa
nota per distinguerla da una falsa; dubitavano dunque che per mezzo dei sensi
l'entità della cosa sentita passasse tal quale ella era nell'appren sione del
soggetto conoscitore. Posta in tal modo la questione, è chiaro che poichè il
mezzo di passaggio del vero conosciuto dalla cosa, occasione del sentimento, alle
potenze conoscitive, è il senso ed isuoi organi, conveniva innanzi tutto,a
provare la realtà della cognizione, argomentarla dalla veracità naturale dei
sensi.Dai quali movendo Lucullo ne afferma chiaro e indubitato il
giudizio,nulla valendo, ei dice,gli artificiosi argomenti degli avversarj
intorno alle false apparenze delle percezioni; poichè: 1°,dato che i sensi
siano sani,col buono uso ch'io ne faccio posso ret tificarne i giudizj,posso
coll'esercizio e coll'arte aumen tarnemirabilmente laforza; 2°,ilsensoèdimostratovero
ne'suoi giudizj dal successivo lavorìo della mente sulla materia da esso
somministrata formandosene i concetti delle qualità e delle specie che son via
ai principj più universali, ai quali naturalmente l'intelletto dà fede, e tolti
i quali ogni arte,ogni scienza,ogni regola della vita cadrebbe. Tutta la
teorica si regge manifestamente sul principio di causa e di relazione. Se io,
diceva Antioco, ho sperimentato in me l'effetto della percezione sensibile,
questa mi riporta ad una causa per via d'una necessaria attinenza. Ma Filone
invece (e in ciò è imitato dagli scet tici odierni) ammettendo la possibilità
del fenomeno come di un che vuoto,di una mera apparenza senza alcun con tenuto,
poneva come probabile che la sensazione non ci scoprisse l'entità di veruna
cosa. M a, riprendeva A n tioco, primieramente oltre i naturali giudizi e i
giudizj scientifici, che nascono e si fanno manifesti in noi per l'occasione
de'sensi, dal germe del conoscimento spunta 98 il ragionamento d’Antioco
si dirama in due capi: della percezione e dell'assenso. Il ragionamento di
Lucullo, compreso dal quinto al ventesimo cap.del secondo
librodegliAccademici,edove l'umano intelletto fa prova di quella forza
irresistibile che in mezzo alle contradizioni del sofisma pur lo sospinge ai
principj universali del vero, è uno dei più mirabili tratti della filosofia e
della eloquenza latina, e chi n'ha seguito con gioja confidente il cammino,se
poi si volge ad aspettare la risposta di Cicerone, gli par di vederlo quale si
dipinge con vivezza egli stesso « non minus c o m motum quam solebat in caussis
majoribus. » Egli per aprirsi la via a dimostrare la sua tesi, non move da una
professione di scetticismo assoluto, m a bensì da una cri tica temperata; e si
fonda in special modo sull'argomento con cui Arcesilao avea combattuto Zenone,
cioè sull'in discernibilità delle percezioni vere dalle false,onde avve niva
che al sapiente non rimanesse alcun assenso deciso, m a una semplice opinione
di verosimiglianza. Comunque sia, s'è domandato da molti. Cicerone non sostiene
egli in questo libro le parti dello scetticismo accademico contro le dottrine
stoiche della percezione? non si professa più volte ne'proemj delle sue opere
seguace della riforma il fiore dell'appetito istintivo, il quale se voi mi
negate avere persuoproprio enaturaltermineilvero,inquanto è conosciuto
appetibile, io sono condotto ad affermare nell'uomo l'assurdo di più facoltà
naturali che natural mente s'ingannano. Poi il falso non può mai essere ter
mine dell'apprensione intellettuale,perchè ilconoscimento coglie di sua natura
l'essere delle cose, ma il falso è appunto,rispetto al conoscimento,lanegazione
dell'essere; dunque il falsonon può mai cadere sotto ilconoscimento.
Finalmente, se nulla è vero, sarà almen vero questo che nulla è vero, perchè
una scienza,una dottrina qualunque, per essere costituita nella sua natura,
ch'è ordine di veri conosciuti,ha bisogno,come di un metodo e di un fine a cui
vada e a cui giunga,così di un principio da cui mova indubitabile e certo. Lo
stesso ordine di concetti desunto dal principio di potenza e di relazione regge
a un di presso la teorica dell'assenso (Guyaute 985e»). introdotta
da Arcesilao? non scrisse egli i due libri,che voi esaminate, per mostrare ai
Romani l'ottimo metodo del filosofare sull'esempio della Nuova Accademia? non
han ripetuto e non ripetono ancora a una voce quasi tutti gli storici della
filosofia che Tullio, seguace nella sua gio ventù dell'Antica Accademia,
s'accostò già maturo alla Nuova, a cui lo traeva il suo istinto oratorio, lo
scetti cismo de'tempi, l'animo incerto in tanta folla didottrine
contradittorie, e la forma ecclettica di filosofia ch'e'si era proposta? Dunque
Cicerone nelle tre parti della scienza,emassime inlogica, seguitò il dubbio dell’Accademia.(Brucker,
Degerando, Bernhardy, Ritter).Tal conclusione,di cui demmo qualche accenno nel
cap.Idi questa parte,sebbene apparentemente provata da parecchj testi divisi
del filosofo nostro, da varie sue esplicite affer mazioni,e segnatamente da
tutto il tenore di questi due libri, dove e'prende con lungo ragionamento in
persona di Filone a confutare la certezza delle notizie che ci ven gon dai
sensi,e dove in ultimo contrappone ex professo la sua dottrina del dubbio
sistematico e della probabilità alle contradizioni in cui si lacerava la logica
contempo ranea, tal conclusione, dico, non regge avanti al tutto delle dottrine
esaminate spassionatamente, e avanti a quella norma di critica, che ponemmo sin
da principio,di badar bene alle opinioni che Tullio combatte,e ai metodi che
rappresenta in sè stesso senza per altro interamente accettarli. Le
affermazioni eccessive della critica odierna, bene merita per tanti rispetti
della civiltà e della scienza,hanno la loro sorgente esse pure nel falso
principio del Criti cismo speculativo, che togliendo il pensiero scientifico
fuori delle sue naturali armonie con sè stesso, colle cose, col Creatore e col
genere umano, non riconosce più nello scienziato e nel filosofo l'uomo,e fa
della più socievole fra le dottrine un gergo incomprensibile e
solitario.Bisogna invece nell'esame dei sistemi non uscir mai dalla n a tura di
que'tempi, di quegli uomini, di quelle passioni, di que'pregiudizj, di quelle
consuetudini; bisogna immaginarsi i filosofi quali furono in realtà, disputanti
e pensanti, uomini di tribuna e di tavolino, soggetti essi, come noi, alle
contradizioni frequenti di qualche dottrina anche erronea concessa nel calore
della disputa alle prove degli avversarj, colla interna coscienza, testimonio
irrepugnabile al vero. Tale è più volte ilcaso di Cicerone, e tal metodo noi
tenemmo nella parte fisica delle sue dot trine, e terremo nella logica e nella morale.
Il Ritter scrittore accuratissimo nella critica'de'filo sofi,e alemanno davvero
nella coscienziosa ricerca dei passi e dei documenti, talvolta, ci duole a
confessarlo, compo nendo con disegno ingegnoso brani staccati di varie opere,
ne fa resultare in conferma delle proprie opinioni un si gnificato che forse
non germoglia dalla totalità del sistema. Così nell'esame della dialettica di
Tullio, sebbene non n e ghi che il filosofo latino si leva al concetto dei
principj e delle idee universali, cardine dell'intelligenza, pure af ferma che
in logica ei riferì una singolare importanza al sentimento, pigliando questa
parola nel significato in cui laintendono iRazionalisti,come di un che
sostanzialmente opposto alla scienza, e soggetto alla cieca fatalità de gl’istinti.
Hist. Ma inprimo luogo, oltrechè Cicerone (e lo vedremo meglio in morale) non
fece mai del sentimento un qualcosa di opposto alla scienza, e anzi lo allegò
sempre in un significato essenzialmente scientifico, quale una necessaria
attinenza del l'affetto spirituale col vero -- De Fin. -- è poi
esattaabbastanza l'asserzione di Ritter, checioèiprincipj fondamentali della
sua filosofia naturale lo conducessero
alledottrinelogicheperviadellasensibilità? Sefosselecito affermare risoluto
contro l'autorità dello storico insigne, direi invece che due cause,intrinseca
l'una,l'altra estrin seca alle dottrine di Tullio,lo guidarono in logica a con
clusioni direttamente opposte, e lo ravvicinarono (pro gressorarointanta corruzionedi
tempi) aidommi sublimi dell'Antica Accademia. In tal questione egli si trovò in
mezzo al proprio semipanteismo e dualismo e alle dottrine materiali e
sensistiche di Zenone. Non è egli vero che il dualismo semipanteistico da
un lato rifuggendo alle con tradizioni del panteismo che più repugnano
agl'ingegni sovrani, e gratificando dall' altro agli affetti spirituali,
segregò la materia da Dio, lo spirito dal senso,e pose la ragione del conoscere
nella medesimezza fondamentale dell'intelletto divino e degl'intelletti
secondarj? Ora tal sistema, partecipato da quasi tutte le scuole socratiche e
da Tullio,rompeva l'attinenza tra il pensiero e I pensati, tra l'ideale e il
reale, e restringeva l'intendimento alla semplice e inefficace visione degli
universali. Se così è, pare che il filosofo latino dovesse essere ben lungi dal
porre nei resultati delle potenze sensitive la certezza del conoscimento;e lo
prova la sua fisica dove sull'esem pio di Platone si rigettano i metodi delle
scienze speri mentali come incapaci di somministrare una sicura notizia
de'corpi, e l'indagine naturale si ammette solo come via di levarsi in virtù di
principj superiori ai veri della scienza soprannaturale; lo prova la sua
psicologia che tante volte contrappone il fenomenale della materia e del corpo
al l'essenza dello spirito, che afferma il commercio dell'anima col corpo
risiedere in una semplice comunicazione di moto, isensiesseresoloun
emissariodell'anima,un'intelligenza ammezzata, e la personalità umana un
gastigo. (Tuscul., De Leg.,De Rep.nel sogno di Scipione). L'altra causa
estrinseca che allontanò Cicerone dalla fede che altri poneva nel conoscimento
prodotto dai sensi, è l'opposizione ch'ei dovette fare al dommatismo degli
Stoici, nella quale opposizione si vede che, mentre da un lato egli temperava colla
moderazione dell'ingegno latino il dubbio eccessivo a cui l'avrebbero forse
condotto le dottrine della Nuova Accademia, dall'altro sapeva con raro acume di
logica smascherare e combattere le intime contradizioni degli avversarj. Qual
era la fonte di tutte queste contradizioni? Noi già la conosciamo;era l'eterna
differenza che corre tra il sentimento mutabile e fenome nale e l'incommutabile
necessità della scienza. Questa necessità sembrerebbe a primo aspetto
bastantemente di mostrata nel sistema degli Stoici dal porre ch'essi
face vano il conoscimento scientifico nel possesso delle idee pure, e nel
rappresentarcelo quasi l'ultimo grado di ferma convinzione,a cui lo spirito
umano perviene col passare pei gradi intermedj della ouzoté0:015 – “adsentio”
-- e della 2.zténnyes – “comprehension” -- , movendo come da suo principio
dalla suurusis, o rappresentazione sensibile – il “visum”. (Ritter; Cic.,Acad.).
Ma, seconsideriamo meglio,gli Stoici con quella loro immagine della mano stesa
e del pugno chiuso ed aperto determinavano in qualche modo l'idea di una
differenza tra il sentimento e ilsapere,ma non uscivano dai fenomeni
animali,non sapevano accen nare quella nuova parte essenziale intrinseca al
soggetto, che congiunta colla oggettività della percezione costituisce il
conoscimento; laonde la Nuova Accademia avrebbe po tutodirloro:è vero che
ilsaperedifferiscedalsenso,che il possesso sicuro delle rappresentazioni
resulta dalla c o n trazione e dall'energia dello spirito(TÓvos);ma sepervoi
l'intelletto non è che il travestimento del senso,mostra teci orsù come la
potenza derivi dall'impotenza, l'asso luto dal relativo, il necessario dal
contingente. Ora la Nuova Accademia senza levarsi a questi principj universali
ch'essa non ammetteva,ma, giusta il suo costume, no. tando piuttosto quelle
contradizioni che sidesumevano dal sistema stoico paragonato a sè stesso, pure
implicitamente li confessava. Fallita infatti agli Stoici la definizione del
concetto della scienza dato per via dell'attività spontanea dell'anima,non
rimaneva loro altro scampo che ridurre la ragione del conoscimento alla
indubitabilità della p e r cezione vera.Ma come mai dimostrare tale
indubitabilità? Questo mutamento notevole che doveva introdursi nel l'indirizzo
della questione sul problema della conoscenza per la legge a cui è soggetta
necessariamente la vita d'ogni sistema,è attestato dalla storia; perchè,come os
serva il Ritter, i primi Stoici dimostravano la necessità del sapere per quella
forza interna dell'animo che si mani festa nell'atto d'apprendere la
sensazione,e pel bisogno d'ammettere qual termine della facoltàintellettivaeap
petitiva il vero ed il bene; laddove gli Stoici susseguenti, al numero
de'quali appartiene Crisippo, vedendo che ciò contraddiceva ai principj del
sensismo,trassero alle ultime illazioni il sistema ponendo il criterio del
conoscere nella rappresentazione vera che si manifesta da sè stessa come
prodotta da un obbietto reale analogamente alla sua natura. Nonpertanto una
grave difficoltà rimaneva sempre a risolvere anche dopo la modificazione
introdotta da Crisippo. Chè se il vizio fondamentale di tutta la loro dot trina
stava nel disconoscere quell'intreccio d'attinenze interne ed esterne ond'è
manifestativo ilpensiero;iprimi Stoici guardarono troppo al lato interno e
soggettivo di quelle attinenze, mentre Crisippo, eccedendo per l'altra parte,
si fermò unicamente all'esterno; e quindi rima neva sempre intatto il quesito,
se la rappresentazione percetta offrisse piena e indubitata qual era la realità
dell'obbietto rappresentato. E invero si ponga mente. Fingasi che un oggetto
qualunque a cui noi riferiamo date proprietà di freddo, di caldo, di liscio, di
ruvido, d'ottuso, di tagliente etc., faccia impressione sui miei organi s e n
sorj,e che l'impressione, trasmessa per la treccia de'nervi al centro del
senso, sia occasione a farmi concepire l'idea d'entità; se io esamino allora lo
stato interno della mia coscienza, il fatto del conoscimento, unico in sè, mi
si paleserà resultante da una mirabile armonia di fatti se condi, successivi
bensì nell'esame della riflessione, con temporanei tutti nell'atto delle
potenze spirituali. Ciascuno di questi fatti sarà l'operare d'una special
facoltà, e cia scuna di quelle operazioni avrà il proprio termine; io poi che
mi faccio ad esaminare quel nodo d'attinenze tra il soggetto e gli oggetti,
vedo che la qualità dell'atto conoscitivo resulta bensì dalla qualità di
ciascuno di quelli atti secondi, ma la sua certezza proviene da una legge di
natura che li costituisce contemporanei e correlativi. Fa'che io tolga via col
pensiero o l'uno o l'altro di quegli atti e i termini loro, quella stupenda
armonia di natura mi si spezza davanti agli occhi, e io cado di n e cessità
nello scetticismo; tolgo via l'impressione sensibile [Il sistema
cristiano, che movendo dalla formula di creazione riproduce in uno stupendo
ordinamento di veri palesati dall'intimo della coscienza l'universale armonia
del creato, può soltanto offrire un'adeguata risposta ai quesiti dello
scetticismo sulla questione del conoscimento; perchè solo in quel sistema le
attinenze dell'umano p e n siero con sè e cogli obbietti sono rigorosamente
serbate, nè può lo scettico separando o negando creare vane a p parenze quasi
dell'intelletto segregato in sè stesso,o della fantasia o del senso producenti
fenomeni vani non retti ficati poi dal paragone dei giudizj mentali. L'ingegno
di Agostino che meglio d'ogni altro comprese in sè stesso le armonie del
Cristianesimo e della scienza de'Padri, dava un esempio del confutare cristianamente
gli scettici nell'opera Contra Academicos, dove chiaro apparisce lo studio
profondo degli scritti di Cicerone, e come quei e il termine materiale? e
la conoscenza mi si presenta come un fenomeno soggettivo;non vedo più l'azione
dello spirito e il termine ideale in cui cade? e il conoscimento doventa un
qualche cosa d'estraneo a me stesso, un in ganno misterioso del senso e della
materia.Quest'ultimo segnatamente fu il vizio fondamentale della dottrina degli
Stoici nuovi, e in ciò,nota bene Cicerone, essi furono assai meno conseguenti
degli Epicurei. Costoro movendo dal principio, che data unapercezione fallace
mancava ogni criterio per verificare la certezza delle umane notizie, ponevano
quel criterio nella realtà stessa del fenomeno sensibile, più conseguenti,
dico, degli Stoici, i quali non ammettendo come veretuttelepercezioni,ma
soloquelle che presentavano in sè l'evidenza della cosa percetta, nè
riconoscendo d'altronde, come sensisti,la natura pro pria dell'intelletto a cui
solo spetta il giudizio sui r e sultamenti del senso, si chiudevano la via per
discernere la conoscenza vera dagl'inganni dell'immaginazione; e quindi a buon
dritto la Nuova Accademia allegava contro gli Stoici i soliti argomenti della
fallacia del senso degl'inganni dei ragionamenti sofistici. Acad. -- germi
immortali di vero che il filosofo romano seppe raccorre con rara indagine
scientifica nel suo tentativo di conciliare le scuole greche,producessero una
vitaope rosa di scienza fecondati dal calore di una dottrina rin novatrice. Nel
libro Contra Academicos Sant'Agostino serba a un di presso lo stesso ordine
della disputa seguito da Lucullo e da Cicerone, move dagli stessi principj,
ribatte le medesime contradizioni;ma un non so che di insolito, d'efficace,
d'affettuoso che annunzia una civiltà e una religione nuova tu lo senti là
dentro,e non tanto nello stile che, non paragonabile mai all'eleganza tulliana,
ritrae pur qualche volta la vivezza e il brio del parlare improvviso, quanto
nell'energia insolita dell'argomentare che sfuggendo iparticolari, dove
facilmente sipuò intro durre il sofisma, si rifugia nell'evidenza de'principj s
u premi. Ma ilmodo d'argomentare usato da Sant'Agostino non calzava agli
Stoici; chè essi non ammettendo un'in tima e reale attività dello spirito
distinta dal senso e capace di rettificarne gl'inganni, non potevano rinvenire
nell'essere stesso della percezione segni indubitati ch'ella fosse verace; e il
loro concettualismo non li lasciava af fermare contro il dubbio aceennato dalla
Accademia sulla validità del pensiero. Gli storici della filosofia ci han
serbato in fatti memoria di una strana dottrina degli Stoici procedente del
resto dall'intimo del loro sistema e da quella tendenza dualistica che vi si
mesco lava ai principj del panteismo.Qual era questa dottrina? Gli Stoici
ponendo in fisica per un lato la realtà delle cose nella sostanza corporea, nè
per l'altro costretti dalla logica riuscendo a negare del tutto l'essere delle
idee universali, distinsero queste dal reale corporeo,e ne fecero alcunchè di
non reale, ma capace d'essere concepito dall'intelletto ed espresso in
proposizioni (Asztóv). Distingueno quindi due specie di vero; il sensibile
contenuto nelle percezioni de'corpi, e il pensabile ristretto alle in
tellezioni della mente,questo procedente da quello e a quello correlativo;
volevano con tale dottrina porre su stabili fondamenti la necessità de'principj
in cui cade la scienza, nè gli acuti pensatori s'avvidero che, se l'idea
può rappresentarmi il reale, ciò accade appunto in con seguenza ch'ella stessa
è reale, non s'avvidero che n e gando qualunque conformità tra il concetto
universale e l'essenza del concepito, si cade nel concettualismo rinno vato poi
da Abelardo nei tempi di mezzo.La Accademia recava alle ultime loro illazioni
questi falsi prin cipj della scuola stoica; dal principio del sensismo traeva
occasione a dubitare della veracità della percezione sen sitiva; moveva dalle
conclusioni del concettualismo per negare la realtà del pensiero imprigionato
in sè stesso, e diceva (argomento assai notevole infatti) la dialettica non
potere giudicare delle leggi della geometria,perchè aliene dal proprio ordine
di veri,non giudicare delle pro prie, perchè non può il pensiero rivolgersi
sopra sè stesso per giudicarsi. L'argomento è di recentissima data,come ognun
vede,e lo ripetono anch'oggi iseguaci del Comte, I Positivisti francesi. E
recenti pure sono le conseguenze che ne deduceva la Nuova Accademia; poichè
racchiuso una volta il pensiero in sè stesso, e negata la sua atti nenza colle
cose reali,manca ogni criterio a risolvere il problema dei giudizj
contradittorj,nè v’ha che un passo a dedurne che dunque la contradizione è una
legge ne cessaria dell'intelletto. Questa ultima conclusione, che accenna per
altro un notevole perfezionamento della rifles sione nelle teoriche del
criticismo, è dovuta al filosofo di Conisberga,m a già è racchiusa
implicitamente nei sofismi disgiuntivi della Nuova Accademia. Ac. Costituita
dunque in questi termini, la controversia sulle fonti del conoscimento
conduceva la Nuova Acca demia a uno scetticismo assoluto,e noi già ne vedemmo
non dubbj segni in Carneade; m a era qui appunto dove Cicerone si arrestava
temperando col suo vivo sentimento dei veri naturali e colla moderazione latina
gli eccessi del metodo da lui fino allora seguito. Quindi usciva la sua teorica
sulla verosimiglianza delle percezioni sensibili che riporterò così riassunta
dal Ritter. « Les Stoïciens,en admettant la possibilité de saisir quelque chose
avec tant de précision qu'il ne puisse y avoir erreur,n'accordaient ce savoir
qu'au sage. Ils ne faisaient donc en cela que de refuser cette espèce de savoir
aux hommes ordinaires, car eux-mêmes ne pouvaient dire quel est l'homme qui est
ou qui a été sage; ils regardaient, au contraire, tout le monde comme insensé,
et refusaient en conséquence le savoir véritable à tout le monde. Cicéron
n'aspire pas à un pareil degré de savoir; mais il veut que le non -sage aussi
sache quelque chose,c'est-à-dire, qu'il ait une per suasion de la vérité des
phénomènes sensibles,sans cepen dant pouvoir y croir avec une parfaite
certitude.Son opinion est, qu'il y a des impressions sensibles auxquelles nous
pouvons nous fier, parce qu'elles ébranlent fortement notre sens ou notre
esprit;mais sans pouvoir cependant les adop ter comme parfaitement vraies.Telle
est sa théorie de la vraisemblance. Il ne veut pas faire disparaître la
différence entre le vrai et le faux; nous avons raison de tenir quelque chose
pour vrai et de rejeter autre chose come faux; mais nous n'avons aucun signe
certain de la vérité et de la fausseté.Il croit pouvoir prévenir
l'objection,qu'il y a ce pendant ceci de certain,qu'il n'y a rien de certain en
te nant aussi pour vraisemblable seulement qu'il n'y a rien de certain. C'est
ainsi qu'il se purge du reproche que la théorie qui donne tout pour incertain
est impossible dans la vie pratique, car cette vie se conforme à la vraisem
blance, et la plus part des arts qui s'y rapportent avouent même qu'ils ont
plutôt pour but la conjecture que la science. Il ne voit d'autre différence
entre son opinion et celle des dogmatiques, si ce n'est que ceux-ci ne dou tent
pas de tout ce qu'ils soutiennent;mais qu'il est vrai qu'il considère au
contraire beaucoup des choses comme vraisemblables, qu'il peut suivre, sans
pouvoir cependant les affirmer avec una parfaite certitude. On voit bien que
cette théorie de la vraisemblance s'éloigne un peu de la doctrine de la
nouvelle académie, du moins telle que Carnéade l'avait exposée; car elle
n'aspire pas à un art de tout rendre également vraisemblable et
invraisemblable, mais elle tient quelque chose pour vraisemblable, autre
chose pour invraisemblable. Cicéron remarque même qu'en ce point il s'écartait
de ses maîtres, particulière ment pour ce qui est des préceptes de la morale.Il
avoue à la vérité qu'il n'est pas assez hardi pour réfuter le doute de nouveaux
académiciens,par rapport à la morale, mais il désire les atténuer. » (Stor.,
vol. IV, pag. 108, 109, 110 tradotta dal Tissot.) 4. Il fondamento della teoria
tulliana sulla verosi miglianza è dunque nella questione del criterio del vero;
e qui, segnatamente nel giudizio sulle percezioni sensibili, apparisce il moderato
scetticismo dell'oratore latino;m o derato, dico, e parmi sia chiaro dopo le
cose predette che egli avvolto, come Socrate, in mezzo ai combattimenti del
dommatismo e dello scetticismo eccessivo, serbò una norma scientifica
nell'affermare e nel dubitare, temperò gli Stoici non accordando una fede
illimitata al solo te stimonio de'sensi; temperò gli Accademici sostituendo al
loro dubbio,uguale per qualunque opinione,una graduata verosimiglianza ne’ casi
particolari, combattè gli uni e gli altri rigettando il dubbio assoluto sui
principj fondamen taliesulleveritàteorematiche.(Vediiproemj particol. De Off, De
Div.,De Nat.Deor., Acad. La sua psicologia in quelle parti che si collega alla
logica, sebbene qua e là infetta del dualismo socratico, fa fede com'egli emendasse
il vizio della scienza contemporanea opponendo all' i m perfetta riflessione
de'sofisti un esame comprensivo del umano soggetto. Con metodo induttivo egli
moveva dalla coscienza, ed ivi,riconosciuti inaturali concetti dell'oltre
naturale e dell'intelligibile, s'innalzava con essi alla c o gnizione
dell'animo -- Tuscul. Nell'animo distingueva la ragione dal senso;la
ragione,sovrana delle facoltà umane,ha un immortale e quasi divino istintodel
vero,legame primigenio tra il Creatore e icreati;isensi, satelliti e nuncj
dell'anima,le danno di molte cose certa notiziaconfusaeammezzata,cheèun qualche
fondamento alla scienza, e la scienza ne sorge per la libera efficacia
dell'animo, che comprendendo in sè il particolare e ilm u tabile dei
sentimenti, si leva alle idee e alle nozioni uni versali; quindi i sensi ben
guidati da natura,nè torti da mala educazione, hanno una naturale rettitudine
al vero, nell'animo dove cade il libero giudizio della riflessione, ivi
soltanto può introdursi l'errore. De Leg., Tusc., Ac. Così col metodo induttivo
di Platone egli sale fino ai principj più universali, d'onde col deduttivo
d'Aristotele ridiscende ai particolari; e ne son prova i libri rettorici. Tra i
quali merita speciale considerazione la Topica, o logica inventrice, intitolata
a Trebazio giovane giurecon sulto e discepolo dell'autore,e dove ogni precetto
è ac compagnato da esempj di giurisprudenza. In questo libro che ha per
soggetto tutte quelle distinzioni e scomposizioni dialettiche che si ricercano
per l'invenzione degli argo menti, e si operano sui concetti che ne sono
signifi cativi, Cicerone divide la logica in inventiva e giudica trice, la
prima delle quali parti porge gli argomenti per disputare,la seconda li
dispone,li analizza e lim a neggia per persuadere.La logica
Ciceroniana,osservata altresì ne'dialoghi,ed esposta nel De Inventione, e nel
De 'Oratore, è in fondo la istessa logica d'Aristotele quale più tardisimo dificòne
gli StoicienellaNuova Ac cademia, e l'accettarono in gran parte i giureconsulti
romani e gli oratori; la qual cosa, perciò che risguarda i Topici, si disputava
lungamente, non sono molti anni, in alcune università tedesche, come apparisce
da un'ac curata dissertazione,De fontibus Topicorum Ciceronis,di Giovanni
Giuseppe Klein. (Bonnae) Ivi l'autore prendendo ad esame la questione proposta
dai critici a n teriori,se e quanto e con qual metodo Cicerone seguisse in
questo libro la Topica d'Aristotele che ci pervenne, ovvero se attingesse ad
un'altra di presente perduta, come qualche critico mostrò sospettare; conclude
dopo un dili gente ragguaglio dei due scrittori,che le opere loro quanto
aiprincipj,e in molte partisecondarie,differiscono note volmente; che Cicerone
nella sua Topica non si propose (il che apparirebbe a prima giunta dal proemio)
di fare un semplice compendio dei libri Aristotelici;ma resulta da tutto
il contesto avere l'oratore latino attinto la m a teria del libro dai Rettorici
dello Stagirita e da alcuni precetti degli Stoici e della media Accademia,e poi
averla composta col proprio giudizio in una forma di vera e par ticolare
disciplina. Sui Topici di Cicerone scrisse con fine più filosofico un ampio e
bel commento Severino Boezio,in cui la storia della filosofia ravvisa il primo
passaggio tra le dottrine dei Padri e quelle de'Dottori,tra l'ultimo spirare
della civiltà latina sotto le conquiste de barbari e ilprimo rinnovarsi delle
lettere e delle scienze nella nostra Italia.Or quel c o m mento, che all'indole
del trattato, già di per sè stesso analitico, accoppia il rigore della
dialettica della Scuola, e congiunge i nomi di Aristotele, di Tullio, di
Trebazio Testa e di Severino Boezio, mi rappresenta al pensiero l'armonia delle
scienze giuridiche colla filosofia, dell'ana lisi colla sintesi,della
dialettica colla storia, della pratica colla speculazione, dell'amore operoso e
civile colla sa pienza cristiana. 1. Entrando ora a parlare dei libri morali,
apparte nenti alla teorica sulle azioni, l'ordine della materia sembra
invitarci, come facemmo nei capitoli precedenti, a dire qualche cosa in
generale del disegno scientifico che li collega, e delle attinenze loro più
immediate e più rigorose colle altre parti della filosofia di Cicerone. In vero
la scienza morale nata sui rudimenti del senso co mune,quale Socrate la menava
a conversare famigliar niente fra gli uomini,e più tardi venne accolta e
trasmessa sino a noi dalle scuole migliori, si può assomigliarla ad uno
stupendo poema, se guardiamo la sublimità de'suoi veri,illegame che unisce i
principj alle conseguenze,e l'armonia delle speculazioni colla parte più
affettuosa dell'uomo e colla vita civile. Il principio n'è dato dalla
IV. natura, presupposto indispensabile della scienza; chè la riflessione
posta una volta su quel cammino ov'essa pro cedendo incontra e ravvisa ad una
ad una leveritàpiù prin cipali della Filosofia, move dai primordj della vita
vege tativa e animale,manifestati nella puerizia dai sentimenti indefiniti e
dagli istinti,passa su su agli inizj della vita razionale, allorchè quei
sentimenti illuminati dallo splen dore della conoscenza si palesano come
tendenze amorose al vero, al bello ed al bene; in quei termini riconosce la
ragione di fine,ed il fine,considerato come qualcosa onde nasce armonia nelle
operazioni d'un ente,guida la rifles sione al concetto di legge, d'un archetipo
assoluto ed eterno che per mezzo dell'intelletto indirizza il volere a
un'immortale destinazione. Principj naturali, bene, fine, legge; ecco i
concetti che, intrecciati mirabilmente fra loro nell'armonia della coscienza,
costituiscono l'ordito dell'Etica, allaquale, considerata per questo rispetto come
scienza direttrice della più nobile parte dell'umana n a tura, fan capo le
altre scienze costitutrici della filosofia. La Fisica, come la intendeno gl’antichi,
la quale meditando il principio primo dell'essere nell'universo e nel l'uomo,ne
ravvisa facile il fine che nell'universo è un termine oltrenaturale di naturali
armonie, desiderato dagli enti tutti, e nell'uomo è un'idea di perfezione
immortale, appresa confusamente, nè mai raggiunta nell'ordine delle creature.
La Logica, perchè trattando dell'ente sotto la ragione di vero,ne scorge
facileilpassaggio alla ragione di bene pel concetto d'amabilità, testimonj i
sentimenti più schietti della natura che antecedono ilvero e ne ger minano come
tendenze ed affetti. Vi conduce la Scienza dei doveri e dei diritti;chè dovere
e diritto sono concetti eminentemente morali in quanto da un lato discendono
dall'idea della legge,le cui divine esigenze s'impongono alla coscienza degli
enti creati,capaci di cognizione,pur ri spettando quelli enti nell'ordine della
loro natura; dal l'altro lato vengono su dall'idea dell'uomo,ente dotato
d'intelletto e d'amore,che riconosce in sè e nel suo libero arbitrio la
sanzione di quella legge,la quale osservando si sente capace d’immortali
destini. Così l'ontologia, la logica, la scienza delle obbligazioni e il gius
di natura si appuntano, come in unico centro, nella morale, da cui pur si
dirama il gius civile, la politica, la legislazione, la storia e ogni altra
scienza meditatrice dell'uomo. Il Cristianesimo, dottrina e religione
moralmente inci vilitrice, che nata in tempi di costumi nefandi operò un
mirabile rivolgimento nella vita dell'uomo, ponendo a capo dei suoi precetti
l'amore santificato da tanto sangue di martiri, e ad esempio dei nuovi costumi,
l'immagine più che umana del figlio di Maria,il cristianesimo solo poteva dare
un perfezionamento vero alle teoriche della morale. E quel perfezionamento lo
diede allorchè dichia rando senz'ombra di dubbio l'infinita natura di Dio,la
finita natura dell'uomo, si valse dell'idea intermedia di creazione per
assorgere al concetto più puro delle loro attinenze, potè meglio chiarire
l'idea di fine, di bene e di legge,ricostituire l'ordine dei fini nella natura
in telligibile e sovrintelligibile, vedere l'uomo e l'universo ordinati a un
disegno della provvidenza;e quindi,posto a capo di tutta la Filosofia il
concetto di Dio, se ne sparse nuova luce sulle dottrine del soprannaturale e
del naturale, sulla psicologia e la logica, sulla teorica dei doveri e dei
diritti; le scienze politiche e civili e la storia ne apparvero nobilitate. Il
che è tanto vero, che quel tendere continuo dalle miserie di nostra natura
all'i m mortale, all'assoluto, all'eterno,può solo spiegarci le sca turigini
arcane onde move un'aura d'ineffabile bellezza, chela scienza cristiana
respira,sono ormai più che quat tordici secoli, dai dialoghi di sant'Agostino,
e dalle let tere di san Girolamo in poi,sino alla Divina Commedia, alla Somma
dell'Aquinate,e alle sublimi fantasie di Serbatti. Considerate le quali cose,
se alcuno mi domandasse onde accadde che la Paganità, in tanto e continuo sca
dere di costumi e di scienza, riconobbe più volte, senza pur cadere in errori
sostanzialissimi,le principali verità della morale,di che abbiamo esempj
segnalati nelle Indie, in Magna Grecia e soprattutto nelle scuole
socratiche e in Cicerone nostro, addurrei per risposta la vivezza delle umane
tendenze e l'efficacia de'sentimenti,che ger minando da naturaciportano
inconsapevolialvero ignoto, l'istinto della socievolezza e l'amore per gli enti
della medesima specie, che essendo un vivo bisogno dell'uomo, gli mantiene
fresca nell'animo la voce degli affetti do mestici e civili, e infine la notevole
differenza che corre fra l'apprensione astratta del vero e il sentimento che
n'hai nella vita, onde spesso il filosofo discorda dal l'uomo, e il popolano e
la povera vecchierella fanno a m mutolire coll'evidenza della rozza parola il
superbo sa piente.In Grecia,e segnatamente inAtene,dove nacque Socrate, e dove
si conservava nell'amore del bello e nei gentili attici costumi un germe di
rinnovamento, rimase aperta la via a tornare sulle antiche tradizioni,
attestate dalla coscienza e dal linguaggio, e a derivarne, come scintilla da
selce,i principj della morale che fanno sì bella parte delle scuole socratiche.
M a quei principj (già lo sappiamo) erano forse più facili a ravvisarsi l’età
sus seguenteallasocratica,inRoma;e perchèinRoma s'era insanguinata e commista
la civiltà dei popoli italici, in cui si manifestò ab antico una notevole
inclinazione alla scienza avvivata dal sentimento e da fini di pratica a p
plicazione,eperchè in Roma erafioritaefiorivalascuola dei Giureconsulti, il cui
pernio era l'idea morale della legge e del dritto,e infine perchè, se una
riforma era da farsi in tanta corruzione di civiltà e di costumi,in tanto
scadimento delle relazioni domestiche e civili, e nella notevole prevalenza che
da circa due secoli avean preso le dottrine epicuree, certo quella riforma
dovea comin ciare dai principj della morale.L'Etica ciceroniana, che è uno dei
più nobili tentativi fatti dall'umano ingegno per opporsi, senz'altro ajuto che
l'evidenza del vero de sunta dalla natura viva, alla rovina d'un'intera nazione,
era dunque preceduta da un grande preparamento; chè giammai si compie un gran
fatto senza che nei tempi e nella società,da cui nasce,se ne acchiudano i germi.
E i germi della riforma morale iniziata da Tullio furono, oltre le
condizioni civili e politiche di tutta l'Italia e di Roma, i Giureconsulti e le
sètte, alle quali s'oppose il riforma tore; le splendide tradizioni delle
scuole socratiche, e segnatamente idommi platonici,aristotelici e stoici;ivi
egli mirando componeva il disegno scientifico della sua morale;-m a quel nobile
magistero l'avrebbe ajutato ad accozzare brani di verità,non a comporre una
vera dot trina, a ragunare nella memoria, non ad unire nella ri flessione
esaminatrice, s'e'non avesse avuto l'occhio in un principio più alto, superiore
ad ogni opinione e ad ogni setta, nell'esemplare della natura considerata nel
suo popolo, in Italia, in Grecia, in Europa, nelle genti tutte conosciute, e
più viva in sè stesso, cittadino gene roso,scrittore sommo,oratore che tante
volte dall'alto della tribuna avea signoreggiato gli umani affetti colla parola
onnipotente. Questa meditazione profonda dell'uomo interiore, il cui fine era
dedurre le ragioni del giusto dalle attinenze dell'anima e dell'universo con
Dio,valse a Cicerone le accuse di quell'acuto intelletto che fu Michele Montai
gne. M a il Montaigne, osserva opportunamente un altro scrittore francese,
cercava forse troppo sovente materia al sorriso nell'invilire l'uomo e nel
rassegnarlo tra i bruti; Cicerone lo stimava creato a qualcosa di più alto e di
più solenne (ad majora et magnificentiora quædam ), e riconosceva da Dio la
nobiltà dell'umana natura,e l'ef ficacia della ragione e del libero arbitrio,
per costituire la morale e con essa la vita civile su fondamenti non peri turi.
Premesse queste considerazioni, l'Etica di Tullio, in cui Francesco Forti
osservava rappresentarsi la maturità della ragion naturale presso gli antichi,
si distingua i n nanzi tutto in due parti determinate intimamente dal
l'indirizzo del suo pensiero speculativo nell'esame dei veri morali,
estrinsecamente dalla forma filosofica de'trat tati. U n a parte è teoretica e
principalmente speculativa; e in essa Cicerone esaminò la ragione delle
tendenze n a turali nell'umano soggetto per ispiegare il problema
sulla natura dei beni, e si levò coll'induzione da questo esame ai concetti
universali di legge, di dovere, di diritto (De finibus, De legibus); l'altra
parte, in cui prevale un fine pratico o di applicazione, movendo essa pure dai
principj fondamentali, innanzi chiariti, scende a determi narli nella vita
dell'uomo individuo e sociale e nelle dot trine sulle forme di governo
(Tusculanarum, Paradoxa, De officiis,De republica,De amicitia eDe senectute).Se
poi si considera bene,nella prima parte di tal distinzione, avvertita pure dal
Kuehner, è compresa manifestamente un'indagine soggettiva e oggettiva;
soggettiva e ogget tiva ad un tempo,perchè nel problema, posto da Tullio
intorno alla natura dei beni, la riflessione scientifica si volge da un lato
sulle tendenze e sugli affetti spirituali, mentre dall'altro vi riconosce un
riferimento necessario a qualcosa d'assoluto, d'immutabile,d'infinito, di essen
zialmente oggettivo, all'esemplare di legge, da cui si ge nera in noi
l'obbligazione morale; e quindi è che la teorica de'Fini si distingue nel
filosofo nostro da quella del Dovere,e sorge fra l'una e l'altra, come centro
unitivo delle armonie morali, la teorica della legge. Ponendo mano impertanto
all'esame della parte speculativa,cominceremo dalla dottrinadeiFini, trattata
ex professo, e con intendimento al tutto scientifico, nel libro D e finibus, a
cui fanno corredo con secondaria i m portanza, e con oggetto non immediatamente
speculativo, le Questioni Tusculane, e l'operetta dei Paradossi. Thorbecke in una sua dotta dissertazione
universitaria sul principio della Filosofia e degli Officj desunto dalle opere
di Cicerone, osserva che il quesito dei Fini,o del sommo bene,occupa un luogo
principalis simo nella sua morale. Il critico tedesco allega a questo proposito
l'autorità stessa del nostro oratore, che più volte nelle sue opere, e
segnatamente nel primo libro degli Officj (I,3),riferisce ilfondamento delle
dottrine morali alla disputa sul fine dei beni,e nel De finibus nota oppor
tunamente contro gli Stoici non potersi separare, come [Due metodi
si presentavano alla riflessione esamina trice per risolvere il problema sulla
natura dei beni. L'uno,che èmetodo comprensivo edessenzialmente scien tifico,
necessario in qualunque parte della filosofia,e so prattutto indispensabile in
questa, stava nel riprodurre esattamente coll'ordine del pensiero speculativo
l'ordine del soggetto, nell'abbracciare quella stupenda armonia di tendenze e
di fini, che ci manifesta l'uomo interiore senza nulla
tralasciare,nullanegare,nullaesaminare im perfettamente. L'altro metodo invece,
che s'informava dalle qualità negative e parziali del sofisma, consisteva nel
dimezzare colla scienza ciò che la natura avea unito, nel considerare l'essere
umano soltanto in certe sue dis posizioni e facoltà, tralasciando le altre,
nell'offrire come opera compiuta del vero e di Dio un informe viluppo di
contradizioni e d'errori. Questa seconda fu la via torta e fallace seguita
dalle sette grecoromane; quello il m e todo di Socrate e della coscienza
tracciato da Tullio, come n'è testimone l'intero trattato de'Fini. La quale
avvertenza occorre fare fin d'ora;perchè parecchj storici della Filosofia
trovarono anche in questa parte della m o [ termini identici d'una stessa
relazione morale, il principio dell'operare e il fine dei beni. Tale suprema
importanza scientifica del trattato dei Fini si desume ancora dal con siderare
che la materia di quel problema si estende per un larghissimo campo di
relazioni intercedenti fra la psicologia e le dottrine morali.Invero il
filosofo,che pone mano a risolverlo,bisogna che mova dai rudimenti di natura,
comprenda con diligente esame tutto l'essere umano,e rifacendosi dalle prime
tendenze,dove appena appena si manifesta l'affetto, e da quelle che palesano
nel sentimento, nell'associazione dei fantasmi e nella m e moria lo svolgimento
della vita animale, e il germe del raziocinio, si apra la strada ad esaminare
tutto l'uomo nella conoscenza che più tardi acquista dell'essere pro prio,dei
proprj doveri,delle prime notiziescientifiche,e a considerarlo come parte della
famiglia, come individuo e come membro della civil società. rale di
Cicerone un appicco alle accuse;dissero non avere egli compreso il vero aspetto
scientifico della questione dei Fini, e poichè, sprovveduto di un saldo
criterio di scienza, tentava comporre le più disparate dottrine, quali erano
quelle degli Stoici e degli Accademici e Peripatetici antichi, la tentata
conciliazione provare anche una volta la povertà del suo ingegno speculativo. Ritter,
Brucker. A una simile accusa, benchè apparentemente sostenuta da
validiargomenti,rispondemmo altravolta,eciparve che la prova più solenne e
palpabile contro le afferma zioni dei critici avversi forse il prendere in mano
le opere del filosofo latino, svolgerle con diligenza, ed esponendo que'suoi
dialoghi pieni di tanta vita d'eloquenza e di speculazione, rappresentarlo,se
fosse possibile,alla fan tasia dei lettori quale io me lo immagino là nelle cam
pagne di Tuscolo e di Cuma seduto all'ombra della quer cia di Mario, e inteso a
conciliare le negazioni de'sofisti nell'affermazione compiuta dell'umana
coscienza. Il dialogo de'Fini è diviso in tre giornate,e ciascuna comprende una
disputa,nella quale Tullio assume sem pre la parte di giudice e di confutatore,
argomentando in favore d'Epicuro, degli Stoici e dell’Antica Accademia il
consolare L. M. Torquato, M. Catone e L. Pupio Pisone. Il dialogo è introdotto
ora nella villa di Cicerone in quel di Cuma,oranellabibliotecadiLucullopresso
Tuscolo,e in fine all'ombra silenziosa deplatani nell'Accademia d'Atene. Per
cominciare dalla disputa contro Epicuro,occorre qui rammentarci come nella
prima parte di questa tesi esami nando le principali scuole che fiorivano in
Grecia avanti i tempi di Cicerone, e tra queste la scuola epicurea, vi trovammo
un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine anteriori o
contemporanee,e come tal per vertimento consistesse,a nostro avviso, in un
esame sem pre più povero e parziale del soggetto su cui cade la scienza,
manifestato, segnatamente in fisica, col fermare l'osservazione al nudo
meccanismo degli atomi,in logica con ridurre ogni facoltà dello spirito al
senso, e nella morale restringendo la virtù e la beatitudine ai piaceri del
corpo e i piaceri dell'animo alla speranza o al ricordo dei piaceri del
senso.Una siffatta dottrina,che spegnendo ogni più nobile tendenza dell'uomo,
riduceva il sapiente alla condizione del bruto, subito la riconosci come il por
tato d'un ingegno profondamente sofistico, solo il sofisma togliendo all'uomo
l'intuito vivo delle armonie di natura; chè, posto a capo dell'Etica il puro
sentimento animale, se ne oscura la notizia dell'uomo, ente capace non solo
disentimento,ma d'intellettoed'amore,noncapiscipiù la possibilità del dovere
che dee cercarsi per sè,non già per diletto,e s'offende la dignità dell'umana
natura e delle virtù ponendo fra esse la voluttà come una meretrice in
un'assemblea di matrone. De fin., De off. Tali sono gli argomenti, tolti
altresì dalle in time contradizioni di quel sistema, che Cicerone vibra di
rimando contro Epicuro colle armi d'una concitata elo quenza,e davvero la sua
risposta a Torquato è un con tinuo contrapporre a un cattivo e sofistico esame
del l'umana natura, un esame più alto e più vero delle sue leggi, de'suoi
destini, del suo aspirare all'immutabile e all'assoluto;chèilnobile animo
dell'accusatorediVerre, e del persecutore di Catilina e d'Antonio poneva da
parte ogni dubbio combattendo nelle dottrine epicuree una tra le cause maggiori
dell'affrettata rovina di Roma. M a v'è un luogo,noterole su tutti gli altri,in
cui l'Ora tore latino, volendo mostrare come l'affetto abbia efficacia viva e
spontanea per ricondurci nel vero,rappresenta quella contradizione tra il
pensiero e l'operare, tra le dottrine e la vita,non rara neppure ai dì nostri
in uomini spon taneamente inclinati al bene per virtù di natura, e che han
guasta la mente da malvage filosofie. In quel luogo egli si volge a Torquato, e
invoca la sua coscienza di cittadino, il suo desiderio di gloria, le tradizioni
de'suoi avi famosi e il suo magnanimo affetto alla patria in te stimonio delle
dottrine da lui professate; e gli chiede p e r chè mai non oserebbe sostenerle
nei comizj, alla presenza del popolo, o in pieno senato. Crede egli con intimo
coif vincimento unico fine della vita ilpiacere? E allora perchè mai v'è
tanta contradizione tra quello che fa e dice come cittadino e quello che
sostiene come filosofo? Teme egli forse l'odio del popolo? Ma badi, risponde
Cicerone, che in questo caso l'errore dell'intelletto non venga raddiriz zato
dal cuore; badi che il sentimento universale, onde ogni popolo della terra si
leva come un sol uomo a con dannare Epicuro,non sia iltestimonio interiore e
inappel labile della natura, repugnante alla teorica del piacere! Questo
intimo disaccordo tra la ragione ed il cuore, tra le dottrine della scienza e
la vita civile, rappresen tato in Torquato, oltre al mostrarci un alto
principio della filosofia di Socrate e di Tullio, che vuole il cono scimento
del vero costituito da un'interiore armonia del l'affetto coll'evidenza, serve
poi in questo caso a ritrarre mirabilmente i tempi dello scrittore, e a
partecipare al dialogolavitaeilmovimento deldramma.I tempi di Cicerone in molte
parti somigliavano ai nostri. Dismessa a poco a poco nelle mollezze la severità
del costume, s'era affievolito negli animi umani, per l'abito fatto a dottrine
sensuali, quel profondo discernimento del retto che non patteggia mai colla
coscienza,e sdegna chiamare con altri nomi da quello che sono il bene ed il
male. Quindi, come sempre avviene, l'errore nelle opinioni d o
ventavapoicausanon lievedidecadimento neicostumipri vati e civili,e non
pertanto alla corruzione profonda degli intelletti e delle volontà contrastava
potentemente nei più, e in special modo nel volgo,l'efficacia ingenita dell'af
fetto del bene. Ora questo che ad altri poteva sembrare niente più che un
argomento di fatto della differenza tra le opinioni volgari e le dottrine dei
filosofi, avea per Cicerone il valore di una prova scientifica, come testimo
nianza resa dalla natura ai supremi principj morali, e questa testimonianza ei
la vedeva,da un lato nell'efficacia degli affetti osservati in ogni individuo,
e dall'altro nel riscontrarsi la veracità di questi affetti coi pronunciati
solenni e infallibili del senso comune. Sennonchè, mentre nel secondo libro
de'Fini era i m presa di non grande difficoltà pel filosofo latino il con
futare Epicuro la cui dottrina mancava d'ogni severo prin cipio di
scienza, la sua parte di giudice e di contradittore doventa non lieve quando
nel terzo e nel quarto libro egli prende ad esame la morale del Portico difesa
dall'autorità e dalle parole di Catone Uticense.E invero,qualunquevolta a
mostrare la solidità e l'ampiezza dei principj etici e speculativi su cui
Zenone fondava la teorica de costumi, non bastasse il suo esame diligente
dell'animo umano e degli affetti spirituali osservati in ogni età della vita,
varrebbe soltanto ilrichiamare ch'ei faceva la morale, nelle sue parti più
generali, ai sommi principj della scienza della natura. Il filosofo di Cittio
avea fondato la sua dottrina sul riconoscimento pratico e speculativo del
l'ordine naturale, espresso in quella sentenza:vivi confor me alla natura.
Πρώτος ο Ζήνων... τέλος είπε το ομολογ ouuevos rõ qurat Eno, così Diogene
Laerzio; e in quella sentenza, chi ben la consideri, si riconosce l'efficacia
del l'insegnamento socratico, continuato in Zenone, onde a v veniva, e lo
notammo più addietro, che, mentre la sua logica e la fisica erano infette da un
esame parziale e meschinamente sofistico dell'universo e dell'uomo, la m o rale
offriva un assai più largo disegno di veri speculativi. Il principio fondamentale
dell'Etica degli Stoici era fuor d'ogni dubbio il concetto puro e assoluto del
bene in attinenza cogli affetti spirituali;tuttavia se fu merito insi gne di
quella dottrina che essi pervenissero a tale concetto dopo un largo esame
psicologico delle umane tendenze,il vizio era che partiti dalla comprensione
totale dell'essere nostro e giunti all'idea di virtù, restringevano ogni cosa a
quest'ultima,non abbracciando più tutto l'uomo nello spirito e nel senso,
nell'intelletto e nel cuore, in sè stesso e nelle condizioni esteriori. Le
cose, diceva Zenone, si conoscono dall'uomo o per esperienza,o per giudizio di
causa,o per analogia, o per raciocinio comparativo, e in quest'ultimo cade la
notizia del bene, alla quale l'animo ascende universaleggiando da quelle cose
che sono secondo natura. Laonde dal concetto del bene come d'un che ideale,
assoluto e simile soltanto a sè stesso, venne poi il concetto della virtù,
al quale il filosofo del Portico saliva per la nozione intermedia d'onesto. Che
cos'era l'onesto? L'onesto per gli Stoici altro non era che la convenienza
dell'atto umano colla natura, riconosciuta dalla ragione; e quindi essi
dicevano, avvolgendosi in un paralogisma, che poichè quel riconoscimento
pratico e razionale avveniva nella pienezza delle facoltà intellet tuali dopo
l'infanzia, che è quella età in cui le prime cose conformi a natura (prima
nature) (tá apota xato qusiv) si appetiscono inconsapevolmente,da queste prime
inclina zioni della natura move il principio dell'operare, ma non però quelle
cose,che n'erano il termine, si annoveravano tra i beni. Questo principio era
vero in parte, ma nel l'esagerarlo sta il vizio fondamentale della morale del
Portico; l'esagerazione poi consisteva in considerare l'atto m o rale come
avente a fine sè stesso, niente altro che sè stesso, nell'astrarre da ogni
condizione esterna della vita privata o civile, e da quell'armonia che
intercede tra la ragione e gli affetti, onde il libero volere o è condotto o
conduce; nel porre in petto al sapiente quella virtù fredda, impassibile,
solitaria, divisa dell'universo e da Dio, come immobile quercia radicata nei
macigni delle Alpi. Se poi si considera più addentro nelle ragioni isto riche
del sistema, il concetto eccessivo della virtù ci p a lesa un vivo contrasto
della morale stoica coi tempi. Qual fosse il secolo di Zenone facemmo vedere
più in nanzi. Ora se immaginiamo in quel secolo un uomo di gagliardo volere e
di generosi propositi, che ponga mano alla filosofia coll’intendimento di
fortificare il co stume,e di avviarlo ad un fine più alto,subito si capi sce
come a quell'uomo, profondamente ristucco dalla ignavia dei tempi, la vita del
saggio dovesse sembrare una lotta continua della ragione innamorata del bene
cogli affetti interiori, col rigoglio dei sensi, colle ree c o stumanze civili,
e l'onesto una perfezione quasi supe riore all'umana, e conseguibile solo da
pochi sapienti. (De finibus, tutto il libro terzo; Kuehner e Thorbecke passim.)
Esponendo e confutando i principj più generali della morale
stoica,abbiamo esposto in gran parte intorno a questa materia le opinioni del
filosofo nostro. Solo ci ri mane da cercare in qual modo egli svolgesse le
proprie dottrine morali in contrapposto alle dottrine del Portico, e come
l'erroneo concetto del bene supremo da lui combattuto nel quarto libro, movesse
la sua riflessione a pensare un più vero e men difettivo scioglimento del gran
problema morale.Non v'ha forse luogonelleopere da noi esaminate,in cui questa
facoltà potente dell'inge gno speculativo di Cicerone si faccia meglio
manifesta, e con essa il suo metodo delle attinenze che concilia gli opposti
sistemi nell'unità non divisibile dell'uomo. I principj su cui è fondata la
confutazione, movendo dalle idee più comuni e più popolari intorno alla poca
conve nienza delle dottrine del Portico colle necessità e cogli usi della vita
civile, procedono poco appresso a cercare le cause più remote del paralo gisma
nei fondamenti del sistema avversario.I giudizi del filosofo latino, informati
da un metodo rigoroso d'esame, cadono sempre sul concatenamento scientifico
delle dot trine, e sulla loro armonia coll'indole del soggetto; nè
sembreranno,iocredo,eccessivamente severi,come parvero a Kuehner, qualorasipensiche
Cicerone,traisistemi maggiormente seguiti a'suoi tempi, preferiva ad ogni altro
lo stoico, e che inoltre la storia moderna della filosofia riassumendo l'esame
di lui sulle dottrine m o rali del Portico, solennemente lo confermava. In prova
di ciò Enrico Ritter, più volte citato, considerando l'idea che del saggio
s'erano formati gli Stoici, e su cui fondano la morale, vi scopre il principio
d'ogni lor paradosso, e di parecchie false opinioni sulla vita dell'uomo;
poichè, se da un lato, egli nota,si nascondeva in quella idea un alto
intendimento civile, ne veniva poi necessariamente alterato il concetto della
vita e dei doveri affermandosi quivi l'apatia del saggio, ovvero (come suona in
greco quella parola) il suo affrancamento assoluto da ogni pas sione e da ogni
causa esterna che turbasse la tranquillità del suo spirito. Ritter, Morale
des Stoïciens, Questa era un'ambiziosa ostentazione del sommo bene, così la
chiama ilnostro Oratore,ostentazione degna d'una filosofia da ottimati che
faceva privilegio della s a pienza, e l'appartava lungi dalla modesta sublimità
del senso comune. Laonde gli Stoici (prosegue Tullio), per non essere da quanto
il volgo, mutavano i principj della natura,dicevano che l'uomo è anima e
corpo,che visono nel corpo alcune cose desiderate da noi come beni; m a
poi,avendo fatto nell'uomo eccellente l'animo sopra ogni altra sua facoltà,
designarono per modo la natura del bene sommo come se l'anima non sovrastasse
soltanto,ma fosse unica parte della umana persona. E qui è notevole davvero
come ricercando il nostro filosofo le cause ultime dell'errore nel principio
stoico del bene supremo,si va gradatamente avvicinando al con cetto positivo e
scientifico della morale.Io dico che dalla confutazione degli Stoici esce un
concetto positivo e scien tifico della morale, perchè quivi egli non segue le
forme irresolute della Nuova Accademia, nè desume gli argo menti più validi
dalle contradizioni relative e parziali del sistemaavverso,ma
procedepiùinnanzi, indagasottilmente l'intervallo che separa il conoscimento
diretto dal cono scimento riflesso, e pone la vera indole della scienza nel suo
differire dalla natura,a quel modo che il compiuto differisce dall'incompiuto,
l'attuale dal virtuale e il per fezionamento dal perfettibile. La scienza, dice
Cicerone, move dai principjdi natura, e come tale ha nella stessa natura la
possibilità d'ogni suo sviluppo ulteriore; la scienza non crea l'uomo,ma ne è
un perfezionamento, non genera le notizie dirette,m a le chiarisce,le
distingue, le corregge,le riduce a principj; non disegna ella stessa l'immagine
dell'umana virtù, nè dispone l'uomo a desi derarla, m a trae in atto quelle
essenziali e ingenite dis posizioni; talchè l'opera sua è un continuo
avvicinarsi al concetto del bene,seguendo un archetipo eterno di perfezione, e
somiglia all'opera dello scultore che riceve da altri già disegnata e delineata
la statua per ridurla poi a compimento colla virtù del proprio scalpello.
« Ut Phidias potest a primo instituere signum idque perficere, potest ab alio
inchoatum accipere et absolvere,huic similis est sapientia: non enim ipsa
genuit hominem,sed accepit a natura inchoatum. Hanc ergo intuens debet
institutum illud quasi signum absolvere.Qualem igitur natura homi nem
inchoavit? et quod est munus,quod opus sapientiæ? quid est quod ab ea absolvi
et perfici debeat? Si nihil in quo perficiendum est præter motum ingenii
quemdam, id est,rationem,necesse est huic ultimum esse ex virtute agere:
rationis enim perfectio est virtus: si nihil nisi corpus, summa erunt illa,
valetudo, vacuitas doloris, pulcritudo,cætera.Nunc de hominis summo bono quæ
ritur. Quid ergo dubitamus in tota ejus natura quærere quid sit effectum? Quum
enim constet inter omnes,omne officium munusque sapientiæ in hominis cultu esse
occu patum, alii ne me existimes contra Stoicos solum di cere, eas sententias
adferunt, ut summum bonum in eo genere ponant, quod sitextra nostram
potestatem,tam quam de inanimo aliquo loquantur, alii contra, quasi corpus
nullum sit hominis, ita præter animum nihil cu rant, quum præsertim ipse quoque
animus non inane nescio quid sit -- neque enim id possum intelligere --, sed in
quodam genere corporis, ut ne is quidem virtute una contentus sit,sed appetat
vacuitatem doloris.Quam ob rem utrique idem faciunt, ut si lævam partem negli
gerent, dexteram tuerentur, aut ipsius animi, ut fecit Herillus, cognitionem
amplexarentur, actionem relinque rent. Eorum enim omnium, multa
prætermittentium, dum eligant aliquid,quod sequantur,quasi curta sententia. Atveroillaperfectaatqueplena
eorum,quiquum de hominis summo bono quærerent,nullam in eo neque animi neque
corporis partem vacuam tutela reliquerunt.» Questa bella dimostrazione,
che il Kuehner annovera tra le dottrine interamente proprie di Tullio, e che
trascorre con tanta signoria di sè stessa dalle nature inferiori alle
superiori, ponendo la legge che governa il sapere a riscontro colla legge
dell'universo, mostra quanto alto fosse pel filosofo romano il concetto della
Scienza Prima,ed è uno splendido testi monio della sua potenza speculativa e
dell'universalità dell'ingegno latino.Concepiva il Romano lascienzacome un
ripensamento della natura, e la natura, considerata nell'ordine che la informa,
era per lui un'arcana ar monia d'attinenze; talchè la scienza ei la immaginava
come un ripensamento delle naturali relazioni, che in tercedono tra i varj
gradi della vita nell'universo, tra le varie parti della natura fisica,
intellettiva e morale nell'uomo, e poi tra la natura e la speculazione, e tra
la speculazione e la vita civile. Filosofo vero è per lui chi ripete
veracemente,tal quale gliela diè la coscienza, quell'armonia di natura;filosofo
falso o sofista chi con fondendo o separando riesce a negarla. Quindi era
sofista l'epicureo, che meditando l'uomo solo nella parte più bassa di sua
natura, e chiudendo gli occhj davanti alla luce non estinguibile
dell'intelletto, poneva nel piacere il supremo dei beni; era sofista Erillo che
disconoscendo la libera attività del volere, confinava la virtù nell'in tuizione
inefficace e disamorata del vero scientifico; ma non errava meno lo stoico, che
pervenuto al concetto di virtù movendo dalle naturali tendenze, a un tratto le
abbandona per rifugiarsi in un ideale di sapienza che alla natura dell'uomo contraddiceva.
Cf. De legibus. Considerata sotto questo rispetto,l'idea altamente c o m
prensiva,che Tullio s'era formata della scienza morale, lo ravvicinava ai
principj delle scuole socratiche.La ra gione parmi assai chiara;poichè,posto
una volta,com'è di fatto, la scienza non essere altro che un fedele ripen
samento dell'umano soggetto, e dall'ordine dei principj intrinseci ad esso
venire l'ordine esterno costitutivo del metodo dilei;ammesso inoltre
infilosofiailrinnovamento essenziale d'ogni riforma essere,come nelle
istituzioni ci vili, un ritorno verso i naturali principj dell'animo; da ciò
consegue che la misura per determinare la bontà del metodo d'una scuola, e il
suo avanzare o allontanarsi dall'istituto riformatore,sarà ilparagone tra la
pienezza della forma scienziale e l'integrità della materia esaminata; talchè,
dato un degeneramento delle scuole successive dal principale istitutore, chi
prendesse a confutarle richia mandole ad un esame più pieno dell'umana
coscienza, s'incontrerebbe per via diretta negl'intendimenti del ri formatore.
Tale è il caso da noi esaminato rispetto al filosofo latino. Il principio della
morale delle scuole so cratiche è il conosci te stesso. Ora è noto quale fosse
la pienezza e la comprensione del significato, che il filosofo ateniese dava a
quel precetto in ogni parte della filosofia, e come il sentimento della
perfezione ideale, connaturato all'ingegno greco, e reso più vivo dalle armonie
pitta goriche,traesse lui,uomo di smisurato intelletto, a im maginare la virtù
costituita da un armonico concorso delle facoltà umane fra loro e coi termini
esterni, e a conce pire il cittadino nell'ideale dell'uomo perfetto. Tale
indirizzo dell'ingegno greco nei principj costi tutivi della morale seguitarono
Platone e Aristotele; ma l'uno, giovane della fantasia e dell'affetto,e nato in
una civiltà, giovane ancora, e che serbava nell'evento delle istituzioni civili
tutte le speranze d'un avvenire glorioso, sebbene affermasse l'effettuamento
del bene assoluto non potersi dare q u a g g i ù, perchè il bene assoluto è
l'ente i n finito, in sè e per sè sussistente,e partecipato solo im
perfettamente dalle cose finite, pure faceva consistere la virtù in un continuo
avvicinarsi dell'uomo a quell'esem plare immortale di perfezione, e riconosceva
nei beni ter reni un'effigie lontana e appena un'analogia della beatitudine
eterna (Quo i w s i s Sew. De rep. e Thea et. ). Aristotele, ingegno più virile
e più temperato e ritraente dai tempi, in cui, perduto il fatto delle libere
istituzioni, se ne ve niva creando con affetto maggiore la scienza, se rinvenne
il perfetto della vita nell'intuizione del vero specula tivo, si volgeva di
preferenza alla pratica, e faceva del pensiero un semplice avviamento
all'azione, della politica la parte principalissima della sua morale. Il
concetto del bene, rimasto assai indeterminato nelle dottrine del
figlio di Sofronisco, si bipartisce dunque nel l'Accademia e nel Peripato;
Platone lo congiungeva alla psicologia e alla dialettica; Aristotele lo
ravvicinava alla politica; con che, si avverta bene, noi vogliamo solo far
notare certa speciale prevalenza nella forma scientifica delle due scuole, non
già determinare una essenziale diver sità nei fondamenti della morale. Chè la pienezza
dell'osser vazione interiore, tanto raccomandata da Socrate, durava lungo tempo
ancora nei successori d'Aristotele e di Pla tone, e fu tra le cause principali
ond'essi, concordi con Zenone nel sostanziale del sistema, ne combatterono il
metodo e il concetto del bene supremo come un trali gnamento dalle dottrine dei
loro istitutori. Da queste considerazioni s'inferisce più cose.Primie ramente
si comprende come il pensiero dell'oratore latino sulla teorica del bene morale,
considerato sotto il rispetto o semplicemente speculativo, sia universale,
comprensivo e di un importante valore scientifico, sia un testimonio di più del
suo risalire mediante un principio più alto e più generale,non certamente
partecipato dalle scuole negative e sofistiche,
ai veri supremicostituenti la scienza. Da que ste considerazioni esce
anche nuova luce sull’intendimento a cui mira il libro De finibus. Quest'opera
è di una singolare importanza per la storia della scienza morale, e, a
considerarla bene, si vede che Tullio a fin di mostrare e chiarire la perfetta
dottrina sulla natura del bene su premo, si valse del metodo più famigliare a
Socrate e a Platone, metodo che potrebbe dirsi ab absurdis, assai usato nelle
dimostrazioni dei problemi di Geometria;pose cioè più concetti particolari e
negativi del bene perfetto, e su via di contradizione in contradizione si levò
elimi nando, e integrando insieme, al concetto più universale e più
comprensivo. Per talmodo egli,imitando il Socrate del Convito, del Fedro e
della Repubblica,addestrava il giovane ingegno latino a scoprire nel
particolare e nel mutabile delle opinioni l'idea universale che signoreggia la
scienza. Conforme a tal metodo, se egli nel primo e nel secondo libro confutava
Epicuro mostrando quant fosse difettivo il suo principio che ponera
il bene ed il fine nel puro sentimento animale,e se nel terzo e nel quarto
esponendo e correggendo le dottrine del Portico richiamava i filosofi a
meditarne la parte imperfetta, cioè il prevalere soverchio del principio
spirituale e sog. gettivo nel concetto del bene;nel quinto libro intro dusse a
coronamento della morale ilsistema dell'Accademia e del Peripato. Questo libro
è una sintesi di tutta quanta la scienza; vi si studia l'uomo dai primi
rudimenti della vita vegetativa e animale su su fino agli albori della vita
intellettiva e morale; vi si mostra come l'istinto primitivo della
conservazione esca in sentimento, il sentimento germini in affetto,e
quell'affetto,incerto e inconsaputo da prima, a poco a poco coll'apprensione
più viva di noi stessi e della differenza che ci distingue dagli
altrianimali,simuta inconoscimento; vis'insegna come debba la filosofia tener
conto nelle sue meditazioni di questa piega üei sentimenti animali e
spirituali, perchè le sono scala all'evidenza del vero che più tardi la ri
flessione esaminatrice coglie nei penetrali della coscienza. Invero quando io
leggo il trattato dei Fini non mi posso capacitare come vi siano stati alcuni
critici che han vo luto scoprire nel quinto e nel quarto libro, e nella con
ciliazione ivi proposta tra gli Stoici e l'Antica Accademia, non altro che un
misero tentativo dell'eclettismo latino; poichè (giova ripeterlo)mentre
investigava ilfine scientifi camente,Cicerone conciliava le scuole,ma
integrando col metodo dell'osservazione interiore; procedeva sì ravvici
nandoisistemide'filosofi,ma ilprincipiodellaloroarmo nia desumeva
dall'esemplare della natura, ch'è sistema immortale di Dio. Vedi riassunto e
citato diligentemente ilDe finibus nella dissertazione già allegata di G. R.
Thorbecke, e in quella di Kuehner, Vedi pure per ciò che risguarda ilconcetto
di tutto il trattato l'importante dissertazione di Hinkel: De variis formis
doctrine moralis Peripatetico rum usque ad Ciceronem, earumque cum cæterarum
scho larum placitis comparatione. Marburgi Cattorum). Il concetto
scientifico della morale di Cicerone, quale noi l'abbiamo meditato sin
qui,comprendendo nella sua pienezza tutti i principj costitutivi di quella
dottrina, e unificando in un termine superiore, che era l'integrità del
soggetto umano, le contradizioni parziali delle scuole, dà luogo a risolvere
una delle più importanti questioni mosse dagli storici sulla morale
dell'oratore latino. I m perocchè ci spiega in qual modo, concorde coll'antica
Accademia e col Peripato nei principj supremi e nel l'idea del bene e della
virtù, quanto poi alle parti a c cessorie,che avevan per fine determinare il
contegno del saggio rispetto a sè stesso,e nelle relazioni civili,egli se
condasse talvolta gli Stoici la cui severità, civilmente con siderata,glipareva
un argine saldocontrolastraboccata corruttela dei tempi. Procedendo con tal
criterio, i libri attinenti a questa parte soggettiva della morale appajono
informati da un solo ed unico disegno di scienza,e ven gono distribuiti per
classi in ordine al metodo e agli in tendimenti. Infatti dall'opera dei Fini,
la quale tiene la parte suprema dell'Etica, ch'io chiamai soggettiva, e
discorre del bene e della vita con fine immediatamente scientifico, scendono
conforme a questo principio le Questioni Tusculane, e il libro dei Paradossi. Manifestano
un fine positivo o d'applicazione e un esercizio di metodo le dispute
Tusculane,dove in mezzo ai precetti stoici,esposti nella maggior parte
dell'opera, traluce l'intendimento di offrire, in tanta corruttela delle
pubbliche istituzioni e dei costumi romani,un alto esemplare del saggio,capace
di volgere le menti a studj più generosi; e divisa la filosofia in più
questioni (loca),si prende in ciascuna a ribattere le istanze proposte col
metodo della Nuova Accademia. Poi un semplice esercizio di metodo forense
rivelano i Paradossi, nei quali Tullio poco dopo la morte di Catone Uticense
prese a lodare secondo i principj stoici le virtù dell'amico, e mostrò agli
studiosi dell'eloquenza come qualunque soggetto di filosofia, il più remoto
dalle opi nioni volgari,si porgesse ad un utile esperimento dell'in gegno
oratorio. « Ego vero (così egli dice nel Proemio) illa ipsa quæ vix in
gymnasiis et in otio Stoici probant, ludens conieci in communes locos.» 3.
Insino a questo punto, esponendo fedelmente l'in dirizzo delle indagini
speculative di Cicerone nella con troversia intorno al bene supremo,noi
paragonammo volta per volta le sue opinioni coi principali sistemi
contemporanei. Da quindi innanzi procederemo con metodo di verso e più spedito,
giunti a parlare di quella parte della sua filosofia, dove egli si avvenne a
minori opposizioni,e dove la sua riflessione era soccorsa più largamente dalle
idee nazionali e dai principj del Diritto romano. mente la parte
soggettiva della morale,che,come vedem il fine dell'operare affetti e nel più
intimo della coscienza mo sinqui,indaga umani, e col riscontro di Tullio non
lieve di veri incer avvalorata indubitabili tezza alla riflessione più che
altrove cadendo l'indagine affettuosa dell'essere mai dalla scienza, potea far
velo al giudizio; separabile o perchè la discordia senza metodo più ragione i
problemi e le controversie. Ma con si governa sicuro, e con più evidenti da
sottili argomenti, offriva ai tempi esaminatrice. Forse perchè in quella
oggettiva della nella quale egli,esaminate tendenze,el'istinto filosofale sulla
umano,ilfomite delle sette vi avea moltiplicati principj morale di Cicerone la
parte, ossia quella parte le naturali felicità, e ciò che per rispetto del
della l'adempimento bene e alla suprema universale della legge e del dovere. E
proprio feconda speculazione va dal soggetto all'oggetto dall'esame e
conoscitive eterni, tanto più, come chi senta del fine, si leva al concetto
idealità anche in, che quanto più il nostro questo è im fatto notevole,trascende
minuto delle potenze affettive alla contemplazione per la via della scienza
degli intelligibili animoso procede della valle a una alleggerirsi vista
interminata il respiro uscendo dal basso teorica della della filosofia di
pianure e di mari. La e del dovere è dunque il fondamento legge civile di M.
Tullio; e certo a questa chiarezza dei sommi parte più delle passioni,non E
vera degli,perquanto nella piega a noi costituisce tempi di pensiero il
sensibile,e passa principj morali da cui ella è desunta,e dove il pensiero
del filosofo latino si ferma per rinvenire le armonie più remote della scienza
morale colle dottrine dello stato e della vita politica, conviene attribuire
quella pienezza di speculazioni largamente intrecciate all'esame del mondo e
dell'animo umano,onde il libro delle Leggi riassumendo le teoriche civili,si
rannoda da un lato col dialogo dei Fini e coll’Etica soggettiva,e dall'altro
cogli Officj e col libro della Repubblica. Talchè, a voler direpienamente il
pen siero del filosofo romano, tutta la scienza morale sì del l'individuo come
dell'umana famiglia, e la filosofia civile nelle sue più remote congiunzioni
colle altre dottrine, muovono, come due maestose riviere di fiumi perenni, da
quel fonte immutabile, che è il concetto della eterna legge. Le dottrine della
filosofia civile di Cicerone furono da molti anni soggetto di lunghe e
diligenti ricerche in Germania, in Inghilterra ed in Francia, tanto che su
questa più che sopra qualunque altra parte delle sue opere forniscono le
biblioteche copiosa materia di lavori storici, critici e dottrinali agli studj
dei commentatori e dei filosofi.La quale abbondanza di ricerche sulle dottrine
posi tivedelfilosofolatinoprovennealcerto,cosìdaunatalquale novità e armonia di
disegno scientifico che egli dava ai suoi studj sulla filosofia civile,
applicandovi l'esempio di Roma e i larghi principj della Giurisprudenza e del d
i ritto latino;come da quell'opinione invalsa universalmente tra i dotti
ch'egli avesse un ingegno più fecondo nel l'applicare che nel trovare, più
acconcio ad esporre i pre cetti della scienza che a fondarne i principj per via
di rigorose indagini speculative. Ma niente è più contrario a questa opinione
quanto un severo esame del libro De legibus. Meditando con attenzione questo
dialogo,uno dei più eloquenti che mai uscissero dalla fantasia largamente
inventiva del nostro filosofo, ti accorgi tosto essersi in gannati a partito
coloro i quali sull'autorità di alcune poche parole di lui nel cap. VI: «
quoniam in populari ratione omnis nostra versatur oratio,populariter
interduin loqui necesse erit », vollero indurre doversi annoverare questo
trattato fra i libri mancanti di vera speculazione scientifica, e volti ad un
fine semplicemente pratico popolare.Ora per risolvere una siffatta questione,
non certo di poca importanza nella critica della morale di Cicerone, e
risguardante quei principj che ne collegano le varie parti in u n disegno
ordinato di scienza, io distinguo nel libro De legibus due rispetti parimente
importanti in cui può essere considerato:un rispetto istorico, o giu ridico, e
un rispetto semplicemente speculativo. E a par lare innanzi tutto del primo,
non debbo lasciare indietro come dal 490, età della prima guerra cartaginese,
al 628, anno della distruzione di Numanzia, mentre gran parte all'oriente e
all'occidente d'Europa, e l'Africa stessa venivano in potere dei Romani, la
repubblica (come dice il Forti) rapidamente si corrompesse.S'indeboliva a poco
a poco l'ordine delle famiglie, si mutava la moderazione in crudeltà e
capriccio, l'ossequio e l'ubbidienza in vile condiscendenza ai vizj con animo
rivolto a sciogliersi dai legami della famiglia, perdera forza la religione del
giu ramento; nel VI secolo frequenti i privilegj, caduta in discredito
l'autorità sacerdotale, frequenti le prorogazioni degl'imperj; indi a grado a
grado cessava Roma dal l'avere una costituzione fissa e un prudente consiglio
che la dirigesse, e s'avviava all'anarchia popolare. Di queste condizioni
civili,che rendevano sempre più facile il vivere sciolto da ogni legge morale,
dovea risentirsi la disci plina del dritto. La quale nata da una viva
disposizione dell'ingegno latino a ricercare la suprema legge del vero nella
moralità delle azioni, e guidata dalla sublime idea del giure che G. B. Vico
riconobbe nel linguaggio dei primitivi italiani, si perfezionava tra il sesto
secolo e il settimo a causa del bisogno vivamente sentito di ridurre le
consuetudini a leggi scritte, per l'uso delle lettere greche, per lo studio
dell'antichità necessario alla notizia delle leggi,e per l'efficacia della morale
stoica.Va frat tanto la sparsa materia del diritto romano non si ordi nava in
forma di scienza; non già che molte massime generali delle XII tavole e
dei pretori non fossero d e sunte dall'intimo della filosofia, e che
l'applicazione e lo svolgimento delle dottrine non desse impulso efficace al
l'ingegno speculativo de'Giureconsulti.Vi s'opponeva un difetto,antico nella
costituzione romana,percuicadendo in dissuetudine le leggi, spesso occorreva di
rinnovarle, l'autorità troppo larga dei legislatori, onde, al dire di Cicerone,
si studiavano piuttosto gli editti del Pretore e le opere dei Giureconsulti,
che il testo delle XII tavole, e poi il moltiplicare delle massime e delle
questioni per cui avveniva che la scienza, anzichè ordinarsi a sistema con
universalità di disegno, si veniva soltanto applicando gradatamente ai bisogni
civili. M a verso la metà del settimo secolo,quello stesso in cui Cicerone
scriveva la Topica,eaRoma epertuttoildominiodella repubblica s'era da un pezzo
largamente propagato lo studio della filosofia e delle lettere greche,l'ingegno
romano già esperto nell'esercizio della logica, e maturo all'abito della rifles
sione interiore, cominciò a dare forma più rigorosa di scienza alle discipline
del giure. Uno di coloro che più vi si volse, e che, per testimonianza di
Cicerone,vi recò un vero abito del raziocinio nutrito da studj profondi di
filosofia, fu il giureconsulto Servio Sulpicio,di cui si parla con molte lodi
nel libro De claris oratoribus ; e dopo lui il nostro filosofo, al quale chi
legga il libro delle Leggi non può negare il merito insigne di avere meditato
una riforma del giure, desumendone l'origine,come dice egli stesso, dall'intimo
della filosofia, e tentato un codice del diritto pubblico per sopperire al
bisogno,allora viva mente sentito,di ridurre a principj universali e a dise gno
ordinato le sparse discipline del Diritto romano. (Libro I, e sey.) Ma questo
stesso proporsi una riforma del giure e meditarne l'ordinamento scienziale, chi
non vede ch'era già nella mente del nostro filosofo un naturale appa recchio
all'indagine speculativa dei principj morali? L'oratore latino a cercare che
cosa è legge, mosse,come i giureconsulti odierni, dalla considerazione di due
rispetti nei quali la legge può meditarsi, cioè in quanto ella
esiste nel fatto come regola coattiva delle azioni, ovvero in quanto ha una
ragione d'esistere,o vogliam dire una origine razionale (Forti). Ei risguardò
di preferenza il secondo rispetto, e cercando nella sua definizione l'ottimo
ideale, « si rifece da un gius naturale anteriore alle leggi, variabili secondo
il volere dei legislatori,norma razionale al paragone della quale si potesse
distinguere la legge buona dalla cattiva, che in sostanza è una violazione del
giusto sostenuta dalle forze della società. Questo termine di confronto delle
leggi civili lo ravvisava nella legge di natura,ossia nella somma ragione
dell'economia che gli dèi, signori dell'universo, avean posta nel governo delle
coseumane.Da questofontederivavalagiustiziaassoluta ed eterna, che definisce il
bene ed il male indipendente mente dagli stabilimenti sociali e dalle opinioni
degli uomini. Idea di assoluta giustizia,che,come Cicerone avverte
egregiamente, non può star separata dalla credenza reli giosa in un supremo
legislatore cui sia a cuore il bene e l'avanzamento dell'umanità. I comandi e
le proibizioni di questa legge suprema sono noti agli uomini, secondo Cicerone,
per natural lume di ragione, solchè essi vogliano esaminare se stessi e
consultare la coscienza. Laonde è da considerare sapientissimo il detto dell'antico
savio, che pone a fondamento di sapienza il conoscer sè stesso. Conoscendo sè
stesso, l'uomo vede di essere naturalmente socievole, e va persuaso che la
società è uno stato neces sario al genere umano.Vede eziandio che gli uomini
tutti fanno una sola famiglia, che ha un padre e regolatore comune,che tutti
ama ugualmente e gliobbliga a vicen devoli uffizj. » Francesco Forti, nome caro
alle lettere e alla giurisprudenza toscana,così riassumeva nel I libro delle
sue Istituzioni civili le dottrine del dialogo sulle Leggi; ed io lo citai
augurando che per suo esempio il trattato insigne del filosofo latino porgesse
materia di larghe e fruttifere meditazioni agli studiosi del Diritto. Tra le
cause adunque che dettarono a Cicerone il dialogo delle Leggi, sono in primo
luogo da annoverarsi l'incertezza del vero senso del giure per la
moltiplicità delle massime,deglieditti, delle leggi,degl'interpretanti, onde
spesso si perdeva il significato filosofico e morale nella aridità delle
formule, ed era opera di scienza vera e fruttuosa il ricondurvi le umane menti;poi
una ragione politica che voleva richiamate ai principj morali le libere
istituzioni;ed infine un contrasto alle scuole greche, e specialmente alla
Nuova Accademia,la cui dottrina po teva riuscir fatale all'Etica e alla
Giurisprudenza, fon data com'era,non già sull'osservazione interiore o sopra un
vero criterio scientifico, m a sui deboli artifizj della dialettica e del
sofisma. Ora si consideri bene come ilnotare diligentemente questo con trasto
del filosofo latino colle scuole negative degli asso luti principj morali,ci
mena a poco a poco a scoprire la parte altamente speculativa delle sue indagini
intorno alle leggi,la quale dobbiam confessare avere sin qui assai poco
considerata i critici e i commentatori. Eppure ogni età della storia (e lo
notammo più innanzi) ci porge ampie e innegabili testimonianze di questo
tornare della riflessione all'esame della legge morale e della genesi dei sommi
principj che ne derivano, e si manifestano all'intelletto fecondi
d'innumerevoli attinenze con qua lunque parte dello scibile umano,ogni volta
che le dot trine dei sofisti pullulate dalla profonda corruzione civile e
dall'intepidire del senso morale, ponevano il bene ed il giusto
nell'attraimento degli istinti animali, e nel l'esca dell'interesse. In quei
tempi di grandi sventure private e pubbliche, massima delle quali è per certo
il dilungarsi degli ordini civili dalla notizia dei sommi prin cipj, gl'intelletti
più alti,nutriti nella meditazione e negli studj dell'antichità, mossero la
riforma morale da quella relazione chiarissima e primitiva che intercede tra
l'in telletto e l'assoluto, e si manifesta nell'energia dell'im perativo
morale.Questo intendimento di opporsi allo scet ticismo coll'esame della realità
oggettiva del supremo concetto di legge,è manifesto nelle teoriche del Vico,è m
a nifestissimo in quelle degli Scozzesi, e dettò le pagine più eloquenti
di quel famoso libro che s'intitola dalla Ragione pratica,sebbene
l'affermare,come essofa,chelamia ra gione è un che d'imperativo, che la mia
volontà vi si sente soggetta, e che quindi m'accorgo che quell'impero è
universale e viene da Dio legislatore,creatore e prov vidente, sia pronunciato
assolutamente contrario al si stema della scuola critica e alle dottrine del
filosofo di Conisberga. M a poichè in questo luogo facemmo espressa menzione
del libro della Ragione pratica,vogliamo invitare inostri lettori a seguirci in
un paragone per certo singolare e inaspettato delle dottrine di due
differentissimi ingegni. Il filosofo di Conisberga, abbeverato alle dottrine
del Cartesio, e seguace, benchè inconsapevole, dello scetticismo di Hume, Kant
i primi baleni di quella filosofia, onde più tardi sfolgorava la rivoluzione
fran cese, ammise a fondamento del suo sistema l'assoluta impossibilità di
trapassare dal soggetto all'oggetto, rap presentando il pensiero racchiuso in
sè stesso e pensante le cose con proprie forme o categorie. La qual dottrina,
oltre al contraddire, come fa, alla natura del pensiero e all'evidenza
immediata della percezione,e porre il filo sofo nell'assoluta impossibilità di
edificare la scienza nel tempo stesso ch'egli sipropone ilproblema,se lascienza
è possibile, distrugge ogni certezza morale, e vieta alla mente di aggiungere
mai colla riflessione scientifica l'ori gine vera della legislazione assoluta.
Per Kant (osserva giustamente Mamiani) l'anima è onninamente legisla trice di
sè medesima e crea l'assoluto dovere,crea,dico, non meno di un assoluto; e
quella forza invincibile di approvare o di biasimare è pur fattura dell'anima,
onde ella identicamente e simultaneamente è comando e obbe dienza, è autorità
ed obbligazione, è diritto e dovere, è attiva e passiva, è finita e infinita
(perchè ogni assoluto vero è infinito), e rimordesi talvolta amarissimamente
delle azioni contrarie all'imperativo di cui ella stessa è autrice spontanea. Cotal
dovere e cotale legislazione assoluta che emerge tutta ed unicamente dall'umano
subbietto, appare nel Kant (se è lecito dirlo)più contradit toria assai che negli
Stoici antichi e nei moderni panteisti germanici.Imperocchè appo entrambe le
scuole la volontà e libertà umana si sustanzia in ultimo con la divina e
assoluta. Quindi nelle loro dottrine morali ricomparisce la contradizione
perpetua d'identificare azione e passione, finito e infinito e così proseguì;ma
non vi si dee ravvi sare cotesta forma particolare di ripugnanza tanto più
deplorevole quanto la scienza morale à un carattere sacro e interessa il genere
umano e la vita civile più che altra disciplina quale che sia. » Confessioni. Tale
è pertanto la differenza notevole che corre tra le contradizioni morali del
Kant e quelle del nostro filo sofo. Già vedemmo parlando delle dottrine sulla
natura come da parecchj luoghi dei suoi trattati apparisca assai chiaro
ch'egli, seguace del semipanteismo platonico e stoico,faceva consustanziali
l'intelletto umano eildivino; la qual dottrina applicata nel dialogo delle
Leggi avrebbe dovuto condurlo per legittima illazione a identificare la natura
infinita del precetto morale colla ragione finita dell'uomo.Ora una volta
ammessa questa dottrina,come mai poteva dedurne il filosofo l'azione
trascendente e as soluta dell'imperativo morale sull'anima nostra? Come
concluderne che la ragione perfetta, in quanto risplende dell'assoluto concetto
del bene, s'impone alla mente e prende natura di legge? E d'altra parte è
chiaro a chi sia mediocremente versato nella storia della nostra scienza che
l'oratore roman o, il quale rifiuta nel libro De finibus la parte soggettiva
della morale del Portico,come il su perbo concetto del perfezionamento umano,l'indifferenza
ai beni esteriori e l'eguaglianza delle imputazioni, qui nel dialogo delle
Leggi ne accettò pienamente la parte oggettiva, vo'dire l'idea della legge
eterna e i concetti dell'obbligazione e della città universale. Tale repu
gnanza del semipanteismo platonico e stoico accoltoda Cicerone coll’autonomia
dell'umano arbitrio, e coll'effi] [Veramente non è ben chiaro se Cicerone
si facesse mai tal domanda; ma, a dirla breve e come io la penso, il sentimento
più naturale e spontaneo ch'io ritrassi dalla prima lettera del libro De
legibus, fu una ferma opinione che il filosofo latino movendo dalla indagine
sul concetto di legge,soccorso dalle tradizioni del diritto romano, d o vesse
riuscire a rappresentarsi quell'azione trascendente della legge morale
sull'animo nostro siccome derivata dall'intima natura di un assoluto,distinto
dalla ragione dell'uomo e a lei superiore. Argomento valevole assai per
confermarmi in tale giudizio,è l'altezza a cui poggia l'indagine speculativa di
Tullio,che allontanatosi dal l'esame particolare e sottile delle scuole
antecedenti e contemporanee, e dalla parte soggettiva della stessa d o t trina
stoica,riordinava la scienza tutta al lume dei sommi principj, più tardi usciti
a fondamento della sapienza cristiana.cacia trascendente di quella virtù onde
si genera in noi l'obbligazione morale, involge un importante quesito di storia
della filosofia. Nel quale si domanda, se il filosofo latino propose giammai nettamente
innanzi all'esame della sua riflessione questa controversia da cui dipende il
principio costitutivo dell'obbligazione e del bene m o rale; e se chiese a sè
stesso come potessero mai conci liarsi l'identità di natura tra l'intelletto
divino e l'intel letto dell'uomo con quel sentimento di soggezione assoluta che
in noi s'accompagna all'impero della legge morale. Un'altra prova di non lieve
importanza è altresì la dif ferenza notevole che corre tra i libri fisici e
morali del filosofo nostro.In quelli egli dubita il più delle volte,e,meno che
nei principj fondamentali,segue irresoluto leforme della Nuova
Accademia;neilibrimorali partuttoun altr'uomo, e le sue conclusioni rivelano
sempre una maravigliosa armonia del sentimento colla riflessione speculativa. A
l tresì non v'è dubbio alcuno che i concetti correlativi di Dio e dell'anima
umana e del libero arbitrio,assai inde terminati nel De natura deorum,nelle
Tuscolane, nel Sogno di Scipione e negli Accademici primi,qui nel libro delle
Leggi profilano più nettamente le loro fattezze,e ne discende ordinata e
architettata nelle sue verità uni versali tutta quanta la scienza.Il concetto del
divino sopra ogni altro giunge in questo libro ad un'altezza scono sciuta alla
maggior parte dei filosofi antichi.Egli è rap presentato al lume delle
tradizioni romane come inente eterna ed eccelsa che tuttoprovvede,che a tutto
impera,e veste idue caratteri dell'arbitrio e dellam o ralità, che, al dir del
Gioberti, ne costituiscono le origi nalifattezze. L'indagine tulliana della leggesuprema
pa lesa poi,per mio avviso,un vigore non ordinario d'ingegno speculativo.Posta
a capo di tutto ilragionamento lano zione di legge universale come un riscontro
delle leggi particolari e una misura intelligibile a cui ricorrendo si potesse
apprezzare l'essenza delle cose giuste od ingiuste, tal nozione presentava in
sè due rispetti intimi ambedue eambeduenecessarj.Lapoteviconsiderarecome
idealità suprema,come infinitagiustiziaonde ilgiusto sipartecipa, benchè
imperfettamente, alle cose finite, e come primo assoluto ed universale, che
volgendo le menti alla comune dispensazione del bene porgesse quasi l'unità
morale del l'umana famiglia. Considerata nel primo rispetto, la n o zione di
legge si offriva alla mente del filosofo latino come idealità suprema e
assoluta,e come un intelligibile primo che rappresentando ilperfetto
nell'ordine della ra gione le si imponeva come regola dell'operare.Egli dunque
concepiva quella nozione come un vivo riverbero dell'as soluto, e poichè
l'assoluto è divino, e la sua idea si palesa partecipata come luce dall'alto
nella perfetta ragione dell'uomo, unico di tutti gli animali che abbia innata
nell'animo la notizia di Dio, quell'idea gli parve una partecipazione segreta
ed arcana dell'assoluto nell'umano intelletto. Udiamo le sue parole: « Est
quidem vera lex recta ratio,naturæ congruens,diffusa in omnes,constans,
sempiterna, quæ vocet ad officium jubendo, vetando a fraude deterreat, quæ
tamen neque probos frustra jubet aut vetat nec improbos jubendo aut vetando
movet.Huic legi nec abrogari fas est neque derogare ex hac aliquid
una licet neque tota abrogari potest,nec vero aut per senatum aut
per populum solvihaclegepossumus,neque estquæ rendus explanator aut interpres
ejus alius,nec erit alia lex Romæ, alia Athenis, alia nunc, alia posthac, sed
et omnes gentes et omni tempore una lex et sempiterna et immutabilis continebit
unusque erit communis quasi magisteret imperator omnium
deus:illelegishujusinventor, disceptator, lator, cui qui non parebit, ipse se
fugiet ac naturam hominis aspernatus hoc ipso luet maximas p æ nas,etiam si
cætera supplicia, quæ putantur, effugerit. De Repub. -- riportato da Lattanzio
Instit.div. – Stupenda definizione èquestadel principio regolatore degli atti umani,e
tale da mostrare una volta per sempre che qualcosa più di una semplice
continuazione delle scuole greche s'acchiudeva nei prin cipj dell'Etica romana.
Vi s'acchiudeva la speranza e la promessa immortale del Cristianesimo!
Considerato al lume di questi principj, il dialogo delle Leggi ci si offre come
una sintesi vasta di tutta la scienza. Una volta posto con tanta chiarezza
ilconcetto di legge nella cima dell'umana ragione,e l'umana ragione stretta da
un legame arcano d'attinenza coll'assoluto, se ne chiariva alla mente del
nostro filosofo la nozione di Dio e quella dell'uomo e dell'universo, e il
fondamento primo dei doveri civili. La causa di tutto ciò era per fermo nel
l'intima natura del metodo di lui,ilquale movendo dalla coscienza morale e dal
vivo sentimento dell'obbligazione, coglieva nel suo stesso principio la più
ampia e la più feconda di tutte le armonie scientifiche; siccome quella in cui
soggetto e oggetto si trovano unificati in un ter mine superiore e
trascendente,onde poi si diparte,come da unico centro, l'ordine universale
delle idee e quello dei fatti.La qual cosa non accade per certo nella ragione
informatrice del sistema di Kant, e degli altri critici e razionalisti moderni.
In tali sistemi il pensiero (per valerci delle loro stesse parole) non esce mai
da se stesso,non coglie la realità viva e concreta che è pre sente all'intuito,
nè anche, dico, in questa parte della filosofia de'costumi, dove la mente
afferma ogni volta per ingenita necessità di natura l'indipendenza del pre cetto
morale assoluto dall'atto informatore del nostro spirito. Non ha dunque la
filosofia soggettiva un punto stabile e fermo in cui getti le prime fondamenta
dell’edi fiziomorale,eillegameintimodeipensierichene con nette le parti, non
avendo corrispondenza nella realità obbiettiva dei sommi principj,dee riuscire
per necessità fenomenico, relativo e contingente. Eppure, come ben nota il
Gioberti,vano è il voler riformare la dottrina del Buono senza risalire ai
principj, che è quanto dire, senza considerarla come una scienza
seconda,fondata sui canoni della scienza prima. (Del Buono,cap.III.) Questa
nobile impresa, degna di un condiscepolo dei Giureconsulti romani, fu tentata
dall'Autore del dialogo delle Leggi. L'esame della sua dottrina,solo che
illettore se lo riduca per poco al pensiero, ci ha mostrato assai largamente
che il metodo Socratico dell'osservazione in teriore lo condusse nei libri
fisici e logici ad accettare il conoscimento come un dato legittimo della
scienza,e nella disputa contro gli Stoici intorno al fine quel metodo istesso
lo avvertiva doversi trovare la ragione constitutrice del bene per rispetto
all'uomo nell'indagine piena dell'umano soggetto. Da questa cognizione
dell'animo si levava il Romano per l'evidenza dei comandi morali alla notizia
più perfetta di Dio,e lo concepiva come mente e ragione infinita in cui posa
l'idea della legge eterna, di questa legge obbiettiva,immutabile,
necessaria,anteriore a tutte le leggi civili, più antica d'ogni città e d'ogni
gente, e coevaa quel Dio che governa laterraedilcielo.Da Dio è disceso l'uomo;
egli uscito nel mondo ultimo degli ani mali, allorchè la natura fu disposta ad
accoglierlo,benchè mortale nelle altre parti dell'esser suo,nell'animo è ge
nerato da Dio.Egli solo quindi tra tutti gli animali ha notizia del Creatore,
solo è capace di virtù, e può valersi in suo servigio dei frutti della terra, e
inventò per a m maestramento della natura innumerevoli arti che imitate poi
dalla ragione gli procacciarono le cose necessarie alla vita. L'uomo
dunque è primitivamente simile a Dio; similitudine che può vedersi dal fine a
che la natura stessa lo destinava, e dai mezzi che gli diede a conseguire quel
fine; conciossiachè prima ordinò la intera costituzione del mondo in suo
beneficio, e all'uomo stesso diede conosci mento veloce, e del conoscimento
ministri e satelliti i sensi,e gl'impresse nell'intelletto certe oscure nozioni
di cose innumerevoli che furono in qualche modo fonda mento allascienza:Diede
anche all'uomo forma dimembra acconce a significarne la natura
intellettuale;poichè,mentre gli altri animali fece inchini alla terra per l'uso
del pasto, il solo uomo rivolse al cielo quasi alla contemplazione del l'antica
sua patria, e ne atteggiò il volto per modo che vi si leggesse profondamente
scolpita l'effigie dell'animo. Sarebbe lungo il seguire M. Tullio in
questa larga deduzione dei veri morali e psicologici ch'egli trasse dal
concetto di legge. Basti per noi l'osservare che son belle e vere dottrine, più
tardi ripetute dai Padri e dai Dottori e dalle recenti scuole
italiane,l'autorità assoluta dell'im perativo morale,la sua attinenza con Dio
provvidente, l'idea dell'imputazione e dell'atto umano, e finalmente quella
grande città in cui l'ordine mondano e sopram mondano si congiungono insieme
nella universale comu nione degli spiriti eterni. (De leg., lib. I.) Esaminata
la legge nel suo primo rispetto,vale a dire in quanto essa è
obbiettiva,necessaria,immutabile, eterna, il filosofo latino passa a
considerarla come un principio universale, che si dispiega al di fuori di sè
stesso in un ordine di relazioni,ed è norma comune dell'operare agli umani
intelletti. E qui egli veniva cercando la comunità del concetto di legge nella
somiglianza di natura intel lettuale, onde avviene che a significare tutta quanta
la umana specie vale una sola definizione,e principio del consorzio civile è la
comune e vicendevole partecipazione del giure. « Non est enim (egli diceva)
singulare nec solivagum genus humanum.» Quindi esce altresì nel primo della
Repubblica la bella definizione della città, fonda mento alle sue dottrine
politiche: « est igitur respublica] [Il cardine della morale di Cicerone
posa dunque manifestamente in questa dottrina della legge, il cui merito
insigne si è di avere volto le sparse discipline del diritto romano
contemporaneo ad un ordinamento più razionale, e fondata la metafisica e la
filosofia civile sopra principj assoluti di scienza. Questo intendimento del
nostro ora tore è tanto più manifesto,in quanto che egli,dopo spie gata per
ordine la dottrina della legge suprema, assume nel primo libro la questione più
tardi agitata nel De finibus, e contro le dottrine di coloro che il buono misu
ravano dall'utile, si distende a provare la virtù sola d e siderabile per sè
stessa, e l'efficacia del buono venire dalla natura anzichè dalle mutabili
opinioni. La qual cosa, mentre è una prova di più per mostrare come
l’oratore-filosofo dai punti capitalis simi della morale, scendesse con unità
di concetto alle più remote applicazioni, prende in fallo quei critici che
supposero di fresco avere Cicerone abbandonato improv visamente la dottrina
dell'Antica Accademia sulla legge naturale per accettare il metodo peripatetico
nel suo più recente trattato dei Beni. Ma innanzi tutto noi d o m a n diamo a
quei critici come mai,se Tullio si ribellò più tardi alla ragione informatrice
delle dottrine platoniche, qui nel libro delle Leggi espone con fronte sicura
la stessa teorica trattata nei Fini? In secondo luogo, fra le due opere v'è
certo diversità nella ragione del metodo esterno (procedendosi deduttivamente
nel libro delle Leggi, e induttivamente nel libro dei Fini), ma la diversità
non involge alcuna contradizione; poichè nel trattato dei Beni, quando
esaminava quella controversia da parte dell'umano res populi; populus
autem non omnis hominum quoquo modo congregatus, sed cætus multitudinis juris
consensu et utilitatis communione sociatus,» dove egli af ferma ilnesso
primitivo tra il diritto naturale e ildiritto delle genti, e contro Platone che
attribuiva l'origine del consorzio umano alla debolezza
degl'individui,riconosce invece quell'origine nella comunità di una legge
assoluta e soprammondana. cætus 1 soggetto, affermò nella vita presente non
pervenire l'uomo al compiuto adempimento del fine se non svolgendo e perfezionando
ogni parte integrale di sua natura,laddove qui nelle Leggi salito ad un
concetto più universale, m e ditò oggettivamente l'idea del buono e
dell'obbligazione, riconoscendovi un'assoluta efficacia indipendente dall'atto
dello spirito umano.Così da questi due larghissimi aspetti in cui può essere
meditata la materia della scienza m o rale, e dove all'intelletto del filosofo
appajono congiunti l'assoluto e il relativo, il contingente e il necessario,
l'anima e Dio,deriva secondo la mente di Cicerone, il vero e più ampio concetto
della dottrina sul buono. La diligente esposizione impresa da noi degli scritti
del filosofo latino ci ha condotti,come avranno osservato i lettori, a
trattenerci alquanto intorno alla parte specu lativa delle sue dottrine morali,
e segnatamente intorno ai due trattati De finibus e De legibus. La qual cosa
abbiamo fatta coll'intendimento di porre innanzi agli occhi degli studiosi i
principj fondamentali e il disegno scien tifico dell'Etica latina,esposta da
Cicerone,sembrandoci che questo esame fosse stato assai leggermente condotto
sin qui dai critici precedenti, i quali o tenerano Cicerone in luogo di un
eclettico e di un moralista positivo e spe rimentale, o non facendo professione
di filosofi, conside ravano nei suoi trattati meglio la parte istorica e lette
raria che l'intimo nesso e il metodo speculativo delle dottrine.Eppure convien
confessarlo) questa critica preoc cupata e parziale è sommamente contraria alla
giusta estimazione dei libri speculativi di Tullio.Per essa avviene che i
principj e la unità delle sue dottrine morali ci ri mane ignota per sempre; ci
sfuggono le più alte indu zioni che il grande oratore e i Giureconsulti
adoperarono intorno ai pronunciati del senso comune,e riesce un fatto senza
ragione alcuna quell'ampia utilità applicativa del l'Etica romana,da tutti
riconosciuta,se il filosofo morale non ne rintraccia i principj nelle
speculazioni più remote intorno al vero ed al buono. Premesse queste
osservazioni, veniamo ora alla parte positiva dell’Etica tulliana,
nella quale ci terremo più brevi secondo è richiesto dalla natura
principalmente fi losofica di questo scritto. L'indagine che si contiene nel
primo libro delle Leggi, porge naturalmente il passaggio dai supremi principj
speculativi alle dottrine pratiche della morale, pel con cetto d'obbligazione e
di vicendevole comunanza del giure, onde il libero arbitrio sperimentando in sè
l'efficacia trascendente del precetto morale, e riconoscendovi un impero
incondizionato che si dilata nell'universalità del l'umana famiglia, si sente
stretto all'osservanza degli officj religiosi, individuali e civili. Officio
dunque (così lo domandavano le scuole socratiche) è illibero conformarsi della
virtù all'impero della legge morale. E importa assai determinare il significato
scientifico della parola, perchè si capisca come la teorica dell'officio che ha
tanta parte nel sistema del Portico,mentre discende immediatamente da quella
del dovere (considerato nella sua genesi razio nale),ha poi certi suoi
peculiari rapporti che la connet tono colla parte più positiva della scienza
morale. Due specie d'officio distinguevano gli Stoici.L'officio retto o
perfetto (29Tóptospa, zadrzov téheLov) che cade uni camente nel saggio,o in
colui che abbia ottenuto l'ultimo grado del perfezionamento morale;e l'officio
comune,o medio (2997zov uésov),che era un ordinario conformarsi della virtù
agli obblighi della vita privata e civile,o,come direbbesi oggi popolarmente,un
fare da persona dab bene. Ora insorse controversia tra i critici, se Cicerone
nel suo trattato, da tanti anni notissimo nelle scuole, de finisse
scientificamente l'officio. Il Manuzio e il Facciolati difesero Cicerone; il
Lilie con altri più antichi, citati dal Kuehner, giudicò veramente omessa
quella definizione; mentre il Binkes,il Kuehner e il Grysar avvisavano avere
Cicerone definito soltanto l'officio medio, di cui prese a trattare
espressamente nel suo libro,in quelle parole del capitoloIII,1.I:«medium
officiumidesse,quodcur factum sit ratio probabilis reddi possit. » (Vedi Lilie,
Comment.de Stoic. doctrin. mor.ad Cic. libr.De off.,1, Kuehner. Fran. Binkes, Responsio
ad quæst. juridicam etc., Franeq., Prolegomena ad Cic .libr. De Off. scripsit, Grysar,
Köln). Questa opinione dei commentatori tedeschi tanto più è conforme alla
natura del libro D e officiis e al metodo espositivo che quivi si propose
l'autore, in quanto che egli stesso ci dice nel capitolo III: due questioni
potersi fare intorno all'officio; l'una che si riferisce al fine dei
beni,l'altra che cade nei precetti ai quali in ogni parte si può conformare
l'uso della vita; parole meritevoli di speciale considerazione, conciossiachè
mentre spiegano quell'intimo nesso scientifico che annoda le dottrine p o
sitive colla teorica del bene morale, stabiliscono poi il vero oggetto del
presente trattato,il quale non è altro, come giustamente osserva un critico
moderno, che la determinazione dei nostri doveri particolari. Coloro d u n que
che dal libro degli Officj prendevano argomento a ravvisare nel filosofo latino
un mediocre valore scientifico, perchè egli trattando dell'officio non si
solleva ai supremi principj della morale, non osservarono quale attinenza corra
tra i libri speculativi e pratici della sua morale, onde egli investigato prima
che cosa è il bene nell'umano soggetto (De finibus), si leva alla nozione
oggettiva di legge (De legibus), e scende per ultimo alle applicazioni più
remote dell'Etica nella vita privata e civile. (De of ficiis, De republica, De
amicitia, De senectute.) Migliore giudizio invece recarono quei critici, segna
tamente francesi, i quali considerando di preferenza questo speciale rispetto
tutto positivo e civile, in cui possono meditarsi gli Officj, quindi desumevano
i pregj e i difetti del libro. Infatti il trattato degli Officj non è un'opera
semplicemente speculativa,o un'opera di psicologia. Ivi si richiamano, è
vero,le altre parti delle dottrine m o rali, vi si accenna la distinzione
stoica tra l'officio per fetto e l'officio comune,e il pensiero dello scrittore
si leva talvolta a indagare la qualità morale degli atti nel l'intima natura
dell'uomo,ma l'intendimento primo a La gentilezza degli Attici
educata nell'ordine m a t e riale della civiltà da fina eleganza di costumi, e
dallo spettacolo d'una natura ridente, li traeva ad una viva e, quasi
direi,religiosa ammirazione del bello,onde il pen siero dalla convenienza e
armonia delle parti reali che genera il perfetto nei corpi,passava
all'invisibile bellezza degli animi. Ma in Rom a dove ogni istituzione fu vôlta
sin da principio a rafforzare i legami che vincolavano il cittadino allo stato,
e il rispetto delle relazioni civili superava a gran pezza gl'interessi
domestici e il culto delle arti, regnava dominatrice siffatta la pubblica opi
nione che in lei risedeva il solo e inappellabile arbitrio di giudicare le
azioni. E per fermo i Greci considerando nella virtù la corrispondenza ideale
che corre tra l'ar monia interiore dell'animo nostro e le forme più elette
della natura sensibile,la nominarono bellezza, pei Romani la virtù sono quasi
convenienza delle azioni colle leggi sociali. Laonde Cicerone che qui negli
Officj la conside 148 cui mira quel libro, è un intendimento civile, e
Tullio che lo compose dopo la morte di Cesare, quando to nava per l'ultima
volta nel fôro in difesa delle libere istituzioni, volle lasciare a suo figlio
in luogo di testa mento il codice più compiuto della morale politica. A questo
proposito nel libro degli Officj merita spe ciale considerazione una dottrina
che pel modo in cui fu trattata da Tullio palesa un rispetto istorico,e un'atti
nenza immediata colle istituzioni e coi costumi di Roma. Tale è la dottrina del
decoro (Tpétrov), esposta nel capitolo XXVII del libro primo. Cicerone,osserva
acutamente il Ritter, traduceva nei Paradossi la sentenza degli Stoici:
crcpovovaysoró 2.016; il solo buono è bello, collepa role: quod honestum sit,id
solum bonum esse;onorabile è solamente ciò che è buono. Ora questo diverso
concetto che i Greci e i Latini s'erano fatto della virtù, e che più volte
ritorna nel De officiis, come in quel libro in cui Cicerone conformò forse
maggiormente le sue dottrine morali al pensare e al sentire romano, si spiega
assai facilmente ricorrendo alla Storia. rava in un rispetto quasi
esclusivamente civile, l'accom pagnava al decoro, o vogliam dire a quella luce
esterna di onoratezza, onde la stessa virtù si porgeva all'ammi razione della
pubblica coscienza. Considerato per questo rispetto, il libro D e officiis,
mentre si attiene alle altre opere speculative, presenta nelle sue parti più
sostanziale un vero ordinamento di scienza. Il filosofo latino segue
liberamente Panezio, e perchè autore di un ottimo libro intorno agli Officj,
adesso perduto, e perchè assai temperato nelle dottrine dello stoicismo,come
portava l'età.Da Panezio,eforseda Pos sidonio, continuatore di lui, trasse in
gran parte le dot trine intorno all'onesto ed all'utile, che offrono soggetto
ai due primi libri, e v’aggiunse del proprio la materia del terzo, ovvero il
combattimento dell’utile coll'onesto, omessa dallo scrittore greco. La parte
più bella e più filosofica di tutto il trat tato, e dove splende più pura la
nobiltà dell'animo di Cicerone, è quella dov'egli toccando le relazioni della
politica colla morale, biasima altamente quei fatti, nei quali l'interesse
dell'utile pubblico avanzò le norme della giustizia e della onestà, e propone
al figlio i più sui blimi esempj dell'antica virtù ne'quali l'animo ritem
prando possa uscire incontaminato dalle scelleratezze dei tempi. E i tempi
dovevano esser tristi davvero, se con sideriamo parecchj esempjd'ingiustizia
contemporanea che Tullio ricorda al suo Marco, e ch'egli sebbene commessi da
uomini potentissimi nella repubblica e amici suoi, ge nerosamente condanna.Nè
dee far maraviglia che fosse cosìa chi consideri come il disgiungersi della morale
dalla scienza di stato è uno dei maggiori indizj della corru zione civile, e
che tutto allora in R o m a precipitava a ro vina, religione, costumi, esercito,
cittadinanza, popolo, senato, magistrati, privati; e in quel rovescio d'ogni
cosa e divina poneva i fondamenti sanguinosi la ti rannide degli imperatori.
Nel terzo libro, discorse le attinenze della politica colla morale, passa il
filosofo latino alle attinenze della umana morale colle altre
scienze sociali, la Giurisprudenza e l'Economia. In queste pagine di Tullio, a
sempre più smentire l'opinione di quelli che non trovano nei giure consulti
romani le tracce d'una profonda speculazione,si vede chiaramente come la
giurisprudenza latina, benchè costituisse da sè stessa un vero e proprio corpo
di scienza con norme immutabili e fisse, con ordine scienziale di dottrine,
desumeva da'principj della filosofia i suoi fon damenti; il che mostra Cicerone
citando parecchie que stioni esaminate dagli antichi giureconsulti, e definite
con formule certe che più tardi assunsero la forza di legge. La qual cosa
apparisce vie più manifesta quando ne' seguenti capitoli Tullio, dopo definite
alcune questioni di morale, appellandosene al testimonio della coscienza e
della retta ragione,quasi a riprova di quei principj ne cerca il riscontro
nella più antica e venerata delle legislazioni romane, nella legge delle XII
Tavole. Questo ricorrere ai più vetusti testimonj, oltrechè era proprio al
metodo di Cicerone, che cercava nell'antichità più presso all'origine divina,le
verità naturali più schiet te,e le prime tradizioni,ha qui un'importanza
d'oppor tunità, perchè egli di fronte alla corruzione della morale civile
voleva additare lo scadimento della repubblica. Lo che è chiaro in tutto il
libro; chiarissimo poi dove avendo citato gli esempj di Fabbrizio e di Cammillo
e dell'antico senato romano,soggiunge l'infamia di L. Silla che coll'autorità del
senato raggravava i dazj antichi so pra alcuni popoli che se n'erano sciolti
pagando, nè restituiva il danaro; e prorompe con mobile sdegno: p i r a tarum
enim melior fides quam senatus! Il De officiis accolto nelle scuole d'Europa
sino dal primo risorgimento delle lettere antiche, e stampato per la prima
volta a Magonza, levò di sè tanta fama da affaticare per ogni tempo l'acume
degli eru diti e dei commentatori. Un esame critico di questo trattato, che
Paolo Janet chiama « il più belmonumento filosofico della letteratura latina, »
fu recentemente pro posto dall'Accademia delle scienze morali e
politiche di Francia,e ne usciva nel 1865 il libro del signor Arthur
Desjardins col titolo: Les devoirs, essai sur la morale de Cicéron. In
quest'opera ricca d'ingegno, di filosofia e di larga dottrina in ogni parte
della giuris prudenza e delle lettere antiche,l'autore con utile esem pio, che
vorremmo rinnovato in Italia, prende a esami nare largamente il libro De
officiis, ne mostra le varie attinenze coi principj supremi della morale
tulliana, e lo confronta coi migliori filosofi antichi, e coi giurecon sulti
moderni. È un lavoro di critica larga e profonda, in cui la gravità del
soggetto è abbellita dallo stile ele gantemente sereno. E accresce lode al
critico francese la schietta imparzialità dei giudizj, onde egli intento solo a
conoscere la verità, difese da ingiuste accuse la fama del grande oratore, ne
osservò opportunamente le omissioni o la brevità soverchia per quel che risguarda
i doveri verso il divino, la famiglia e noi stessi, e rappresentò il De
officiis come un codice compiuto di Etica civile, in cui si ragiona dei doveri
del cittadino verso lo Stato,e il concetto della umana famiglia e della carità
universale perviene a tale altezza da annunciarci vicino il grande rinnovamento
dell'evangelo. Dai principj della filosofia civile e dai precetti par
ticolari intorno ai costumi si varca alla teorica dello Stato. Questafuesposta
da Ciceronenel De republica,giudicato universalmente dai critici come una delle
opere le più ori ginali del nostro autore.Gran parte ne andò sventu ratamente
perduta,ma le reliquie del primo e del se condo libro fanno assai splendida testimonianza
che l'ora tore latino vi avea diffuse largamente le memorie della antichità
greca, le grazie severe dell'eloquenza,eigrandi insegnamenti della vita
politica. Quando prese a trattare dello Stato,egli avea innanzi a sè due scuole
egualmente illustri, egualmente seguite dagli scrittori: la scuola di Platone e
la scuola d'Aristotele. Ma ei dovette certo considerare che l'ingegno
dell’Ateniese, poderoso d'in venzione e di veduta speculativa, non intese forse
nei termini del vero le attinenze della filosofia colla politica.
Il merito insigne di aver sostituito alle dottrine ideali l'autorità
degli esempj, è pur quello della Repubblica di Cicerone. In quest'opera,
spartita in sei libri, e condotta con larga unità di disegno, il grande oratore
imitò Platone nella forma letteraria e nel tono dello stile, del resto si
attenne al metodo aristotelico; e volendo fare opera non solo utile alle lettere,
ma vantaggiosaallapatriae alle più
lontanegenerazioni,incarnòisuoiprecettinelgrande esempio di Roma. L a dottrina
sui reggimenti civili si r i duce alla disputa delle tre forme monarchica,
aristocra tica e popolare, alle quali egli preferiva la mista, invo cando le
ragioni d'Aristotele e di Polibio e tutta quanta la storia di Roma. Da queste premesse esce a compimento delle
dot trine morali la disputa sull'immortalità. E qui Cicerone lasciando al tutto
le orme dei Greci, seguì l'indole pro pria e della sua nazione, e fece di quel
problema una vera e compiuta dottrina. Forse l'incertezza in cui aveano la
sciata la controversia sui destini dell'anima i panteisti [La quale,
mentre ha bisogno per disegnare e applicare le civili istituzioni di ricorrere
talvolta ai principj uni versali della natura,non può trascurare per altro nel
l'ordine dei fatti le imperfezioni dell'essere umano, e quella lunga serie
d'esperienze infelici per cui soltanto nella storia dei popoli si perviene ad
applicare le istitu zioni alle necessità dei tempi. A questo metodo, chiamato
da'Cesare Balbo un metodo razionale, si opponeva l'altro sperimentale
d'Aristotele. Il filosofo di Stagira, disposto per natura d'ingegno a un
accordo più perfetto della spe culazione col senno civile,e cresciuto alla
scuola di Fi lippo e d'Alessandro, intravide con occhio più fermo le armonie
delle dottrine scientifiche coll'esperienza, applicó alla scienza dello Stato
quell'analisi sicura e paziente che negli ordini del pensiero e della natura lo
avea condotto a creare la logica e la fisica; raccolse da ogni parte gli esempj
dei governi migliori, li ordinò, li paragon ), li ridusse a principi, e ne
trasse la sua Politica fonda mento della scienza civile. Ma a tali prove di ragione e difatto altreseneag
giungevano per lui desunte dall'affetto individuale e civile. L'indole del suo
ingegno, inclinato a quanto v'ha di più grande e di più sublime nelle opere
della natura e di Dio, gli svegliava nell'animo un vivo desiderio dei sommi
estinti, e massimamente di quelli la cui vita consacrata alla patria nelle
scienze,nelle lettere, nelle arti, nei pubblici negozj, li raccomanda alla
riconoscenza di Roma. Gran parte,e la più bella forse della sua vita,s'era pas
sata nella società di quei grandi; chè molti n'avea co nosciuti da giovinetto,
e seguiti nello studio delle leggi e nella pratica del fôro; di molti avea
udito favellare al padre e agli zii paterni, m a di tutti gli restava impressa
nell'anima una memoria viva e costante, siccome di per sone domestiche e
care.La vita lungamente agitata nei pubblici affari in tempi di grandi
rivolgimenti, non gli tolse quest'abito di ritornare sul passato, e perchè vi
pendeva l'animo naturalmente mite, e disposto a racco gliersi in sè stesso, e
perchè la sua parte di conservatore lo menava in politica a desiderare il
ritorno della virtù e degli antichi costumi. Più tardi le sventure della patria
lo strinsero a ritirarsi dalla vita pubblica, e allora la fantasia nutrita
negli studj speculativi gli consolava spesso colle grandi memorie i dolori
civili e le meditazioni della scienza. E quindi si spiega perchè quelle
meditazioni,in cambio di riuscire una fredda copia delle opere greche, gli si
convertivano spesso in dialoghi vivi e passionati, e l'abito di conversare coi
s o m m i estinti gliene porgesse gli interlocutori, e si spiega altresì come
la dottrina del l'immortalità occupi tanta parte nel Sogno
dell’Affricano e dualisti italici e greci, contribuì non poco a svogliarlo
d'immaginarie astrazioni, e volgerlo a una via più sicura. Fatto è che nelle
Tusculane,ma più nel De republica e negli opuscoli popolari della Vecchiezza e
dell'Amicizia, egli chiese di preferenza le prove dell'immortalità alla coscienza
morale, alle antiche tradizioni, ai riti delle tombe, al desiderio, connaturato
nell'uomo, del divino e dell'assoluto.] e nel Catone Maggiore, dov'egli
imitando il Socrate di Platone, paragonava sè stesso ai sommi che l'avean
preceduto, e si consolava di speranze immortali. Un'altra occasione,
opportuna a indirizzare le medita zioni del nostro filosofo sulla controversia
dell'immorta lità, e a dettargli intorno al soggetto affettuosi e mesti
pensieri, fu per certo la morte della sua Tullia, avvenuta il mese di Febbraio
dell'anno 709. Nelle solitudini della sua villa presso Astura, là dove avea in
animo d'inal zare un tempio alla figlia perduta, egli scrisse un libretto che
poco appresso indirizzò ad Attico, e che intitolava Consolazione. Su questo
libro,adesso perduto,gli eruditi studiarono a lungo,e dai pochi frammenti che
Cicerone stesso ci conservava,e da quel che ne dissero parecchj scrit tori
antichi,in special modo Lattanzio nelle Istituzioni di vine,tentarono
restituire per sommi capi il disegno gene rale e lo spartimento delle materie.
Schneider ne ragionava in un saggio dove suppose Cicerone avere trattato a
lungo dell'immortalità degli spiriti nell'opera della Consolazione, come
apparisce in gran parte dal primo libro delle Tuscolane. La quale supposizione,
che riteniamo a buon dritto per certa,ci fa grandemente deplorare la perdita di
questo monumento della letteratura latina,una forse delle opere più originali
di Cicerone,e da mostrare come il desiderio della figlia perduta gli volgesse a
più gravi e più solenni ispirazioni l'ingegno naturalmente fecondo. Può
sembrare opportuno ai lettori (se pure ne avemmo in questo esame della
filosofia di M. Tullio) che noi dopo aver discorso delle scuole precedenti o
contem poranee all'oratore latino,del suo metodo e concetto della scienza e
finalmente dei libri fisici, logici e morali, con sideriamo adesso sotto un
rispetto più universale il valore speculativoel'indoledellesue dottrine.La qual
cosa,ol tre all'essere richiesta dalle leggi severe delle discipline
scientifiche, in cui l'uso della sintesi non deve mai scom pagnarsi da quello
dell'analisi,si porge opportuna a con futare l'accusa, che da alcuno potrebbe
esserci mossa,di attribuire al più grande degli oratori latini una potenza
d'ingegno speculativo che mai per avventura non ebbe. La critica intorno alle
opere dottrinali di Cicerone, ne gletta dagli eruditi e dagli storici più
antichi, e infor mata a una severità eccessiva da quelli del secolo scorso e
del presente, è tempo ormai che ritorni a più maturo
esameeapiùimparzialigiudizj. Ma ciòammesso,non resta men fermo quell'altro
supremo pronunziato che Tacito invocava eloquentemente in un'età scellerata
come norma dell'ottima condotta civile, e che comanda allo spirito umano
di seguire una via lontana del pari dalla venerazione cieca, e dal disprezzo
non ragionevole del l'autorità. A questa via ci siamo attenuti nell'esame delle
opere di Cicerone. E non pertanto al critico che prende in mano quei suoi
scritti così varj, così fecondi, dove si mesce tanta parte della vita e delle
memorie latine, soprag giungono di tratto in tratto infinite difficoltà; non
ultima per certo quella, avvertita altra volta da noi, di accom pagnarlo
nell'indagine di tanti sistemi discordi, di racco glierne le sparse dottrine,e
quindi ricomporle nell'armonia dei principj e delle conseguenze. La
imparzialità delle opinioni, e il largo apprezzamento di quel tanto di vero e
di buono, che si trova sempre in ogni sistema, mentre costituisce un pregio
capitale della filosofia di Cicerone, fa sì che ella non si porga sempre
favorevolmente al giudizio della critica odierna,la quale troppo più spesso
vien cercando nelle materie speculative lo stupore delle invenzioni, anzichè la
legittima novità dell'esame e delle attinenze scientifiche. Ma per contrario
nulla v'è d'in ventato, nulla di strano nella filosofia di Marco Tullio. Ella è
la filosofia del senso comune e delle grandi tra dizioni, la quale, per
definirla con uno dei nostri filosofi, « non presume in alcuna cosa di saperne
più là della stessa natura:ma di questa,invece, si dichiara attenta disce pola,
e ne accetta i pronunziati siccome oracoli;.... filosofia tanto riguardosa e
modesta, quanto serena e sicura nei suoi giudicj,e della quale fu detto averla
Socrate pri mamente levata dal cielo,e condotta a conversare famigliarmente in
mezzo agli uomini.” (Mamiani). Tale è l'indole vera della filosofia di Marco
Tullio; e contuttociò crediamo avere abbastanza mostrato in que sto nostro
lavoro, come alla semplicità de'principj e dei metodi si congiunga,segnatamente
nella parte morale,il procedimento rigoroso e l'unità di scienza. Coloro
poi che misurano il valore degli ingegni spe culativi dall'ardimento delle
innovazioni, e giudicano Marco Tullio una povera mente perchè dice
egli stesso di professare dottrine non arroganti, e non molto disco ste dalle
opinioni popolari, non hanno considerato a b bastanza in quanti modi si possa
esercitare la spontaneità del pensiero nelle materie scientifiche. V'hanno
infatti di quelle filosofie che esaminando e sindacando combattono gli errori
de'tempi loro;ve ne hanno altre che esponendo un nuovo ordine di pensieri,
ricostituiscono sopra diversi fondamenti l'edifizio scientifico;e nell'un caso
e nell'al tro l'intelletto del filosofo è attivo nelle materie esami nate od
esposte, e in quella efficacia speculativa v'ha pure sempre del nuovo. La
critica e l'esposizione delle dottrine speculative, sebbene quanto alla forma
estrin seca de pensieri sia opera d'arte, quanto alla materia è un esercizio
rigoroso di ragionamento e di filosofia; im perocchè al critico, se non vuol
fermarsi nella superficie, m a penetrare nel fondo e nell'anima delle
cose,convenga rifare,a dir così,il concetto dell'autore e trasformarsi in lui
stesso,convenga svelare illegame intimo che annoda le idee principali,
concepirne una moltitudine di acces sorie, da cui soltanto rampollano quelle,
vedere i trapassi e le attinenze più remote tra concetto e concetto,e scom
posta la totalità del sistema, ricomporla poi novamente colla viva efficacia
del suo pensiero. Apparisce da queste considerazioni che la novità e il valore
speculativo delle dottrine di Tullio si potrebbe soltanto dedurre dalla critica
assennata, e spesso profonda, ch'e'fece delle dottrine a n tecedenti e
contemporanee, raccogliendo con rara lar ghezza di principj e d'esame quanto di
meglio gli por gevano le scuole greche, per suggellarlo dell'impronta latina,e
svogliare iconnazionali della imitazionede'fo restieri. Questa parte espositiva
e confutativa delle greche dottrine, che tanto prevale nei libri tulliani, noi
la m o strammo contrapponendo ai pensieri proprj del sommo oratore l'analisi
de'sistemi da lui combattuti ed esposti; e tanto più perchè sappiamo essersi
affermato piùvolte da critici insigni che mancò a Cicerone una notizia pro
fonda della filosofia greca, mentre è cosa omai notissima Cicerone adunque
può innanzi tutto considerarsi come un istorico insigne della filosofia, degno
d'essere raggua gliato con Aristotele e con Platone per l'ampio studio delle dottrine
antecedenti e contemporanee. Chè se dai critici più recenti è tenuto a ragione
come fonte non principale di storia, perchè spesso allega testi divisi, e
perchè l'indole della sua riflessione scientifica lo menava non di rado,come
Platone,a suggellare del proprio pen siero le dottrine d'altri sistemi, ogni
età debbe essergli riconoscente d'aver campato tanta e sì nobile parte delle
greche meditazioni dalla ingiuria de'tempi e dalla barbarie degli uomini. Ma
d'altro canto, dopo una lettura ben considerata degli scritti tulliani, può
egli negarsi che vi si rinvenga una parte dommatica, e un esercizio suo proprio
della riflessione speculativa? A una simile domanda ci sembra avere
bastantemente soddisfatto nella parte antecedente di questo discorso
coll'esporre ilmetodo di Cicerone nelle principali teoriche della scienza; e
qui facemmo manife sto come un tal metodo di fina osservazione consistesse per
lui nel ridurre ai semplici elementi delle verità prin cipali i sistemi, e,
sceverati gli errori, comporre un'altra volta quelle verità nell'ordine del
sapere. Difficile i m presa,che in tempi funesti alla scienza ricercava un in
gegno universale, e un potente esercizio della riflessione. La quale,adoperata
da Tullio al lume dell'evidenza in teriore, lo condusse a salvare dal naufragio
dello scetti cismo le più nobili parti delle dottrine speculative.In Fisica
mantenne la distinzione, quantunque non piena, tra il finito e l'infinito, il
contingente e il necessario, la natura e il divino, l'esistenza del divino,
dell'universo e dell'uomo, la natura delle cose corporee inferiori alle
spirituali e all'eterne, l'ordine universale, la eccellenza della] filosofia [nelle
storie che la critica degli antichi scrittori, segnatamente per opera degli
Alessandrini, fioriva ai tempi di lui, eruditissimo nella lingua de' Greci, da
cui tradusse più libri di letteratura e di scienza, e che indirizzava i suoi
scritti ai più culti ingegni di Roma.] ragione, il libero arbitrio e
l'immortalità. In Logica tenne salda la capacità del conoscimento a cogliere il
vero, il concetto di potenza, i sommi principj della ragione, la evidenza
interiore, la distinzione tra senso e intelletto e il metodo inventivo delle
conoscenze. Nella Morale al lume dei sentimenti interiori e del senso comune
ricom pose il sistema perfetto di quellascienza,e
salendocon metodo induttivo dalle tendenze e dai fini della natura all'oggetto
universale di legge e di dovere, ne seppe d e durre tutto l'ordine dei veri
relativi alla famiglia, all'in dividuo e allo stato.Veramente se ad un
uomo,apparso in quella età quando tutta la scienza,divenuta un pro blema, si
lacerava fra i delirj di una moltitudine di so fisti, nasca il pensiero di
ricomporla a sistema, e riassu mendo l'impresa di Socrate,raccolga le verità
principali in una sintesi vasta; e se vissuto in mezzo ai pregiudizj di un
patriziato superbo, e in tempi d'ateismo e di co stumi nefandi, egli invochi a
soccorso della riflessione speculativa l'esame delle antiche tradizioni e delle
verità fontali, contenute nella coscienza del genere uma n o e nei
piùnobiliaffetti, aquest'uomo,parmi, non sipossanegare il nome di filosofo
grande. L'indagine dei dommi primitivi e dei sentimenti nella natura e nel
linguaggio dei popoli voleva in Cicerone un ingegno forte e addestrato a
meditare, e un uso continuo dell'osservazione interiore. Del che sono splendido
testimonio le Orazioni, l’Epistole, il primo libro delle Tusculane, il secondo
e il quinto dei Fini e il proemio delle Leggi; che esposti senza preoc
cupazione rettificherebbero d'assai il giudizio sul valore speculativo dei suoi
libri, e mostrerebbero com'egli esa minasse con vero criterio di scienza
l'umana natura nelle varie età, nelle diseguaglianze de'sessi, degl'ingegni e
de gli ordini civili, e sino dall'alto della tribuna, o seduto agli spettacoli
del circo cogliesse le verità eterne della coscienza nelle manifestazioni
spontanee del sentimento popolare. Parecchj critici di Cicerone, e segnatamente
quelli che gli negano ogni facoltà d'ingegno speculativo, non hanno inoltre
considerato qual uso ei facesse della tradizione scientifica,e come, movendo
dalla coscienza, contrappo nesse all'esame imperfetto e negativo de sistemi un
esame comprensivo di tutto il sapere. Dissi più volte ch'egli moveva dalla
coscienza; e questo fatto dell'osservazione interiore, manifestissimo nelnostro
filosofo,ogni volta che egli prende a trattare importanti materie morali, non
può mai andare disgiunto nell'esame compiuto dei suoi scritti dallo studio
ch'e'fece de'sistemi antecedenti e contem poranei, perchè ci porge la più
intima ragione del suo metodo esterno, chiamato da molti impropriamente un
eclettismo;e ci spiega come nella viva armonia dell'animo umano egli cercasse
quell'unità informatrice delle sue dottrine,che il metodo sincretico d'Antioco
e d'altri eru diti avrebbe indarno aspettato dall'accozzamento inge gnoso di
cento scuole. Certo Cicerone non ebbe quella potenza inventrice d'ingegno
speculativo, e quella rara felicità degli ardimenti metafisici, che hanno
Socrate, Platone, Aristotele tra gli antichi,e tra imoderni Cartesio, Emanuele
Kant e Vico. Il suo ingegno non altrettanto acuto, rapido e penetrativo, quanto
uni versale,comprensivo e solenne,più che in escogitare nuove dottrine, e in
architettare sistemi mirabili per ipotesi a u daci e tirati a filo rigoroso di
logica, piacevasi nel sot toporre ad esame le antiche dottrine,sceverarne gli
errori, ribatterne le istanze,scoprire nuove armonie della ra
gionescientificacolsensocomune, e iltuttopoi ricom porre in un vasto disegno di
scienza concorde colle arti, coi costumi e colla vita civile. Nel che
mirabilmente lo secondavano itempi.Allora,come era avvenuto nel secolo di
Socrate,e come per molte parti accade ora nel nostro, si manifestava nella
condizione delle discipline morali un'imperiosa necessità di riforma. L'eccesso
delle specu lazioni avea spossati gl'ingegni, e la scienza e l'arte tor navano
al vero della natura,unica fonte delle opere grandi. Era dunque suprema
necessità deporre la vana superbia delle innovazioni assolute, farsi discepoli
della natura, tornare agli adagj della sapienza popolare, e chiedere
alla tradizione de savj, non già il supremo criterio del vero,m a il
sindacato delle opinioni attinto nella coscienza più eletta del genere umano.
Tale è la parte modesta, e a un tempo solenne, che Marco Tullio rappresenta
nella storia della filosofia. Se ne'suoi scritti prevale il criterio della
tradizione scien tifica, perchè poco o nulla rimaneva da aggiungere alle speculazioni
dei filosofi greci; e se, parlando ai concitta dini innamorati della
letteratura e delle dottrine stra niere, si mostra studioso al sommo
dell'altrui autorità, confessa però nel 1° degli Offici, ch'e'non seguiva gli a
n tichi come interprete, m a per proprio arbitrio e con li bero esame attingeva
ai loro fonti. È scritto nel primo dei Fini che egli sosteneva quelle dottrine
soltanto che erano approvate da lui,e vi aggiungeva un ordine pro prio di
scrivere. Come poi quest'ordine di scrivere (si gnificante non altro che un
ordine di pensieri) si esten desse per lui al collegamento necessario di tutta
la scienza, te lo dice in quelle parole dei Tuscolani (II, 1): « Difficile est
in philosophia pauca esse einota,cui non sint aut pleraque aut omnia.» Noi
dunque invitiamo gli studiosi delle lettere e della filosofia antica a prendere
in più seria considerazione quella sentenza, divenuta pur troppo comune, che fa
del filosofo latino non più che un seguace d'Antioco, e un modesto raccoglitore
delle dottrine greche. Di quanto in tervallo egli si lasciasse discosti i
migliori filosofi greci contemporanei può apparire assai manifesto a chi
ricordi quanto è detto nella prima parte di questo discorso. Fra i latini poi
non sapremmo chi contrapporgli,se non forse il dottissimo M. Terenzio Varrone
suo familiare, rammen tato nel primo degli Accademici,e della cui filosofia per
altro o poco o nulla sappiamo. Veramente, ammesso che l'oratore romano fosse un
eclettico, nella schietta e ger mana significazionedellaparola,eglinon
solo(siconsideri bene ) avrebbe dovuto accettare le principali dottrine della
scienza tal quali gliele porgeva la Grecia, senza nulla mutare o innovare,ma
l'autorità della tradizione scien 11 tifica sarebbe stata per lui
unico e assoluto criterio per venire dall'opinione al sapere.Ma per contrario,
esami nando nella loro pienezza le dottrine di Tullio, si vede ch'egli, anzichè
inchinarsi a servile imitazione, intese l'uso dell'autorità come un legittimo
ossequio della ra gione al vero riconosciuto per altrui testimonianza, e
propose a sè stesso il gran problema (chiarito poi dai moderni) del passaggio
dalla certezza naturale o volgare alla certezza scientifica. Pensatore e
scrittore di cose fi losofiche in una età in cui la scienza si divideva tra un
dommatismo eccessivo e uno scetticismo quasi assoluto, stimò che avrebbe ben
meritato dell'umana ragione e della patria,seguendo una filosofia modesta in
mezzo agli estremi del tutto credere e del tutto negare; e scelse a suo metodo
la verosimiglianza della Nuova Accademia senza parteciparne lo scetticismo.
Condotto da questo metodo in mezzo alla confusione dei sistemi e alle rovine
dell'edifizio scientifico, ne sottopose ad esame le princi pali dottrine, e
nelle parti incerte e dubbiose ammise più gradi di verosimiglianza; le verità
d'evidenza interiore affermò risoluto. Nella fisica sperimentale non ebbe che
verosimiglianze; in teologia naturale, in cosmologia,in psicologia ed in logica
ondeggiò tra il verosimile e il certo; nella morale soggettiva e oggettiva,
nelle teoriche del Diritto e dello stato romano si volse alla luce innegabile
della coscienza e affermò con certezza assoluta. Talchè in cia scuna parte
delle sue dottrine, e nella successione delle tre parti fra loro si nota quest'ordine
di gradi che vanno dal verosimile al certo. Tale procedimento, che si attiene
all'intimo del suo pensiero speculativo,l'osservi anche talvolta nella forma
estrinseca e nell'ordine logi cale delle dottrine.Imperciocchè,mentre isuoi
scrittisono per la maggior parte inquisitivi e disputativi,e la disputa ferve
specialmente nelle teoriche dell'essere e del cono scere e nei principj della
teorica dell'operare, quanto più procediamo nell'esame di questa, e dai giudizj
dei sistemi particolari e dalle pure opinioni ci leviamo al concetto del divino,
che pose nell'umana ragione,a testimonianza di
sè stesso,laleggemorale,lacontroversia gradopergrado diminuisce,e questa
parte,cominciata col De finibus,dia logo contenzioso, segue col De legibus e
col De officiis, opere espositive, terminando colle dottrine della Repub blica,
e co'dialoghi popolari dell'Amicizia e della vecchiezza. Esaminando nella
successione dei libri fisici, dialettici e morali questo procedimento del
pensiero di Tullio, le sue dottrine ci rappresentano quasi un tentativo di
ricom porre la filosofia nell'ordine perfetto delle conoscenze. Fu provato
assai largamente nel Capitolo primo della seconda parte, e in più luoghi delle
dottrine morali, come il nostro filosofo concepisse chiara la relazione che
inter cede tra la pienezza del soggetto scientifico, su cui si volge il
pensiero, e la unità oggettiva de'principj che danno legamento e connessione
rigorosa alla scienzaprima. Certo,checchè ne dicano il Brucker e il Bernhardy
(il secondo de'quali afferma che gli ultimi fondamenti del sapere rimasero
dubbiosi per Cicerone),apparisce evidente dai libri morali che il nostro
oratore seguendo la ragione informatrice del sistema platonico e dell'Etica di
Zenone, intese la sovranità dell'idea del Buono nell'ordine delle cognizioni, e
cercò in quel principio la più vasta di tutte le sintesi, che gli porgesse
unificata e spiegata nelle più remote sue applicazioni tutta la scienza. La
qual cosa crediamo avere posta sufficientemente in chiaro, esami nando il
dialogo delle Leggi. Ma il por mente a questa unità informatrice delle
dottrine tulliane, ci spiana la via per vedere come il suo metodo conciliativo
delle scuole particolari si risolvesse inun criterio intrinseco di ragione. Quistail
divario essenziale tra la filosofia di Cicerone e la filosofia degli eclettici.
L'eclettico infatti raccogliendo le sue dottrine da sistemi contradittorj e
infetti sostanzialmente d'errore, come non può sperare di levarsi mai colla
riflessione a principj assoluti di scienza, così è costretto a scambiare la
vera filosofia,che è semplice ed una,con un viluppo di multiformi dottrine
senz'armonia e senz'accordo.
La verità,cheèingenita,assoluta,immortale,nonpuò uscire in eterno
dall'accozzo fortuito del falso; e la scelta a b bandonata a sè stessa e senza
un criterio intrinseco ed uno, mancherà sempre di principj saldi, universali,
apodittici. La qual cosa non conobbe abbastanza quella scuola fran cese,fiorita
nella prima metà di questo secolo, e a cui giu stamente si attribuisce la lode
di avere spento il sensismo, e restaurati gli studj istorici della filosofia
nella nostra Europa, quando sentenziava che i sistemi più avversi si compiono
tra loro, e che lo spirito umano procede d'er rore in errore per cammino non
interrotto alle armonie della Scienza prima. Ma Cicerone intese ben altrimenti
il principio costi tutivo delle sue dottrine. Per lui la tradizione scientifica
trovava un riscontro nell'esame immediato dei fatti in terni, e quindi egli
desunse il criterio con cui variamente conciliava i sistemi. Ora a questo
criterio che è la parte propria ed originale di sua dottrina, e che rappresenta
un vero esercizio dell'indagine filosofale nel sindacato delle scuole
particolari,fa d'uopo aver l'occhio per ve dere come e quanto egli attingesse
ai fonti delle opere greche. Sennonchè in tal questione, come osserva Kuehner,
che ne disputava a lungo, e con rara diligenza, si affacciano naturalmente non
lievi difficoltà. In primo luogo, perchè M. Tullio, fornito di varia e
multiforme erudizione, volse in proprio uso tutte le migliori dottrine
dell'antichità italica e greca; secondariamente, perchè parlando di un dato
soggetto, non se ne stava contento all'autorità di un solo autore, m a
interrogava la m a g gior parte di quelli che ne avevano trattato, moltissimi
tra’ quali andarono per noi sventuratamente perduti; e infine perchè il nostro
filosofo o tace non di rado, o accenna di passaggio i fonti a cui attinse, o
soltanto rammenta gli autori quando gli accade di confutarli. Passando poi a determinare
il metodo con cui Cicerone attinse ai greci filosofi, osserva giustamente il
critico te desco che questo metodo si esercitava in tre maniere. Traduceva egli
dal greco, trasportando liberamente in latino, tanto (come egli stesso ci
avverte nell'operetta “De optimo genere oratorum”) da serbare il colorito e la
forza nativa del testo. Nelle altre opere filosofiche segui principalmente un
solo autore, adoperandovi sopra con libera efficacia di riflessione ilsuo
giudizio,e componendo le materie con proprio ordine di pensieri;ricorse ad
altri scrittori ove quello che seguiva fosse riuscito mancante, e v'aggiunse
del proprio.Era altresì suo costume inter rogare varj libri che avean preso a
trattare un m e d e simo soggetto, e ove fosse stato possibile il conciliarli,
trar fuori dalle loro dottrine un tutto perfettamente connesso ed armonizzato. Quindi,prosegue
Kuehner,è necessario al critico di Cicerone avvertire con diligenza gli
scrittori da lui citati e accennati, raffrontare spesso i suoi libri coi grandi
monumenti dell'antica filosofia, che ci pervennero intatti, osservare quello
ch'egli trasse dai suoi maestri,e non piccola luce daranno le congetture
assennate e prudenti. Esposte queste norme più generali di critica, noi
non seguiremo più oltre l'erudito tedesco nell'indagine minuta intorno alle
fonti delle dottrine tulliane. Tale indagine infatti, oltrechè si
allontanerebbe di troppo dal l'indole speculativa e dai confini di questo
scritto,e riu scirebbe inutile al tutto per noi che non neghiamo avere il
filosofo latino attinto le sue dottrine migliori dall'an tichità greca, è piena
altresì d'incertezza e di congetture là dove i fonti originali andarono
perduti, e dove riesce difficile lo sceverare quanto appartiene all'ingegno del
nostro filosofo, e quanto debba invece attribuirsi all'au torità stessa dei
Greci. Del resto, concludendo coll'au tore della dissertazione, M. Tullio
ne'libri fisici, e in special modo nella disputa sull'immortalità,seguì princi
palmente Platone; nei libri logici e nella questione sul criterio della
verosimiglianza e sulla percezione sensitiva, attinse dal Portico e dalla Nuova
Accademia; nei libri morali poi, discepolo degli Stoici e dell'Antica Accade
mia e del Peripato per ciò che risguarda le dottrine speculative del bene e
della legge, nelle materie politi che e civili seguì a preferenza
Aristotele,Teofrasto e Polibio. L a qual cosa per altro vuole essere intesa
discre tamente; poichè, a considerare bene il metodo con cui egli compose i
varj sistemi, si vede che, sebbene in più luoghi attinse separatamente dagli
Stoici e da Platone,tut tavia la natura dell'ingegno latino lo menava a tempe
rare l'austerità degli Stoici colle massime dell'Ateniese; il che fece in più
luoghi, e segnatamente nel secondo libro della Natura degli Dei, e nel primo
della Divina zione. Come poi usando le opere dei greci scrittori, è attingendo
ai loro fonti la materia di sue dottrine, ei conservasse non pertanto la libertà
dell'ingegno, con queste parole lo attesta il Kuehner: « Negari quidem non potest
Ciceronem disputationes suas philosophicas e Graecorum fontibus hausisse; sed
græca non interpretis modo ad verbum in linguam latinam convertit,sed suum ipse
iis adjunxit judicium, suum scribendi ordinem,viam rationemque atque orationis
lumen.Reputemus nobiscum, quantum ingenii judiciique dexteritatis Cicero
probaverit in hauriendis sapientiæ præceptis e græcorum philosophorum
monumentis. Nam ex omnibus omnium æta tum græcorum philosophorum disciplinis,
ex hac ingenti materiæ quasi silva,ea delibavit,quæ ad fingendos mores
sapientiæ præceptis,et ad omnem vitam conformandam vim omnino habebant
saluberrimam.” Cicerone dunque, a riassumere il tutto in poche parole,non fu nè
Stoico,nè Accademico, nè Peripatetico, ma fu vero Socratico con libertà di
riflessione e di esame. Come Socrate, egli non compose un sistema per fetto di
cognizioni, m a tentò una riforma; non pervenne agli estremi resultamenti delle
indagini iniziate da lui, ma ne accennò la via più sicura; non chiuse tutta la
scienza nell'ambito angusto d'un'ipotesi, d'un'inven zione o d'un fatto; m a
assorgendo colla mente alla più feconda delle armonie scientifiche, che è la
ragione m o rale, vedeva in un'occhiata spiegarsi da quella sintesi
l'ordinamento necessario della scienza prima. Per certo l'ingegno onnipotente
dell’Ateniese, la cui efficacia dura da ventiquattro secoli nell'indirizzo
delle dottrine specu lative, è unico esempio, e non mai superabile, nella
storia della filosofia. Ma consideri un poco il lettore, come al filosofo
romano, ingegno senza dubbio men vasto e meno inventivo, mentre si
attraversavano per via le stesse dif ficoltà, e forse maggiori,non arrisero
altrettanto propizie, quanto al greco, le condizioni dei tempi e dei pubblici
costumi. Tullio non s'abbattè,come Socrate, ad un po polo,qual era quello
d'Atene, poderoso della fantasia, supremamente inclinato da natura agli studj
speculativi, e innamorato d’un amore infinito del bello e del perfetto. La
gente romana, sebbene felicemente disposta a sentire ciò che è certo e
applicabile fra i resultamenti dell'umano ingegno, sebbene disciplinata nelle
deduzioni morali dal magistero dei Giureconsulti, ritenne per se coli quei
costumi severi e quell'abito politico e militare, non facilmente conciliabile
colla vita meditativa della scienza e dell'arte. Più tardi allorchè l'impero
esteso a due terzi del mondo, e il vivere agiato, e la necessità di allontanare
il pensiero dallo spettacolo della tirannia nascente, volgeva i migliori tra i
Romani agli studj della filosofia, maestra ai vincitori d'ogni arte e di ogni
disciplina civile, li trasse a sè, sviando la sponta neità degl'ingegni col
facile diletto dell'imitazione. Chè, se ciò non può dirsi assolutamente delle
lettere e delle scienze latine da chi consideri quel tanto d'originale che pur
v'è nelle imitazioni di Lucrezio, di Catullo e di Virgilio, e che sappiamo
esservistato nei libridiVarrone,ora perduti,non resta men vero che tanta era la
servitùdel pensiero ai tempi di Tullio da costringerlo a scusarsi pubblicamente
per avere usata la propria lingua nelle materie speculative. Opera altamente
civile, altamente romana fu adun que quella che imprese il nostro filosofo,
procacciando di volgere il linguaggio latino alla significazione dei veri
scientifici. Nel che, tanto più egli si mostrò gran maestro, quanto minori e
maggiormente imperfetti erano gli esempi di coloro che l'avean preceduto.
Amafinio e Rabirio epicurei, rammentati da lui nel libro terzo delle Tuscolane
e ch'egli dice non averlettoneppure,scris sero primi di cose filosofiche in
modo informe ed incolto. Più tardi Tito LUCREZIO Caro esponeva splendidamente
nelpoema De rerum natura la filosofia d'Epicuro; ma tutti questi scrittori, dei
quali il secondo non era uscito dalle pastoje della poesia didascalica, non
aveano potuto al certo esercitare un'alta efficacia sul linguaggio filo sofico
di Roma,ristretti com'erano nelle cerchia d'un sistema povero e meschinamente
sofistico.Noi dunque con corriamo ben volentieri nella sentenza del Ritter,
assicu rando che soltanto ai tempi di Cicerone la filosofia volse in proprio
uso l'idioma latino; la qual cosa,per quanto è lecito pensarne ai moderni, può
unicamente affermarsi dei libri di lui dove la lingua filosofica è già formata,
e dove la parola si porge per modo mirabile ad ogni m o venza e inflessione del
pensiero. L'impresa che Cicerone tentava, era dunque novissima, e l'istrumento
ch'egli ha fra mano, il meno acconcio a compirla. Perchè non si trattava già
d'esporre le dottrine d'un solo filosofo, come avean fatto Amafinio, Rabirio e
Lucrezio,ma con veniva volgersi a tutte le scuole, e addestrare il linguaggio
latino nell'intero ámbito della scienza.Talvolta, è vero, gli mancò la parola
più appropriata al concetto, e ristretto entro i termini d'una lingua non
disciplinata ancora nelle indagini troppo sottili, procedè incerto sulla
significazione di qualche frase scientifica appresa dai Greci; m a nella maggior
parte dei suoi scritti egli ebbe in grado supremo la facoltà di lumeggiare e
colorire l'idea, e di far sì che il pensiero rispondesse nella p a rola, come
figura bella in limpido specchio. Sentenziando ch'è vana impresa e da fanciulli
voler dire con favella ornata le cose sottili, plane autem it perspicue posse,
docti et intelligentis viri -- De fin. -- seguì uno stile che fosse egualmente
lontano dalla forma splendida degli oratori, e dalla aridità faticosa di parec
chj contemporanei. Quinci egli trasse quel genere d'ora zione che negli Officj
chiamò æquabile et temperatum. L'ingegno universale e comprensivo di
Cicerone apparisce in ogni parte delle sue dottrine. Venuto in Roma, dove
facevano capo le faccende d'Italia e del mondo, tollerante per natura delle
altrui opinioni, e disposto a tolleranza maggiore dallo studio. Intorno allo
stile filosofico di Cicerone scrive con molta dottrina Ferrucci, in un suo
discorso “De singolari meriti di Cicerone nella lingua ed eloquenza latina,
edito recentemente in Pisa coi tipi del Nistri. La severità della
meditazione scientifica è in lui sempre solenne, ma variamente temperata
dall'indole del soggetto. E sobrio l'uso delle metafore. Il periodo procede ora
maestoso, ora interrotto, ora veloce, ora lento, a sconda della materia, e
talvolta, come negli Accademici, imita il linguaggio familiare, talaltra, come
nelle Tuscolane, sembra avvicinarsi piuttosto alla forma oratoria. Chi poi
considerasse a parte a parte la varietà degli stili nelle opere differenti,
osserverebbe potersi queste distin guere in più classi, modernamente in più manière,
corrispondenti ai varj tempi in cui l'autore le scrive. Il “De republica” e il “De
legibus”, appartenenti al primo tempo, in cui egli era ancora indefessamente
occupato nei negozj pubblici e del foro, hanno più del carattere oratorio. “Gli
Accademici”, il “De finibus”, il “De natura deorum”, scritti poco prima la
morte di Cesare, palesano uno studio deliberato, continuo della severa forma
speculativa; laddove nel “De officiis”, nel “Cato Major” e nel “De amicitial”
t’av vedi come l'abito della meditazione e la lettura degli ottimi esemplari o
avessero condotto al miglior temperamento dello stile didattico colla forma
oratoria. Imitatore delle melodie d'Iocrate, e innamorato dello splendore di
Platone, ch'egli chiama il divino dei filosofi, lo segue non soltanto nella
forma estrinseca de' suoi trattati, e nel metodo del dialogizzare, ma improntò
sul Fedro, sulla Repubblica, sul Fedone, sulle Leggi i tratti più belli delle
opere sue, rimasti fino a noi come uno dei monumenti più solenni delle lettere
antiche imparziale che fa delle dottrine contemporanee, con trasse per tempo
quell'abito universale d'osservazione, e quel sentimento delle armonie
scientifiche, così vivo in ogni tempo nelle menti romane, in lui straordinario.
Cresciuto intempi funesti alla libertà, e testimone di quanti esilj e di quanto
sangue contaminasse l'Italia la rabbia scellerata di Mario e di Silla, egli in
mezzo allo strepito delle armi e all'imperversare delle civili discordie
applica dì e notte con ardore inestimabile ad ogni generazione di studj. Più
tardi per restaurare la salute, inde bolita dalla pratica del fôro, si reca in
Grecia, dove udì le scuole migliori, peragra tutta l'Asia, si trattenne a Rodi,
e torna in patria ammaestrato da una larga notizia d’uomini e di cose,e dalla
famigliarità coi più pre stanti oratori. La sua eloquenza, nutrita negli spazj
dell'Accademia, ebbe ampiezza misurata e solenne, tanto diversa dalla nervosa
concisione di Demostene, e quale s'addiceva alla pienezza e solennità de'suoi
pensieri. Nella ragione intima dell'arte sua cirimane occulta, qualora si
consideri nel “De oratore”, nel “Bruto” e nell'”Orator” il significato
vastissimo ch'egli riferisce alla parola elo quenza. Quindi il largo concetto
dell'unità del sapere, espresso in varj luoghi del “De oratore”, e meglio in
quella sentenza: « omnem doctrinam ingenuarum et humana rum artium uno quodam
societatis vinculo contineri,» ci fa manifesto com'egli intendeva l'officio
dello scrittore,e come nella sua vita di cittadino, d'oratore e di filosofo si
mostrasse uno degli uomini più universali che mai siano apparsi nel mondo. Come
uomo di stato, egli vagheggiò la carità universale del genere umano, e ne
scrisse mirabili parole negli “Offici” e nelle “Leggi.” Giovane ancora, patrocinando
la causa di una donna Aretina, giustifica le pretensioni delle città italiane
alla cittadinanza romana. Nel suo consolato sven tando la congiura di Catilina,
salvava da pericolo certo e imminente la libertà di Roma,e tentava comporre
l'or dine senatorio e l’equestre in un saldo partito contro il prevalere della
fazione plebea.Come avvocato e come oratore politico (così scrive di lui
Vannucci),«creò un nuovo genere d'eloquenza composto di tutto ciò che v'era di
più bello a Roma. Per giungere a questo con l'amore e con l'entusiasmo,che è
padre di tutte le egregie cose, coltivò gli studj trascurati da altri, e con
siderando che il poeta e l'oratore dal lato degli orna menti hanno, com'egli
scrisse, molte cose comuni, con esercizj poetici ingentili e perfezionò lo
stile latino. Ricerca i modelli più famosi dell'eloquenza romana,svolse i
Greci,ne tradusse per suo uso le orazioni più belle.Sti mava che per esser
grande oratore si vuol sapere ogni cosa,e avere tutte le dottrine come compagne
e ministre. Quindi afforzò la sua ragione colle dottrine dei grandi filosofi,
si arricchì della scienza del diritto, non lasciò niuno studio da banda; e così
apparecchiato rappresentò nel fôro la grandezza romana ingentilita dall'arte
greca, e apparve come splendido esempio dell'oratore perfetto, di cui mandò a
noi il ritratto ne'suoi scritti didattici.» (Studi storici e morali sulla
letteratura latina, Firenze, Le Monnier) Non è dunque maraviglia se, dis posto
per abito di mente e per disciplina a sentire l’uni versalità in ogni cosa,
espose più tardi ne'suoi scritti speculativi ilmeglio delle scuole greche, e
tornando ai fondamenti e ai principj di tutto il sapere, vi cercò quel legame
unitivo che desse vita e armonia alle sparse membra della tradizione
scientifica. Se in lui dopo l'oratoreeilpoliticoconsideratel'uomo, dovrete
riconoscere negli scritti speculativi profondamente scolpite le tracce del sentimento
e dell'animo suo. In essi,quanto alla manifestazione degli affetti, ritrovi
quella sua schiettezza d'indole generosa, quegli amori potenti di gloria, di
famiglia e di patria, quell'abbandono di t e nerezza,ond'era caro finchè visse
ad ogni anima gen tile, e l'incertezza dei propositi, che talvolta lo rese in
feriore all'impeto degli avvenimenti, e un desiderio di lodi un po' troppo
sincero lo sentì qua e là nell'irreso lutezza delle espressioni e nello stile
maestoso non senza, pompa. L'esempio di Roma antica ch'egli seguì e
studio con amore,quale un perfetto monumento di sapienza civile ,non gli
tolse però di vederne e di biasimarne i difetti, come l'eccessivo potere del
popolo che spesso trascorreva in licenza, l'abuso dell'autorità ne'patrizj, le
guerre volte a istrumento di grandezza privata,la prolungazione degli imperj,
idisordini quotidiani nel fôro, e quelle leggi agrarie e sui contratti, la cui
promulgazione sciogliendo i diritti di proprietà e l'osservanza della fede, era
un vero attentato alle basi della società civile. Dalla critica meno benigna si
allegano alcuni passi dei suoi scritti politici in cui parve dimenticare i
principj della giustizia e della moralità lodando il tirannicidio, tentando
giustificare col titolo della civiltà il primato oppressivo dei Romani sulle
altre nazioni, ammettendo come teorica di condotta civile il cangiar partito a
seconda delle circostanze.Nè io lo difendo da queste accuse;ma rammento solo
per debito imparziale d'istoria, che le stesse ragioni recate da lui a' suoi
tempi per giustificare le conquiste romane, sono state addotte in pieno secolo
XIX da una delle nazioni più civili del mondo per iscusare non meno odiose
conquiste; e che,se la storia non giustificò Tullio nel diritto, l'ha in parte
giustificato nel fatto, mostrando di quanto lume di civiltà la moderna Europa
sia debitrice alle conquiste romane. I giudizj intorno alla sua condotta morale
e politica, già di troppo benigni nelle opere del Middleton, e del
Niebuhr,troppo severi in quelle di Melmoth, Drumann e Mommsen, furono non ha
guari saviamente temperati in un bel saggio di Forsyth, venuto alla luce in Londra, e di cui abbiam veduta
quest'anno una nuova edizione. Tullio, così osserva sapientemente il biografo
inglese, fu qualche volta debole, timido, irreso luto,m a a tali difetti
rispose in altre condizioni di tempi con una nobile condotta civile. Ei si
diportò da uomo e da cittadino nella congiura di Catilina, e nel finale c o m
battimento contro il triunviro Antonio.Chè se non sem pre fu pari agli
avvenimenti che lo incalzavano, se non sostenne coraggiosamente l'esilio, e
restituito in patria, ondeggiò a lungo tra la parte di Cesare e quella
di Pompeo, bisogna considerare quanto difficili tempi fossero quelli a
chi, come lui, non avea mai patteggiato colla coscienza, e riconosceva nella
religione del giuramento, e nella santità dei costumi civili il principio
tutelare delle libere istituzioni. Questo alto sentimento del buono,po
tentissimo nel nostro oratore, è la ragione che diede sublimità vera alle sue
dottrine morali; e ci spiega come nei libri degli Officj, della Repubblica e
delle Leggi egli desunse i principj fondamentali della filosofia civile dal
concetto più puro dell'onesto e della legge; e vissuto in tempi nefandi intese
a conciliare l'interesse dell'utile pubblico colla giustizia assoluta,
nell'idea della famiglia, nell'idea dello stato, nel possesso, nella
legislazione e nei diritti di guerra e di pace. Tale pure è l'opinione esposta
dal signor Gaston Boissier ne'suoi dotti articoli sulla politica di Cicerone,
stampati nella Rivista de'Duc Mondi. Corre adesso in Europa un tempo assai
propizio alla critica degli scrittori latini.Invero gli studj che accompa
gnarono fra noi ilprimo risorgimento delle lettere anti che, mossi da curiosità
e da desiderio di un passato a cui la notte tempestosa dei tempi di mezzo
sembrava aver cresciuto splendore, non mantennero sempre una giusta eguaglianza
fra il libero esame e l'ossequio dovuto alle tradizioni. Ma tal difetto venne largamente
emendato in età più vicina, allorchè da molti si esaminò solo per negare,e le
passioni politiche e religiose fecero impaccio più volte alla schietta
manifestazione del vero. Oggi la quiete dei tempi,e questo nuovo ricomporsi
d'Europa a monarchie nazionali,avvicinando i popoli tra loro e ren dendo sempre
più facile il sindacato delle opinioni, per suade le menti a giudizj più severi
e imparziali. Ne mancano esempj di queste nuove condizioni della critica
odierna, segnatamente per ciò che risguarda gli studj del l'antichità latina;
non ignorano infatti i nostri lettori che,mentre in Germania il Bernhardy e il
Mommsen giudicarono con molta severità Cicerone, in Francia e in Inghilterra
hanno parlato con bella temperanza delle sue dottrine morali e
della sua vita politica il Desjardins e il Forsyth. Fra noi gli studj istorici
della filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o rimasero
oscuri nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitavano un
ufficio civile, e all'unità e all'indipen denza dava opera l'intera nazione. È
tempo oggimai che torniamo a così nobili studj;e la critica istorica e
filosofica faccia prova di richiamare nella memoria ricono scente degli
Italiani la storia di quel popolo da cui venne il Desjardins e il Forsyth.
Fra noi gli studj istorici della filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente
accolti, o rimasero oscuri nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere
esercitavano un ufficio civile, e all'unità e all'indipen denza dava opera
l'intera nazione. È tempo oggimai che torniamo a così nobili studj;e la critica
istorica e filoso fica faccia prova di richiamare nella memoria ricono scente
degli Italiani la storia di quel popolo da cui venne la prima luce delle nostre
istituzioni. Allora soltanto le dottrine di Cicerone saranno meglio studiate e
apprezzate, e la natura comprensiva dell'ingegno romano,dicuiegli fu esempio
solenne, ci apparirà come una sintesi vasta e feconda in cui s'accoglieva la
coscienza dei popoli antichi.Giacomo Barzellotti. Keywords. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Barzellotti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Basilide – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Member of the Porch. A teacher of Antonino
Grice e Basilio – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Roma). Filosofo italiano. He studied philosophy alongside the future emperor
Giuliano.
Grice e Basso – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Lucio Aufidio Basso. According to Seneca, Basso was
a follower of the philosophy of The Garden, who bore witness to his school’s
teachings in the way he coped with coped with prolonged ill health.
Grice e Basso – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Tito Avianio Basso Polieno. A member of the Porch.
Grice e Bataces – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Nizza). Filosofo italiano. A pupil of Carneade.
Grice e Battaglia –
valori italiani – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palmi). Filosofo
italiano. Grice: “You gotta like Battaglia; he plays with the Italian language
in ways I cannot play in the English language; e. g. consider his
philosophising ‘between being and value,’ ‘tra l’essere e il valore.’ Surely
the thing is the copula: A is B, A is worth B.’
-- “A e B,” “A vale.” “A vale B.” – “We cannot say that a dollar is
worth a dollar --. Stricctly, we CAN, it’s true – but the implicaturum is ‘I’m
an idiot or a philosopher.” Grice: “And I can say, “Socrate e,’ i. e. Socrates
is. And ‘Socrates vale,’ i.e. Socrates has value.’” Grice: “When I did my linguistic botanising on
‘value,’ I followed Austin’s misadvice: never contrast with Anglo-Saxon, but
actually ‘worth’ in Anglo-Saxon WAS a verb, and cognate with Battaglia,
‘valere.’!” In seguito al terremoto di Messina lasciò la Calabria,
trasferendosi con tutta la famiglia a Roma, dove intraprese il suo percorso di
studi. Si laurea con una tesi su Marsilio
da Padova. Ottenuta la libera docenza di filosofia e un contratto
d'insegnamento dall'ateneo capitolino, si trasferì a Siena, dove vinse la
cattedra nella medesima disciplina. Si
sposta da Siena a Bologna, dove già teneva delle lezioni. Nell'ateneo bolognese
insegna, contemporaneamente, filosofia morale e filosofia del diritto nella
Facoltà di Filosofia, di cui e preside. Rettore dell'ateneo di Bologna. Il Comune
di Bologna gli ha dedicato una strada, e Bologna intitola a suo nome la Biblioteca
del ‘Dipartimento’ di filosofia. È stato autore di numerosi saggi in diverse
branche del diritto e della filosofia e, in loro connessione, sulla storia del
pensiero, sia antico che modern. Tale interesse declina anche in chiave
pedagogica, a testimonianza dell'intensa attenzione rivolta alla storia quale
concreta fonte dell'organizzazione sociale umana e del complesso e diffidente
approdo allo spiritualismo. Con i
sostenitori attualisti dell'autonomia della categoria filosofica della
politica, pensa che occorresse lasciare alla storia tout court quanto non fosse
pensiero sistematico, preservando così la storia delle dottrine da ogni
contaminazione con le dialettica sociale e istituzionale". Altre opere:“Cuoco e la formazione dello
spirito nazionale in Italia” (Bemporad, Firenze); “Marsilio da Padova e la filosofia
politica del Medioevo” (Felice Le Monnier, Firenze); “La crisi del diritto
naturale: saggio su alcune tendenze contemporanee della filosofia del diritto”
(La Nuova Italia, Firenze); “Diritto e filosofia della pratica: saggio su
alcuni problemi dell'idealismo contemporaneo” (La Nuova Italia, Firenze); “Thomasio
filosofo e giurista” (Circolo giuridico di Siena);“Scritti di teoria dello
stato” (Giuffré, Milano); “Orientamenti metodologici nella storia delle
dottrine politiche” (Tip. Nuova, Siena); “Problemi metodologici nella storia
delle dottrine politiche ed economiche” (Foro Italiano, Roma); “Corso di filosofia
del diritto” (Soc. editrice "Foro italiano", Roma); “Il domma della
personalità giuridica dello Stato” (Zanichelli, Bologna); “Impero Chiesa e
stati particolari nel pensiero di Alighieri” (Zanichelli, Bologna); “Libertà ed
uguaglianza nelle dichiarazioni francesi dei diritti: testi, lavori preparatorii,
progetti parlamentari” (Zanichelli, Bologna); “Il valore nella storia” (Upeb,
Bologna); “Il problema morale nell'esistenzialismo” (Zuffi, Bologna); “Saggi
sull'Utopia di Tommaso Moro” (Zuffi, Bologna); “Cenni storici intorno al
concetto di lavoro” (Zuffi, Bologna); “Filosofia del lavoro” (Zuffi, Bologna);
“Lineamenti di storia delle dottrine politiche” (Giuffré, Milano); “Morale e
storia nella prospettiva spiritualistica” (Zuffi, Bologna); “Nuovi scritti di
teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “I valori fra la metafisica e la storia”
(Zanichelli, Bologna); “Linee sommarie di dottrina morale” (Patron, Bologna); “I
valori della pratica e l'esperienza storica” (Patron, Bologna); “Il valore
estetico” (Morcelliana, Brescia); “Cinque saggi intorno alla sociologia” (Istituto
Luigi Sturzo, Roma); “ Parva Desanctisiana” (Patron, Bologna); “Economia,
diritto, morale” (Coop. libraria universitaria editoriale bolognese, Bologna);
“Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo” (Longo, Ravenna); “Rosmini tra
l'essere e i valori, Guida, Napoli); “Mondo storico ed escatologia” (Clueb,
Bologna); “Le carte dei diritti: dalla Magna Charta alla carta del lavoro”
(Sansoni, Firenze); “Le carte dei diritti: dalla Magna Charta alla Carta di San
Francisco” (Sansoni, Firenze); “Meis, I problemi dello stato moderno”
(Zanichelli, Bologna); “Sanctis, Lettere a Villari” (Einaudi, Torino); “Lettere
di Meis a Spaventa” (Azzoguidi, Bologna); “Il pensiero pedagogico del
Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Locke, Antologia degli scritti politici” (Il
Mulino, Bologna). Il pensiero di Felice Battaglia, Atti del Seminario promosso
dal Dipartimento di Filosofia di Bologna (29-30 ottobre 1987), Nicola Matteucci
e Alberto Pasquinelli, Bologna, CLUEB, A cent'anni dalla nascita, Bologna,
Baiesi, Dal filosofo all'uomo, Atti del
convegno di studi su Felice Battaglia (Palmi 12-13 maggio 1990), Giuseppe
Chiofalo, Palmi, Arti Grafiche Edizioni, 1991, . M. Ferrari, La filosofia
italiana, in «Storia della Filosofia»,
(La filosofia contemporanea. Seconda metà del Novecento), t. I, M.
Paganini, Vallardi, Milano, Marchello, Felice Battaglia, Edizioni di Filosofia,
Torino 1953. Nicola Matteucci, Felice Battaglia, filosofo della pratica, in
Atti della Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna, Classe di Scienze
Morali, Rendiconti, (ora rifuso in Id., Filosofi politici contemporanei, Il
Mulino, Bologna, Polato, «BATTAGLIA, Felice» in Dizionario Biografico degli
Italiani, Volume 34, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Scerbo, Felice
Battaglia: la centralità del valore giuridico, Edizioni scientifiche italiane,
Napoli, Anzalone, Lo abstracto y lo concreto en la Teoría del Derecho de
Battaglia. Felice Battaglia y el dilema entre Croce y Gentile, Atelier, Barcelona, A. Anzalone, Felice Battaglia. Per una teoria
giuridica tra idealismo crociano e gentiliano, Euno edizioni, Leonforte, (290 ). A. Anzalone, Las aparentes
contradicciones de la filosofía jurídica y política de Felice Battaglia, in
«Studi in onore di Augusto Sinagra»,
VMiscellanea, Aracne, Roma,, A.
Anzalone, El Estado, sus fines y su relación con el derecho. La perspectiva de
Felice Battaglia, in “Lex Social (Revista jurídica de los Derechos Sociales)”,
Anzalone, La integración europea como modelo para Latinoamérica según Felice
Battaglia, in «Temas de Filosofía Jurídica y Política», Número 5, SFD, Córdoba,, 11–41. Girolamo Cotroneo, Felice Battaglia e
la "filosofia dei valori", in Benedetto Croce e altri ancora, Soveria
Mannelli, Rubbettino, Onorificenze Dottore honoris causanastrino per uniforme
ordinariaDottore honoris causa — Universidade de São Paulo. Ufficiale
dell'Ordine di Leopoldo IInastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine
di Leopoldo II Cavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe civile)nastrino
per uniforme ordinariaCavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe
civile) Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiananastrino per
uniforme ordinariaGrande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana —
Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino
per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della
Repubblica italiana. Vittor Ivo Comparato, Vent'anni di storia del pensiero
politico in Italia, Il pensiero politico, Università degli Studi di Bologna,
fondata nel sec. XI. Annuario degli Anni Accademici (JPG), Bologna, Tipografia Compositori,
195419. Dettaglio decorato, Presidenza
della Repubblica. 27 giugno. Sito web
del Quirinale: dettaglio decorato. Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ULTURA MODERNA - Quaderni di Storia, Filosofia e
Politica cura di Battaglia L'opera di Vincenzo Cuoco e la formazione dello
spirito nazionale in Italia R. BEMPORAD & FIGLIO - Editori - FIRENZE
Rappresentanti per il Piemonte: S. LATTES & C. Torino. R. BEMPORAD &
Firenze, Stab. Pisa & Lampronti. La tradizione italica. Il Settecento e la
sua importanza. L’Italia ritrova sè stessa nella sua storia. Il processo
unitario. L'erudizione: Muratori. La filosofia: Vico. Antitesi al
cartesianismo. Esperienza filologica. Italianismo di Vico. De antiquissima
italorum sapientia. Vico impersona la nuova tradizione. A lui si ricollega Cuoco. La fortuna di Vico nell'alta Italia e
le origini del nuovo pensiero. Cuoco e i suoi studiosi. La rivoluzione
napoletana. La cultura rivoluzionaria e prerivoluzionaria. Razionalismo,
astrattismo. La classe colta di Napoli. Riformismo governativo. Rottura tra stato
e borghesia. Carattere passivo della rivoluzione. Le origini sacre della nuova
Italia. Gli storici della letteratura e della vita del popolo italiano, che
vogliano trattare del Risorgimento nostro con piena e sicura conoscenza di
cause e di effetti, devono necessariamente rifarsi al secolo XVIII. Nel secolo
XVIII sono le scaturigini di quel vasto e nobile movimento, denso più di idee
che di fatti, poi che i pochi e modesti avveni menti ricevono luce ed
acquistano nobiltà solo nel riflesso delle idee, di quel vasto e nobile
movimento, ripeto, che condurrà all'unificazione e all'indipendenza italiana.
Mi rabile la continuità della vita di questo popolo antico d'Italia: i secoli,
che ad una critica occhialuta sembrano i più torbidi, si presentano, poi, a chi
sappia investigarli con amore e con coscienza, gravi di preparazione, pon
derosi d'esperienza: è tutta una vita che si prepara, si svolge, sente il
bisogno di concretizzarsi, finchè scoppierà in foga d'eroismo e di volontà. È
una preparazione lenta diuturna faticosa, la quale fa emergere figure grandi di
filosofi e di poeti, di giuristi e di uomini di governo o di chiesa. La critica
ha il dovere di rivendicare questi secoli e di valutarli al paragone di
concetti superiori di filosofia. È ridicolo condannare alcune età nel corso
d'un popolo, alcuni secoli in blocco per altri secoli, chiamare questa età di
decadenza, quella età di fioritura. I periodi storici, le ere, i secoli sono
quello che sono con le loro istituzioni, col loro pensiero, con la loro arte,
con i loro uomini, soprattutto coi loro uomini. È ridicolo condannare i se coli
XVII e XVIII per il XIX, come si usava sino a venti anni fa, critico spietato,
Minosse che giudica e manda senza appello, il nostro maggiore poeta, Giosue
Carducci. I secoli XVII e XVIII hanno invece diritto alla nostra ammirazione
come i secoli, in cui i destini della patria si sono venuti maturando,
attraverso un rinnovato fervore di pensiero, di critica, di storiografia,
preludio modesto mafaticoso di opere civili, attraverso un rifoggiarsi,
insomma, della coscienza nazionale, che da universalmente umana tende a
divenire più veramente, se pure più ristrettivamente, italica. È forse, se l'affer
mazione non trovasse nella sua rigidità una smentita nell'oceanica figura di
Vico, un chiudersi in noi stessi, un rinnegare gli ideali cosmopolitici, per
ritro vare il particolare più veramente nostro, l'essenza della stirpe. La
storia è l'esperienza del nuovo spirito, che gradual mente viene formandosi. Il
popolo della penisola s'astrae, si ritira, si allontana dalle grandi
competizioni politiche e culturali europee. Il centro del mondo si è spostato:
non più Roma, ma Parigi, Lisbona, Madrid, Londra, Vienna. Mentre le altre genti
si gettano tumultuose nel 7 fervore della conquista, nella lotta per il
predominio, e noi siamo le vittime, la nostra razza si chiude nel guscio della
propria coscienza, nel culto della propria essenza. Perchè? Per essere più
italiani, per essere noi stessi, per riacquistare a noi tutto noi stessi, per
sapere il nostro passato, per foggiare nello spirito l'avvenire. Così
quell'Italia, che ai miopi occhialuti corifei dello storicismo positivo sembra
assente tra la seconda metà del Seicento e la prima metà del Settecento, per
riacqui stare vita nuova proprio con la critica razionalista pre
rivoluzionaria, e poi con « gli immortali princípi » del l '89, è invece viva e
desta, sempre, in ogni tempo, per ritrovarsi, essa stessa, di fronte
all'irrompere delle giovani schiere galliche con un patrimonio nobilissimo di
schietto pensiero italico, di sapienza civile antica, di esperienza politica
nuova. Lo storico deve valutare tutto. La storia della cultura, ben altra cosa,
notiamo, dalla storia dell'arte, particola ristica, d'un subiettivismo che
rinnega ogni sviluppo che non sia nello spirito individuale e creatore, ha una
sua mirabile continuità, una sua ininterrotta evoluzione: l'oggi sorge dal
passato, nel passato si prepara il pre sente, il presente è la fucina in cui si
foggia il futuro. La storia deve valutare tutto e trovare i nessi ideali tra
gli avvenimenti, se vuol essere storia, cioè studio critico e superiore delle
idee, che muovono gli uomini gli uo mini sono sopra tutto idee, spirito —, e
non cronaca astratta di ciò che gli uomini fanno e potevano anche non fare. Lo
storico deve dunque, se vuol rinvenire l'origine vera del nostro Risorgimento,
salire assai più indietro che di solito non si faccia ed osservare più le idee
che i fatti, poi che i fatti a volte sono puri e semplici fenomeni senza
conseguenze, che si spengono come stelle cadenti nel cielo dopo un breve ciclo,
mentre le idee vivono, germinano nell'oscurità, generano altre idee, seguendo
la trama fatale del corso delle stirpi. Le idee rivelano quel mondo dello
spirito, ove si foggiano gli eventi, rivelano il segreto della génesi de'
popoli, il loro assurgere all'im 8 pero, le cause della grandezza politica.
Dietro il fatto sto rico c'è l'idea, la cui vita, vita storica cioè dinamica,
lo studioso deve analizzare nella sua complessa formazione e non rinnegare per
i preconcetti del proprio cervello. La rinascita dell'elemento italiano,
particolaristico e nazionalista, è un fatto estrinsecamente assai prossimo a
noi, intimamente preparato da lunga meditazione, da lunga speculazione, da
lunghe ricerche. Una storia vera della cultura, specie della cultura politica,
non può non ricollegarsi al secolo XVIII, anzi al secolo XVII, per ri trovarvi
le origini vere dell'Italia di oggi. Dove si foggia questa nuova coscienza,
questa nuova italianità? Nell'angolo della penisola, che per il mo mento (siamo
nel secolo XVIII), guardando in modo sommario la distesa temporale della storia,
è il più li bero dall'influsso culturale straniero. Non Venezia, non Milano,
non Torino, non Firenze.... Napoli. Venezia è decaduta non già, come la
retorica vuole, per la corruzione d'una nobiltà festaiola e carnevalesca, ma
per un fatto storico ed economico incontrovertibile, perchè la vita commerciale
d'Europa ha disertato le antiche vie dell’oriente, per spaziare negli oceani,
ove le navi venete non possono andare, troppo lontane dall'infelice scalo della
città di San Marco (1 ). Torino è più francese che italiana, più sabauda che
nazionale. Firenze è il centro d’uno Stato troppo piccolo, per imporre un'idea
politica alle città vicine, ed è estenuata per il rigoglio anteriore. Milano
sola può essere il centro delle nuove fortune nostre, e vedremo poi come essa
col di sastro della Partenopea riprenda tutto il tesoro ideale del popolo
italiano per rendersene degna depositaria. Ma Milano oggi è troppo aperta
all'influenza straniera, risente troppo gli effetti d'una vita non propriamente
italiana, è troppo cosmopolita, troppo mondana. Biso gna che il rinnovamento si
inizi altrove. Milano poi com pirà l'unità spirituale dell'italianismo, sui
primi anni (1 ) M. Rosi, L'Italia Odierna, Torino, 1922, vol. I, p. 13 e sgg 9
dell'Ottocento, fondendo i due elementi propri della no stra natura: il suo
positivismo, più o meno razionalistico secondo i tempi, con
l'idealismo.concretamente storico e critico del mezzogiorno, per foggiare quel
carattere mentale del rinato popolo italiano, che rifugge così dalla metafisica
nubilosa di certe filosofie straniere come dal materialismo volgare, ritrovando
la sua sana vita in tima nel ponderato storicismo d'una filosofia dello
spirito. Napoli, posta dalla natura nel più incantevole luogo della penisola,
arrisa dal cielo e dal mare, beatificata dal sole, Napoli mite e pensierosa
impersona la nuova vita nazionale; essa, chiusa nella sua remotezza dalle
grandi vie commerciali dell'alta Italia tra Francia ed Austria, sola può
custodire il patrimonio culturale della nazione. L'Italia era senza dubbio
indietro di fronte alle grandi speculazioni, di fronte alla grande cultura
straniera. Car tesio, Grozio, Spinoza, Locke, Hobbes erano nomi re centi per la
gloria della filosofia delle altre stirpi, nomi grandi illustri, pietre miliari
nello sviluppo del pensiero moderno. Che avevano gli italiani da contrapporre?
Nulla, fuor che la loro povertà nuda ed altera. Lo spirito ita liano era chiuso
in sè stesso, ho detto, quasi disdegnoso della merce straniera, che gli si
voleva donare. E pure questa cultura, questa filosofia straniera pas sava da
noi ed acquistava diritto alla cittadinanza, spe cie a Torino e a Milano, in
quelle città più aperte ai nuovi rapporti civili. Il cartesianismo ovunque si
imponeva e con esso il classicismo francese lineare geometrico arido. L'Italia
però non filosofava. Il Muratori nella sua solitu dine di Modena cercava,
ricercava, spogliava, compilava con foga di ricostruttore, traeva dagli archivi
polverosi i resti della storia nostra, e il lavoro di paleografia e di
trascrizione diveniva poi lavoro di sceveramento, d’ana lisi, di critica. Il
nuovo italianismo rinasce con un rin novato fervore di studi storici. « Il
serio movimento scientifico » scrive Francesco De Sanctis « usciva di là dove
si era arrestato, dal seno stesso dell'erudizione. Lo studio del passato era
come una ginnastica intellet tuale, dove lo spirito ripigliava le sue forze.
Alle raccolte 10 successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d'in
vestigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale usciva naturalmente
il dubbio e la discussione. Lo spi rito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli
antichi monu menti. Già non erano più semplici eruditi: erano cri tici » (1 ).
A Modena, intanto, studiava il Tiraboschi, a Roma il Crescimbeni, a Napoli il
Gravina; altrove Raf faele Fabretti, Francesco Bianchini, Scipione Maffei e con
essi una vera pleiade di dotti « segnano già questo periodo, dove la scienza è
ancora erudizione e nella eru dizione si sviluppa la critica ». A Napoli e poi
in un remoto paese del Cilento si for mava intanto il Vico. E a Giambattista
Vico bisogna rial lacciare tutto il complesso movimento filosofico politico
meridionale, tutta la fortuna dell'italianismo, di cui lo scrittore del quale
imprendiamo lo studio, Vincenzo Cuoco, è il rappresentante maggiore. La
filosofia del Vico nasce da una parte in antitesi al cartesianismo aritme tico
e razionalista, dall'altra sopra una perfetta consape volezza, sopra un vero
fondamento di ricerca storica, nell’un caso e nell'altro come reazione al
pensiero stra niero e ritorno alle fonti nostrane. Solo l'antitesi al cartesianismo,
cioè alla filosofia im perante, avrebbe potuto portare il Vico ad affermare
l'im possibilità d'una scienza della natura, e in questa scienza era la gran
cieca fede del razionalismo, e la sicurezza d'una scienza perfetta nel mondo
umano, morale e sto rico. La conversione del vero col fatto (verum ipsum
factum), impossibile nel mondo naturale agli uomini, di vien possibile nel
mondo morale. Per conoscere una cosa occorre farla, o rifare il processo
creativo: ciò è impossi bile nell'ordine naturale a tutti, fuor che a Dio,
divien possibile nell'ordine umano, spirituale e storico, fatto dall'uomo, nel
quale l'uomo opera come Iddio. Le scienze morali, la politica, la poesia
perdono il mero carattere di probabilità e brillano di pura luce nello spi (1 )
F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed., 1917, v.
II, p. 240. 11 rito. È un nuovo principio gnoseologico, il vero è riposto nel
fatto: a questo principio si rifà tutto il nuovo sistema storico. Ma
domandiamoci: questo nuovo principio, che è il nucleo d'ogni futura filosofia
dello spirito, quest ' in versione, che è la nuova gnoseologia, era possibile
come semplice reazione ad un cartesianismo, che al Vico era pervenuto, sia
pure, come scrive il De Sanctis (1 ), in una forma antipatica e menomatrice dei
suoi studi, ma certo non in maniera del tutto opprimente e scettica? Io credo
di no o almeno credo che la rivoluzione non sa rebbe stata possibile senza
considerare un nuovo ele mento, le pure ricerche storiche, che portarono in
fine il Vico a conclusioni inattese. Il Vico, scritto il De ratione studiorum,
il De antiquis sima italorum sapientia, s ' ingolfò negli studi eruditi di
storia antica, di diritto romano, negli studi di diritto naturale, di pura
linguistica, di filologia. Dice bene quindi Benedetto Croce che, se pure il
grande napoletano non fu condotto alla filosofia, al nuovo orientamento della
sua gnoseologia, in virtù di un processo puramente filolo gico, certo lo
stimolo e la materia gli furono offerti da gli studi sopra detti, « attraverso
i quali egli ebbe a fare un'esperienza solenne; e cioè che quella materia di
studio (1) Ecco quel che scrive F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 246. « La
materia della sua cultura è sempre quella: dritto ro mano, storia romana,
antichità. La sua fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica,
conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia è l'Ente, l’Uno, Dio.
Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio, l'unum simplicissimum di Ficino. L'uomo
e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni, ecc. ecc.... ». Dentro a questa
coltura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio. La coltura non ha
valore: del passato bisogna far tavola. Datemi materia e moto, ed io farò il
mondo. Il vero te lo dà la scienza ed il senso. Cosa dive niva l'erudizione di
Vico, la fisica di Vico, la metafisica di Vico? cosa divenivano le idee divine
di Platone? e il simplicis simum di Ficino cosa diveniva? e il dritto romano,
la storia, la tradizione, la filologia, la poesia, la rettorica non era più
buona a nulla? Nella violenta contraddizione Vico sviluppo le sue forze, ecc.
». 12 non poteva essere e non era elaborata dal suo pensiero senza l'aiuto di
certi princípi necessarî, che gli si ripre sentavano in ogni parte della storia
da lui presa a medi tare. Un tempo gli era sembrato che le scienze morali,
ragguagliate al metodo matematico, occupassero, quanto a sicurezza, l'infimo
posto. Ora, nella quotidiana fami liarità con quelle scienze, gli veniva
apparendo il con trario: niente di più sicuro del fondamento delle scienze morali
» (1 ). Verum ipsum factum: « ove avvenga che chi fa le cose, esso stesso le
narri, ivi non può essere più certa l'istoria » Il nuovo pensiero italiano
s'afferma schiettamente storicista: il carattere della tradizione se guente
serba questo carattere: Cuoco, il discepolo di Vico in un'età caratterizzata da
una profonda negazione della storia, riaffermando l'italianismo, riafferma la
storia, Tutta la filosofia dell'autore della Scienza nova nasce da questa
scoperta, e questa scoperta nasce da un'affan nosa ricerca storica. La
resistenza a Cartesio, a Malebran che, al razionalismo francese sarebbe rimasta
resistenza, cioè in parte incomprensione, se il Vico non avesse potuto superare
Cartesio stesso in una nuova visione della realtà. Solo la gran vita della
storia, l'eterno farsi de' po poli, gli imperi che sorgono si mutano si
sviluppano muoiono, solo l'analisi delle istituzioni politiche, del di ritto,
delle religioni, delle lingue, delle arti ne' loro par ticolari potevano dargli
la superba certezza:... il pen siero si fa, il pensiero è in quanto diviene, in
quanto ha una sua propria dinamica. Il vero è in quanto noi lo facciamo, in
quanto lo rifacciamo pensandolo. Le scienze morali s'aprono a nuova vita. Solo
in esse v'è perfetta scienza, vera conoscenza. « Il pensiero è moto che va da
un termine all'altro, è idea che si fa, si realizza come (1 ) B. CROCE, La
filosofia di Giambattista Vico, Bari, G. Laterza, G. Vico, La scienza nuova
giusta l'edizione del 1744, a cura di F. Nicolini, Bari, Laterzam GENTILE, Dal
Genovesi al Galluppi, Napoli, Edizione della Critica, 1903, p. 34 e sgg. 13
natura, e ritorna idea, si ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò verum et
factum, vero e fatto, sono convertibili; nel fatto vive il vero; il fatto è
pensiero, è scienza; la storia è una scienza, e, come ci è una logica per il
moto delle idee, ci è anche una logica per il moto dei fatti, una storia ideale
eterna, sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni » (1 ). Ora
ritorniamo al nostro argomento. Non interessava me tanto ridire quel che sul
Vico fino ad oggi si è detto e che coglie assai bene la génesi e il valore
della spe culazione del grande napoletano, se non per dimostrare come la nuova
filosofia d'Italia, il nuovo italianismo nasca da una vera e propria esperienza
critica ed erudita. Il Vico stesso nel De antiquissima italorum sapientia es
lignuae latinae originibus eruenda aveva compiuto uno sforzo mirabile di
ricerca etimologica, che lo aveva por tato ad affermazioni di grande audacia e
nobiltà, se pure non accettabili, quale l'esistenza di una setta filosofica
italica preromana, l'esistenza d’un'antica filosofia etrusca, generatrice d’un
linguaggio filosofico, che poi trascorse in altre lingue nostre, quali il
latino, in cui si trovano singolari tracce altrimenti inspiegabili, filosofia
autoctona nostrana, antichissima, di cui Pitagora stesso sarebbe un fievole
epigono. Nella sua seconda gnoseologia il Vico rinnegherà il principio
informatore dell'opera: il linguag gio cessa d'essere in rapporto alla logica,
trova la sua spiegazione « nei principi della poesia, cessa d'avere la sua
origine nella volontà per acquistare maggiore sponta neità e naturalezza, Ma
intanto resta acquisito lo sforzo vichiano della conquista d'un vero
italianismo pre latino e preellenico, sforzo in parte rinnegato dallo stesso
autore, che trova al suo pensiero nuove vie, ma sforzo non perciò meno degno,
dal punto di vista culturale nazionalista. È una riconquista dell'italianità
nella tra (1 ) F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 248. (2) Vedi B. CROCE, La
filosofia di G. B. Vico, pag. 50 e sgg.; B. SPAVENTA, Prolusione e introduzione
alle lezioni di filosofia, Napoli, Vitale, 1862, pag. 38 A sgg. 14 dizione,
nella storia. La storia è fatta dall' uomo: la storia d'Italia dagli italiani:
trovare lo sviluppo della storia italiana significa trovare lo sviluppo di
quella volontà, di quello spirito, di quelle idee, che formano il popolo
nostro. Dai « rottami dell'antichità » nasce la storia italiana. Nel Nord della
penisola la cultura era razionaliştica e cosmopolita. I dotti parlavano
francese, non potevano sottrarsi all'influsso di Cartesio o di Locke. A Napoli
invece la cultura è storica e filosofica e particolaristica mente italiana,
sebbene pur comprensiva ed universale. Il Vico (1 ) si sottrae al pensiero
europeo, ritorna a Pita (1 ) Intendere il Vico e staccarlo in un certo senso
dallo sfondo comune delsuo secolo è necessario per colui, che voglia studiare
il secolo XVIII, in cui senza dubbio sono le origini della nuova Italia e del
nuovo pensiero. Ciò non ha saputo fare, per esempio, Gabriele Maugain, autore
di un dotto Étude sur l'évolution intel. lectuelle de l'Italie de 1657 à 1750
environ (Paris, Hachette), in cui ritorna ed insiste l'antica tesi (carducciana
tra l'altro ) d'una decadenza e di una stasi dello spirito nazionale durante un
periodo più o meno lungo. Ma, se non accettiamo questa visione parziale del
fenomeno, come poi spiegarci tutta la fio ritura del secolo XIX? Dobbiamo
crederla davvero, mancando una tradizione italica, una fioritura estrinseca,
mero riflesso della cultura rivoluzionaria francese prima e romantico -germa
nica poi? O invece il periodo anzi detto è periodo di prepara zione metodica, e
in esso sono i germi della nuova Italia? Questo viene al pensiero di chi legge
il libro accennato, in conclusione assai dotto ed interessante. Questo venne al
pen siero di Giovanni Gentile, che nella Critica recensì nel 1910 l'opera del
Maugain (recensione riveduta e ristampata in Studi vichiani, Messina,
Principato, 1915 ), e che, pur riconoscendo che nel complesso, se si eccettui
la figura titanica del Vico, questa storia è una storia di cui non abbiamo
molto a com piacerci, nota come il Maugain la renda più malinconica di quanto
non sia. A prescindere dal fatto che proprio nell'età di cui si tratta (1657-1750)
fiorisce Vico, e Vico per noi è il genio dell'Italia nuova, la tradizione
insomma a cui il succes sivo italianismo si ricollega, occorre pensare che, «
dopo la metà del secolo XVIII, dalla morte rinascerà la vita, e si preparerà
l'Italia che accoglierà la Rivoluzione, e si scuoterà tutta, e ri prenderà la
sua via in tutte le manifestazioni della vita spiri tuale, e si aprirà un varco
nella politica de grandi Stati, e ri. sorgerà come nazione ». Ora ciò sfugge
all'autore del libro. 15 gora, a Platone, ai filosofi cristiani da un lato,
dall'altro, come vedemmo, procede da sè, per una via del tutto nuova. La
Scienza nova è, come scolpì il De Sanctis, « la Divina Commedia della scienza,
la vasta sintesi, che riassume il passato e apre l'avvenire, tutta ancora in
gombra di vecchi frantumi, dominati da uno spirito nuo vo » (1 ). Essa non è
intesa per il momento, non importa ! Lo stesso Vico non si rende conto dei
formidabili svi luppi che si trarranno dai suoi studi. Ma il seme, get tato in
glebe feconde, germoglierà. Il pensiero meridio L'Italia rinasce e si rinnova,
dal cosmopolitismo antinazio nalistico nel culto d'un universale umano l'Italia
diviene na zionalistica nel culto d'un tradizionalismo più nostro, pur non
dimenticando d'esaurire il mondo morale nella filosofia del Vico, proprio nel
periodo che al Maugain sembra morte e stasi. Ben nota il Gentile a proposito (Studi
vichiani ). Non bisogna dimenticare che quella stessa che diciamo morte, è una
morte relativa; ed è anch'essa vita, perchè condizione e momento di quella che
dicesi vita: e senza intendere l'una, non è possibile giungere all'
intendimento dell'altra. Tutto sta a non cercare la vita nella morte: e non
volere una cosa nell'altra. Lastasi del periodo studiato dal Maugain non è il
progresso della creazione, ma è pure progresso, se è la pre parazione del
progresso ulteriore. Noi infatti non potremmo intendere l'Italia nuova, nutrita
dalla cultura europea compene trata con la tradizione nostra, quale la troviamo
p. e. nella poe sia del Foscolo e nell'Italia tutta del tramonto del secolo
XVIII e degli albori del seguente, [ quale la troviamo, mi permetta l '
illustre Maestro la chiosa, nel nostro Vincenzo Cuoco] se la innestassimo
immediatamente all'Italia tutta italiana, crea trice in filosofia come in arte,
maestra ancora all'Europa tutta, e vivente di una vita spirituale sua, del 500
e del primo 600. L'Italia dal 1657 al 1750 è l'Italia che accoglie il riflusso
della cultura europea, su cui ha esercitato ella prima l'azione sto rica
rinnovatrice: e in questo lavoro di riassorbimento, che dev'essere ed è anche
reazione (esempio solenne Vico), è la vita sua nuova rispetto al passato. Il
senso di questa vita nuova, se non m'inganno, non c'è nel libro del Maugain....
». Precisamente così: può darsi che chi rilegga i fogli dei vari Giornali de'
letterati vi ritrovi morte, ma chi trascorra le su date carte del Muratori e le
induzioni geniali del Vico non può che rinvenirvi la vita, e le origini grandi
della nuova patria, la fonte onde trassero la linfa vitale Cuoco e Foscolo. (1
) F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 253. 16 nale si ricollega tutto al Vico e
col Vico medita i nuovi concetti e i nuovi concreti problemi della storia e
della vita; col Vico si presenta, dopo la caduta d'una repub blica, ad
incontrare il pensiero settentrionale per ani marlo, per storicizzarlo nella
realtà dello spirito, donde nascerà la nuova cultura veramente nazionale, e non
più lombarda toscana napoletana. Così solo si possono spiegare molti atteggiamenti
della cultura di Monti e di Cesarotti, di Manzoni e di Foscolo. La tradizione
vichiana è in fine la tradizione del più puro italianismo. Da Napoli passerà a
Milano, intanto notiamo come a Napoli stessa, nel suo centro ideale, là dove il
genio di Giambattista s'era formato nell'umiltà borghese della vita d'ogni
giorno, fra amarezze familiari, fra disavventure accademiche, fra
l'incomprensione di quella che la retorica chiama alta cultura e poi non è che
la più presuntuosa saccenteria, come a Napoli stessa questa tradizione non fu
sempre dominante, nè sempre uguale, battuta in breccia dal francesismo, prima
carte siano, poi illuminista, volterriano, ecc. Comprensione vera e propria,
infine, il Vico non ebbe neppure in vita (1 ): immaginiamo, dunque, se dopo la
morte del grande au tore della Scienza nova la patria potesse intendere affatto
l'oceanico spirito del suo figliolo. « Certamente a Napoli, nel secolo
decimottavo, ci fu in molti una confusa coscienza della grandezza dell'opera
vichiana; ma in che propriamente questa grandezza con sistesse non si poteva
determinare, perchè facevano an cora difetto l'esperienza e la preparazione
adeguate » (2 ). Lo stesso discepolo ideale del Vico, colui che a, detta di
Vincenzo Cuoco, solo può condurci al maestro, solo può servirci di guida per
raggiungere i suoi voli, non fu immune da contaminazioni estrinseche: il
vichismo in Mario Pagano è mescolato al nuovo sensismo francese (3 ). (1 ) B.
CROCE, La filosofia di G. B. Vico, pp. 270 e sgg. (2 ) B. CROCE, La filosofia
di G. B. Vico, p. 286. (3 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 289. Cfr.
VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, Bari, Laterza
Nella carriera sublime della 37 potè volgersi alla compilazione d'una legge -
base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione
che ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della
repubblica napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe
Cestari (1 ), ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al
Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in
una Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e
de' suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre
autore dei Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne
pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti (2 ). di uno
scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle
operazioni del Tria, ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da
tutto il nostro lavoro, e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit., p. 34 e
sgg. e da M. ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg., i quali non hanno nulla
tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi
per conto nostro abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il
lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con
l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di vista molto
elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra sua per
incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1)
Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del Rapporto al cittadino
Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per LOMONACO, con @enni sulla vita
del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di
costituzione della repubblica napoletana del 1799 per MARIO PAGANO, LOGOTETA E
CESTARI, con note di LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M. Lombardi. (2) I Frammenti
si credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante
la rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non mi sembra facile,
che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente
vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17, li crede an ch'egli, scritti
durante il tempo della Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il
suo giudizio cronologico, e in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto
del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il Cuoco stampa il Saggio con l'ap.
pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli nel 1820 da Angelo
Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra
intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione
agli immortali ed astratti princípi. Ma prima due parole su Vincenzo Russo.
Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà:
una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in
trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto pervenire all'amico studioso
il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue ricerche,
quindi è naturale che a lui sia diretta la critica ideale della legge. Sì,
tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio Russo è il
rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il nostro fa la
requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il Cuoco detesta (1
), proprio il Russo, il socialista che crede furto la proprietà che l'amico
invece pone base della nuova società e del nuovo ordinamento civile, come
diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno un duplice valore, di
critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si stema politico
culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due sistemi, il
sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo trionfo
dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel tempo
lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era Vincenzio
Russo? (2 ). Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato con le sedicenti
note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana del '61. ROMANO, op. cit.,
p. 22 e p. 62 e sgg. crede i Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE,
La rivoluzione napoletana, p. 108. (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p.
108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo estremismo: « Certo, anche
gli amici che gli volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e
nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza
Vincenzo Cuoco, non potevano appro vare la via senza uscita per la quale egli
si era messo ». (2 ) Su V. Russo vedi B. CROCE, La rivoluzione napoletana, pp.
85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale nei secoli
XVIII e XIX, Laterza ed., Bari, 1922, p. 120 e sgg., che ci offre una buona
analisi del pensiero del 39 sieri politici, sui quali lo stesso Cuoco esprime
nel Saggio un giudizio (1 ) un po' incolore, sebbene ne tra peli una critica,
per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo, a proposito, le parole di
Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo
lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente
e da trarne i mezzi di sussistenza. Non testamenti e non atti tra vivi, e
neanche succes E sioni legittime; alla morte del possessore la quota di lui
sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di stribuzione. Gli uffici
esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò senza stipendio, altro
che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare
personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti
sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e ridotta al puro
necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di cose necessarie.
Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente
alla morale repubblicana e ai princípi dell'agricoltura. Nessuna religione,
tranne forse « un tal quale vincolo di fratellanza nel centro di una idea
sublimamente tenebrosa »; e quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città:
una serie di piccoli villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni,
non più guerre, tranne quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere
tentativi di oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi
formato, come termine ultimo, la « Società universale » (2 ). Era nel Russo,
come in molti rivoluzionari, special l'insigne martire del '99, specie nelle
sue derivazioni dal Leib nitz e dal Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo
ci of frono V. FIORINI e F. LEMMI. Il periodo napoleonico dal 1799 1 al 1815,
Milano, Vallardi, 8. d., p. 167 e sgg. (1 ) Il giudizio (Saggio, L, p. 209) è
il seguente: « La sua opera de Pensieri politici è una delle più forti che si
possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e l'avrebbe resa anche
migliore, rendendola più moderata ». In quel miglio ramento nella moderazione
sta tutto Cuoco ! (2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40
mente meridionali, un misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di
filosofia ellenica e di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo,
che univa insieme Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito,
Platone e Saint- Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera,
di rigidità catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua
opera (1 ), non vi troveremo certo il gonfio anticlé ricalismo e le diatribe di
Francesco Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto
Manzoni, ma non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti,
contraddizioni, astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di
vita e una aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto (2 ). Nella pre
fazione ai suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle
antiche repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste
legislazioni: ho consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio
di analizzare l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra di essi fondare la sua
repubblica, mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti
economici in sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un
astratto e non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per
diversità di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo
studio del Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione
sistematica, educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono
quelli della generalità, (1) La prima edizione dei Pensieri politici è
dell'anno 1798, allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu
stampata per sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano,
Roma, presso il cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica
Romana. L'opera fu ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX,
Tip. Milanese in Strada nuova, n. 561 ); e poi ancora a Napoli nel 1861 (ed. a
cura del D'Ayala ) e nel 1894 (ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De
Marinis). Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana, p. 98, p. 112.
(2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 33 civile. Aggiungiamo a
ciò quella sua ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo
detto, e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo della
sua critica. Ma la causa principale del suo atteg giamento negativo è sopra
tutto, innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui,
nutrito di studi con creti d'economia e di storia? La documentazione della
risposta sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi
del movimento sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito,
altrimenti non si spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica
scrivere i suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al
Progetto di costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio,
nella Lettera del l'autore a N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli
dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui
regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l'aver
amata la patria mentre non apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza
che io vi avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto
prevedere: ma tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto
in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era
destinato a venire, e che quivi, per non aver altro che fare, sia diventato
autore. Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per
lo meglio ! » (1 ). Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si i è svolto
senza che egli vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto.
L'affermazione è vera solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso
parte agli avvenimenti politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo
confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere
persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la
natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende
prevenire il giudizio della (1 ) V. Cuoco, Saggio storico] posterità sugli
avvenimenti, di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione,
s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par
tito, a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende
della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de quali sono
stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che
non debbo, che non posso, che non voglio ingannare » (1 ). Dunque di fatto
l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin
dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di questa, in
quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più
intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle
grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano,
in quanto non spontaneo, scaturito invece da contraccolpi internazionali, che
nessuno può evitare e dirigere; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi al
terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua
cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei
propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo,
l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti,
incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione per Vincenzo è davvero un
fatale vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre
spesso ne'suoi scritti. Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi, ne
prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi
bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad
una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare
passiva (2 ). Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più francese
che italiana; che gli uomini, che sono alla testa della cosa pubblica, sono più
(1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 16. (2 ) Oltre i brani citati cfr. Saggio
storico, VIII, p. 47; XV, p. 84; XVI, p. 90. 35 illuministi che non i pensatori
francesi, che s ' astrag gono dalla realtà e costruiscono sull'acqua, alla
ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i
bisogni concreti delle masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che
vuole essere soddisfatta con provvedimenti specifici e non con le pa role.
Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi
processi del '94 il giovine Vin cenzo ha dovuto notare l'astrattismo
repubblicano, con sacrato del resto dal sangue de' martiri, e meditarlo
aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio giudizi rudi contro i
fanciulli e gli studenti infrancio sati (1 ). Queste poche osservazioni bastano
a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi eventi del 1799, contegno
di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem peramento culturale, ad una vera
antitesi o incompati bilità d'educazione e di metodo tra il nostro e i suoi
compatrioti, non già, come qualche storico vuole (2), ad un vero e proprio
antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè essere difesa de costumi e del
pensiero italiano contro la moda straniera, non fu mai astio contro la nobile
nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli articoli del Giornale
italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire d'Italia.
Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, che
ci appaiono non l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i precedenti
solidi e sobri del Saggio storico (3 ). (1 ) M. Rosi, op. cit., v. I, p. 206 e
sgg.; B. CROCE, La rivo luzione napoletana, pp. 194-230, ove troverai
abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui primi
processi, sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. (2 ) P. HAZARD,
op. cit., 219 e sgg. (3 ) Prima di andare innanzi bisogna pur dire poche parole
intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un argomento già dibattuto e
risolto, ma su cui mette conto indugiarsi, poi che la figura del nostro dal
contrasto s'avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua nota, Vincenzo
Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite, pubblicata in Rassegna critica
della 36 Dopo che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso in due
commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana, v.
VI, (1901 ), p. 193 e sgg., getta gravi ac cuse sulla figura morale del
molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basa la sua requisitoria contro il
nostro autore, sono state alui date dal signor L.A.Trotta di Toro (Molise). «
In tutte e due le lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente
con il fratello (Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei
progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo
avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma,
anelando egli a raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi
si infastidiva, e per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva
nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in
quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa,
nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo
particu lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! », Cosi
il Tria: e tutto ciò, perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche
dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il
Tria, basandosi su alcune frasi dello scri vente, non avesse voluto gravar la
mano anche sull'uomo poli tico. Vediamo prima di tutto le frasi incriminate. In
quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo borbonico era disposto a
concedere al Cuoco il perdono, ma egli lo rifiutò. « A che ritor nerei io in
patria scrive l'esule al fratello. —- Se io fussi reo, accetterei un perdono:
ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto
esser condannato solo perchè si trovò strascinato in un vortice che egli
odiava, ma a cui era im possibile resistere; un uomo in cui l' amor della
patria, della pace, della virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer
tamente esser contento di un perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo ».
Alte sublimi parole, che non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte
e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli
annunciava l'umi liante grazia del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse
il Tria vede un indice di disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata
col nome di vortice. « Le parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di
pentimento e di ritrattazione, che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli
atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era
reso benemerito della patria; si dice un fuorviato, dimentica i compagni di
lotta, di patimenti, li rinnega », Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria,
tanto più per di mostrare come ci si discosti dal vero, quando, sedotti dalle
ap parenze ci si abbandona ad esse, senza penetrare nello spirito 45 senso che
le costituzioni siano una formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca,
che il giurista osserva senza intervenire, passivo, ma nel senso che non
possano prescindere, sia pure quando sono opera di studio perso nale e di
ricerca dotta, dalla concreta realtà della nazione. La faccenda si chiarifica.
La Volkseele dello Schelling, la coscienza giuridica popolare del Savigny
diventano, sono nel Cuoco, più concreto e positivo, i bisogni del po polo,
bisogni economici e materiali, religiosi e morali, qualcosa di più tangibile. «
I nostri filosofi, » scrive « sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è
il peggior nemico del bene. Se si volesse seguire i loro consigli, il mondo,
per far sempre meglio, finirebbe col non far nulla ». « L'ottimo non è fatto
per l'uomo.... » (1 ). Costoro, ai quali accenna il critico, sono i
rivoluzionari astratti, che credono ad un universale, che non è, e vanno tanto
alto da perdere ogni contatto col mondo. Una costituzione non può scaturire dal
cervello di un uomo, come Pallade dal cervello di Giove, armata e folgorante;
deve sorgere dopo mature riflessioni, sulla natura della nazione deve avere una
base. « Questa base deve poggiare sul carattere della nazione, deve precedere
la costituzione; e mentre con questa si determina il modo in cui una nazione
debba esercitare la sua sovra nità, vi debbono esser molte cose più sacre della
costi tuzione istessa, che il sovrano, qualunque sia, non deve poter alterare »
(2 ). Nessuno può « törre al popolo tutti i suoi costumi, tutte le sue
opinioni, tutti gli usi suoi, che io chiamerei base di una costituzione » (3 ).
Il Cuoco, se osserviamo bene la questione, distingue due momenti: una
elaborazione incosciente del popolo che crea istituti giuridici, per
consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza; una elaborazione cosciente
e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel popolo era mera pratica senza
norma. Questi due momenti si compene (1 ) Framm. I, p. 219. (2 ) Framm. III, p.
245. (3 ) Framm. III, p. 245. 46 trano e sono indispensabili. La consuetudine,
senza la legge, può divenire anarchia, dominio della volontà parti colare. La
legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è mera parola, generalità senza
significato. Siamo lon tani dallo storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny.
La base, alla quale accenniamo, è d'una grande com plessità. Il
costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere riguardo non solo
ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici, ma anche ai pregiudizi,
ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima, nè buona: è male e dolore.
Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed egoisti, eroi e birbanti. Il più
grave pericolo è che il legislatore, più filosofo che uomo politico, alla
ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte, alla ricerca dell'ottimo
dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le costituzioni debbono parlare
alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una certa solennità, quasi un ele
mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i suoi costumi, il popolo nulla
ha di più caro che le apparenze della regolarità e dell'ordine » (1 ). È un
consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi amano l'esteriorità. «
Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag giori solennità
esterne colpiscono i sensi » (2 ). Dunque, ammesso che un legislatore possa
dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le esi genze di una
nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi?.Un popolo ha dei costumi. « Non
vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale non abbia de costumi,
che convien conservare; non vi è governo quanto si voglia dispotico, il quale
non abbia molte parti convenienti ad un governo libero. Ogni popolo che oggi è
schiavo fu libero una volta.... Quanto più pesante sarà la schiavitù di un
popolo, tanto più questi avanzi degli altri tempi gli saran cari; perchè non
mai tanto, quanto tra le avversità, ci son care le memorie dei tempi felici.
Quanto più il governo che voi distruggete è stato (1 ) Framm. III, p. 246. (2)
Framm. III, p. 246. 47 barbaro, tanto più numerosi avanzi voi rinvenite di an
tichi costumi; perchè il governo, urtando troppo violen temente contro il
popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè
ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di seguirli e di abbandonare ed
obbliare gli antichi » (1 ). Nello sviluppo storico nulla si perde
completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle istituzioni loro è
trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della modernità si
possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione non è un
culto senza dèi, pro prio de' letterati e de ’ filosofi, è la vita della
nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua
continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più
vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate
della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di
altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un
legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo
conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori;
rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro,
che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo
ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non
possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo
almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi.
Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non
potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per
buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo »
(2 ). Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve
seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il
sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi (1 ) Framm. I,
p. 220 e sg. (2 ) Framm. I, p. 221. 48 che non sono nella natura, ma nella
testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita
estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non
conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo
segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali » (1 ). Vincenzo Cuoco ci si
presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per
distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo;
non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire
un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra.
Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia,
che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non
credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e
del cittadino » (2 ). Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da
sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività,
della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li
cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo
di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a
venderli, nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » (3). Ciò è possibile
solo in quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella
umana felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un
malessere economico generalizzato. Le costituzioni post-rivoluzionarie debbono
ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed
operosa. Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione,
i suoi costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse
invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco
perchè Cuoco ci dice che egli (1 ) Framm. I, p. 221. (2 ) Framm. II, p. 233. (3
) Framm. II, p. 233. 41 forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora
tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita
intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1). Queste esagerazioni
non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere italiano. Ma, come
bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G. Zito (2 ), « mentre
all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio la
misura e la calma, in seguito invece l'intrepidezza deduttiva propria del
tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e sovente le
dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio » (3 ). Ed
è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è travolto dalla
corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè stesso, e
risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura
speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile,
se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (+), è
certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente
all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è
l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far
tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine,
come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una
sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni
non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta,
e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è
una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne ' suoi
desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre (1 ) B. CROCE, La rivoluzione
napoletana, p. 87. (2 ) G. Zito, Vita cd opere di Mario Pagano, Potenza, Tip.
Garramone, 1901, passim. (3 ) M. ROMANO, op. cit., p. 61. (4 ) ROMANO, op. cit.,
p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere
senz'altro condiviso da noi. 42 giudizi. Egli non sopporterà mai una legge, che
non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua
natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni
individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se
tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di
proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui
sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa
sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il
maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far
uso della tua veste » (1 ). Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un
buono relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare
per gli uomini quali sono e quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di
er rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro
costumi, che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni,
che io credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio
che pretendesse accorciare il piede di colui cui avesse fatta corta una scarpa
» (2 ). I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono
d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire
sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto,
costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei
gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto
l'impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della
collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa
collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI, edito dal
Laterza di Bari, che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di
lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la
sigla Framm. seguita dal numero d’or dine I o II ecc., e dalla pagina
dell'edizione barese, Framm. I, p. 218. (2 ) Framm. I, p. 219. 43 sono sua
coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e
nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di
vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini,
come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è,
contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può
solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo,
d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede,
penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su
queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il
relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e
di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della
rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi,
cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in
Italia il Cuoco, in Inghilterra il Burke, le di cui Riflessioni sulla
rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno
1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814,
nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del
nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e
l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico,
tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i
Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle
porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si
ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una
coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella
filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si
ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di
vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa
è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi
44 ficazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo
pensiero del legislatore. Il diritto ha úna vita sua propria nella vita d'ogni
giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo
Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in
perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa
della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero
oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico,
che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel,
ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della
natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza
giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele
dello Schelling ), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure
il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente
accennato all'ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è
applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto,
elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di
codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che
essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il
legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come
il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più
concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il
quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare
tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad
ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare
un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i
bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base
è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sè » (1
). Ciò non nel (1 ) Framm. I, p. 218, 33 civile. Aggiungiamo a ciò quella sua
ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto, e comprende
remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo e della sua critica. Ma la
causà principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto, innanzi tutto
spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui, nutrito di studi con
creti d'economia e di storia? La documentazione della risposta sta in tutto il
Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento sovversivo,
dovesse pensarla come si espresse in seguito, altrimenti non si spiega in qual
maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi Frammenti di
lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di costituzione di
Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera del l'autore a
N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la guerra ai
francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano;
il re ritorna e dichiara delitto capitale l’aver amata la patria mentre non
apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la
minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha
fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo,
seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che
quivi, per non aver altro che fare, sia diventato autore. Tutto è concatenato
nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio ! » (1 ). Egli
dichiara che nella rivoluzione tutto si è svolto senza che egli vi abbia avuto
nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto. L'affermazione è vera solo in
quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli avvenimenti politici
del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo confermano, anche quando per
prudenza tace con il fine di non compromettere persone, che non vuol
compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la natura del suo lavoro,
studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire il giudizio
della (1 ) V. Cuoco, Saggio storico] posterità sugli avvenimenti, di cui è
stato spettatore e di cui imprende la narrazione, s'esprime diversamente. «
Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par tito, a meno che la
ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende della mia patria;
racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de'quali sono stato io stesso un
giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che non debbo, che non
posso, che non voglio ingannare » (1 ). Dunque di fatto l'autore stesso accetta
la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin dall'inizio della rivo luzione ha
la coscienza della passività di questa, in quanto è opera d'una classe colta,
che ha suoi bisogni speciali, più intellettuali che materiali, e non opera del
popolo, il vero agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità
del movimento repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito invece da
contraccolpi internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma nello
stesso tempo egli non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae, perchè
la sua educazione e in parte la sua cultura sono quelle della classe dirigente,
perchè conosce la nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e questo sovra
ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i
Borboni e i loro fa voriti, incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione
per Vincenzo è davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per
caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso ne' suoi scritti. Egli non ne
condivide le idee, ne critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per
tanto non può sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua
posizione sociale infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi
possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare passiva (2 ). Nè basta ! Egli
vede che la rivo luzione di Napoli è più francese che italiana; che gli uomini,
che sono alla testa della cosa pubblica, sono più (1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
I, p. 16. (2 ) Oltre i brani citati cfr. Saggio storico, VIII, p. 47; XV, p. 84;
XVI, p. 90. 35 illuministi che non i pensatori francesi, che s ’ astrag gono
dalla realtà e costruiscono sull’acqua, alla ricerca d'un bene che dovrebbe
provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle masse,
senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta con
provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il Cuoco nota, e doveva
aver già notato da un pezzo: fin dai primi processi del '94 il giovine Vin cenzo
ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto dal sangue
de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio
giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati (1 ). Queste
poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi
eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem
peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di
metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole (2),
ad un vero e proprio antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè essere
difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non fu mai
astio contro la nobile nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli
articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia
per l'avvenire d'Italia. Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di
lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente
nota il Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico (3 ). (1 ) M.
Rosi, op. cit., v. I, p. 206 e sgg.; B. CROCE, La rivo luzione napoletana, pp.
194-230, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a
Napoli, sui primi processi, sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. (2
) P. HAZARD, op. cit., 219 e sgg. (3) Prima di andare innanzi bisogna pur dire
poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un argomento già
dibattuto e risolto, ma su cui mette conto indugiarsi, poi che la figura del
nostro dal contrasto s’avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua nota,
Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite, pubblicata in Rassegna
critica della 36 Dopo che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso in due
commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana, v.
VI, (1901), p. 193 e sgg., getta gravi ac cuse sulla figura morale del
molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basala sua requisitoria contro il
nostro autore, sono state alui date dal signor L. A. Trotta di Toro (Molise). «
In tutte e due le lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente
con il fratello [Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei
progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo
avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma,
anelando egli a raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi
si infastidiva,e per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva
nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in
quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa,
nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo
particu, lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! ».
Cosi il Tria: e tutto ciò, perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie
economiche dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco
male, se il Tria, basandosi su alcune frasi dello scri. vente, non avesse
voluto gravar la mano anche sull’uomo poli tico. Vediamo prima di tutto le
frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo
borbonico era disposto a concedere al Cuoco il perdono, ma egli lo rifiutò. « A
che ritor nerei io in patria — scrive l’esule al fratello. - Se io fussi reo,
accetterei un perdono: ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un delitto,
un uomo che ha potuto esser condannato solo perchè si trovò strascinato in un
vortice che egli odiava, ma a cui era im possibile resistere; un uomo in cui l
' amor della patria, della pace, della virtù non sono parole, un tale uomo non
deve cer tamente esser contento di un perdono che gli lascia sempre l'apparenza
di reo ». Alte sublimi parole, che non possiamo non raffrontare con quelle non
meno alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che
gli annunciava l'umi liante grazia del sospirato ritorno in patria. Ebbene in
esse il Tria vede un indice di disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco
designata col nome di vortice. « Le parole sue» commenta, « hanno un certo
sapore di pentimento e di ritrattazione, che non gli fanno onore: ora egli
sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che pure, durante la
Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si dice un fuorviato, dimentica
i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega ». Abbiamo citato abbondevolmente
dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si discosti dal vero, quando,
sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse, senza penetrare nello spirito
37 potè volgersi alla compilazione d’una legge- base per la repubblica, e
architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione che ho sott'occhio il
seguente titolo: Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799
per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari (1 ), ed è diviso in un
Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio, opera del Pagano,
chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei diritti e doveri
dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap presentanti, a stendere la
quale fu certo maxima pars il celebre autore dei Saggi politici. Per mezzo di
Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire una copia al Cuoco. Questi
rispose coi Frammenti (2 ). di uno scrittore. Potremmo a questo punto
intraprendere una confutazione delle operazioni del Tria, ma non lo facciamo,
per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro lavoro,e perchè già fatta
da N. RUGGIERI, op. cit., p. 34 e sgg. e da M. ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg.,
i quali non hanno nulla tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa
figura del molisano. Noi perconto nostro abbiamo insistito su questo punto per
mettere in guardia il lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che, certo in
antitesi con l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di
vista molto elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra
sua per incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo
nostro. (1 ) Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del 1861,
Rapporto al cittadino Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per FRANCESCO
LOMONACO, con cenni sulla vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA
ed infine il Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per
PAGANO, LOGOTETA e CESTARI, con note di LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M.
Lombardi. (2 ) I Frammenti si credono quasi certamente anteriori al Saggio,
scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che non si riesca a
provare, il che non mi sembra facile, che siano stati scritti col Saggio o del
tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17,
li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della Partenopea: a pag. 132
della sua monografia conferma il suo giudizio cronologico, in nota dà notizie
sulla bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il
Cuoco stampa il Saggio con l'ap. pendice dei Frammenti, pubblicato la prima
volta a Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20
38 La critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua
lucida netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi. Ma prima
due parole su Vincenzio Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere
siano a lui indirizzate. Si dirà: una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco,
amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto
pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda
visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la critica
ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio
Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di
cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo
che il Cuoco detesta (1 ), proprio il Russo, il socialista che crede furto la
proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e del nuovo
ordinamento civile, come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno
un duplice valore, di critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si
stema politico culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due
sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo
trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel
tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era
Vincenzio Russo? (2 ). Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato conle
sedicenti note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana del '61. Il
ROMANO, op. cit., p. 22 e p. 62 e sgg. crede i Frammenti anteriori al Saggio.
Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108. (1 ) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo
estremismo: « Certo, anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in
grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo
compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco non potevano appro. vare la via
senza uscita per la quale egli si era messo ». (2 ) Su V. Russo vedi B. CROCE,
La rivoluzione napoletana, pp. 85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero
politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza ed., Bari, 1922, p. 120 e
sgg., che ci offre una buona analisi del pensiero del, 39 sieri politici, sui
quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio (1 ) un po ' incolore,
sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo,
a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava «
sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di
terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Non
testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes sioni legittime; alla morte
del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di
stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò
senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il
tempo di lavorare personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti
leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e
ridotta al puro necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di
cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe
ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai princípi
dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale vincolo di
fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa »; e quindi, non
classe sa cerdotale. Non grandi città: una serie di piccoli villaggi
costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne quelle
per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di oppressione. Le
nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come termine ultimo, la «
Società universale » (2 ). Era nel Russo, come in molti rivoluzionari, special
l ' insigne martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal
Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo ci of. frono V. FIORINI e F. LEMMI.
Il periodo napoleonico dal 1799 al 1815, Milano, Vallardi, s. d., p. 167 e sgg.
(1 ) Il giudizio (Saggio, L, p. 209) è il seguente: « La sua opera de Pensieri
politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una
seconda edizione, e t'avrebbe resa anchemigliore, rendendola più moderata ». In
quel miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! (2) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un misto
curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e di
razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme
Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint-
Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità
catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera (1 ),
non vi troveremo certo il gonfio anticle ricalismo e le diatribe di Francesco
Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma
non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni,
astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una
aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto (2 ). Nella pre fazione ai
suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle antiche
repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho
consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio di analizzare
l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra essi fondare la sua repubblica,
mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in
sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e
non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità
di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del
Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica,
educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della
generalità, (1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798,
allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per
sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il
cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu
ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX, Tip. Milanese in
Strada nuova, n. 561); e poi ancora a Napoli nel 1861 (ed. a cura del D’Ayala)
e nel 1894 (ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis ). Vedi a
proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana, p. 98, p. 112. (2) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 41 forse più accentuati da una dinamica
naturale d'ora tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far
dimenticare in una vita intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1
). Queste esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in
genere italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G.
Zito (2), « mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano
di proprio la misura e la calma, in seguito invece l ' intrepidezza deduttiva
propria del tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e
sovente le dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio
» (3). Ed è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è
travolto dalla corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè
stesso, e risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura
speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile,
se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (1 ), è
certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente
all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è
l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far
tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine,
come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una
sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni
non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta,
e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è
una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne' suoi
desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre (1 ) B. CROCE, La rivoluzione
napoletana, p. 87. (2 ) G. ZITO, Vita ed opere di Mario Pagano, Potenza, Tip.
Garramone, 1901, passim. (3 ) M. ROMANO, op. cit., p. 61. (4) ROMANO, op. cit.,
p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere
senz'altro condiviso da noi. 42 e giudizi. Egli non sopporterà mai una legge,
che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua
natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni
individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se
tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di
proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui
sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa
sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il
maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far
uso della tua veste » (1 ). Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un
buono relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare
per gli uomini quali sono quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er
rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi,
che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io
credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che
pretendesse accorciare il piede di colui cui avésse fatta corta una scarpa » (2
). I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono
d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire
sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto,
costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei
gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l
' impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della
collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa
collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI, edito dal
Laterza di Bari,che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di
lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la
sigla Framm. seguita dal numero d'or dine I o II ecc., e dalla pagina
dell'edizione barese. Framm. I, p. 218. (2 ) Framm. I, p. 219, 43 1 sono sua
coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e
nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di
vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini,
come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è,
contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può
solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo,
d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede,
penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su
queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il
relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e
di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della
rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi,
cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in
Italia il Cuoco, in Inghilterrà il Burke, le di cui Riflessioni sulla
rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno
1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814,
nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del
nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e
l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico,
tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i
Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle
porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si
ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una
coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella
filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si
ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di
vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa
è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi
44 ficazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo
pensiero del legislatore. Il diritto ha una vita sua propria nella vita d'ogni
giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo
Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in
perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa
della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero
oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico,
che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel,
ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della
natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza
giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele
dello Schelling), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure
il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente
accennato all’ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è
applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto,
elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di
codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che
essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il
legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come
il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più
concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il
quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare
tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad
ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare
un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i
bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base
è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sé » (1
). Ciò non nel (1 ) Framm. I, p. 218. 45 senso che le costituzioni siano una
formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva
senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure
quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà
della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la
coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più
concreto e positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali,
religiosi e morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive «
sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se
si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe
col non far nulla ». « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » (1 ). Costoro, ai
quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un
universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo.
Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal
cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni,
sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul
carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si
determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi
debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano,
qualunque sia, non deve poter alterare » (2 ). Nessuno può « tôrre al popolo
tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io
chiamerei base di una costituzione » (3 ). Il Cuoco, se osserviamo bene la
questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che
crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza;
una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel
popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene (1 ) Framm.
I, p. 219. (2 ) Framm. III, p. 245. (3 ) Framm. III, p. 245. 46 trano e sono
indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio
della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è
mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo
tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande
com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere
riguardo' non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici,
ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima,
nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed
egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più
filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte,
alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le
costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una
certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i
suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità
e dell'ordine » (1 ). È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi
amano l'esteriorità. « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag
giori solennità esterne colpiscono i sensi » (2). Dunque, ammesso che un
legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le
esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi? Un popolo ha
dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale
non abbia de' costumi, che convien conservare; non vi è governo quanto si
voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo
libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta... Quanto più
pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri
tempi gli saran cari; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son
care le memorie dei tempi felici. Quanto più il governo che voi distruggete è
stato (1 ) Framm. III, p. 246. (2) Framm. III, p. 246. 47 barbaro, tanto più
numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando
troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra
le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di
seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi (1 ). Nello sviluppo storico
nulla si perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle
istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della
modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione
non è un culto senza dèi, pro prio de letterati e de ' filosofi, è la vita
della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua
continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più
vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate
della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di
altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un
legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo
conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori;
rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro,
che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo
ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non
possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo
almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi.
Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non
potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per
buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo »
(2 ). Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve
seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il
sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi (1 ) Framm. I,
p. 220 e sg. (2) Framm. I, p. 221. 48 che non sono nella natura, ma nella testa
dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita
estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non
conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo
segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali (1 ). Vincenzo Cuoco ci si
presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per
distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo;
non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire
un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra.
Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia,
che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non
credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e
del cittadino » (2 ). Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da
sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività,
della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li
cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo
di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli,
nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » (3 ). Ciò è possibile solo in
quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana
felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere
economico generalizzato. Le costituzioni post - rivoluzionarie debbono
ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa.
Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi
costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse
invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco
perchè Cuoco ci dice che egli (1 ) Framm. I, p. 221. (2 ) Framm. II, p. 233. (3
) Framm. II, p. 233. 49 vuol ritornare all'antico, e all'antico ricollegare il
pre sente, perchè il popolo ama le antiche istituzioni, che in passato gli han
pure dato felicità; ecco perchè il Cuoco vuol riformare solo ove è male ed ove
le istituzioni antiche non rispondono più ai nuovi bisogni, ed è tra
dizionalista all'eccesso, laddove la mania novatrice cerca distruggere istituti
e norme consacrate da secoli. Questi i convincimenti del critico. Ma che cosa
in vece era avvenuto a Napoli, qual'era, com'era la costi tuzione che Mario
Pagano aveva elaborato? Ogni po polo ha una individualità ineffabile. Il popolo
napole tano, quindi, ha pur esso una sua natura specifica, che risulta da un
complesso di cose. Parliamo perciò, dice il Cuoco all'amico Russo, « della
costituzione da darsi agli oziosi lazzaroni di Napoli, ai feroci calabresi, ai
leggieri leccesi, ai spurei sanniti ed a tale altra simile genìa, che forma
nove milioni novecento novantanove mila nove cento novantanove decimilionesimi
di quella razza umana che tu vuoi tra poco rigenerare » (1 ). Cioè discendiamo
ai fatti, al concreto, vediamo se il progetto costituzionale del Pagano
risponde alla natura delle cose. Il Cuoco ri sponde risolutamente: « Per questa
razza di uomini par mi che il progetto donatoci da Pagano non sia il migliore.
Esso è migliore al certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina; ma al
pari di queste è troppo francese e troppo poco napolitano. L'edificio di Pagano
è costrutto colle materie che la costituzione francese gli dava: l'architetto è
grande, ma la materia del suo edifizio non è che creta » (2 ). Il Pagano,
nonostante il suo vichismo, è caduto nell'er rore tipico di tutti i
rivoluzionari alla francese, ha cre duto in un ottimo che non è; ha creduto
negli immortali princípi che le masse non intendono, poi che gli uomini sentono
solo i bisogni e non i princípi che parlano al l'intelletto di pochi; ha fatto
quella, che il critico mo lisano chiama una costituzione da tavolino; « e
quindi ne è avvenuto, che siesi perduta la vera cognizione delle (1 ) Framm. I,
(2) Framm.] cose e della loro importanza » E nel dispiacere del fallimento, che
al nostro appare evidente, c'è una punta d'ironia, che al lettore è facile
avvertire pur nell'amiche volezza dell'espressione: « Oh ! perdona. Non mi
ricor dava » dice il Cuoco al Russo « di scrivere a colui, che, sull'orme della
buona memoria di Condorcet, crede possi bile in un essere finito, quale è
l'uomo, una perfettibilità infinita. Scusa un ignorante avvilito tra gli antichi
errori: travaglia a renderci angioli, ed allora fonderemo la re pubblica di
Saint- Just. Per ora contentiamoci di darcene una provvisoria, la quale ci
possa rendere meno infelici per tre o quattro altri secoli, quanti almeno, a
creder mio, dovranno ancora scorrere prima di giugnere all'esecu zione del tuo
disegno » (2 ). Anche l'amico fedele Vincenzo Russo, come il grande maestro
Pagano, è un illuso, un astratto ! Ma osserviamo bene. Quest'astrattismo, che
il Cuoco rimprovera al suo Pagano, non è solo del Pagano, è di tutto un
sistema, che il nostro vivamente deplora. Primi i francesi, coloro per cui la
rivoluzione nacque spontanea esplosione di lungamente compressi bisogni, per cui
il moto repubblicano fu attivo e non passivo com'è a Na poli, caddero negli
stessi errori. « I francesi aveano fondata la loro costituzione sopra princípi
troppo astrusi, dai quali il popolo non può discendere alle cose sensibili se
non per mezzo di un sillogismo; e quando siamo a sillogismo, allora non vi è
più uniformità di opinioni e non si potrà sperare regolarità di operazioni » (3
). Di ciò il molisano dà un esempio concreto. In Francia si volle stabilire
come norma costituzionale il diritto all'insur rezione. Ma senza quelle
circostanze, che l'accompagna vano e la dirigevano in qualche paese
dell'antichità, ove simile norma era stata applicata, essa non poteva pro durre
che sedizioni e turbolenze, seguite da una reazione violenta del governo
attaccato, in barba ad ogni princi F (1 ) Framm. III, p. 241. Framm. I, p. 220.
(3 ) Framm. III, p. 247. 51 pio legale. « Per buona sorte della Francia »
commenta iro nico il nostro « questa massima fu guillottinata con Robe spierre
» (1 ). Vedete, dice, « la costituzione romana era sensibile, viva, parlante.
Un romano si avvedeva di ogni infrazione dei suoi diritti, come un inglese si
avvede delle infrazioni della Gran carta. In vece di questa, immagina per poco
che gli inglesi avessero avuto la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del
cittadino: essi allora non avreb bero avuto la bussola che loro ha servito di
guida in tutte le loro rivoluzioni. I romani eccedettero nella smania di voler
particolarizzar tutto, per cui negli ultimi tempi formarono dei loro diritti un
peso di molti cameli. Ma, mentre conosciamo i loro errori, evitiamo, anche gli
ec cessi contrari, e teniamoci quanto meno possiamo lon tani dai sensi. Se la
molteplicità dei dettagli forma un bosco troppo folto nel quale si smarrisce il
sentiero, i princípi troppo sublimi e troppo universali rassomigliano le cime
altissime, dei monti, donde più non si riconoscono gli oggetti sottoposti » (2
). Questi sono gli errori dei francesi. L'esasperazione dei princípi dovea
portare necessariamente agli errori fatali. Questa è l'idea che il Cuoco ha
della costituzione francese del 1795. Una « costituzione è buona per tutti gli
uo mini? Ebbene: ciò vuol dire che non è buona per nes suno.... » (3 ). Il
Pagano, ritorniamo a lui, s'è ingolfato negli stessi errori. Seguiamo il nostro
autore nel suo excursus e nella sua critica minuta del progetto; ma per
intendere come egli colpisca nel segno, e come i Frammenti siano una
meditazione veramente profonda, una critica sincera e non sistematica,
rileggiamo le prime righe del Rapporto al governo provvisorio, che precede la
Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell'uomo, e che è certo opera di Mario
Pagano. « Una costituzione, che assicuri la pubblica libertà, e (1 ) Framm. III,
p. 247. (2) Framm. III, (3) Framm. I, p. 219. p. 247. 52 che slanciando lo
sguardo nella incertezza de ' secoli av venire, guardi a soffocare i germi
della corruzione e del dispotismo, è l'opera la più difficile, a cui possa
aspirare l’arditezza dell'umano ingegno. I filosofi dell'antichità, che tanto
elevarono l'umana ragione, ne presentarono i principii soltanto, e le antiche
repubbliche le più celebri e sagge ne supplirono in più cose la mancanza con la
· purità de' costumi, e colla energia dell'anime, che ispirò loro una sublime
educazione. Gran passi avea già dati l'America in questa, diremo, nuova
scienza, formando le costituzioni de' suoi liberi Stati. Novellamente la Fran
cia, che ha contestato straordinario amore di libertà con prodigi di valore, ha
data fuori altresì una delle migliori costituzioni che siansi prodotte finora ».
Fin dalle prime battute si sente l'uomo geniale, ma insieme lo scolastico, che
ha bisogno di rifarsi ai prece denti generici (1 ). Il Comitato di legislazione
« ha.... adottata la costitu zione della madre repubblica francese. Egli è ben
giusto, che da quella mano istessa, da cui ha ricevuto la libertà, ricevesse
eziandio la legge, custode e conservatrice di quella. Ma riflettendo che la
diversità del carattere mo rale, le politiche circostanze, e ben anche la
fisica situa zione delle nazioni richiedono necessariamente de' cam giamenti
nelle costituzioni, propone alcune modificazioni, che ha fatte in quella della
repubblica madre, e vi rende conto altresì delle ragioni che a ciò l'hanno
determinato ». La derivazione è confessata, e con essa l'astrattismo. Senonchè
il Pagano afferma una esigenza, che in lui na poletano e vichiano, deve essere
sincera, ma che resta poi in pratica insoddisfatta: tenere conto dei bisogni pe
(1 ) L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815, in
Nuova Antologia, a. XXVI, v. XXXVI, 16 no vembre, 1-6 dicembre 1891, p. 441. Il
Palma ci offre una buona analisi della costituzione di M. Pagano in rapporto
alle altre costituzioni francesi ed italiane del tempo, nonchè un'acuta critica
di essa, critica che fondamentalmente coincide con quella cuochiana. Sulla
costituzione del Pagano vedi pure V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., Milano,
Vallardi, s. d., p. 170 e sgg. 53 ) ) culiari della nazione alla quale si
provvede; e nel resto dell'opera legislativa si rivela per quello che è, cioè
un mero teorico. Vediamo. « La più egregia cosa che ritrovasi nelle moderne co
stituzioni, è la dichiarazione de' dritti dell'uomo. L'uguaglianza non è un
diritto, ma la base di tutti i diritti, che da essa scaturiscono. «
L'uguaglianza è un rapporto, e i dritti sono facoltà. Sono le facoltà di
oprare, che la legge di natura, cioè l ' invariabile ragione e cono scenza de '
naturali rapporti, ovvero la positiva legge sociale, accorda a ciascuno ».
Sembra di leggere un trat tato di filosofia giuridica e non un rapporto di un
comi tato legislativo, che presenta un progetto di legge. « Da tal rapporto
d'uguaglianza di natura, che avvi tra gli uomini, deriva l'esistenza, e
l'uguaglianza de' dritti: es sendo gli uomini simili, e però uguali tra loro,
hanno le medesime facoltà fisiche e morali: e l'uno ha tanta ragione di valersi
delle sue naturali forze, quanto l'altro suo simile. Donde segue, che le
naturali facoltà indefi nite per natura, debbano essere prefinite per ragione,
dovendosi ciascuno di quelle valere per modo, che gli altri possano benanche
adoprar le loro. E da ciò segue eziandio, che i dritti sono uguali; poichè
negli esseri uguali, uguali debbono essere le facoltà di oprare. Ecco adunque
come dalla somiglianza ed eguaglianza della na tura scaturiscano i dritti tutti
dell'uomo, e l'uguaglianza di tai dritti ». Io qui non istò a riferire come
Mario Pagano « dall'unico e fondamentale dritto della propria conservazione »
derivi « la libertà, la facoltà di opinare, di servirsi delle sue forze
fisiche, di estrinsecare i suoi pensieri, la resistenza all'oppressione »,
modificazioni tutte del primitivo innato diritto, che l'uomo ha di na tura, il
conservarsi. Tutto il sistema si sviluppa con una logica impeccabile filosofica
e giuridica, e noi non sap piamo che ammirare la grandezza di uno spirito
geniale e deplorare la sua morte immatura e tragica. Le defini zioni paganiane
sono stupende di sintesi. Ecco la li bertà ! « La libertà è la facoltà
dell'uomo di valersi di tutte le sue forze morali e fisiche come gli piace,
colla !! 54 sola limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso ».
Tutto s ' impernia su un principio - postulato e scaturisce di lì. Dal primo
fonte di tutto il diritto deriva la pro prietà, poi che « la proprietà reale è
una emanazione e continuazione della personale ». Gli stessi diritti ci dànno i
doveri; i diritti e i doveri dei cittadini, i diritti e i doveri dei magistrati
e dei pubblici funzionari, e così di seguito. Nè mancano sani princípi
costituzionali, che occorre an che oggi meditare. V'è un vigile e vichiano
senso della dinamicità delle costituzioni, che, sebbene carte sacre di un
popolo, non per questo sono inviolabili, cioè non mo dificabili, poi che la
vita stessa e le rinnovate esigenze delle nazioni dànno origini a riforme
naturali nel loro stesso seno. « La società vien formata dalla unione delle
volontà degli uomini, che voglion vivere insieme per la vicende vole garanzia
de proprii dritti. L'unione delle forze fa la pubblica autorità, e l'unione de'
consigli forma la pubblica ragione, la quale, avvalorata dalla pubblica
autorità, diviene legge. Quindi l ' imprescrittibile dritto del popolo di mutar
l'antica costituzione, e stabilirne una nuova, più conforme agli attuali suoi
interessi, ma demo cratica sempre; quindi il dritto di ogni cittadino di es
sere garantito dalla pubblica forza, e il dovere di con tribuire alla difesa
della Patria; quindi finalmente i dritti e i doveri de'pubblici funzionarii,
che per delega zione esercitano i poteri del popolo sovrano, e per do vere sono
vittime consacrate al pubblico bene ». E dire che ancor oggi questo principio
della vita giu ridica, che è dinamicità come ogni altra manifestazione dello
spirito, non è inteso, e la riforma dello Statuto ita liano è temuta come un
terribile evento sovvertitore, mentre le leggi fondamentali sono una vuota forma
senza contenuto materiale, vuota forma premuta da esigenze nuove, e, purtroppo,
dal più sfacciato illegalismo dei partiti ! Ma, se dal Rapporto passiamo al
Progetto costituzio nale, quanto astrattismo ! Quanta artificiosità ne' sin
goli istituti, in quell'eforato, che ricorda Sparta, ma che 55 non è che il
direttorio o potere esecutivo francese; in quella distinzione tra assemblee
primarie ed assemblee elettorali espresse dal seno delle prime; in
quell'istituto censorio, che arieggia la censura di Roma, ma che in uno Stato
moderno e vasto è inconcepibile e vano ! Se guardate il Progetto di
costituzione nel suo complesso la critica del giovane Cuoco vi appare
pienamente giusti ficata e altamente vera. Essa non si limita ad appunti
d'ordine pratico, ma risale pure ai princípi, e traccia, direi, l'abbozzo d'una
nuova scienza costituzionale, che nel nome di Vico e di Machiavelli da un lato,
di Monte squieu dall'altro, vuol essere positiva senza cadere nel l'empirismo.
La sovranità del popolo si manifesta in due maniere: la legislazione e
l'elezione. Negli Stati antichi, nelle città primitive, a base democratica, il
popolo stesso era legi slatore: negli Stati moderni, che trascendono la greca
Tól.is, la romana urbs, numerosi di popolazione, vasti di territorio, il popolo
sovrano può legiferare solo per mezzo della rappresentanza. La costituzione del
Pagano adotta il sistema rappresentativo, ma lo travisa, per mezzo di
un'assurda divisione delle assemblee popolari in primarie, alle quali spetta il
compito di eleggere un certo numero di cittadini, ai quali è deferito il
compito supe riore della scelta del deputato, e in elettive, alle quali è
assegnata la vera sovranità, la nomina del rappre sentante in seno al
Consiglio. Così il prescelto è allonta nato, divenuto rappresentante della
nazione napolitana e non del dipartimento che lo nomina, dal popolo, di cui
dovrebbe sentire i bisogni e rendersene esponente. Il Pagano, in sostanza, non
accetta l'elezione con man dato. Il Cuoco vuole invece che il deputato riceva dalle
popolazioni memoriali veri e propri, utili avvertimenti, e che, durante
l'esercizio della sua carica, viva a contatto con le sue masse elettorali, e
non si perda ne' meandri d'una politica, che, per volere essere nazionale e
generale, finisce per essere astratta e generica. Tutte le deficienze del
sistema parlamentaristico, specie nelle degenerazioni de' nostri paesi, saltano
al pensiero, nelle lungimiranti 56 notazioni del nostro autore. E dire che non
era necessario che guardarsi attorno per rinvenire il sistema più adatto ai
fini, che la Commissione legislativa o il Pagano per lei si proponeva ! « La
nazione napolitana offre un me todo più semplice. Essa ha i suoi comizi, e son
quei par lamenti che hanno tutte le nostre popolazioni; avanzi di antica
sovranità, che la nostra nazione ha sempre difesi contro le usurpazioni dei
baroni e del fisco. È per me un diletto (e qui il Cuoco pensatore diviene un
pochino lirico ) ritrovarmi in taluni di questi parlamenti, e ve dervi un
popolo intero riunito discutervi i suoi interessi, difendervi i suoi diritti,
sceglier le persone cui debba affi dar le sue cose: così i pacifici abitanti
delle montagne dell'Elvezia esercitano la loro sovranità; così il più grande,
il popolo romano, sceglieva i suoi consoli e deci deva della sorte
dell'universo » (1 ). Il sistema nostro na zionale è il più spontaneo, il più
naturale, consacrato dalle glorie dei nostri comuni, enti che hanno avuto un
giorno in una storia grande indipendenza e forza, ed hanno subìto un'evoluzione
millenaria. La costituzione francese del 1795 ha distrutto tutto ciò. « I
municipi non sono eletti dal popolo, e rendono conto delle loro operazioni al
governo, cioè a colui che più facilmente può e che spesso vuole esser ingannato
» (2 ). Ma il Cuoco si spiega tutto. La storia insegna molte cose. L'ac
centramento in Francia è naturale: questa nazione non ha avuto mai
l'esperimento dei comuni, una vera e propria municipalità, poi che questo paese
ha trovato l'unità assai presto. In Italia la faccenda è assai diversa. In
Italia il comune è stato un istituto spontaneo, espres sione della rinascente
romanità contro il feudalismo fer rato, istituto che non è morto mai, e s'è
sviluppato, perpetuato, anche allorquando da ente sovrano è dive nuto ente subordinato
entro gruppi politici più vasti, come il principato o signoria e lo stato
monarchico. Il Cuoco non dice tutto ciò, ma si intravede chiaramente (1 )
Framm. II, p. 223. (2 ) Framm. II, p. 224. 57 che questo è il suo pensiero. «
Io perdono » scrive « ai fran cesi il loro sistema di municipalità: essi non ne
aveano giammai avuto, nè ne conoscevano altro migliore: forse non era nè sicuro
nè lodevole passar di un salto e senza veruna preparazione al sistema nostro.
Ma quella stessa natura, che non soffre salti, non permette neanche che si
retroceda; e, quando i nostri legislatori voglion dare a noi lo stesso sistema
della Francia, non credi tu che la nostra nazione abbia diritto a dolersi di
un'istituzione che la priva dei più antichi e più interessanti suoi di ritti !
» (1 ). Il sistema costituzionale, dunque, che ha alla sua base il comune, è il
più naturale per noi, poi che l’ente comu nale è l'espressione prima di quei
bisogni complessi che abbiamo detto essere la base imprescindibile di ordini
durevoli. In poche parole, ecco tracciate le funzioni del comune, funzioni
varie e molteplici, dirette ad assicu rare la più immediata soddisfazione de'
bisogni elemen tari primordiali di una gente ! « Ciascuna popolazione dunque,
convocata in parlamento (questo nome mi piace più di quello di assemblea: esso
è antico, è nazionale, è nobile; il popolo l'intende e l'usa: quante ragioni
per conservarlo !), eleggerà i suoi municipi. Essi avranno il potere esecutivo
delle popolazioni, saranno i principali agenti del governo, e dovranno render
conto della loro condotta al governo ed alla popolazione. La loro carica durerà
un anno. Tu vedi bene che fino a questo punto altro non farei che rinnovare al
popolo le antiche sue leggi » (2 ). Tutto trova la sua consacrazione nella
storia italiana. Affermare il comune è il primo passo. Ad esso occorre
attribuire tanto potere da assicurargli la possibi lità di vivere e di
prosperare, vale a dire occorre dargli una vera e propria autonomia amministrativa.
« La mia prima legge costituzionale sarebbe, che qualunque popo lazione della
repubblica riunita in solenne parlamento possa prendere sui suoi bisogni
particolari quelle determi (1 ) Framm. II, p. 224. (2 ) Framm. II, p. 225. 58
nazioni che crederà le migliori; e le sue determinazioni avran vigore di legge
nel suo territorio, purché non siano contrarie alle leggi generali ed agl '
interessi delle altre popolazioni » (1 ). La legge è la volontà generale. Ogni
individuo ha d'al tra parte una volontà particolare, che costituisce la sua
legge e la sua libertà. Il sorgere dello Stato afferma la legge generale, ma il
suo ingrandirsi moltiplica le vo lontà particolari, onde sempre cresce e
s'acuisce un fa tale dissidio tra le due volontà, la generale e la partico
lare, tra lo Stato e l'individuo, tra l'autorità e la libertà, tra la sovranità
e l'autonomia, dissidio che in certe cir costanze anomali può portare al
disfacimento dello Stato, tendendo l'uomo per natura ad affermare la sua indi
pendenza, lo Stato la sua universalità autarchica. La legge, quindi, nella sua
stessa génesi è destinata a cozzare contro l'individualismo umano, onde quanto
più generalizza e si astrae tanto più divien tirannica. C'è il pericolo insomma
che si venga a creare una discrepanza tra volontà pubblica e volontà privata.
Il rimedio è solo nel decentramento. « Quanto più dunque le nazioni s '
ingrandiscono, quanto più si coltivano, tanto più gli oggetti della volontà ge
nerale debbono esser ristretti, e più estesi quelli della volontà individuale.
Ma, affinchè tante volontà partico lari non diventino del tutto singolari, e lo
Stato non cada per questa via nella dissoluzione, facciamo che gli og getti
siano presi in considerazione da coloro cui maggior mente e più da vicino
interessano. Vi è maggior diffe renza tra una terra ed un'altra che tra un uomo
ed un altro uomo nella stessa terra. Se la base della libertà è che ad ogni
uomo non sia permesso di far ciò che nuoce ad un altro, perchè mai ciò non deve
esser permesso ad una popolazione? Perchè mai, se una popolazione abbia bisogno
di un ponte, di una strada, di un medico, e se tutto ciò richiegga una nuova
contribuzione da' suoi (1 ) Framm. II, p. 227. 59 cittadini, ci sarà bisogno
che ricorra all'assemblea legi 4 slativa, come prima ricorrer dovea alla Camera?
Come si può sperare che quelle popolazioni, le quali erano im pazienti del
giogo camerale, soffrano oggi il giogo di altri, i quali sotto nuovi nomi
riuniscono l'antica ignoranza de' luoghi e delle cose, l'antica oscitanza?... »
(1 ). È as sicurata così la forza dello Stato e la libertà dell'indi viduo.
L'individuo si sente più libero, se per lui opera il comune, la sua espressione
diretta, poi che il comune è a lui più vicino, è la immediata manifestazione
della sua sovranità di cittadino. Si dirà al Cuoco: ma anche la legge, la
volontà generale è tale in quanto è la risultante d'una convergenza di consensi
e di volontà particolari; che anche lo Stato opera sul fondamento del diritto,
e in questo senso è Stato di diritto, e nella forma del di ritto, in quanto
ogni suo atto è manifestazione giuridica, cioè libero volere della collettività;
ma tutto ciò non esclude e menoma la grande verità affermata dal mo lisano. La
volontà generale che s ' esprime nello Stato è lontana dai sensi del cittadino,
in quanto la sua realtà concreta è una formazione etica di volontà mediata,
ond' essa è lontana dalla possibilità d'esaurire tutta la complessa natura
della nazione; mentre la volontà che si estrinseca negli atti del comune, alla
quale il Cuoco vuol dare carattere di legge, surge spontanea dalle più intime
fibre dell'anima popolare, realizza bisogni vera mente profondi, parla infine
ai sensi e alla fantasia, di quegli elementi de' popoli, che vichianamente
possiamo considerare eterni fanciulli ed eterni primitivi. I risultati pratici
di questo sistema sono incalcolabili. « Quante buone opere pubbliche noi
avremmo, se più li bero si fosse lasciato l'esercizio delle loro volontà alle
popolazioni » (2 ). Vi sono paesi per i quali, esemplifica l'autore, un porto,
una rada è indispensabile, e che, in pochi anni, sotto la pressione di esigenze
inderogabili, avendo sufficienti libertà, lo costruirebbero: ebbene, que (1 )
Framm. II, p. 229. (2 ) Framm. II, p. 230. 60 ste stesse popolazioni oggi,
posto un freno all'iniziativa individuale, attendono dal governo quel che non
viene. Si potrebbe obiettare: ma queste affermazioni sono le affermazioni d'un
federalista ! No.... Il Cuoco stesso ha prevenuto la domanda, ed ha distinto
tra autonomia e separazione, tra Stato su base decentrata e Stato fede rativo.
L'autonomia non rinnega l'unità, anzi la conso lida, mentre la federazione per
popoli schiettamente par ticolaristi e campanilisti, com'è l'italiano, è un
primo passo verso la disgregazione. Tra il sistema accentratore alla francese,
in cui gli organi periferici ricevono tutto dalla capitale, e il sistema
federativo di Stati alla sviz zera, ove ogni gruppo gode di leggi sue proprie,
ha un parlamento suo proprio, c'è lo Stato unitario su largo decentramento
amministrativo, e a quest'ultimo sistema il nostro molisano si volge. « So
gl’inconvenienti che seco porta la federazione; ma, siccome dall'altra parte
essa ci dà infiniti vantaggi, così amerei trovar il modo di evitar quelli senza
perdere questi. Vorrei conservare al più che fosse possibile l'attività
individuale. Allora la repub blica sarà, quale esser deve, lo sviluppo di tutta
l'attività nazionale verso il massimo bene della nazione, il quale altro non è
che la somma dei beni dei privati. L'atti vità nazionale si sviluppa sopra
tutt'i punti della terra. Se tu restringi tutto al governo, farai sì che un
occhio solo, un sol braccio, da un sol punto debba fare ciò, che vedrebbero e
farebbero mille occhi e mille braccia in mille punti diversi. Quest'occhio
unico non vedrà bene, lento sarà il suo braccio; dovrà fidarsi di altri occhi e
di altre braccia, che spesso non sapranno, che spesso non vorranno nè vedere nè
agire: tutto sarà malversazione nel governo, tutto sarà languore nella nazione.
Il go verno deve tutto vedere, tutto dirigere » (1 ). Nel sistema cuochiano
l'attività privata è garantita. Il necessario conflitto tra la volontà generale
e la volontà particolare si risolve con lo stabilimento d’una naturale delimita
(1 ) Framm. II, p. 230 e sg. 61 zione di competenza. L'individuo e gli enti a
lui più vicini agiscono in pieną indipendenza: allo Stato resta la funzione,
che a lui è più propria ed è manifestazione vera della sua sovranità, la guida
e il controllo supremo. Vincenzo Cuoco, come ognun vede, nelle sue ricerche di
natura costituzionale è fisso ad una realtà storica che non può fallire, e
cerca di stabilire un edifizio incrollabile. La natura opera in questo mondo
umano e crea diversità, onde tutto ci si appalesa nella sua ineffabile
particola rità, nel mondo fisico e nel mondo morale. I governi operano su
questo mondo degli uomini, e la loro volontà è sempre generale. Le norme
giuridiche attraverso cui s'esprime questa volontà dello Stato sono quindi
fatal mente generali, hanno origine da un processo d'astrazione, riferendosi non
al singolo, ma ai singoli in quanto formano una classe, una media, un tipo. Ai
subietti per natura diversi di bisogni, di aspirazioni, di carattere sovrasta
una norma unica uguale indistinta, e però entro certi limiti tirannica. È
fatale, non può essere diversamente. Ciò non toglie che questo hiatus, che può
divenire con trasto, tra la libertà dei singoli e l'autarchia sovrana dello
Stato, cioè tra la volontà particolare e l'autorità suprema, debba, ed è
doveroso, colmarsi. Ecco: lo Stato impone dei tributi, esprime la sua volontà
in forma giu ridica, che non può non essere quindi generale; ma in tanto i
prodotti di una nazione, dai quali debbono i tributi raccogliersi, sono diversi:
una popolazione ha solo derrate, un'altra manifatture, una terza produce olio e
deve realizzare la sua ricchezza in novembre, un'altra è dedita alla pastorizia
e la ha realizzata in luglio, laddove un industriale ogni giorno produce, e
così via.... « Ben duro esattore sarebbe colui che obbligasse tutti a pa gar
nello stesso tempo, e nello stesso modo; e questa sua durezza che altro sarebbe
se non ingiustizia? Al l'incontro tu non potresti giammai immaginare una legge,
la quale abbia tante eccezioni, tante modificazioni, quanti sono gli abitatori
della tua repubblica: non ti resta a far altro se non che imporre la somma dei
tributi e farne la ripartizione sopra ciascuna popolazione, la 62 sciando in
loro balìa la scelta del modo di soddisfarla; così la volontà generale della
nazione determinerà l'im posizione, la particolare determinerà il modo: questa
non potrebbe far bene il primo, quella non potrebbe far bene il secondo » (1 ).
Tutto ciò è la necessaria conseguenza di un sistema mentale potentemente fuso e
senza una con traddizione. È naturale che l'astrattismo alla francese si faccia
sostenitore d’una unitarietà soffocatrice del par ticolare umano, poi che vede
i princípi, che sono schema tici ed astratti, e non le cose, che rinserrano in
loro l'ineffabilità dell'opera della natura, la quale non crea una foglia simile
ad un'altra foglia. È naturale all'in contro che lo storicismo vichiano di
Vincenzo Cuoco vo glia discendere alla realtà, e nella realtà dedurre e sag
giare i princípi, così come l'oro si saggia dall'orefice esperto sulla pietra,
e su questa realtà edificare il sistema. Per finire questo argomento, sul quale
mi sono assai diffuso, perchè lo ritengo interessante, noto che il Cuoco va
ancora più in là, concedendo una certa autonomia ai cantoni, un quid come i
nostri circondari, ai dipar timenti o provincie. « La costituzione francese
confonde municipalità con cantone: cosicchè ogni cantone potrà avere più
popolazioni, ma non avrà mai più di una mu nicipalità. Io distinguo due
parlamenti: uno municipale per ogni popolazione di un cantone; l'altro
cantonale per tutte le diverse popolazioni che compongono un can tone medesimo
» (2 ). Ma anzichè fermarci e analizzare la critica che il nostro fa alla
divisione cantonale, qual'è p. 231. p. 236. (1 ) Framm. II, (2 ) Framm. II, La
Costituzione del Pagano organizzava il territorio in di. ciassette
dipartimenti, che sono enumerati al tit. I, art. 3 del Progetto. L'articolo 5
al quale si riferisce il Cuoco dice: « Ciascun dipartimento è diviso in cantoni,
e ciascun cantone in comuni: i limiti de'cantoni possono ancora esser
rettificati o cambiati dal Corpo legislativo, ma in guisa che la distanza di
ogni co mune dal capoluogo del cantone non sia più di sei miglia ». Il titolo
VII, art. 173, dice: « In ogni dipartimento vi ha una amministrazione centrale,
e in ogni cantone almeno un'am ministrazione municipale ». 63 in Francia,
vediamo com'egli crede debba essere orga nizzata l'amministrazione. « Sei tu
ormai » scrive al Russo « persuaso della ragionevolezza dell'articolo, che io
vorrei fondamentale nella costituzione nostra? Tu mi conce derai anche questo
secondo: se due o tre popolazioni diverse avranno interessi comuni, potranno
provvedervi allo stesso modo; ed, ogni qual volta le loro risoluzioni saranno
uniformi, avranno forza di legge obbligatoria per tutte le popolazioni
interessate » (1 ). Ecco quindi una comunità d'interesși, che genera co munità
d'opera. Sono i bisogni che muovono gli uomini, la loro attività legislativa,
la loro vita pubblica. Occorre salire dal basso in alto, cioè dal senso all '
intelletto, dal cittadino al governo, e non viceversa. Adopero una simi
litudine, che al Cuoco certo piacerebbe. L'individuo è il senso, il governo
l'intelletto dell'organismo sociale. L'intelletto che agisce senza l'
esperimento del senso è l'astrazione. Lasciamo, dunque, all'intelletto la
direzione, ma lasciamo al senso la avvertenza dei bisogni, che solo
l'esperienza immediata può dare. Una delimitazione di competenze è la salute dello
Stato. La visione netta e precisa del problema costituzionale, che ebbe
Vincenzo Cuoco e che trascende ogni limite di tempo, poi che certe questioni
anche oggi hanno il loro peso, ci si appalesa nella posizione che assegna al can
tone. Vi sono bisogni, che pur non essendo generali, non sono più particolari,
ma riflettono esigenze comuni a due o tre comuni: occorre che i comuni che
formano il can tone li risolvano insieme. « Imperocchè, avendo ogni po
polazione alcuni interessi particolari ad alcuni altri co muni, è giusto che
talvolta prenda delle risoluzioni comuni e tal altra delle particolari » (2 ).
Tuttavia il Cuoco non mi sembra che voglia attribuire al diparti mento quella
larga autonomia che assegna al comune. Perchè? L’autore dei Frammenti non lo
dice, ma chi ha penetrato il suo pensiero intende facilmente. Il comune (1 )
Framm. II, p. 235. (2 ) Framm. II, p. 236. 64 è una formazione naturale,
consacrata dal tempo, ri spondente a bisogni concreti vigili e immediatamente
primi della società. Il dipartimento è una figura ammini strativa, che può
avere importanza entro i limiti d'una competenza ben precisa. Se al
dipartimento si dà una forza che di natura non ha, si crea un piccolo Stato
nello Stato, si perde la sua qualità di nesso d'unione tra il comune e il
potere centrale (1 ). Come ognun vede si agitano qui questioni ancor oggi vive
nella coscienza politica della nazione nostra, que stioni, che, dopo un
sessantennio di convivenza unitaria, non hanno ancora avuto una loro pratica
risoluzione e un impostamento concreto. È tipico ed interessante notare come
tutti i progetti di riforma costituzionale ed amministrativa siano partiti
dall'Italia meridionale, la quale è forse la più danneggiata dal rigido sistema
cen tralizzatore, che noi attraverso il Piemonte abbiamo ereditato dalla
Francia. Nel '60, occupando Garibaldi la Sicilia, alcuni patrioti, Crispi,
Mordini, agitarono il pro blema, fra l'incomprensione delle masse e peggio del
governo, che li tacciarono di separatismo (2 ). Il Cavour stesso, mente lucida
e serena, non intese il problema, e non condivideva i vari progetti di governi
regionali, che si presentavano da altri a lui vicini; ed era natura lissimo:
egli conosceva più l'Inghilterra e la Francia che non l'Italia meridionale e
centrale. Ma la natura si vendica degli uomini, e le crisi politiche hanno
origine dalla questione sovra detta. Vincenzo Cuoco l'ha intuito (1) Questa è
la ragione per cui l'autore (Framm. II, p. 236) scrive: « Ma le unionicantonali
non debbono occuparsi di altro che delle elezioni che la legge loro commette:
inutile, inco modo, pericoloso sarebbe incaricarle di oggetti che richiedes
sero una riunione troppo frequente. I cantoni, seguendo questi principi,
potrebbero essere un poco più grandi di quelli di Francia ». (2 ) M. Rosi,
L'Italia Odierna, v. I, t. II, p. 988 e sgg.; M. Rosi, Il risorgimento italiano
e l'azione di un patriotta co spiratore e soldato, Roma- Torino, Casa ed.
nazionale, 1906, p. 228 e sgg. 65 troppo bene, per non comprenderne il valore.
Ma, pur troppo, tra l'Italia settentrionale e l'Italia meridio nale c'è ancora
un hiatus troppo vasto, perchè le stesse idee possano germinare nel cervello
positivo de gli uomini del nord e nel cervello storicista degli uo mini del
mezzogiorno. Notiamo: l'esperienza politica delle due parti d'Italia è troppo
diversa, perchè la com prensione sia facile. Il comune nell'Italia
settentrionale fu piuttosto sinonimo di particolarismo e di fazione, mentre
nell'Italia meridionale seppe chiudersi in limiti più naturali
d'amministrazione. E ciò era necessario per un'altra considerazione. Laddove
nell'Italia alta si eb bero infiniti domíni, monarchie e repubbliche, varie suc
cessive preponderanze straniere, l'Italia centrale e meri dionale, superato il
dominio bizantino e il longobardico, che non s'estese del resto oltre Benevento
che per un tempo brevissimo — s'assettò sotto i papi e sotto i Nor manni, e chi
ricevette il dominio in eredità lo ricevette nella sua complessità, senza
infrangerlo. Quindi, mentre nell'Italia del sud non si teme l'autonomia, perchè
questa non può infrangere vincoli millenarî, nel nord si teme l'autonomia,
perchè si teme la sua degenerazione, il fe deralismo, e con il federalismo,
quella che si vuol chia mare la questione meridionale, che ai miopi della poli
tica appare questione separatista, mentre è puramente amministrativa. Errore,
che non esito a chiamare defi cienza d'educazione politica e di comprensione
storica ! L'Italia ha raggiunto l'unità non per un caso furtuito, per l'opera
di tre o quattro genî più o meno ispirati, ma per un processo graduale
spontaneo secolare di compene trazione di pensiero e di interessi. La storia
segue una trama eterna, e questa trama non s'infrange. Scombusso latela,
violatela, provatevi a romperla, essa si rifà con i tro di voi, e si
ricostituisce. L'Italia è fatta e non può disfarsi, poi che la sua unità è
opera delle cose e non dei singoli individui. Nel suo seno vi sono i vincoli
d'una unità ancor maggiore e non i germi della dissoluzione. E, se pure vi sono
germi dissolvitori, saranno altri, ma non il comunalismo, nome, che se vuol
significare fazione e campanile, è superato da un pezzo. Crisi vi furono, vi
sono e vi saranno, ma furono sono e saranno crisi ammi nistrative politiche
economiche, ma non mai nazionali. La storia, e non il genio di alcuni ispirati,
ha fatto l'Ita lia, la storia la guida nel suo travaglio e la guida sicura,
anche fra le crisi, di cui ho detto la natura, senza il bi sogno di uomini,
fatali patres patriae, che ogni cinque minuti si arrogano il diritto di
rafforzarla, d’epurarla, e, modestamente, di salvarla ! La critica, come ognun
vede, alla costituzione del Pa. gano è addirittura radicale: troppo francese e
troppo poco napoletana; per essere ottima men che buona, mediocre; come quella
francese del '95 per sancire gli immortali princípi non discende alla vita
positiva. I particolari dimostrano a sufficienza l'astrattismo della
concezione. Il paese elegge 170 rappresentanti, i quali il Pagano di vide in
due gruppi: 50 membri formano il Senato, 120 il Consiglio. Il Senato più
austero e savio approva o re spinge ciò che il Consiglio ha proposto. Il
critico però sempre fisso ad una realtà che non sfugge, l'elemento economico
nella vita dei popoli, si domanda: a qual divisione d'interessi corrisponda
questa divisione di Ca mere: « In Inghilterra ha una ragione, perchè gli uo
mini non sono eguali; ha una ragione anche in Ame rica, poichè, sebbene gli
americani avessero dichiarati tutti gli uomini eguali per diritto, pure – ed in
ciò han pensato come gli antichi (1 ) non si sono lasciati illudere dalle loro
dichiarazioni, ed han. veduto che ri mane tra gli uomini una perpetua
disuguaglianza di fatto, la quale, se non deve influir nell'esecuzione della
legge, influisce però irreparabilmente nella formazione della medesima. Gli
americani han ricercata nelle ric chezze quella differenza che gl'inglesi
ricercan nel grado. (1 ) E noi possiamoaggiungere come.... Cuoco stesso. Il
Cuoco non è davvero per il suffragio universale, nè per una limita. zione
plutocratica, come gli americani, o per una limitazione di classe come gli
inglesi, ma per una limitazione di educa. zione politica, e lo proveremo
appresso. 67 La costituzione francese ha adottato inutilmente lo sta bilimento
americano » (1 ). In sostanza, non essendovi nes suna diversità di bisogni tra
le due Camere, che rappre sentano la stessa borghesia che le esprime, essendo
uguale nell'una e nell'altra la possibilità della corruzione, la distinzione
non ha una ragione pratica. È un altro esempio della concretezza del pensiero
politico del no stro scrittore. La nazione napoletana, mentre per il potere
legisla tivo, offre, come abbiam detto una sua tradizione pae sana, alla quale
il giurista può rifarsi, non offre pari menti una forma indigena di potere
esecutivo potere è pure il più indocile e il più difficile ad organiz zare.
Difficoltà questa più grave oggi, in cui le costitu zioni si creano a tavolino
nel pieno oblìo degli uomini. « Forse non siamo stati mai tanto lontani dalla
vera scienza della legislazione quanto lo siamo adesso, che crediamo di averne
conosciuti i princípi più sublimi » (2 ). Non esiste una costituzione giusta,
una costituzione ottima, esistono costituzioni che più o meno rispondono ai
bisogni di un popolo. Un popolo rozzo avrà una costi tuzione rudimentale, la
quale gli sarà più utile della costituzione del Pagano. Un popolo culto avrà
una costi tuzione sublime, e sol questa potrà essergli utile. Perchè parlare
quindi in via assoluta? È questo un vero e pro prio bisogno di ciò che tocca i
sensi, il trionfo dello sto ricismo. La costituzione è di per sè una mera
forma, che è vuota, se tu non le dài un contenuto di sensibilità umana, un
contenuto essenzialmente storico, cioè dina mico. Portate il diritto a contatto
con la vita, e la vita vi darà la direttiva, il metodo, i princípi (3 ). Voi
andate (1 ) Framm. II, p. 237. (2 ) Framm. III, p. 241. (3) Nel Platone in
Italia (a cura di F. Nicolini, Laterza, ed., 1916, v. I, p. 45) il Cuoco scrive:
«.... In Taranto si disputa tutt' i giorni sulla miglior forma di governo; e
taluno difende gli ordini popolari, altri si lagna che quelli, che si hanno,
non sieno abbastanza oligarchici.... Tornate ai vostri affari -- ho detto io a
molti di questi tali; 68 ricercando una norma, che delimiti il potere esecutivo
dal potere legislativo, che ponga un freno all'arbitrio e tenga il governo
entro la legge: è come cercare l'astratto ! Sono elementi questi di una
costituzione che solo una pratica civile può darvi. Stabilite un principio
desumen dolo dalla costituzione inglese, non è detto che possiate farlo valere
da noi. L'Inghilterra ha fissato per prima questa divisione dei poteri, ed è
stata in ciò scrupolosa; così la Francia, la Svizzera. « Ma questa divisione di
forze dipende dalle circostanze politiche di una nazione; e bene spesso lo
stato delle cose ed il corso degli avveni menti vincono la prudenza dell'uomo:
cosicchè, volendo troppo dividere la forza armata, si corre rischio d’in
debolirla soverchio, e sacrificare così alla libertà della co stituzione
l'indipendenza della nazione » (1 ). È facile ve dere ciò in concreto. Ogni
nazione ha bisogno della forza per la sua difesa, e questo bisogno è vario,
secondo molte circostanze etnologiche, storiche, geografiche, ecc. In
Inghilterra, per esempio, la Carta costituzionale è animata da un sentimento
d’estrema diffidenza verso l'elemento militare, nel timore che questo si faccia
stru mento del governo per opprimere le libertà, onde il so vrano stesso non
può disporre della forza armata, ed è necessario un atto parlamentare ogni anno
per mante nere un esercito. Questi princípi hanno origine nelle lotte tra
monarchia e popolo, e trovarono la loro risolu zione pratica nella
Dichiarazione dei diritti (anno 1689 ), nel definitivo abbattimento degli
Stuart e nell'ascesa al fate in modo di star meglio nelle vostre famiglie, e
starete anche meglio nelle città. Se voi vi volete occupar sempre degli affari
pubblici, senza curar i vostri interessi privati, rassomi. glierete quei
viaggiatori, i quali, per la curiosità di osservar gli edifizi pubblici nella
città in cui arrivano, trascurano di tro varsi un albergo, e poi si dolgono che
in quella città si alberga male. Se volete esser cittadini felici, diventate
prima uomini virtuosi. « I vostri maggiori eran liberi perchè forti e virtuosi.
» (1 ) Framm. III, p. 243. 69 trono degli Orange. Ma il problema così com'è
stato risoluto in Inghilterra, non può essere risoluto altrove: il bisogno che
Albione ha d'un esercito è minimo, poi che la natura stessa, il mare difende le
sue coste dalle aggressioni straniere. Il potere esecutivo può perciò benissimo
essere menomato nelle sue manifestazioni mi litaresche, mentre non potrebbe essere
menomato, senza che la nazione venga indebolita, qualora dovesse ab bandonare
la sua autorità sull'armata, sulla flotta, unico e grande presidio dell'isola.
È possibile tutto ciò in Francia? Evidentemente no. A Napoli? Neppure. Da noi
diminuire il potere esecutivo, togliendogli l'alta di rezione dell'esercito,
significherebbe porre il paese in braccio allo straniero. D'altra parte quello
stesso po tere esecutivo, che non ha energia sufficiente per difen dere le
frontiere, ne avrà sempre tanta da opprimere un collegio elettorale, per fargli
subire la sua volontà estrinseca. Gli antichi, nota il Cuoco, « invece
d'indebolire i po teri,... li rendevano più energici, e così, essendo tutti
egualmente energici, venivano a bilanciarsi a vicenda » (1 ). Oggi i
legislatori invece mirano più alle apparenze, per seguono una delimitazione di
forze e di competenze, che non ha ragione di essere, ed ignorano il vero
equilibrio delle cose. La ripartizione delle forze consiste in un'ar monia di
opinioni, è la risultante d’un lungo processo storico di educazione politica. «
I costumi de' maggiori, il. rispetto per la religione, i pregiudizi istessi dei
popoli servon talora a frenare i capricci dei più terribili despoti, anche
quando al potere esecutivo sia riunito il legisla tivo.... » (2 ). È la natura
che mette un limite all'arbi trio nella stessa educazione, nello stesso senso
civile del popolo. Una nazione ha, in sostanza, il regime che si merita. A
volte gli stessi tiranni sono fatali. Quando per soverchio amore di ordine, di
regolarità una repub blica, poniamo, vuol togliere alle popolazioni usi, co (1
) Framm. III, p. 244. (2 ) Framm. III, p. 244. 70 stumi, religione, per
uniformarle ad una prassi desunta da princípi, il déspota può darsi che sia
accolto come un liberatore. Il concretismo storico del Cuoco qui raggiunge le
sue vette più alte. L'autore stesso dei Frammenti, dopo pochi anni, dovette a
lungo meditare su queste stesse analisi, veggendo come i fatti avessero
confermato le sue induzioni con l'avvento di Napoleone al duplice trono di
Francia e d'Italia, tra il plauso delle popola zioni stanche di regolarismo
repubblicano. « È pericoloso estendere soverchio l'impero delle stesse leggi,
perchè allora esse rimangono senza difesa. Le leggi da per loro stesse son mute:
la difesa la dovrebbe fare il popolo; ma il popolo non intende le leggi, e solo
di fende le sue opinioni ed i costumi suoi. Questo è il peri colo che io temo,
quando veggo costituzioni troppo filo sofiche, e perciò senza base, perchè
troppo lontane dai sensi e dai costumi del popolo » (1 ). Il popolo ha sue
esigenze d'ordine e di regolarità, in dipendentemente dall'ordine e dalla
regolarità che gli si vuole imporre estrinsecamente, e da queste esigenze na
scono spontanei contrappesi costituzionali, limiti al l'esercizio de' poteri.
Vuoi che egli resti attaccato alla legge, e se ne faccia quasi il tutore? Devi
sfruttare la sua natura, pure i pregiudizi. Vuole solennità? Dà alle leggi
solennità quasi jeratica. La costituzione gli sem brerà cosa sacra, la
rispetterà e la farà rispettare. L'uomo, però, è sopra tutto interessi,
plasmato com'è da bisogni materiali. Su una base economica e materiale riposa
in parte la sua natura. Dividete i poteri esterior mente, non avrete fatto
nulla: il più forte invaderà il campo del più debole, ne nasceranno crisi,
conflitti, pre dominii. Per frenare la forza non vi può essere che un solo
mezzo: dividere gli interessi. Da una disarmonia d'interessi nasce l'armonia
degli ordini civili, poi che ciascuno difenderà il proprio interesse e sarà
impedito a (1 ) Framm. III, p. 246. 71 sua volta di violare l'interesse altrui.
« Fate che il potere di uno non si possa estendere senza offendere il potere di
un altro; non fate che tutt'i poteri si ottenghino e si conservino nello stesso
modo; talune magistrature perpe tue, talune elezioni a sorte, talune promozioni
fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben condotto in una carica, sia
sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno del favor di nessuno; tutte
queste varietà, lungi dal distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo so
stegno, perchè così tutti i possidenti, e coloro che sperano, temono un
rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro interessi » (1 ).
Questa la vera sapienza costitu zionale: il resto è pregiudizio ed empirismo.
Si è pensato a diminuire la forza del governo, aumentando il numero delle
persone a cui è affidato. Il numero impedisce, sì, l'usurpazione, ma porta seco
la debolezza. I romani avevano il Senato, ma operavano per mezzo de' due
consoli, o meglio per mezzo del dittatore. « L'unità im pedisce la debolezza,
che porta seco la dissoluzione e la morte politica della nazione ».
Quest'affermazione unitaria del Cuoco avrà, come dimostremo, grande im portanza
per la successiva evoluzione del suo pensiero, e sarà la base della
legittimazione politica dell'impero napoleonico. Un altro punto
interessantissimo è questo. Le costitu zioni sono istituti sociali, umani, e
però vivi di vita pro pria. Il giudizio sul loro valore è lento, graduale, si
può avere solo dopo lungo tempo, sulla base degli effetti pro dotti e non in
base a princípi di ragione. Occorre cono scere i popoli, e vedere se esse
costituzioni rispondono alla loro vita, alla loro natura: solo il tempo può
darci un giudizio definitivo. Quindi nessuno può dirci se la monar chia o la
repubblica sia buona o cattiva. « Un re eredita rio», dice Mably, parlando
della costituzione della Svezia, « quando non ad altro, serve a togliere agli
altri l'ambizione (1 ) Framm. III, p. 247. (2) Framm. III, p. 249. 72 di
esserlo; ed io credo la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica
degli ordini liberi » (1 ). In piena rivoluzione il Cuoco afferma che non è
detto che la repub blica estremista e radicale sia la panacea di tutti i mali,
e che vi possano essere sistemi più rispondenti alla realtà nazionale, che
garantiscono meglio l'unità del reggimento politico e la libertà stessa, senza
cadere nella debolezza, che di solito interviene allorquando il potere supremo
per essere nelle mani d'un direttorio di più persone nelle mani di nessuno. Già
spuntano nell'autore dei Frammenti idee, che germineranno e che renderanno
sempre più coerenti i suoi princípi, espressioni profonde di convincimenti
sinceri e di meditazioni severe, non opportunismi servili, come ha voluto
dimostrare qual che critico che del pensiero del grande molisano ha ca pito ben
poco. Il popolo è quello che è, con le sue virtù e con i suoi vizi. Il
legislatore non deve che osservare, e dar leggi conformi alle condizioni reali
dei subietti, sfruttando vizi e virtù, tutto disimpegnando, tutto cercando d'ar
monizzare positivamente. Nel Progetto del Pagano c'è un primo istituto, la
censura, che rivive ed arieggia la censura latina; c' è un secondo ufficio,
l'eforato, che ri corda un nome spartano anche nella sostanza, avendo il fine
di tenere i poteri pubblici nel proprio cerchio, non partecipando ad alcuno di
essi. Il Cuoco loda quest'ultima magistratura, ma non nasconde la grave verità:
non vi può essere forza estrinseca, fuor dalle cose stesse, che mantenga
l'equilibrio ! In quanto alla censura siamo sem pre allo stesso punto: molta
nobiltà di sentimenti, poca concretezza. Come provare che un cittadino viva ari
stocraticamente, agisca con alterigia, « sia prodigo, avaro, intemperante,
imprudente...? ». Se la nazione è corrotta, se gli strati sociali sono corrosi,
la censura non potrà fare nulla di nulla. « Libertà ! virtù ! ecco quale deve
esser la meta di ogni legislatore; ecco ciò che forma tutta (1 ) Framm. III, p.
250. 73 la felicità dei popoli. Ma, come per giugnere alla libertà, così la
natura ha segnata, per giugnere alla virtù, una via inalterabile: quella che
noi vogliam seguire non è la via della natura » (1 ). La virtù, anch'essa, non
è un assoluto, quindi non esiste un termine a cui ricondurre le norme della
vita. Lo stesso entusiasmo per la virtù può produrre in un paese disgregamenti,
e per essere troppo spartani o romani si può cessare d'essere napoletani o
milanesi. La notazione è sottile e vera, in un tempo in cui ogni buon
repubblicano era un Bruto, uno Scevola o che so io in quarantottesimo, pronto a
recitare la sua parte tragica d'eroe e di tirannicida. « La virtù è una di
quelle idee, » scrive il Cuoco, « non mai ben definite, che si presentano al
nostro intelletto sotto vari aspetti; è un nome capace di infiniti significati.
Vi è la virtù dell'uomo, quella delle nazioni, quella del cittadino: si può
considerar la virtù per i suoi princípi, si può considerare per i suoi effetti
» (2 ). Può darsi che esi sta un'assoluta virtù, ma questo concetto non può che
riflettere la filosofia morale. Il legislatore deve mirare a ben altro fine che
ad una virtù superumana sublime, deve mirare a stabilizzare un costume « che
non renda infelice il cittadino », deve cioè trovare quell'armonica delimitazione
tra libertà e libertà, tra volontà partico lare e volontà particolare, che sola
può rendere pacifica l'umana convivenza. « Il fine della virtù è la felicità, e
la felicità è la soddi sfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desideri
e le forze » (3 ). Il nostro autore è un politico. A lui non in teressa
l'universale etico, che riconosce e legittima nella sua sfera ideale ed eterna;
a lui interessa la morale po sitiva, che altro non è che la conformità del
costume del (1 ) Framm. VI, p. 261. La critica cuochiana coincide affatto con
quella che un valente costituzionalista moderno ha fatto dei due istituti del
Pagano, l'eforato e la censura: vedi L. PALMA, op. cit., p. 442 e sgg. (2 )
Framm. VI, p. 261. (3 ) Framm. VI, p. 262. 74 singolo cittadino col costume
della nazione (1 ). Il diritto ci appare, quindi, come un minimo etico, che
assicura una certa non esagerata regolarità ed uniformità di vivere civile.
D'altra parte il Cuoco riconosce che, se il diritto deve limitarsi ad osservare
dati di fatto e a porre norme alla convivenza, stabilendo una pura e semplice
hominis (1) Il concetto che una costituzione politica può assicurare la
felicità umana solo in quanto ha un fondamento sulla virtù politica; e, questa
alla sua volta rafferma, appare assai fre quente nel Platone in Italia. Arehita
(v: I, p. 87) dice: « Ciò, che veramente è necessario in una città; è che
ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad
ottener l'uno e l'altro, sono necessari egualmente la scienza e la
subordinazione... -- Non perdete la stima del popolo, diceva Pittagora, se
volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può
conoscer le dottrine, ma giudica se. verissimamente i maestri, e li giudica da
quelle cose che sem. brano spesso frivole, ma che son quelle sole che il popolo
vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si · tratta d'istruirlo,
tutt' i diritti sono suoi: tutt' i doveri son nostri, e nostre tutte le
colpe.... Tutte quelle dottrine destinate a pro durre riforme popolari hanno
bisogno di collegi, d'iniziazione, di segreto. Tutt' i popoli hanno avuto di
simili collegi. Sono i primi passi che ogni popolo fa verso migliori ordini
civili. I vo. stri misteri di Eleusi e quelli di Samotracia hanno la stessa
origine: ma nè sul principio sonosi occupati de' nostri oggetti, perchè nati in
età più barbara; nè oggi possono esser più utili, perchè resi troppo comuni.
Come pretendete che gl'iniziati emen dino il costume di Atene, se voi ateniesi
siete tutti iniziati?... ). « Non son questi, o Archita ), disse allora
Platone, « i soli mali che jo temo per tali collegi. Essi talora possono
separarsi dal resto degli uomini, e perdersi o dietro astruse inutili
contemplazioni, o dietro l'ozio e gli agi che il rispetto del popolo loro dona.
Questo male io temo ogni volta che si separano le instituzioni morali dalle
civili. Del resto la morale di Pittagora è nell'in trinseca natura dell'uomo.
Essa rinascerà, non ne dubito, sotto altri nomi ed in altre terre. Rinascerà,
quando la corruzione dei costumi e degli ordini civili e la miseria generale
avrà ridotti gli animi all'estremo de' mali. L'estrema corruzione nei costumi
de' popoli produrrà l ' estrema austerità ne' precetti de' pochi saggi che
allora vi saranno; l'estremo de' mali produrrà l'estre. mo del coraggio, della
temperanza, della virtù, e risorgeranno sotto altri nomi la sapienza ed i
collegi di Pittagora. Possan non separarsi mai dalle leggi e dalla società !
Possano non riunirsi mai con - vincoli troppo tenaci !... ». 75 ad hominem
proportio, la politica deve andare più in là, assicurare una felicità presente,
dalla quale sola può scaturire la virtù, ed inoltre aiutare lo sviluppo della
felicità, creare la felicità futura e di conseguenza la virtù futura. La sferà
del politico, pur non attingendo il sü blime vertice dell'indagine etica che
non può vigere che nel mondo teoretico, la sfera del politico, sfera del tutto
pratica, anzi economica, trascende, com'ognun vede, la pura determinazione
giuridica: La vita umana è una ë complessa nello stesso tempo, perchè uno e
complesso è lo spirito: La felicità politica, e quindi la virtù pub blica, ci
appaiono come una formazione vastissima, ri: sultando da elementi molteplici,
d'indole spirituale, reli giosa, materiale. Un elemento però è sovra gli altri
im portante, l'economico, pur che lo si sappia intendere in sepso lato. « Il
fine della virtù è la felicità » (1 ). Per un politico l'affermazione non suona
male, specie dopo the egli stesso ha ammesso la possibilità d'un'altra ricerca
superiore, i cui termini sono di natura teoretica, che po trà influire sulla
ricerca positiva, essendovi innegabili vincoli di reciprocanza, ma che non si
connatura con questå. « La felicità è la soddisfazione dei bisogni ossia
l'equilibrio tra i desideri e le forze ». Sottentra l'elemento economico. « Ma,
siccome queste due quantità sono sem pre variabili, così si può andare alla
felicità, cioè si può ottener l'equilibrio oscemando i desideri o accrescendo
le forze » (2 ). Il selvaggio cura poco il suo simile: la sua economia è, entro
certi limiti, economia individuale iso lata, L'uomo civile non può prescindere
dal resto del mondo: la sua economia è solo per astrazione individuale,
concretamente è economia collettiva sociale. I bisogni di quest'uomo sono
bisogni dinamici e progressivi. Il con cetto della società ha implicito il
concetto della progres sività, poi che è impossibile pensare una società umana
statica, senza condannarla ad una prossima morte. I bi sogni umani sono in
continuo sviluppo: il lusso, quel che (1 ) Framm. VI, p. 262. (2 ) Framm. VI,
p. 262, 76 chiamiamo lusso, è la manifestazione di bisogni nuovi, null’affatto
superflui, poi che sono la cagione d'ogni umano progresso. Sorgono nuovi
bisogni, ma con essi nasce spesso un disquilibrio, l'infelicità, poi che non
sempre le forze bastano a produrre i beni necessari per soddisfare i nuovi
bisogni. Che vale predicare gli antichi precetti di moderatezza, fulminare le
nuove esigenze so ciali, la ricchezza? La storia corre incessantemente il suo
corso ideale. Nuove età: nuovi bisogni: disquilibrio di forze produttive: poi,
di nuovo, equilibrio per una reintegrata armonia tra forze economiche e
bisogni: infine ancora un secondo disquilibrio per esigenze sottentrate
nell'ambiente, e così in eterno. La dinamica economica è un avvicendarsi
continuo d'equilibri successivi, d'equi libri turbati che si compongono in un
nuovo punto. L'intuizione cuochiana è lucida ed anticipa di molto alcune vedute
economiche moderne. Il fine della politica è assicurare quest'equilibrio tra
forze e bisogni, tra forze e desideri, come dice il Cuoco. « Se tu ci
insegnerai», scrive « la maniera di soddisfare i nostri bisogni, se farai
crescer le nostre forze, c' ispirerai l'amore del lavoro, schiuderai i tesori
che un suolo fertile chiude nel suo seno, ci esenterai dai vettigali che oggi
paghiamo per le inutili bagattelle dello straniero, ci renderai grandi e
felici: e, senza esser nè spartani nè romani, potremo pure esser virtuosi al
pari di loro, perchè al pari di loro avremo le forze eguali ai desidèri nostri
» (1 ). Le ricerche del Cuoco sono le ricerche dell'uomo politico. Il molisano
è troppo superiore per credere che la sua analisi esaurisca ogni altro problema:
egli stesso dice al Russo: « Ti dirò un'altra volta le mie idee sullo studio
della morale, sulle cagioni per le quali è stato tanto trascurato presso di
noi, sulle cagioni delle contraddizioni che ancora vi sono tra precetti e
precetti, tra i libri e gli uomini; e forse allora converrai meco che di questa
scienza, che tanto interessa l'umanità, non ancora si conoscono quei prin (1 )
Framm. VI, p. 262 77 cípi che potrebbero renderla utile e vera » (1 ). A me
sembra di vedere una netta distinzione tra filosofia e politica, tra etica e
pedagogia generale: quel che in una sfera ha un suo profondo valore è
insufficiente nell'altra. « L'amor del lavoro mi pare che debba essere l'unico
fondamento di quella virtù, che sola può avere il secol nostro. La cura del
governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e
quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono;,e ne verrà à capo,
se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto
di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene » (2). Il governo deve dare
un vero e proprio impulso alla produzione: le forze giovani anzi che dirigersi
agli impieghi pubblici debbono svilup parsi altrove, alle industrie, ai
commerci, e sovra tutto alla campagna. « Il lavoro ci darà le arti che ci
mancano, ci renderà indipendenti da quelle nazioni dalle quali oggi dipendiamo;
e così, accrescendo l'uso delle cose nostre, ne accrescerà anche la stima, e
colla stima delle cose nostre si risveglierà l'amor della nostra patria » (3 ).
È una vera pedagogia politica in cui i princípi vivono al contatto con la
realtà, in un sano relativismo, che, non scendendo alla bassezza
dell’empirismo, respinge da se ogni astruseria. Oggi specialmente, in cui la
filosofia po litica è di moda e si riconduce pure la pratica più volgare agli
eterni princípi; questo nobile realismo ideale, sia permessa la parola,
dovrebbe insegnarci più d'una cosa. La rivoluzione pretende di rinnegare la
storia, s'af ferma come antistorica; ma di fronte ad essa, per un processo, che
non è solo di reazione, ma di sviluppo - da Vico a Cuoco è lo stesso genio
italico lo storicismo rinasce, critica della stessa rivoluzione e entro certi
limiti sua rivalutazione. Il Cuoco non rinnega la rivoluzione, anzi mostra di
conoscerne i benefíci, che poi enumererà con lucida visione nel Saggio e
soprattutto ne' suoi articoli (1 ) Framm. VI, p. 261. (2 ) Framm. VI, p. 263. (3
) Framm. VI, p. 263. 78 milanesi. Ma l'astrattismo in materia legislativa è
dele terio, ed occorre superarlo, riconducendo il diritto alla vita. Sentimento
profondo, che il nostro non tradirà mai, e sarà sempre alla cima del suo
pensiero nel lungo corso, che noi ci sforzeremo di seguire. La critica del
progetto di Pagano ci appare, quindi, come la manifesta zione d'un sistema, che
nel molisano è organico ed in tero, non l'opposizione piccina d'un
antirepubblicano. Nè Vincenzo Cuoco si smentì mai. Le notazioni che egli volge
alla costituzione partenopea, rivolgerà più tardi nel Saggio alla costituzione
francese, che a lui sembra troppo poco adeguata ai bisogni del popolo. « Chi
para gona la Dichiarazione de ' diritti dell ' uomo fatta in America a quella
fatta in Francia, troverà che la prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare
alla ragione: la francese è la formula algebraica dell'americana » (1 ). Ma
quanto queste idee fossero in lui radicate e profonde, possiamo ancora meglio
dimostrare. Nel Giornale italiano, ricevuto l'annunzio che la patria di Alcinoo
e di Ulisse ha riacqui stato l'indipendenza, costituendo la così detta Repub
blica settinsulare, scrive alcune sue opinioni che è op portuno rivedere. « È
difficilissimo giudicar di una costi tuzione. La migliore non è sempre quella
che per astratti argomenti si dimostra ottima, ma bensì quella che è più
uniforme al costume de' popoli: a quel costume che esi ste sempre prima della
costituzione; e, se è simile, la rende vicina e durevole; se diverso, la
indebolisce e la distrugge.... ». Qual'è dunque il principio che solo può
sanzionare la bontà d'una costituzione? Noi lo sappiamo: il tempo, il quale ci
confermerà se essa risponde a bisogni concreti; la storia, la quale ci dirà se
essa si riconnette allo sviluppo della nazione, sviluppo o corso, al quale
occorre necessariamente rifarsi, come ad incrollabile base, poi che il processo
della vita non soffre soluzioni di con (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p.
39. 79 tinuità. « La storia de' tempi passati », ci ammonisce il Cuoco, è la
norma di quelli che ancora debbono ve nire » (1 ). (1 ) L'articolo è intitolato
La costituzione della repubblica set tinsulare; Giornale italiano, 1804, 15
febbraio, n. 20, pp. 78-79. Nelle pagine seguenti del mio lavoro avrò frequente
bisogno di rifarmi al Giorn. ital., in cui c'è il meglio dell'ingegno po litico
del Cuoco, e citerò largamente disul testo. Siccome, peraltro, molti dei più
significativi articoli del foglio milanese sono stati ristampati in appendice
alle opere critiche del Ro MANO e del Cogo, se è del caso, darò tra parentesi,
dopo le indicazioni dirette del Giorn. ital., le indicazioni delle ristampe.
Altri cinque articoli cuochiani sono stati ripubblicati da G. Gen tile insieme
col Rapporto al re Murat e Progetto di decreto per l'ordinamento della Pubbl.
Istruzione nel Regno di Napoli col titolo di Scritti pedagogici inediti o rari
(Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909). Allorquando poi il mio lavoro era
già compiuto sono usciti alla luce due altri volumi contenenti quanto di V.
Cuoco rimaneva disperso: Scritti vari a cura di N. CORTESE E di F. NICOLINI,
Bari, Laterza ed., 1924. Forse sarebbe stata op portuna una ristampa di tutti
gli scritti del Giorn. ital., ma gli egregi editori non hanno creduto di farla,
limitandosi a ripro durre per intero ben ventisette articoli, e sono i
maggiori, e a dare, a mo' di appendice, un catalogo ragionato degli altri ri.
masti fuori. S'intende che io ho rivisto le mie citazioni sull'edi. zione
laterziana, che, dal punto di vista della correttezza, offre i maggiori
affidamenti. Il « Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana ». Il Saggio storico mostra in atto il sistema negativo
ab bozzato nei Frammenti. – Lo storico e l'artista. – La. Rivoluzione francese
è attiva, quella napoletana pas siva. L'astrattismo. - La corte e il governo. –
I re pubblicani e il popolo. - L'arte del Saggio. I Frammenti di lettere
dirette a Vincenzio Russo ideal mente vanno innanzi al Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana, sebbene tipograficamente in tutte le edizioni cuochiane
seguano, quasi a mo' d'appendice, questo. Essi sono una vera e propria formulazione
di princípi filosofici giuridici economici, che Vincenzo Cuoco desume da un'esperienza
storica e politica insieme, antica e mo derna nello stesso tempo. Larghi sono i
raffronti tra le costituzioni classiche e le odierne, tra costituzione odierna
e costituzione odierna, e la critica si svolge tra compara zioni ed appunti
acutissimi. È l'opera di una eccellente testa politica, che ha legittime
pretese di teorizzatore e di sistematico. V'è un ordine logico ferreo, una
disciplina storica, una consequenzialità impressionante. Avremmo desiderato che
questo sistema in abbozzo il Cuoco stesso avesse sviluppato, ma noi posteri,
ammirando la sua eletta figura, non possiamo domandargli più di quanto ci ha
dato, se non nel dolore di vedere quanta parte del suo genio sia andata
dispersa nell'esilio, nella po vertà e infine nelle malattie. È il libro d’un
pensatore 81 che ad una astratta ideologia oppone il suo paesano realismo
storico. Vincenzo Cuoco assiste allo svolgersi degli avvenimenti, giudice
imparziale, ma non per que sto inattivo e mutolo, e vede la storia rinnegare i
suoi ideali, l'errore trionfare e fatalmente sommergere l'edi fizio
repubblicano. La vita segue una via che è fatale che segua. L'errore trae
l'errore, l'estremismo l'estremi smo. L'astruseria rivoluzionaria forza le cose,
e la storia sembra calpestare lo storicismo, i princípi, che la specu lazione
ha desunto e desume dall'osservazione del suo eterno corso. La storia sembra
seguire uno spiegamento, che non è quello che il passato legittima. Vedremo,
invece, come, superato il vortice, sia la storia stessa che illumina le verità
cuochiane: sarà il periodo del Giornale italiano, il periodo napoleonico
dell'impero. « L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano,
tutt'i suoi affetti, giunti all'estremo, s'indeboliscono e si estin guono: a
forza di voler troppo esser libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di
libertà. Nec totam liber tatem, nec totam servitutem pati possumus, disse
Tacito del popolo romano: a me pare, che si possa dire di tutti i popoli della
terra. Or che altro aveva fatto Robespierre spingendo all'estremo il senso
della libertà, se non che accelerarne il cambiamento? » (1 ). « Questo è il
corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il po polo si agita
senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è
nel mezzo » (2 ). Tale è la vita: dalla sua stessa negazione scaturisce
un'afferma zione. La rivoluzione rinnega la storia, e la storia prende la sua
rivincita sulla rivoluzione. La rivoluzione afferma il diritto alla sommossa:
Robespierre, figlio della rivolu zione, lo nega ghigliottinando; il popolo
stanco lo afferma sul capo di Robespierre. La cos za storica stess sem bra
distrutta da tutta una tragica serie di fatti, ispi rati alla più astrusa
ideologia: la realtà annichilisce i repubblicani e li conduce alla perdizione;
l'equilibrio si (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p.- 99. (2 ) V. Cuoco,
Saggio storico] ristabilisce, si riconferma ciò ch'era stato negato. Onde ben
scrive, a mio avviso, il De Ruggiero, affermando che l'esperienza
rivoluzionaria dà un nuovo significato alla negazione, in quanto questa è la
crisi feconda di un rin novamento della vita storica. La crisi, in sostanza,
non può non apparire che come una critica degli avveni menti passati e delle
istituzioni da essi nate, che non giudica arbitrariamente, sovrapponendo una
verità a priori, ma svolge dagli errori stessi un latente spirito di verità (1
). Questa, infine, la ragione dell'ottimismo rela tivo del Cuoco. L'esperienza
politica del Machiavelli do veva necessariamente finire, data la sua natura, le
sue premesse, i suoi fini, nel pessimismo o nell'amarezza. L'esperienza del
nostro, certo più tragica, più dolorosa, più densa di dolore, che non quella
del segretario fioren tino, sfocia, ed è naturale, in un equilibrio, che è
quanto dire in un bene relativo, in Napoleone. Tra l'astrattismo e Napoleone
c'è la rivoluzione, la prassi sanguinosa, il rinnegamento del passato, la
critica assoluta delle isti tuzioni millenarie, l'apriorismo giuridico, la
democratiz zazione, universale, l'esaltazione dei princípi. La storia procede
con continuità mirabile, ma nella sua stessa continuità c'è un processo di tesi
antitesi ed un supera mento implicito, c'è infine la vera dinamica dello spi
rito, dell'idea, che muove gli uomini e le nazioni. La rivoluzione e Bonaparte
sono due aspetti della stessa realtà: « il passato, negato violentemente, si
riaffaccia alla vita nell'atto stesso della negazione » (2 ). La critica
dell’astrattismo razionalistico, che ne' Frammenti abbia mo osservato e colta
nella teoria, nel Saggio è mostrata e, direi, vista in atto, nello stesso
spiegarsi della storia. È la storia stessa, che, nell'indicare la fatalità del
pro cesso storico determinato dai princípi e dalla prassi re pubblicana,
giudica d’un metodo e d’una mentalità. La storia sembra dire: queste norme
hanno portato a tale orribile scioglimento, giudica tu, lettore, della loro
bontà ! (1 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 167. (2 ) G. DE RUGGIERO, op. cit.,
p. 168. 83 In ciò è riposto quel carattere di sana sapienza, quel l'obiettività
del Saggio, per cui Luigi Settembrini ben potea paragonarlo ad una tragedia
greca (1). Ed il raf fronto non è davvero stiracchiato. La Provvidenza vi
chiana vi tiene il posto dell'antico Fato nell'urto degli eventi, e gli uomini
stessi, che hanno determinato la ! catastrofe con i loro errori, con le loro
incongruenze, sog giacciono ad un destino, che sembra irrevocabile. Sono essi,
gli uomini, che determinano lo scioglimento, o sono poveri burattini nelle mani
d'un ignoto motore? Ma la storia è reciprocanza e v'è perfetta conversione tra
causa ed effetto: gli uomini, che fanno la storia, soggiacciono ad essa. Il
Cuoco parla spesso di un vortice (2 ), in cui egli stesso fu tratto, e da cui
potè districarsi a mala pena, dopo aver perduto i beni e la patria, vortice che
egli non ammirava, se pure non odiava, come vuole il Tria, ma che distrusse sul
palco ferale tante nobili esistenze, parla insomma di un vortice, che non è
altro che la rivoluzione. Che cosa è mai? È superiore alla volontà degli uomini?:
No, esso è fatto dagli uomini nel loro delirio, nel loro ! errore, e gli uomini
possono averne sicura conoscenza, poi che essi ne sono i fattori, ma averne
conoscenza, si gnifica in un certo senso superamento e distacco da esso. Nei
Frammenti era la teoria, la metodologia. Il Saggio storico è la vita in atto,
la tragedia greca in isviluppo, le passioni colte nel loro urto. Questa è la
ragione per cui esso è un'opera d'arte, una grande opera d'arte. Lo spi rito
dello scrittore rifà il processo della storia, segue il corso delle idee, e lo
fa con tale intensa visione da ri crearcelo in un miracolo di luci, di
chiaroscuri, di sfu I mature. V'è l'anima insomma, laddove prima era il
pensiero; la fantasia, laddove prima era l'intelletto, la fantasia che
s'esprime per immagini e tutto risolve nella immagine. L'opera d'arte è attinta
in un processo d'obiet (1 ) L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana,
Napoli, Morano ed., 1882, v. III, p. 282. (2 ) V. Cuoco," Saggio storico,
Lettera dell'autore a N. Q., p. 11: I, p. 16; VIII, p. 47; XV, p. 84, 84
tivazione, che non esito a dire perfetto, onde non v'è affatto, o assai
raramente, quel contrasto ibrido tra l'ar tista che intuisce e lo storico che
analizza quale può rin venirsi in molte opere di simile genere, poi che tutto è
compenetrato e fuso, attraverso una lunga maturazione, che dovette certo essere
prima consapevolezza di pen siero, meditazione di cause e di effetti, e poi
immedia tezza nervosa e rapida d'espressione (1 ). Invano tu cercherai nel
Saggio un elemento estrinseco all'artista e allo storico. Lo storico si fonde
con l'artista, ma lo stesso storico è perfetto. L'uomo pratico non con turba
l'artista, che supera nella visione l'enunciato fine utilitario della sua
narrazione; il partigiano non con turba lo storico. Leggete invece il Rapporto
al cittadino Carnot del vesuviano Francesco Lomonaco. Quante escla mazioni,
quanti interrogativi, quante tirate oratorie, quanti pistolotti repubblicani,
quanto anticlericalume, quanta montatura ! V? è l'uomo delle nobili passioni,
ma v'è pure l'uomo pratico, che per raggiungere un suo fine, non esita di
caricar di tinte fosche la storia, non esita un momento per indossare la toga
dell'avvocato. Infatti chi può negare la presenza d'una passionalità che di
strugge la storia, d'una coscienza turbata ed oscura, che è la negazione d'ogni
vera espressione artistica? (2 ). Nel Cuoco nulla di tutto ciò. (1 ) La
questione della cronologia del Saggio a me sembra oramai risoluta. Fausto
Nicolini, in una sua nota all’ed. barese del Saggio, p. 357 e sgg., la riassume
e ne trae le migliori conseguenze. Perciò non ho che da rinviare il lettore a
quanto il Nicolini ha egregiamente scritto. Del Saggio poi possediamo numerose
edizioni, di cui alcune buone, molte mediocri scorrette ristampe, nonchè
traduzioni straniere: vedi N. RUGGIERI, op. cit., p. 173; e la nota del
Nicolini all’ed. laterziana. (2 ) Ogni possibile raffronto tra il Cuoco e il
Lomonaco è assolutamente impari. Già lo osservò il Gentile ne' suoi Studi
vichiani, p. 361, nota, là dove critica un giudizio di G. Na. tali, che nella
sua monografia La vita e il pensiero di Francesco Lomonaco, Napoli,
Sangiovanni, non esita a chiamare il suo scrittore predecessore in molte idee
di Vincenzo. Scrive il Gen tile: « Tra le superficialità del Lomonaco e le
vedute profonde 85 Chi si accinge a studiare il pensiero cuochiano, i mo menti
ideali dello spirito del grande molisano, non può non rifarsi ad un
avvenimento, che per lui, come per noi, è la fonte, donde scaturirono tutti i
successivi avveni menti, la rivoluzione francese, di cui la rivoluzione parte
nopea non è che un tardo episodio. Il Cuoco, che studia più le idee che i
fatti, le idee che sono degli uomini, le idee che muovono gli uomini, lega la
storia napoletana alla francese, e di questa ci dà un quadro ricco e vasto. «
Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell'uomo: quel luogo
istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura » (1 ).
Le rivolu zioni-sono come le malattie nel corpo umano, i periodi sismici nel
mondo geologico. Le generazioni si succedono incolori uguali, finchè « un
avvenimento straordinario sembra dar loro una nuova vita ». Le rivoluzioni sono
un'misto di bene e di male, gravi di effetti buoni o cat tivi, come le crisi di
crescenza nel corpo d’un fanciullo. « In mezzo a quel disordine generale, che
sembra voler distruggere una nazione, si scoprono il suo carattere, i suoi
costumi e le leggi di quell'ordine, del quale prima si vedevano solamente gli
effetti » (2 ). Le rivoluzioni sono esperienze politiche, dalle quali non si
può prescindere, perchè sono nell'ordine stesso della natura. Esse rinnegano a
parole il passato, di fatto poi lo riconfermano, e nella negazione della storia
il filosofo ritrova lo sviluppo fatale della storia. Guardiamo la rivoluzione
di Francia, a la più gran rivoluzione dicui ci parli la storia » (3 ). Essa
scoppia improvvisamente, rinnegatrice di tutto un passato: una analisi
immediata ci dirà che lo stesso passato l'ha pre parata, e allo stesso passato
essa si ricongiunge, onde è stato possibile a molti il prevederla. Gli uomini
sono cie del Cuoco c'è tale abisso, che non è lecito raccostare i due nomi, se
non per illustrare l'ambiente in cui si muoveva lo spi rito del Cuoco, o per
far meglio vedere la sua superiorità ». (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I. p.
15. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 15. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, II,
p. 17, 86 chi, ma la storia, fatta dagli uomini, non è cieca, ed ha una sua
logica, nella cui grandezza noi siamo come dispersi. Gli uomini sono ciechi e
sono inclini a scambiare il processo della loro mente con il processo della
storia, e, peggio, a credere i suoi sviluppi mero sviluppo d'un pen siero loro
individuale. Il filosofismo francese ha preceduto la rivoluzione: ciò non
significa che esso abbia generato la rivoluzione. La storia non s'esaurisce
nella filosofia, come non s'esaurisce nell'economia: la storia è d'una
complessità mirabile. « I francesi illusero loro stessi sulla natura della loro
rivoluzione, e credettero effetto della filosofia quello che era effetto delle
circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione » (1 ). Ma la
filosofia non compie simili miracoli, non sovverte un mondo, tutt'al più aiuta
gli uomini ad insistere ne' loro errori di metodo. Così accadde in Francia. Il
Cuoco con ciò non nega l'alta importanza umana della filosofia, vuol
semplicemente delimitare la sfera di ogni attività e ad ognuna assegnare il
posto che le com pete; anzi egli stesso ritiene che in ogni operazione umana
debba richiedersi la forza e l'idea, e nelle rivoluzioni, come è necessario il
popolo, sono necessari i filosofi, i conduttori, « i quali presentino al popolo
quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto, che molte volte segue
con entusiasmo, ma che di rado sa da sè stesso formarsi » (2 ). Il compito dei
filosofi è chiarificato: essi debbono trarre i princípi della storia e della
politica, non dal loro cervello ed assumerli come postulati inderoga bili, ma
dalla vita del popolo, dalla natura eterna del l'uomo, che non è solo
intelletto, ma vichiamente anche senso e fantasia. Credere un avvenimento
gigantesco, come la rivoluzione francese, frutto soltanto del pensiero
filosofico è uno sminuirlo in una visione ristretta e par ticolaristica. La
vita non è solo attività teoretica, è me diatamente anche attività pratica,
politica ed economica. Pur tenendo di vista il sorgere e l'imporsi delle idee, (1
) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p.
82. 87 occorre investigare i bisogni e lo stato dei popoli per ve dere quanto
essi siano stati i propulsori d’un moto, che è determinato, ma non cieco, anche
nelle sue più crudeli manifestazioni. La rivoluzione francese non si può in
tendere, se non s'intende tutta la storia che la precede. La Francia
monarchica, la gloriosa potente monarchia accentratrice era un paese di abusi:
« la rivoluzione non aspettava che una causa occasionale per iscoppiare » (1).
Il Cuoco analizza tutto ciò, e l'analisi breve serrata ner vosa, che egli fa,
è, senza dubbio la cosa migliore, che si possa scrivere sul turbolento periodo:
gli stessi storici francesi non ebbero mai nessuna di quelle lucide intui zioni
che fanno grande il molisano. « Tra tanti » si doman da « che hanno scritta la
storia della rivoluzione francese, è credibile che niuno ci abbia esposte le
cagioni di tale avvenimento, ricercandole, non già ne'fatti degli uomini, i
quali possono.modificare solo le apparenze, ma nel corso eterno delle cose
istesse, in quel corso che solo ne determina la natura? » (2 ). Nessuno,
rispondiamo, perchè è fatale negli uomini vedere solo alcuni individui di genio
e trascurare le masse e le cose; credere un moto preparato dai secoli un
fenomeno sporadico senza stretti legami con l'antico; una rivoluzione, opera
d'un intero popolo, com presso a lungo dall'ineguaglianza, la manifestazione di
pochi genî o d'un partito. Il Cuoco, ho detto, ci dà una disamina dei
precedenti della grande rivoluzione, che sfida i tempi nella sua tacitiana
concisione. Val la pena di riferirla: non si può estrarre il succo da ciò, che
di per sè è tanto concentrato, che togliere una parola val quanto distruggere
una meditazione. « La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi, delle ruine,
delle varie opinioni, de' vari partiti, forma la storia di tutte le
rivoluzioni, e non già di quella di Fran cia, perchè nulla ci dice di quello
per cui la rivoluzione di Francia differisce da tutte le altre. Nessuno ci ha
de scritto, una monarchia assoluta, creata da Richelieu e (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38, 88 riforzata da
Luigi XIV in un momento; una monarchia surta, al pari di tutte le altre
d'Europa, dall'anarchia feudale, senza però averla distrutta, talchè, mentre
tutti gli altri sovrani si erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni,
quello di Francia avea nel tempo stesso nemici ed i feudatari, ivi più potenti
che altrove, ed il popolo ancora oppresso; le tante diverse costituzioni che
ogni provincia avea; la guerra sorda ma continua tra i diversi ceti del regno;
una nobiltà singolare, la quale, senza esser meno oppressiva di quella delle
altre nazioni, era più numerosa, ed a cui apparteneva chiunque vo leva, talchè
ogni uomo, appena che fosse ricco, diven tava nobile, ed il popolo perdea così
financo la ricchezza; un clero, che si credeva essere indipendente dal papa e
che non credeva dipendere dal re, onde era in continua lotta e col re e col
papa; i gradi militari di privativa de' nobili; i civili venali ed ereditari,
in modo che al l'uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare; le
dispute che tutti questi contrasti facevano nascere; la smania di scrivere, che
indi nasceva e che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per coloro i
quali non ne avevano altro, e che erano moltissimi; la discus sione delle
opinioni a cui le dispute davan luogo ed il pericolo che dalle stesse opinioni
nasceva, perchè su di esse eran fondati gl'interessi reali de' ceti; quindi la
massima persecuzione e la massima intolleranza per parte del clero e della
corte, nell'atto che si predicava la mas sima tolleranza dai filosofi; quindi
la massima contrad dizione tra il governo e le leggi, tra le leggi e le idee,
tra le idee e li costumi, tra una parte della nazione ed un'altra;
contraddizione che dovea produrre l'urto vicen devole di tutte le parti, uno
stato di violenza nella na zione intera, ed in seguito o il languore della
distruzione o lo scoppio d'una rivoluzione. Questa sarebbe stata la storia
degna di Polibio » (1 ). La Francia ha mille cause per muoversi. La rivoluzione
(1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38. 89 s'esprime dal seno d'un popolo in
travaglio secolare, sca turisce da desideri compressi, da bisogni materiali, da
un malessere durevole. Che ci hanno a che fare i filosofi? I filosofi servono,
se mai, a conturbare quel che è chiaro, a far credere opera loro quel che è già
nella storia, a far scambiare come esigenza intellettuale quel che è esigenza
economica nel suo più vasto significato. Enormi sono gli abusi, terribili i
contrasti; più astratti, quasi per necessità, i princípi riformistici, come
quelli che voglion compren dere un numero più grande di fatti umani. Ecco
l'errore ! I francesi deducono i loro princípi dalla metafisica, e cadono
nell'errore « di confonder le proprie idee colle leggi della natura » (1). È
una ' falsa visione del reale questa in cui possono cadere tutti gli uomini che
seguono idee soverchiamente astratte. Commentando le incon gruenze dei
repubblicani della Partenopea il Cuoco escla ma: « Io credeva di far delle
riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia della
rivoluzione di tutt ' i popoli della terra, especialmente della rivolu zione
francese. Le false idee che i nostri aveano conce pite di questa non han poco
contribuito ai nostri mali » (2 ). Siamo sempre ad un punto: gli uomini credono
troppo ne' loro princípi e non s'accorgono che i principi sono spesso
astrazioni, credono in essi e ' non osservano che intanto la storia si muove
oltre i princípi. La rivolu zione è opéra dei filosofi? Altro che filosofi ! «
Il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni >>
è il popolo (3 ). Guardate questo popolo: si muove mai esso dietro i filosofemi?
No. « Il popolo non intenderà, non seguirà mai' i filosofi » (). Perché? La
ragione è una sola, vichiana. Il popolo è senso e fantasia: i filosofi in
telletto. Date al popolo princípi: non li intenderà. Com primete il popolo,
esacerbatelo: il suo senso s'esaspererà, la sua fantasia s'accenderà violenta,
vremo una crisi vasta ' e potente, la rivoluzione. (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, VII, p. 39. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 96. (3) V. Cuoco,
Saggio storico, Prefazione alla sec. ed., p. 5, (4) V. Cuoco, Saggio storico,
VI, p. 30, 90 La rivoluzione nasce da bisogni positivi, cioè dal senso e dalla
fantasia popolaresca. Ciò non toglie che il suo pervertirsi, il suo incrudelire
provenga invece dalla falsa filosofia. L'origine è naturale, lo sviluppo
abnorme: lo spunto è popolare ed economico, le conseguenze degene razioni di
princípi, intellettualistiche. Sono le astruserie dell'ultima ora che portano
seco loro gli inconvenienti propri delle grandi rivoluzioni, i capricci de'
potenti, le fazioni, le turbolenze, il sangue. « Chi guarda il corso della
rivoluzione francese ne sarà convinto » (1 ). I saggi sono inutili a produrre
una rivoluzione (2 ), ma i pseudo saggi possono condurre un moto già evoluto
sur una falsa via. Ecco perchè la rivoluzione francese ha un vizio d'origine,
che dovrà riuscire fatale alle rivoluzioni, che qua e là scoppiarono, riflessi
incolori e pur gravi della grande rivoluzione: essa parla troppo alla ragione,
poco al senso e alla fantasia, e i popoli, si sa, sono tutto senso, tutta
fantasia. Quanto più i pensatori navigano in sfere superne, tanto meno i popoli
li intendono, anzi, a volte, sono i popoli che accendono le controrivoluzioni,
se i princípi di ragione urtano le avite tradizioni, i sacri costumi, i
millenari bisogni. La critica è profonda, e, come ognuno intende, coin volge
tutta la rivoluzione francese, ma è una critica, che nel Saggio storico appare
per incidenza, e che tocca allo studioso di rilevare. La storia è tutta una
catena, in cui un avvenimento non si può astrarre dagli altri. La vita delle
nazioni oggi è così complessa, che, trattando della stessa Napoli e della sua
politica, non si può prescindere dalla politica generale dell'Inghilterra, della
Francia, della Spagna. Nel passato una rivoluzione potea apparire un evento
isolato, poteva chiudersi quasi in una barriera sanitaria; oggi, in tempi
nuovi, deve fatalmente trovare addentellati un po' ovunque. La rivoluzione
francese suscita un incendio repubblicano in Italia, a Milano, a Roma, a
Napoli. Ma in questa stessa considerazione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII,
p. 40. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione alla sec. ed., p. 6, 91 sta il
primo e capitale appunto alla rivoluzione parte nopea, di cui il Cuoco
esclusivamente si occupa. Lo storico critica lo svolgimento della grande
rivoluzione francese, ma non nega l'origine pienamente legittima di essa, la
riconosce nata da un secolare stato anomalo di cose, per cui il popolo, attivo
e industrioso, ma ciò non pertanto trascurato ed isolato politicamente,
reagisce e d'un balzo acquista di diritto ciò che di fatto aveva già acquistato.
Nulla di tutto ciò a Napoli. Quivi la rivolu zione è un mero riflesso di quella
gallica, è nella sua na scita e nel suo affermarsi passiva. L'aggettivo passivo
ha fatto epoca, e val quanto dire impopolare. Le idee passano di paese in
paese, perchè trovano ovunque in gegni culti atti a riceverle e a meditarle; i
bisogni sono invece ovunque diversi, da nazione a nazione, da po polo a popolo,
anzi da regione a regione, da provincia a provincia. Quel che a Parigi è
spiegabile, a Napoli ' non lo è: quel che a Napoli è naturale, in Calabria
cessa di esserlo, diviene artefatto. Mentre tutto il pensiero europeo, dalla
Germania all'Italia, dall'Inghilterra alla Russia, dalla Spagna alla Svizzera,
è infranciosato, ra zionalista, illuminista, i bisogni dei popoli sono sostan
zialmente e profondamente diversi in ogni angolo del vecchio continente
europeo. Come poter condurre realtà di lor natura ineffabili e particolari ad.
aderire a prin cipi uniformi, se non sforzando lo stesso ordine delle cose?
Così.a Napoli. Invece di fare una rivoluzione na poletana, si fece una
rivoluzione francese in piccolo. « Le idee della rivoluzione di Napoli » scrive
il Cuoco « avrebbero potuto esser popolari, ove si avesse voluto trarle dal
fondo istesso della nazione. Tratte da una co stituzione straniera, erano
lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano
lontanis sime da’sensi, e, quel ch'è più, si aggiungevano ad esse, come leggi,
tutti gli usi, tutt'i capricci e talora tutt'i difetti di un altro popolo,
lontanissimi dai nostri difetti, da' nostri capricci, dagli usi nostri » (1 ).
La rivoluzione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 83, 92 francese, in
sostanza, e qui è il nucleo di tutte le consi derazioni successive, è attiva,
cioè risultante di molte plici elementi economici e politici; la rivoluzione
napo letana passiva, cioè frutto di opinioni labili. Ma guardate gli uomini ! I
monarchi europei credono la rivoluzione francese questione d'opinioni e la
perseguitano, mentre, se era in realtà questione d'opinione, sarebbe caduta di
per sè stessa; il re di Napoli crede cosa grave e profonda, invece, ciò che nel
suo nascimento era ' un ' po ' moda e opinione, la tormenta ed incrudelisce,
finendo per creare col suo contegno un generico malcontento. Lo stesso
atteggiamento politico estremo in due circostanze diverse finisce per produrre
i più gravi effetti. Le conseguenze di non mirare entro la natura delle cose !
È un astratti smo, che Vincenzo Cuoco non vede solo nella rivoluzione, ma ne'
governi, nei patrioti e nei codini, nella filosofia e nella scienza militare.
La reazione, al primo manifestarsi della rivoluzione francese, è tutta ispirata
a questa visuale errata. Le potenze europee si coalizzano contro la Francia:
effetto: la Francia, di fronte al pericolo straniero, è un sol uomo, si arma,
si oppone, vince. « Una guerra esterna, mossa con.... ingiustizia ed
imprudenza, assodò una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in
guerra civile » (1 ). È l'astrattismo, il solito astrattismo del tempo, che
crede forzare l'ordine delle cose. La Francia deve ras sodare la sua
insurrezione; ha contro di sè tutta l'Europa: la guerra le diviene
indispensabile per vivere. È l'oppo sizione stessa che costringe il paese alla
lotta. Quindi si sviluppa un sistema di democratizzazione universale, di cui i
politici interessati si servono, a cui i filosofi applau dono in buona fede; «
sistema che alla forza delle armi riunisce quella dell' opinione, che suol
produrre, e ta lora ha prodotti, quegl'imperi che tanto somigliano ad una
monarchia universale » (2 ). (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 18. (2 ) V.
Cuoco, Saggio storico, II, p. 20. 93 A Napoli lo stesso errore dei governanti è
aggravato da circostanze peculiari. Il principio della rivoluzione francese
trova una nazione florida ed esuberante di pen siero e di studi economici,
giuridici, filosofici, un paese che trae dalla Francia molte cose, ma tutte le
concre tizza in una tradizione paesana, che si ricollega al Vico. La rivoluzione,
se pure in questo ambiente è possibile una rivoluzione, è affare d'opinione. Ma
a Napoli mancano i repubblicani. Pochi giovinetti, presa la testa - dalle
novità straniere, si proclamano sovversivi, vestono alla francese, parlano
francese, seguono insomma la moda. Convien disprezzarli. No, il governo muta
rotta, incru delisce. È proprio quella politica, che più conveniva evi tare,
volendo rimanere saldi nella grave crisi, che agi tava tutto il mondo civile (1
). « I nostri affetti, preso che abbiano un corso, più non si arrestano. L'odio
segue il disprezzo, e dietro l'odio vengono il sospetto ed il timore » (2 ).
Gli uomini s'oppongono violentemente, gli a ffetti s ' inacerbano: laddove con
un metodo diverso la situazione potea dominarsi, è lo scompiglio. « I mali
d'opinione si guariscono col disprezzo e coll'obblio: il popolo non intenderà,
non seguirà mai i filosofi » (3 ). A Napoli il popolo non partecipa a nessun
movimento: la rivoluzione, quindi, è lecito presumere, non c'è, non ci 16 li la
ti (1 ) È lo stesso concetto che V. Cuoco esprime nel Platone in Italia, v. I,
p. 43: « Nel portico di Falanto si ragunan tutti i giorni, molti, la cura
principale de quali è di ragionar della guerra e della pace di tutti popoli
della terra... Forse un giorno taluno imporrà fine al loro cicaleccio. Archita
non lo cura, ad onta che il più delle volte si parli di lui, e non sempre con
giustizia. E qual giustizia sperare da coloro che siedono tutt' i giorni in un
portico per ragionar di regni? 0. presto o tardi si credono di esser re. Ma
Archita, a taluno che gli ha con sigliato di vietar taliadunanze, ha risposto:
—Tu vuoi dunque che il popolo creda alle parole di costoro? Nessun uomo mostra
la sua stoltezza, nè il popolo se ne accorge mai al primo mo mento. Se vuoi
smascherar lo stolto, lascia che parli lungamente. Gli chiudi tu la bocca al
primo istante? Corri il rischio di farlo riputar savio (2) V. Cuoco, Saggio
storico, VI, p. 29. (3) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. 94 sarà. Ma, ecco,
la polizia perseguita quei giovinetti, che hanno per moda il fare le corse a
cavallo per Chiaia e Bagnuoli, imitando gli antichi greci, che leggono ne' pe
riodici le cose della rivoluzione francese e ne parlano ai loro barbieri e alle
innamorate, ecco, le opinioni diven tano sentimenti, il sentimento genera
l'entusiasmo, l'en tusiasmo si comunica: « vi inimicate chi soffre la perse
cuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo indifferente che
la condanna; e finalmente l'opi nione perseguitata diventa generale e trionfa »
(1 ). Una politica sbagliata insomma ingenera errori nuovi. Si perde il senso
della moderazione e si cade nell'estre mismo. Si vuol sangue, si condanna (2 ).
Pochi a Napoli intendono la rivoluzione francese, pochissimi l'approvano,
nessuno la desidera: eppure si crea un ambiente insurre zionale, laddove non
era. « Il mezzo per opporsi al con tagio delle idee lo dirò io? non è che un
solo: lasciarle conoscere e discutere quanto più sia possibile. La di scussione
farà nascere le idee contrarie » (3 ). Il governo di Napoli invece è pavido, e
il timore rende deboli e inetti, ci offre sprovvisti all'assalto inimico. «
Vince una rivoluzione colui che meno la teme » (+ ). Questa incomprensione
della realtà sociale, che il Cuoco trova nella prassi politica preventiva della
corte di Na poli, deriva dallo stesso astrattismo che domina i go verni europei
coalizzati, è lo stesso astrattismo che guida i giacobini di Francia e i
patrioti di Napoli. Non per nulla tutti gli attori del fòsco dramma, gli uni e
gli altri hanno bevuto alle acque della filosofia illuminista, che per la
ragione rinnega il senso, e ripone tutta la sua fiducia nell'umano intelletto e
nella sua ideologia. Eccone le conseguenze. Vedremo in seguito il comportamento
dei (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. (2 ) Il tratto saliente di questa
pre -reazione è la condanna a morte di tre giovani, De Deo, Vitaliani e Galvani:
la morte del De Deo fu sublime. Vedi quel che ne scrive B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 204 e sgg: (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p.
41. (4 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. 95 repubblicani, ora dobbiamo
osservare più particolar mente la politica governativa e la sua insufficienza.
La rivoluzione a Napoli, abbiamo detto, nasce come opinione, quindi passiva; la
corte finisce per renderla necessaria, sforzando il cammino storico della
nazione, suscitando vasti malcontenti in tutte le classi del po polo, ne'
signori e nella borghesia, perseguitando dotti filosofi ed economisti, un
giorno già vanto e decoro della corte stessa, nel popolo, intaccando gravemente
i suoi interessi. Vediamo quest'ultimo punto, il quale ci mo strerà pure
l'importanza che Vincenzo Cuoco dà all'ele mento economico nella storia e nella
politica. La storia per lui non è pura idea, come per gl’intellettualisti, che
finiscono per negarla, nè pura economia, come per i ma terialisti storici: la
storia è più complessa assai. « La storia si può suddividere in tante parti
quanti sono gli aspetti sotto de' quali gli avvenimenti umani si vo gliono
considerare » (1 ). Ogni scienza particolare ha una sua storia, ma quel che noi
consideriamo come la storia per eccellenza non s'esaurisce in alcuna ricerca
partico lare. Lo spirito è complesso pur nella sua unità, così com plessa è la
vita dei popoli, che è attività pratica e teore tica, prassi ed economia,
intelletto e fantasia. Onde lo storico deve tener conto di tutto, e di tutto
deve rendersi conto. Ma non anticipiamo ! Il Cuoco dà molta importanza
all'elemento economico, ma non esaurisce in esso il pro cesso storico, lo
sviluppo d'una nazione. Qual è la posi zione geografica, e di riflesso
economica, del regno di Napoli? Ove portano questo Stato i bisogni generali?
Qual'è quindi la direttiva più naturale della sua politica? Quando Napoleone
discende in Italia, la penisola è divisa in piccoli Stati, i quali uniti
avrebbero potuto opporre resistenza, disuniti era fatale che cadessero. Que sta
contingenza mostra quanto lo stato politico degli italiani sia infelice, senza
amor di patria e senza virtù militare. Di fronte al genio d’un gran capitano
tutte (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 31. 96 le barriere caddero come
scenari vecchi: gli austriaci furono messi in fuga, Venezia disparve colla sua
imbe cille oligarchia, la distruzione del governo teocratico del Pontefice non
costò che il volerla. Napoli sola per un complesso di cose poteva resistere. A
Napoli c'era un governo monarchico forte, che garantiva una maggiore
compattezza, una certa disciplina, un esercito, un po polo che bene o male
seguiva il suo sovrano, c'era un popolo, e dietro di esso una classe colta che
voleva stu diare e vivere. Tutto rendeva possibile l'esistenza felice della
monarchia, pur nel vortice che dilagava in Eu ropa. Non fu così: la politica
borbonica da qualche anno seguiva, e ora sotto la pressione napoleonica con
tinuò a seguire, l'andazzo antifrancese de' governi coa lizzati, ed urto in una
condizione di cose secolare e pro fondamente sentita dalle popolazioni
meridionali. Il regno di Napoli era per sua natura una potenza me diterranea.
Tutti i suoi interessi lo portavano ad una politica mediterranea, ad una
politica, vale a dire, il cui centro di sviluppo fosse il bacino del
Mediterraneo, ad un commercio con l ' Oriente, con Tunisi, con la Francia, con
la Spagna. Queste le esigenze del paese: la volontà della regina dominatrice
co' suoi favoriti della corte e del governo dispose diversamente. Lo Stato
diventò ligio all'Austria, potenza lontana, dalla quale il paese nulla aveva da
sperare e tutto da perdere, che finì anzi per coinvolgerlo in continue guerre.
Le cause di questo errore si riconducono ad uno di quei concetti, che nel Cuoco
sono alla base di tutto il suo pensiero: il disdegno di tutto ciò che è
straniero. L'ita lianismo del Cuoco, che si vuol porre di solito come mero
antifrancesismo, è, entro certi limiti, un po' xenofobismo. Egli vuol inoculare
agli italiani un sicuro orgoglio nazio nale, un vero bisogno d'essere
esclusivamente italiani. La rivoluzione napoletana, come in genere tutte le
rivoluzioni italiane del tempo, sono la negazione dell'italianismo, negazione,
che, notiamo, è cominciata da lungo tempo e si perpetua tra gli errori de'
governi e dei repubblicani. È un indirizzo mentale, che il Cuoco combatte
ovunque 97 lo trova. Egli non è antirivoluzionario, perchè critica i patrioti:
egli non è antiborbonico, sol perchè critica il go verno. La sua critica ha
origini più grandi: bisogna riguar darla quale espressione d'una mentalità
politico- giuridica più italiana, più grande che non tutti i sistemi che la ri
voluzione ha maturati, d'una mentalità politica, che si rivolge combattiva
ovunque vede la sua negazione. L'azione rivoluzionaria è una prassi
d'astrattismo fran cese: è naturale che Vincenzo Cuoco non ne condivida le
direttive.. La politica di Maria Carolina di Napoli e del suo favorito Acton è
poco napoletana, molto austriaca: è naturale che Cuoco alla luce delle sue idee
ne riveli le incongruenze e le manchevolezze. La pietra di paragone: l'Italia,
Napoli, il popolo e i suoi bisogni. Tutte le poli tiche, che astraggono da
questo elemento insuperabile, sono rovinose. Maria Carolina, salendo al trono
meridionale, dovea dimenticare di essere una tedesca, pensare di divenire
napoletana, se voleva divenire davvero regina di Napoli e cessare di essere una
principessa germanica. Volle in vece essere novatrice, cioè sforzare la
tradizione, gli usi, i costumi del nuovo ambiente, sviluppando una frivola
smania per ogni cosa estera, sia materiale, sia intellet tuale. Dalla moda per
il vestire si passò a quella per il costume e per i modi, si parlò francese od
inglese, e si ritenne poco obbrobrioso non sapere l'italiano; l'imita zione del
vestimento e delle lingue portò di conseguenza l'imitazione delle opinioni. «
La mania » ammonisce il « per le nazioni estere prima avvilisce, indi ammi
serisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni amore per le cose
sue » (1 ). La stessa ineguaglianza in tutti i rami dell'ammi nistrazione.
Ovunque si navigava nell'astrazione. Chi potrebbe mai pensare la felicità e la
potenza, a cui un governo savio ed attivo, cioè nazionale, avrebbe potuto
portare il paese, sviluppando l'energia pubblica, ed esen Cuoco (1 ) V. Cuoco,
Saggio storico, V, p. 29. 7 -- tando il paese perciò dalla dipendenza
manifatturiera estera, proteggendo le arti, sviluppando il commercio ! Invece
no: non v'è provvedimento borbonico che non si possa rimproverare. « L'epoca in
cui giunse Acton era l'epoca degli utili progetti: qual progettista egli si
spac ciò e qual progettista fu accolto; ma i suoi progetti, ineseguibili o non
eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di nuove ruine, perchè cagioni di
nuove inutili spese » (1 ). Il Cuoco non fa distinzioni: il male è nella ra
dice, nella mentalità del tempo. Si spera in un ottimo assoluto, che è il
peggior nemico del bene, e si finisce per far male: si è miracolisti e si
riduce a terra ogni utile antica istituzione. Gli ordini antichi bene o male
assicuravano la vita civile: perchè distruggerli ab imo, anzi che rif marli?
Chi era Acton, chi era questo favorito, che voleva ! « Acton non conosceva nè
la nazione nè le cose. Voleva la marina, ed intanto non avevamo porti, senza
de' quali non vi è marina: non seppe nemmeno riattare quei di Baia e di
Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo erano stati celebri
e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima spesa, se, invece di seguire
il piano delle creature di Acton, si fosse seguito il piano dei romani, che era
quello della natura » (2 ). Un esempio della vacuità del favorito di Maria
Carolina. Napoli, dato che è un paese mediterraneo, aveva bisogni marinari. I
bar bareschi erano i suoi nemici diretti, i nemici dei suoi commerci, che con
le loro scorrerie finivano per rovinare. Occorreva proteggere le navi
mercantili, occorreva una flotta di piccole navi veloci e leggiere da opporre
alle navi da corsa. Acton volle provvedervi. Manco a farlo appo sta, la flotta
che fece costrurre, era composta di legni pesanti, da combattimento e non da
guerriglia. Io non posso indugiarmi su questo argomento, poi che il mio assunto
non è quello di dare la contenenza del (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p.
45. (2) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p. 46. 99 Saggio storico, ma di
tracciare un profilo ideale del pen siero di Vincenzo Cuoco nelle sue svariate
manifesta zioni, seguendo fin dove è possibile la cronologia delle opere del
molisano, tradendola ove essa complica lo sviluppo sistematico dello spirito.
Non mi indugierò quindi ad enumerare gli errori, l'atteggiamento del go verno
verso Napoleone, l'aggressione durante la sua as senza, la marcia di Mack, capo
dell'esercito borbonico, su Roma. Mack.... Se volete un ultimo esempio di
astrattismo, basta pensare al generale austriaco, al quale il governo di
Napoli'affidò le sue fortune. Cuoco non è un uomo di guerra, ma ha il buon
senso di cogliere il punto debole di duci della natura di Mack, inclini a
scambiare le loro idee con l'universo. La scienza militare è una scienza
positiva, scienza d'osservazioni particolari, che ripugnano, alle
schematizzazioni. Mack invece era la dottrina in per sona, ma faceva i piani a
tavolino, risalendo col pen siero ai princípi della sua scienza, senza
collaudarli con la realtà, che gli si parava dinanzi. « Vuoi conoscere » do
manda il Cuoco « a segni infallibili uno di questi capitani? Soffre pochissimo
la contradizione ed i consigli altrui: il criterio della verità è per lui, non
già la concordanza tra le sue idee e le cose, ma bensì tra le sue idee mede
sime. Prima dell'azione sono audacissimi, timidissimi dopo l'azione:
audacissimi, perchè non pensano che le cose pos san esser diverse dalle idee
loro; timidissimi, perchè, non avendo prevista questa diversità, non vi si
trovan pre parati. Affettano ne' loro discorsi estrema esattezza; ma questa è
inesattissima, perchè trascurano tutte le diffe renze che esistono nella natura
» (1 ). Simili uomini, come Acton e Mack, sono deleterii in ogni tempo, furono
rui nosi ai Borboni, in contingenze delicatissime. Date queste premesse, la
sconfitta, la fuga del re, l'in ganno della partenza, l'ingresso de' francesi
nella capi tale, il governo repubblicano, la proclamazione della Par (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XII, p. 72. 100 tenopea ci appaiono necessari sviluppi
di tutti gli elementi, che abbiamo precedentemente analizzato. Ma la storia del
Cuoco procede con la stessa spietata critica, per cui l ' in dagine penetra
acuta negli avvenimenti e nelle determi nazioni umane, come il bisturì nel
corpo d'un paziente, e ne rivela i mali, ne appalesa gli errori. Ancora le
stesse deficienze, ancora la stessa visuale falsa. Repubblica e popolo sono due
cose distinte. Vediamo i due gruppi. Chi sono i repubblicani di Napoli? Sono
repubblicani tutti coloro che hanno beni e costume. L'aristocrazia, la
borghesia, la classe accademica, gli studenti, il clero an che alto,
l'ufficialità dànno il contingente maggiore dei patrioti: filosofi, finanzieri,
giureconsulti, vescovi, teologi, giornalisti, poeti. Nel moto del '99 non è
davvero il pen siero che manca. Ma basta l'idea a muovere i popoli, a
sovvertire un ordine secolare, a riformare ab imo gli istituti d'una nazione?
Tra le file dei repubblicani c'è, abbiam detto, quanto di meglio ha prodotto il
mezzo giorno d'Italia in tutti i rami dello scibile umano, ma non si può negare,
che anche a Napoli si sia prodotto quel fenomeno tipico di tutti i
sovvertimenti, l'arrivismo, la speculazione. Molti hanno la repubblica sulle
labbra, pochi nel cuore; molti l'esaltano, pochi la raffermano. Alcuni hanno
voluto accusare il Cuoco di parzialità, anzi di malvolere verso le nobili
figure de ' martiri del '99 (1). Ma il Cuoco è storico e non travisa ! Che
meraviglia che accanto a Pagano ci sia il faccendiere, accanto a Russo li
procacciante, accanto a Conforti il paglietta in cerca di clienti, accanto a
Grimaldi il soldato che vuol far car riera ! È la storia d'ogni giorno, più o
meno triste, ma sempre uguale. Il Cuoco del resto sa sollevare la testa e
notare le grandi figure ed eternarle. Questi repubblicani il molisano distingue
in due gruppi: coloro che vogliono più un cangiamento che un buon cangiamento,
per pescare nel torbido, coloro che in buona (1 ) Cfr. U. TRIA, op. cit., p.
158 e sgg. in Rassegna critica della letteratura italiana, vol. VI, (1901); L.
CONFORTI, op. cit., p. 21 e sgg. 101 fede vogliono imitare tutto dalla Francia;
i furbi, in somma, e i fantastici (1 ). Ma la virtù a Napoli è grande. Mentre
in tutte le altre rivoluzioni è l'elemento cattivo, che fa sorgere principi
pessimi, qui vi sono i princípi non buoni, che fanno cadere uomini buoni ed
eletti. La memoria dello storico s'in china dinanzi ai martiri del '99. I
patrioti sono uomini colti, superiori, il fior fiore della nazione: forse
questa stessa loro origine è la causa prima che li allontana, sele zionandoli,
dalle masse, e quindi dalla realtà d'ogni sana politica. Gli uomini sono buoni;
i princípi che essi pro fessano, gli ordini cattivi. La loro virtù è una virtù
stoica, il loro spirito romano, la loro morale superiore, troppo superiore a
quella comune delle plebi: quest ' è stata una delle cagioni della ruina (2 ).
Uomini i patrioti insufficienti tutti, nel giudizio sereno dello storico, a
creare e a diri gere uno Stato, grandi solo nella morte: la loro fine con sacra
alla posterità la loro sublime grandezza. Il Cuoco è davvero nella sua analisi
uno scettico, e sa esaltare l’eroi smo, come abbattere la falsa politica. Lo
stesso uomo, che enumera errori errori errori, è poi colui che con pa role
degne di Tacito, esaltatore delle ultime aristocra tiche virtù, descrive la
difesa strenua degli ultimi nuclei rivoluzionari dinanzi all'irrompere delle
torme sanfedi ste, la distruzione del forte di Vigliena, oppure la ca duta di
Altamura. L'assedio di Altamura, per esempio, è scolpito con una concisione ed
una rapidità mirabili: l'eroica disperata lotta rivive paurosa nella nostra
fantasia. Il salto del forte di Vigliena, la battaglia navale di Procida delle
flot tiglie barcarecce di Caracciolo contro le munite navi di Nelson mostrano
un Cuoco, non solo freddo analista, cri tico spietato d'errati metodi
legislativi e costituzionali, ma un Cuoco, direi, lirico e commosso, preso dal
fascino delle figure eroiche, che la storia suscita fra errori e de lusioni,
onde ei può nel crollo della sua, dico sua, repub (1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
XV, p. 84, nota. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVI, p. 157. 102 blica
esclamare esaltato: « Si sono tanto ammirati i tre cento delle Termopili,
perchè seppero morire; i nostri fecero anche dippiù: seppero capitolare
coll'inimico e salvarsi; seppero almeno una volta far riconoscere la repubblica
napoletana » (1 ). Ma lo spirito politico di Vincenzo Cuoco non può non far
risalire alla sventatezza, all'impreparazione dei pa trioti la causa dello
sfacelo; non può, esaltando virtù e meriti, dimenticare l'insufficienza e la
vacuità del me todo legislativo, che doveva dar le norme direttive al nuovo
ordine. Si è detto (2 ) che la storia del Cuoco non è scritta con un fine ben
netto. No, il fine c'è: la condanna spietata d'una mitologia costituzionale e
filosofica, af finchè l'Italia ritorni alla sua tradizione e non ricada sugli
antichi errori. I saggi sono inutili a produrre le ri voluzioni; i filosofi
navigheranno sempre in beate astra zioni, ma invano credono di poter muovere
con i loro pensamenti i popoli, poi che questi non si muovono che sotto
l'urgenza di concreti bisogni. A Napoli, come al trove, c'era un popolo:
bisognava tenerne conto, inter pretarne i desideri. I patrioti non ne fecero
caso. Tutta la rovina della repubblica s'impernia su questa incompren sione
sociale. Il popolo, sappiamo, è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e
delle controrivoluzioni (3 ). Credere un moto rivoluzionario determinato dalla
filosofia è una semplice illusione, che solo i francesi potevano concepire. La
rivo luzione deve parlare ai sensi e alla fantasia, non solo all'intelletto,
cioè alle plebi, e non solo ai pensatori. A Napoli c'era un popolo, che in
qualche modo aveva di che lagnarsi della più recente opera de' Borboni: biso
gnava farlo agire, soddisfare i suoi desideri, cointeressarlo alla nuova
ricostruzione, legarlo allo Stato: allora solo, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
XLVIII, p. 188. (2 ) U. TRIA, op. cit., p. 196, in Rassegna critica della lette
ratura italiana, v. VI, (1901 ). (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p.
5. 103 fatto ciò, la repubblica poteva dirsi basata su un piedi stallo
incrollabile. In una rivoluzione è necessario il numero e l'idea. Le idee
repubblicane si sarebbero potute rendere popolari, ove si avesse voluto trarle
dal fondo istesso della nazione. Quando la rivoluzione scoppia, il popolo
ondeggia tra le due fazioni, i patrioti che vede padroni della capitale, il re
che vede fuggire ignominiosamente. È il momento ! Il popolo dubita della
saggezza del sovrano, della sua magnanimità, lo coglie in peccato di
vigliaccheria, dubita, e chi dubita condanna a metà. Si può rendere il popolo
partecipe all'azione, invece si fa di tutto per allontanarlo. « La nostra
rivoluzione » scrive Cuoco « essendo una rivo luzione passiva, l'unico mezzo di
condurla a buon fine era quello di guadagnare l'opinione del popolo » (1 ). Ma
repubblicani e popolo sembrano nonchè due classi, due popoli diversi per idee
costumi lingua. I primi sono fran cesizzanti; il secondo per natura
tradizionalista, attac cato alle sue istituzioni, ai suoi principi, alla sua
reli gione, ai suoi pregiudizi. Tra gli uni e gli altri c ' è un divario di due
secoli di cultura e di storia. I dirigenti invece prescindono da ogni elemento
nativo, quell'ele mento che si deve coltivare, essendo tutto nel popolo. Co
loro, che sono ancora napoletani, nota con amarezza lo storico, e che
compongono il maggior numero, sono in colti. Ritorniamo al solito concetto: la
moda straniera è la causa di tutta la rovina (2 ). « Le disgrazie de' popoli
sono spesso le più evidenti dimostrazioni delle più utili verità. Non si può
mai gio vare alla patria se non si ama, e non si può mai amare la patria se non
si stima la nazione. Non può mai esser libero quel popolo in cui la parte, che
per la superiorità della sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia
coll’autorità sia cogli esempi, ha venduta la sua opi (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVI, p. 90. (2) Il giudizio cuochiano coincide col giudizio degli
storici più recenti: vedi V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 104. 104 nione ad
una nazione straniera: tutta la nazione ha per duto allora la metà della sua
indipendenza » (1 ). Mancava alla rivoluzione l'orgoglio nazionale, che solo
può salvare i popoli nelle loro crisi. Si voleva imitare la Francia e si
dimenticava Napoli, si obliava che la gente meridionale avea una sua specifica
natura diversa dalla natura delle genti galliche. In Italia c'era un comunali
smo, che in Francia non era mai stato; a Napoli c'erano cento volghi diversi
l'uno dall'altro, in Francia un popolo compatto ed omogeneo. I repubblicani
dovevano tener conto di ciò, e trovare un interesse comune, che riunisse
dirigenti e diretti, governanti e governati. « Quando la nazione si fosse una
volta riunita, invano tutte le potenze della terra si sarebbero collegate
contro di noi » (2 ). Il popolo non è mai né borbonico nè sovversivo, nè nero
nè rosso: « i popoli si riducono » osserva con acutezza il nostro autore « a
seguir quelli che loro offrono maggiori beni sul momento » (3 ). Il popolo di
Napoli così avrebbe seguito i rivoluzionari, se questi gli avessero dato spe
ranze di miglioramenti, avessero intesi i suoi desideri, avessero rispettato
gli istituti a cui era legato, avessero riverito la religione dei suoi avi. «
Che cosa è mai una rivoluzione in un popolo? Tu vedrai mille teste, delle quali
ciascuna ha pensieri, interessi, disegni diversi dalle altre. Se a costoro si
nta un capo che li voglia riu nire, la riunione non seguirà giammai. Ma, se
avviene che tutti abbiano un interesse comune, allora seguirà la ri voluzione
ed andrà avanti solo per quell'oggetto che è comune a tutti » (1 ). Ma per fare
ciò bisogna andare cauti: non bisogna di struggere. Bene o male gli istituti
esistenti assicurano la convivenza, occorre riformarli, migliorarli, non ab
batterli al suolo: « il voler tutto riformare è lo stesso che voler tutto
distruggere » (5 ). (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. (2 ) U. Cuoco,
Saggio storico, XVI, p. 92. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. (4 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 94. (5 ) Framm., p. 219. 105 Il popolo di
Napoli, nota il Cuoco, ha una sua religione. Osserviamo la natura di questa
religione, e vedremo che essa non ripugna ai principi della democrazia. « La
reli gione cristiana ridotta a poco a poco alla semplicità del Vangelo;
riformate nel clero le soverchie ricchezze di po chi e la quasi indecente
miseria di molti; diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi;
tolte quelle cause che oggi separan troppo gli ecclesiastici dal go verno e li
rendono quasi indipendenti, sempre indifferenti e spesso anche nemici, ecc.
ecc.: è la religione che meglio d'ogni altra si adatta ad una forma di governo
moderato e liberale » (1 ). In ciò il cristianesimo è assai diverso dal
paganesimo, che, basandosi su un'idea di forza, non può produrre che schiavi
indocili e padroni tirannici. La no stra religione si appoggia su princípi di
libertà, su prin cípi di fratellanza, su princípi di giustizia, e sembra quindi
la più adatta per legare il popolo allo Stato. La reli gione, nota il Cuoco
ripetendo un pensiero del Conforti (2 ), è un elemento insopprimibile nella
vita dello spirito umano, dal quale quindi non si può prescindere. « Non è
ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non
gliela date, se ne formerà una da sè stesso. Ma, quando voi gliela date, allora
formate una religione analoga al governo, ed ambedue concorreranno al bene
della nazione: se il popolo se la forma da sè, allora la religione sarà
indifferente al governo e talora nemica » (3 ). Questi i concetti di Vincenzo
Cuoco (4 ). Lo Stato deve avere una sua religione, ed imporla: Stato e Chiesa
nazionale debbono concorrere al benessere gene rale. Princípi che meritano un
superiore approfondi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 129 e sg. (2 ) Sulla
posizione religiosa del Conforti in confronto al Cuoco vedi B. LABANCA,
Giambattista Vico e i suoi critici cat tolici, Napoli, Pierro ed., 1898, p. 414
e sgg. (3) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. (4) V. FIORINI e F. LEMMI,
op. cit., p. 137. I due insigni storici concordano pienamente col Cuoco nel
ritenere che gli errori dei repubblicani in fatto di religione hanno non poco
influito ad allontanare il popolo dalla rivoluzione. 106 mento, che noi faremo
in seguito: resta acquisito in tanto l'alto e moderno ideale, che il molisano
aveva della religione (1 ). La rivoluzione napoletana fu la negazione di questi
princípi. Sorse democratica, s'affermò anticlericale e vi lipese l'alto valore
etico della dottrina cristiana e catto lica, per sostituirla con una generica
morale laica. Si ab bandonò all'incomprensione dei subalterni un problema
grave, anzi gravissimo, come il problema religioso. « Il po polo si stancò tra
le tante opinioni contrarie degli agenti del governo, e provò tanto maggiore
odio contro i repub blicani, quanto che vedeva le loro'operazioni essere
effetti della sola loro volontà individuale » (2 ). Il governo in sostanza era
agnostico, non conduceva ex professo una politica antireligiosa ed
anticlericale, ma lasciava fare, e gli emissari in provincia si sfogavano
contro i beni ec clesiastici o peggio contro il culto professato. Il popolo,
colpito in uno dei suoi più profondi affetti, s'affermò san fedista contro lo
Stato. È questo un episodio, ma certo il più saliente, dell'incomprensione tra
quelli, che Cuoco, nonchè due classi, due popoli volle chiamare, i repubbli
canti dirigenti e le popolazioni subordinate. Alla religione alcuni volevano
opporre una generica morale civile e laica. Si negava il cattolicesimo, si
affer mava di contro la libertà. Ma che cosa è la libertà, se non un mero
astratto? Chi chiedeva la libertà? Non certo quelle popolazioni rurali, che il
governo così bel lamente fraintendeva, « La libertà delle opinioni, l'abo
lizione de ' culti, l'esenzione dai pregiudizi, era chiesta (1 ) Nel Platone in
Italia (v. I, p. 84) ritornano spesso con: cetti consimili, indice della
mirabile armonia dell'ingegno di V. Cuoco: « Nelle città colte le leggi civili
debbono esser tutte diverse dai precetti di religione e di costumi: chiare,
precise, inesorabili. Ma sapete voi perchè? Perchè, quando si deb bono
riformare, il che avviene spessissimo, il popolo tien altri precetti da seguire.
Se il popolo allora si trovasse senza co stumi e senza religione, si
distruggerebbe per anarchia, prima di darvi il tempo necessario a riordinare le
leggi », (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 131. -107 da pochissimi, perchè
a pochissimi interessava » (1 ). L'er rore, ripeto, è nelle basamenta, in un
oblìo completo del popolo, nell'astrarsi ne'sublimi princípi per dimenticare la
vita e le sue molteplici manifestazioni. Eppure, ep pure, nota con rimpianto il
Cuoco, si poteva riuscire, si potevano sfruttare le forze ignote, ma
inesauribili del po polo, e creare così una insuperabile barriera al legittimi
smo borbonico. « Il popolo è un fanciullo » (2 ): se ne intendi la complessa
psicologia, lo porterai dove vuoi: basta che tu intuisca la sua natura. « Il
popolo è ordina riamente più saggio e più giusto di quello che si crede » (3 ).
Il talento del legislatore consiste nel sapere sfruttare que sto innato senso
di saggezza e di giustizia nelle più adatte contingenze, così da « menare il
popolo in modo che fac cia da sè quello che vorresti far tu » (4). Ovunque c'è
un male da riparare, un abuso da riformare, presentandosi come salvatore il
riformatore, che non distrugge per me todo, ma procede per osservazione
diretta, troverà sem pre il popolo che saprà seguirlo e rincorarlo. Il Cuoco
osserva acutamente che a volte il malcontento nasceva dal volersi fare talune
operazioni senz'appa renza, senza quelle solennità tipiche, che la plebe ama,
perchè sono nella tradizione. Si trattava di forma e non di sostanza. Ebbene, i
repubblicani preferivano urtare contro questi apparati, anzi che secondarli,
perdere l'ar rosto per non volere il fumo. La filosofia politica di Vincenzo
Cuoco a proposito della rivoluzione si concreta in una sola constatazione. «
Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò che tutto il popolo
vuole, e farlo; egli allora vi seguirà: distinguere ciò che vuole il popolo da
ciò che vorreste voi, ed arre starvi tosto che il popolo più non vuole; egli
allora vi abbandonerebbe » (5 ). Una prassi rivoluzionaria, che si (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 104. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 106. (3
) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 108. (4) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p.
107. (5) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 95. 108 allontani da questo
elementare principio produce effetti incalcolabilmente gravi e perniciosi. « La
manìa di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione » (1 ). Le
rivoluzioni nascono dai bisogni, ma dietro i bisogni sono gli uomini, e gli
uomini sono idee, idee vive palpitanti, non astratte e categoriche, sono senso,
sono fantasia, sono religione, sono molte cose in uno. Ogni nazione ha un
patrimonio di idee, il risultato d'una esperienza secolare, d'una vita non
interrotta mai: essa è attaccata a questi princípi, vivi nella sua coscienza,
presenti alla sua atti vità. La rivoluzione scompiglia questo stato mentale, ma
è un errore credere che si possa distruggere tutto, far sottentrare alle idee
antiche idee del tutto nuove, ai princípi antichi princípi opposti. La
rivoluzione può so pire molte cose, ma esse, idee e princípi, si rifanno sulla
rivoluzione; come la pressione s'indebolisce, affiorano novellamente ne
contrasti. Il popolo è scosso, tentato ne' suoi convincimenti: se voi
esagerate, ritorna sui suoi passi. Anche nelle idee v'è uno spiegamento, una
natu rale continuità: non rompete il processo: è da savi: « il popolo passa per
gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle
antiche » (2 ). Ogni nazione ha un suo spirito, una sua mente, dice Cuoco.
Questo spirito soggiace ad un processo, non al trimenti che lo spirito
individuale. L'estremismo poli tico, in qualsiasi suo aspetto, di destra o
sanfedista o legittimista, di sinistra o repubblicano o giacobino, riceve la
sua condanna nelle osservazioni del molisano. Le idee nel loro spiegamento non
possono essere sforzate, perchè, come ho detto, trovano nello stesso momento
della loro negazione un' implicita affermazione. L'estremismo, in sostanza, è
un vero e proprio sforzo estrinseco, che si esercita sullo spirito e sul popolo.
Le idee giunte allo estremo, debbono retrocedere. Si riforma più di quel che è
nelle esigenze de' popoli; il popolo crede le riforme su perflue, cerca di
sottrarvisici; bisogna che il governo, se (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII,
p. 96. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 97. 109 vuol mantenere il suo
punto di vista, le faccia osservare con la forza: ecco come un malinteso
riformismo legi slativo conduce all'estremismo, al terrore statale, alla fine
della repubblica a Napoli, a Robespierre in Francia. « L'uomo è di tale natura,
che tutte le sue idee si can giano, tutt' i suoi affetti, giunti all'estremo,
s'indeboli scono e si estinguono: a forza di voler troppo esser libero, l'uomo
si stanca dello stesso sentimento di libertà » (1 ). I popoli hanno un corso
naturale tra l'estrema servitù e la licenza, estrema libertà, corso eterno che
tutte le genti percorrono ! I princípi non debbono correre innanzi alla storia,
sforzandola a seguirli, poi che essa si vendica de ' princípi ed afferma la sua
autonomia. La vendetta è nel sangue, nella reazione legittimista a Napoli, nella
ghigliottina che abbatte Robespierre a Parigi. Da un estremo si ricorre
all'altro, e così via, finchè non si ritrova l'equilibrio: il liberalismo
moderato. Il Cuoco è l'esponente più vivido del liberalismo italiano. La sua
figura si illu mina alla luce di questa idea liberale, grande sopra tutte le
idee, la quale ha saputo dare agli italiani l'Italia. Da tutto il Saggio
storico l'insopprimibilità del liberalismo, non come teoria, ma come prassi
costituzionale e politica, appare evidente. Non mi accusi il lettore di
sforzare la fisionomia intellettuale del Cuoco, no, poichè io mi rife risco a
ciò che leggo, e mi faccio cauto interprete di ciò che trovo, e documento. «
Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo
si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la
felicità è nel mezzo » (2 ). Del resto queste opi nioni, che ora vediamo in
atto nella storia, che il”Cuoco fa degli avvenimenti napoletani, di cui fu
attore, spetta tore e giudice, rivedremo sotto un nuovo aspetto, allor quando
egli stesso ci dirà come e sino a quanto la storia, che si sviluppò dopo il
crollo della Partenopea, abbia dato a lui ragione, vale a dire allor quando
considere remo Cuoco di fronte alla figura di Napoleone, Cuoco di (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 99. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p.
102. 110 1 2.02 fronte al problema teorico e pratico, filosofico e costitu
zionale dello Stato, Cuoco di fronte all'ideale dell'unità della patria.
Notiamo: quest'atteggiamento di modera tismo cuochiano non è estrinseco, non è
solo il principio base della critica rivoluzionaria, è anche l'elemento
unificatore di tutta la filosofia politica del molisano, l'ele mento che le dà
coerenza, e che egli trova impersonato in Napoleone, il restauratore
dell'ordine, il corifeo delle idee medie. L'estremismo è esaltazione di
princípi: allo Stato si sostituisce la setta: all'ordine costituzionale
l'associa zione fuori e a volte contro lo Stato: al diritto codificato le norme
del partito. Moderatismo significa: libertà nella legge, i partiti nello Stato
e non fuori dallo Stato, diret tiva unitaria della vita civile, garanzia nel
diritto. Come il Cuoco vedrà incarnata e realizzata questa sua conce zione, è
cosa da studiarsi in seguito (1 ). La rivoluzione del '99, che per il Cuoco è
veramente l'esperienza del sistema abbozzato ne' Frammenti, nella stessa
degenerazione de' princípi, riconferma il nostro nelle sue aspirazioni. Egli,
che dalla storia trae ogni in segnamento – la storia è la fonte d'ogni
pedagogia poli litica scrive: « La storia di una rivoluzione non è tanto storià
dei fatti quanto delle idee » (2 ). Conoscere il corso delle idee nella storia
significa impadronirsi d'una tale sapienza, che ci permette di evitare ogni
errore poli tico. Gli errori di Napoli? Denudiamo la realtà dai fron zoli della
retorica, dice Cuoco, esponiamoli nella loro cru dezza, perchè gli uomini,
gl'italiani si ravvedano. A Napoli abbiamo avuto perfino un esperimento di
terrorismo. È mirabile la definizione psicologica del feno meno. « Il
terrorismo è il sistema di quegli uomini che vogliono dispensarsi dall'esser
diligenti e severi; che, non sapendo prevenire i delitti, amano punirli; che,
non sa pendo render gli uomini migliori, si tolgono l'imbarazzo (1 ) Questa
fondamentale coerenza del pensiero di V. Cuoco è stata più che a sufficienza
dimostrata da M. ROMANO, op. cit., p. 90 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico,
XXXVIII, p. 169. 111 che dànno i cattivi, distruggendo indistintamente cat tivi
e buoni. Il terrorismo lusinga l'orgoglio, perchè è più vicino all'impero;
lusinga la pigrizia naturale degli uomini, perchè è molto facile » (1 ). Il
Cuoco non lo dice, ma lo pensa: i governi deboli sono i più inclini all'abuso
costituzionale, al terrorismo di Stato. Tutte le considerazioni, che lo storico
trae dai fatti, convergono verso uno scioglimento, che ci appare fatal mente
consequenziario. L'estremismo terroristico, l'ultima ratio de' governi prossimi
a cadere, si mostrò più d'ogni altro sistema inutile. Il tribunale
rivoluzionario, che si macchid del sangue dei Baccher (2 ), non salvò la repub
blica pericolante. Stringiamo le fila della trama, che siamo venuti dise
gnando, portiamoci col pensiero di nuovo alla critica del l'opera governativa,
alla génesi della repubblica, all'azione legislativa e costituzionale dei
rivoluzionari, all'estremi smo di molti patrioti, e ci apparirà vero quanto il
nostro autore scrive sull'ineluttabilità dello scioglimento. La sto ria del
Cuoco corre, si può dire precipita, ad un fine. Non c'è avvenimento, pagina che
non ci ammonisca: ecco un male, ecco un malinteso ! Perciò quando noi ci avvici
niamo agli ultimi ruinosi eventi, non possiamo che dire: era fatale !, sia pure
con rimpianto, con dolore. Ho detto in principio che nel Saggio storico si nota
una mirabile obiettività, quell'obiettività del creatore, che sola può dare il
capolavoro; ho detto che la personalità dello scrittore non s'intrude mai
praticamente nello svi luppo narrativo e nel progresso degli avvenimenti: la
storia si svolge da sè, corre sul suo binario logico, senza estrinseci sforzi.
Ciò non toglie che il Cuoco a volte rompa con sublime sapienza l'esposizione
per ammonire, per parlare ai suoi posteri, per consigliare: è lo storico che è
consapevole della sua missione, dell'altezza del suo inse gnamento. Questa
pedagogia non è, però, fuori dall'arte, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVIII,
p. 160. (2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 115 e sgg. 112 personalità
pratica esterna all'arte, ma si risolve, attra verso una viva commozione dello
spirito, in una forma fantasiosa, in una espressione immaginifica, insomma,
nell'arte stessa. « La sua personalità » scrive assai bene Guido De Ruggiero (1
) « non s'intrude arbitrariamente nel corso degli avvenimenti; essa non è che
raramente la sua empirica e circoscritta soggettività, è più spesso invece la
drammatica personificazione del giudizio storico, è quella soggettività
superiore dove l'oggettività degli av venimenti e la soggettività dello storico
sono fusi in un sol getto ». È insomma il processo creativo della vera storia,
che conduce alla vera arte, risolvendo l'empirica personalità, in quell'alta
subiettività, che forma l'essenza della storia e dell'arte. La forma
precettistica qui non è un elemento estrinseco alla storia, è la gran voce
della storia. La critica spietata degli avvenimenti politici lo porta ad
accalorarsi per la sua stessa valutazione filoso fica, lo porta a
constatazioni, ad esclamazioni, in cui tu senti a volte un rimpianto, perchè
uomini di ingegno s'ingolfano in lotte, che il nostro stima senza uscita, a
volte una gioia profonda, in cui tu senti il pensatore che discopre un
principio sano di vita. Così, dopo una disa mina minuta di idee e di fatti, il
Cuoco può ésclamare, e nell'esclamazione io sento un dolore profondo romper la
glacialità dell'analista: « Tutti i fatti ci conducono sem pre all'idea, la
quale dir si può fondamentale di questo Saggio: cioè che la prima norma fu
sbagliata, ed i mi gliori architetti non potevano innalzar edificio che fosse
durevole » (2 ). Le premesse dello scioglimento sono d'ordine spirituale, sono
metodologiche, politiche. I susseguenti errori, mili tari, giuridici,
religiosi, le disfatte, le congiure realiste appaiono inevitabili. Le truppe
repubblicane agiscono in territori infidi, fra popolazioni ostili; i capi sono
ine sperti, troppo giovani; i francesi portano aiuti sempre più (1 ) G. DE
RUGGIERO, op. cit., p. 189. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXIX, p. 163. 113
scarsi; al contrario i borbonici sono ben diretti, ben vet tovagliati, sempre
più numerosi; le plebi sempre più fa vorevoli ad essi: sono particolari, ma che
non possono distogliere il pensiero dal principio sopra espresso, sola ed unica
causa della sciagura. Il disastro appare la logica cruda conseguenza di
premesse false. Tutto il Saggio ci porta in un mondo di rivoluzione, ove la
critica è cruda e precisa, ma ove la simpatia umana non manca. Vincenzo Cuoco
possiamo credere che rappresenti nel pensiero italiano quella medesima
posizione ideale che Edmund Burke rappresenta in quello inglese. Un raf fronto
minuto, particolareggiato tra i due scrittori non è stato fatto. Esso
riuscirebbe assai interessante, e po trebbe dimostrare come in ogni lato della
vecchia Eu ropa l'opposizione alla rivoluzione si faccia in nome d'un ritorno
alla tradizione nazionale. Il liberale moderato Cuoco è il rappresentante
tipico dell'italianismo risor gente: il Burke whig, cioè in sostanza liberale,
non crede ancora esaurita la missione delle antiche classi storiche, almeno
nella vecchia Inghilterra. È facile vedere alcuni punti di contatto tra i due
scrittori d'opposizione. Fre quentemente il Cuoco deplora l'esagerazione dei princípi
di libertà e d'eguaglianza. Gli uomini, se, di diritto, dinanzi alla legge,
sono uguali, serbano una originaria disugua glianza nel fatto: vi sono i buoni
e i cattivi, gli operosi e i parassiti, i borghesi industriosi e i lazzaroni
oziosi, gli aristocratici colti e gli aristocratici gaudenti: il governo dello
Stato deve essere riserbato ai migliori, cioè ai bor ghesi, e lo vedremo
documentato in seguito, poi che questi soli sono maturi. « Quando le
pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa
della libertà diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva Cicerone, non
distingue più i patrizi dai plebei: perchè dunque vi sono ancora dissensioni
tra i plebei ed i pa trizi? Perchè vi sono ancora e vi saranno sempre, i pochi
e i moiti: pochi ricchi e molti.poveri, pochi indu striosi e moltissimi
scioperati, pochissimi savi e moltissimi stolti » (.1 ). Se diamo una scorsa ai
Discorsi parlamentari o alle Riflessioni sulla rivoluzione francese del Burke
scaturi scono osservazioni assai consimili, nel senso, che pur am mettendo
liberalmente una rotazione di classi, il politico inglese crede ad un ordine
sociale, in cui l'aristocrazia d'Inghilterra ha ancora una sua propria missione.
Certo vi sono differenze tra i due scrittori, ma le analogie sono sempre
interessanti. S'intende, l'aristocrazia politica del Burke, il lievito, possiam
dire, della grande vita costituzio nale d'Inghilterra è qualche cosa di diverso
dalla nobiltà italiana, con la quale parola il molisano indica « un ceto che
più non deve esistere, ma che ha esistito finora » (2 ). Ma le nazioni hanno
svolgimenti diversi e bisogni spesso opposti: quel, che nell’un paese si chiama
con lo stesso nome che nell'altro, a volte è una cosa sostanzialmente diversa,
secondo varî elementi. Ma non posso lasciare questo argomento senza notare come
lo stesso Burke nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione francese si rifaccia ad
una valutazione, nella sua natura, simile a quella del Cuoco. Il liberale Burke
nella rivoluzione d'Oltre manica vede la negazione del suo moderatismo, una ri
voluzione, che prescinde dalle realtà peculiari d’un po polo, quale l'inglese,
la cui vita è un esempio dimirabile continuità politica, una rivoluzione che
pretende di struggere il passato, anche laddove il passato è il presup posto
d’un non disprezzabile presente; uno Stato, che rigetta alcune classi per
altre, invece di sintetizzarle in una volontà superiore ed unica; uno Stato,
che rigetta elementi sociali di primissimo ordine, senza pensare che si possano
utilizzare per la vita civile, perché hanno ancora energia e sopra tutto hanno
quell'esperienza pub blica, che ad altri manca. All'inglese, per cui la vita
civile dei popoli è un prodotto graduale d'una evoluzione storica
incancellabile, per cui la costituzione de' padri è una conquista continua,
nell'aderenza più completa coi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 100. (2
) V. Cuoco, Saggio storico, XX, p. 109. 115 n mille bisogni d'un popolo
secolare, la nuova pretesa di derivare un ordinamento democratico, valido per
tutte le genti del globo, desumendolo dalla pura ragione, appare veramente
ridicola. Mi sembra che il parallelo tra il Cuoco e il Burke non potrebbe
essere più calzante, sia pure tra numerose differenze. Il Burke è un oratore,
un parlamen tare, pratico e sensibile politico, che non risale mai a con
siderazioni superiori, pur quando la sua critica potrebbe coinvolgere non solo
la mentalità rivoluzionaria francese, ma una mentalità, che è di tutti i tempi
e di tutti i paesi. Il Cuoco invece, testa politica ma di volo più robusto, dai
particolari ascende ai princípi, dai fatti ritorna alle idee, che hanno un
corso eterno ed uno sviluppo continuo, per foggiare un suo sistema, che, collaudato
da una espe- ' rienza moderna ed antica, ha in sè qualcosa di ferreo. Sì, il
Cuoco si può raffrontare al Burke, ma il Saggio storico 1 « è un'opera capitale
di pensiero storico, la quale, come osserva B. Croce (1 ), tiene in certo modo
in Italia, e forse con maggiore altezza filosofica le celebri Riflessioni sulla
rivoluzione francese », non fosse altro per la vastità del campo
d'osservazione, per il senso vigile, che vi do mina, della storia, come eterno
farsi, come eterno divenire dello spirito umano. Della maggiore levatura del
moli sano sull'inglese noi abbiamo una prova sicura e positiva
nell'atteggiamento definito di fronte alla rivoluzione: il Burke da una critica
superiore passa presto all'op posizione sistematica, vedendo pura ribellione,
mero ri voluzionarismo, semplice neomania, anche ove vè sano liberalismo,
desiderio d'un nuovo pacifico equilibrio, rifor mismo contenuto entro limiti di
saggezza, sicchè i benefici effetti del movimento gli sfuggono: il Cuoco,
invece, rico nosce le origini delle rivoluzioni come legittime, e le spiega
completamente; nega, sì, l'applicazione universale dei princípi da essa
desunti, ma, nello stesso tempo, sa va lutare l'importanza della nuova
situazione creatasi, dalla (1) B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel
secolo XIX, Bari, Laterza ed., 1921, v. I, p. 9 e sgg. 1 116 quale nessun
paese, nè l'Italia, nè l'Inghilterra, può prescindere (1 ). Siamo giunti alla
fine del nostro discorso sul Saggio storico. Come quest'opera sia nata, dal
punto di vista materiale, ove sia stata scritta, come sia stata concretata, a
noi importa assai poco. L'esame che ne abbiamo fatto non può non essere
sommario, incuneato com'è in un più vasto problema: il pensiero politico di
Vincenzo Cuoco, che non si esaurisce, come comunemente si crede, nel Saggio, ma
trova il suo naturale sviluppo e comple mento negli articoli del Giornale
italiano, che il molisano venne scrivendo negli anni 1804-1806, dopo il grande
successo che ebbe il Saggio nell'ambiente milanese (2 ). Il Saggio storico, per
chi ricerchi la sua genesi spirituale, si svolge spontaneamente dai Frammenti
di lettere a V. Russo, de cui principi è la riprova vissuta, l'espe rienza. Se
la rivoluzione di Napoli ha avuto una utilità, è questa: il foggiarsi d'una
coscienza italiana, che all'estre mismo e all'astrattismo oppone una veduta
moderna e positiva della vita pubblica. Nel Saggio, abbiamo detto, dette (1 )
Conobbe il Cuoco quando scrisse il Saggio storico sulla ri voluzione napoletana
le Reflections on the French Revolution di Edmund Burke? Con ogni probabilità,
sì. Le sopra Reflections furono pubblicate per la prima volta neil' ottobre del
1790, vale a dire dieci e più anni prima dell'opera del no stro. Nel Saggio
stesso vi è una nota in cui il nome del Burke spicca evidente e col nome un suo
giudizio (II, p. 18 ). Il Cuoco conosce assai bene i princípi costituzionali
inglesi e ne fa sfoggio nelle sue opere. Il popolo inglese lo interessa assai,
e le scritture d'autori inglesi ha spesso fra le mani e le recensisce nel
Giornale italiano (cfr. 1804, n. 17, 8 febbraio, p. 68; -1804, n. 28, 5 marzo,
pp. 111-12; 1804, n. 54, 5 maggio, pp. 215-216; 1804, n. 58, 12 maggio, p. 228;
ecc. ). Che l'opera del Burke, V. Cuoco conoscesse assai profondamente, lo
dimostra una re censione (cfr. Giorn. ital., 22 settembre 1804, n. 114, p. 446),
ove egli discorre abbondantemente e fa un largo elogio di una traduzione
italiana d'una opera estetica del celebre autore in glese, Essay on the Sublime
and Beautiful, Tutto ciò mostra una conoscenza delle cose d'oltre Manica assai
profonda, prima e dopo la pubblicazione del Saggio. (2 ) N. RUGGIERI, op. cit.,
p. 34: G. Cogo, op. cit., p. 10. 117 non è tutto il Cuoco, non è tutto il suo
pensiero politico, ma è certo quanto di meglio abbia prodotto il suo genio, dal
punto -di vista artistico. Il Gentile, giudice di alto valore, crede il
Rapporto al re Murat per l'ordinamento della pubblica istruzione, di cui avremo
a parlare in seguito, quando tratteremo d'altri atteggiamenti spirituali del
Cuoco, crede dunque il Rapporto, insieme con il Saggio storico, « ciò che di
più notevole produsse il pensiero napoletano in quegli anni agitati tra il '99
e il '20 » (1 ). Ma ciò riguarda più il valore politico dell'opera, di cui
diciamo, piuttosto che il valore artistico. Dal punto di vista puramente
storico, dal 1801 in poi gli scrittori hanno cercato in varî modi di far luce
sugli avvenimenti napoletani, ma le conclu sioni, alle quali si è pervenuto,
sono sostanzialmente quelle del nostro autore (2 ). Sembra impossibile che un
individuo, che, come il Cuoco, scrive pochi mesi dopo la sciagura, di cui è
stato egli non piccola parte, possa superare i fatti stessi e la sua per sonale
passionalità, in una lucida espressione artistica, che di converso è anche una
mirabile storia umana. Lo storico si leva sugli avvenimenti, e il suo sguardo
pene tra a fondo nello spirito degli uomini e nel corso delle cose, allargando
la sua visuale dai fenomeni particolari ai princípi che sono eterni, dal
problema peculiarmente napoletano a questioni che sono europee, a considera
zioni più largamente umane. L'artista poi trova l'espressione più adeguata e
palpi-. tante in una forma, che non si sa se più ammirare per la sua immediata
precisione o per la sua sinteticità taci (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p.
279. (2 ) Un'offensiva anticuochiana tenta L. CONFORTI, op. cit., P: 21 e sgg.,
ma da un punto di vista assolutamente errato é falso. Dopo quanto abbiamo
scritto per il Tria una confuta zione delle affermazioni del Conforti ci appare
inutile, anche perchè non potremmo che ripetere ciò che già fu detto dal
RUGGIERI, op. cit., p. 104 e sgg., e dal ROMANO, op. cit., p. 99. 118 tiana, a
scatti, nervosa, e pur viva e palpitante (1 ). In un mondo di riflessi e di
chiaroscuri, di luci e di ombre, le figure dei tragici eroi del '99 appariscono
scolpite per l'eternità, appaiono martellate nel marmo da una mano
michelangiolesca. Io non conosco pagina di storico mo derno, che mi animi la
trista figura del Vanni, bieco stru (1 ) Anche qui non mancarono i critici. Il
GIORDANI, per esempio, in un abbozzo di opera, che aveva intenzione di scri
vere col titolo di Studi degli Italiani nel secolo XVIII, discor. rendo di
quelli che « sono venuti in tanta stoltizia che hanno fermato non esservi arte
alcuna di scrivere », osserva che in vece: « l'esperienza e la ragione e
l'autorità de' primicomprova che vi è: ed è fra tutte difficilissima: e ben lo
notò Cicerone che pur futra’ principali. Ma dovette credersi più savio ed
esperto di Cicerone quel Vincenzo Cuoco che scrisse non darsi arte di scrivere,
e quello che in poche parole affermò, ben con troppe carte, quanto a sè,
confermò ». (Scritti editi e postumi, pubblicati da A. Gusalli, Milano, Borroni
e Scotti, 1856, v. I, p. 187 e sgg). Giudizio addirittura stroncatorio ! Del
resto l'ar tifizioso Giordani per la sua cultura accademica, per la sua
mentalità scolastica era il meno adatto ad intendere la spon taneità geniale
dello scultore del Saggio. Ben altro giudizio di quello del Giordani dovea dare
di V. Cuoco il Manzoni, per esempio ! Forse per reazione al Giordani il
SETTEMBRINI (op. cit., v. III, p. 280) nella sua felice esaltazione del Saggio,
come opera di pensiero, in cui il Cuoco, pur narrando i fatti da pa triota, «
li considera da filosofo, e la sua filosofia non è tutta francese, ma è anche
senno italiano, è la sapienza storica di Giambattista Vico e di Mario Pagano »,
venendo quindi a dire della lingua della grande opera, « nella quale si sente
il mesco lamento di due popoli », il francese e l'italiano, prorompe: « Che
importa a me di lingua non pura e di francesismi, se io non me ne accorgo
perchè le cose che dice mi occupano tutta l'anima, e in quella lingua torbida
io vedo e sento tutto quel torbido rimescolamento diuomini e di cose? È la
lingua stessa del Filangieri, del Beccaria, del Verri, con qualche cosa di più
che viene da un profondo sentimento di dolore. Dopo il 1815 i grammatici s'
intabaccarono con la Polizia e con l' Indice, e dissero che gli scrittori del
tempo della Rivoluzione furono scorretti di lingua, anzi barbari, anzi senza
italianità, e da non leggersi, e da dimenticarsi: e così Vincenzo Cuoco fra gli
altri fu proscritto da tutte le potestà. Noi dobbiamo conoscere quest'uomo che
fu il solo scrittore di pregio che i napoletani ebbero durante la rivoluzione,
il solo che in sè stesso raccoglie il senno e la fortuna di un regno ». 119
mento borbonico di reazione, con tratti così rudi ed espres sivi, come quelli
dello scrittore civitese. « Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in sè
stesso; il colore del volto pallido- cinereo, come suole essere il colore degli
uomini atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della
tigre: tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt'
i suoi affetti at terrivano e sbalordivano lui stesso. Non ha potuto abitar più
di un anno in una stessa casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de '
signorotti di Fera e di Agrigento. Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno ! » (1
). V’è in questa prosa lucida e insieme aderente alla realtà dello spirito,
tutta l'eloquenza di Livio, tutta la concentrata possanza di Tacito, v'è la
acutezza di Ma chiavelli, l'oscura densità di Vico. Una parola scolpisce un
individuo, una immagine ci rende un uomo. « Schipani rassomiglia Cleone di
Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del più caldo zelo per la rivoluzione,
attissimo a far sulle scene il protagonista d'una tragedia di Bruto, fu eletto
comandante di una spedizione desti nata passar nelle Calabrie, cioè nella due
provincie le più difficili a ridursi ed a governarsi, per l'asprezza dei siti e
per il carattere degli abitanti. Non avea seco che ottocento uomini, ma essi
erano tutti valorosi e di poco inferiori di numero alla forza nemica » (2 ).
Ecco come un raffronto, anzi due raffronti ci dànno il tipo dell'eroe gia
cobino, pieno di pseudo-romanità teatrale, e perciò lon tano dal secolo, in cui
vive ed opera. Dovrei continuare.... Caracciolo e la battaglia navale di
Procida, la difesa del forte di Vigliena sono nella narrazione del Cuoco poche
righe, ma s'imprimono indelebilmente nella memoria di chi legge e suscitano una
larga fantasia. Le pagine che lo scrittore dedica alla reazione sanfe dista e
alla caduta della repubblica fanno fremere. Chi non ricorda il combattimento
intorno ad Altamura? (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 35. (2) V. Cuoco,
Saggio storico, XXXIII, p. 150, 120 « Il disegno di Ruffo era di penetrar nella
Puglia. Al tamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo l'assedia;
Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa più ostinata, bisogna
ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni bastanti
a di fendersi; impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case, le pietre,
finanche la moneta convertirono in uso di mi traglia; ma finalmente dovettero
cedere. Ruffo prese Altamura di assalto, giacchè gli abitanti ricusarono sem
pre di capitolare; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea usato apparente
moderazione, in Altamura, sicuro già da tutte le parti, stanco di guadagnar gli
animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di terrore. Il sacco di
Altamura era stato promesso ai suoi soldati: la città fu abbandonata al loro
furore; non fu perdonato nè al sesso nè all'età. Accresceva il furore dei
soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali, in faccia ad un nemico
vincitore, col coltello alla gola, gridavano tutta via: Viva la repubblica !
Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri intrisi di sangue » (1 ).
Ma ove il Cuoco raggiunge le vette dell'eloquenza, e la sua espressione è
cristallina, d'una cristallinità meravi gliosa, è nelle pagine da lui dedicate
alla ricordanza dei grandi caduti, ai mani grandi di Cirillo, di Grimaldi, di
Caracciolo, di; Carafa, di Conforti, della Fonseca. Alle volte è un episodio
che lo scrittore riferisce, un aneddoto, una parola pronunziata: basta, una
figura s'illumina. Io non so, ma, forse, non c'è biografia dell'autore dei
Saggi politici che valga le poche righe, che Vincenzo, discepolo riverente,
dedica al maestro immortale. « Pa gano Francesco Mario. Il suo nome vale un
elogio. Il suo Processo criminale è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora
uno delli migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella carriera sublime
della storia eterna del genere umano voi non rinvenite che l'orme di Pagano, (1
) V. Cuoco, Saggio storico, XLV, p. 183. 121 che vi possano servir di guida per
raggiugnere i voli di Vico » (1 ). V'è una grandezza degna di Machiavelli.
Insomma il Saggio storico non è solo un monumento di sapienza politica e di
grande istoria, ma è ancora un capolavoro d'arte, forse la più grande opera di
prosa italiana, che dal Machiavelli al Manzoni si sia scritta. I protagonisti
del dramma, e il poeta li coglie in atto, in tutta la loro spiritualità,
illuminati da una luce di pen siero, possono sembrare ad alcuno marionette
agitate da un triste fato. Non è così ! Gli uomini determinano gli eventi, sono
gli operatori della vita civile, dell'orribile rivoluzione; sono essi stessi,
poi, che cadono sotto il peso dei loro errori. La loro autonomia così è salva.
La storia del Cuoco è storia di idee, da cui uomini potrebbero ban dirsi ed
essere sostituiti con lettere dell'alfabeto, X, Y, 2.... Sì, è vero, poichè
l'autore mira alle cose, agli interessi, ai bisogni; ma non dimentichiamo che i
bisogni, gli inte ressi, le cose, sono in quanto vi sono gli uomini: il Cuoco
politico, che scaccia la personalità dalla storia, è vinto dal Cuoco artista,
che a tratti nervosi ed icastici scolpisce una figura, anima una creatura
umana. Lo storico ab- · braccia un vasto quadro, e ricerca il corso eterno di
quelle idee, sulle quali corrono gli eventi delle nazioni, e per lui gli uomini
sono elementi particolari e transeunti, meteore, che oggi sono e domani non
saranno: l'artista, integrando lo storico, anima gli uomini, e di essi e del
loro spirito vede piena la vita, di cui essi stessi sono i fattori. Tra storico
ed artista, insomma, c'è una supe riore armonia. « Il realismo della
rappresentazione, la nettezza del [ contorno » scrive Giovanni Gentile « il
rilievo delle figure, la luce di tutto il quadro » fanno del Saggio « una delle
maggiori opere storiche di tutte le letterature. Gli uo mini ci vivono ntro con
la vita individuale della loro psicologia, intuita in atto, e con la vita
storica, e più vera, degli interessi che rappresentarono, delle idee onde (1 )
V. Cuoco, Saggio storico, L, p. 208. 122 furon investiti, della logica che li
governd. Pochi i nomi, e le figure appena abbozzate a tratti rapidi, scultorii,
quasi danteschi: l'interesse dello scrittore è per l'in sieme, per le cose,
come ei diceva, e per le idee, da cui gl'individui son dominati, e che giovano
più all' istru zione di chi legge. Pure, dove sorgono quelle mozze figure, è
tanto il sentimento che lo scrittore vi spira dentro, e così fosca la luce in
cui le avvolge, che l'opera politica, più che storica, s'anima del patos d'una
tragedia » (1 ). Questo giudizio riecheggia con maggior precisione il giu
dizio, che sul capolavoro cuochiano ebbe ad esprimere Luigi Settembrini (2 ).
Il De Sanctis conobbe il Cuoco; se pur non integralmente, conobbe certo il
Saggio storico e il Platone in Italia, ma in lui non vide il maggior pro satore
dell'èra napoleonica; non vide che un mero disce polo di Giambattista Vico. Del
resto ai critici come ai poeti non possiam chiedere più di quel che ci hanno
dato, quando quel che ci hanno dato, ed è il caso di Francesco De Sanctis, è
perfetto. (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 351 e sg. (2 ) Luigi SETTEMBRINI.
Napoleone e la sua politica generale. L'antifrancesismo di Cuoco: reazione
italiana. - Il prin cipio monarchico s'incarna in Napoleone. - I benefici della
rivoluzione. - La borghesia. - La proprietà base del nuovo ordine civile. -
Quarto stato: proletariato. - Milizia. - Liberismo e protezionismo economico. –
Lo Stato napoleonico. - L'unità d'Italia in rapporto alla politica generale
europea. - Anglofobia di Cuoco. Stato e religione. - Giurisdizionalismo. Una
illazione, forse fuori di posto, che si suole trarre dall'atteggiamento di
Vincenzo Cuoco di fronte alla rivo luzione di Francia e al giacobinismo
napoletano, è quella di un vero e proprio suo antifrancesismo. Paul Hazard nel
suo bel libro La révolution française et les lettres ita liennes, parlando del
molisano, al quale egli dedica un buon capitolo, che io credo una delle cose
migliori che sul nostro sia stata scritta, ponendo in rilievo la sua op
posizione all'astrattismo giacobino, accenna non solo ad una reazione culturale
dell'italianismo, e fin qui tutto è legittimo, ma crede di poter rinvenire una
vera e pro pria opposizione di natura politica (1 ). È un punto non solo
storicamente importante, ma anche degno di di (1 ) P: HAZARD, op. cit., pp. 218
e sg. 124 scussione per intendere un nostro giudizio sul Cuoco, che abbiamo
detto essere assai coerente nel suo sviluppo spirituale, affermazione e
giudizio, che ora — è venuto il tempo dobbiamo dimostrare, per respingere, di
ri flesso, la taccia, che all'autore del Saggio è gettata di opportunismo e di
particolarismo. Solo risolvendo questo problema, potremo intendere la
situazione del Cuoco a Napoli, la sua visione generale della politica
repubblicana e poi di quella napoleonica, la sua concezione dello Stato, la sua
risoluzione d'un antico problema, i rapporti tra Stato e Chiesa, tutte
questioni che formano la materia del presente capitolo. La critica, che il
Cuoco fa della rivoluzione francese - astrattismo, esaltazione di princípi,
democratizzazione universale – non è solo critica metodologica e filosofica, ma
anche critica politica. Che cosa egli vede nei francesi? Nei francesi vede un
popolo, il quale tende a sostituire il proprio spirito, la propria natura, la
propria tradizione allo spirito, alla natura, alla tradizione nostra. L'opera
cuochiana, vista nel suo complesso, è dunque una reazione al francesismo
dilagante in nome della cultura e delle glorie italiane, in nome della nostra
storia: ben ha fatto l' Hazard, allorchè, sia pure con qualche esagerazione
propria della dimostrazione assunta, ha impersonata que sta cultura, questa
gloria, questa storia proprio in Vin cenzo Cuoco. Tutto l'atteggiamento mentale
di Vincenzo è diffidenza contro i francesi e contro coloro che credettero di po
tere imporre senza difficoltà gl' immortali princípi con le baionette. Il
Saggio storico, che il critico francese de finisce l'esame di coscienza del
popolo italiano, è infine la denunzia documentata di un sistema che non va; è
la critica senza tregua di un ibridismo politico che la realtà smentisce. La
documentazione non potrebbe es sere più sicura e più ricca. E il modo questo di
porta la libertà, l'uguaglianza, la fraternità? di farsi amare dalle
popolazioni illuse? Il popolo italiano, sembra dire il Cuoco, che aspetta
l'indipendenza, e fors'anche l'unità, dall'opera altrui, s'adagia in una troppo
beata attesa di 125 ciò che non sarà mai. La libertà, l'unificazione, l'indi
pendenza occorre sapersele conquistare attraverso un'o pera lunga indefessa
grave. Bisogna rendersi degni di miglior fortuna, e però bisogna rendersi prima
spiritual mente migliori: divenire prima cittadini in ispirito della gran
patria Italia per poi esserlo di fatto. Attendere la libertà come un dono dagli
altri? Ohimè ! La libertà, prima di essere libertà civile, è libertà di
pensiero, auto nomia di cultura. Possiamo mai essere liberi noi, che prima di
essere italiani, vogliamo essere francesi, noi che nelle cose più banali e più
grandi, nella foggia del vestire e nell'ordinamento costituzionale, ci
allontaniamo sempre più dalla nostra natura per acquistarne un'altra estrin
seca? Le nazioni hanno un corso che è unitario e lineare, perchè determinato da
un primitivo impulso, che costi tuisce il fondo materiale e morale della loro
vita. « Una nazione che si sviluppa da sè acquista una civiltà eguale in tutte
le sue parti, e la coltura diventa un bene generale della nazione » (1 ). Ecco
quindi come l'elemento cultu rale si lega intimamente alle fortune politiche di
un paese. Una nazione, che imita un'altra, perde ogni com pattezza, ogni
omogeneità, ogni ideale coerenza, e non può che restare inferiore al modello,
che ha dinanzi, senza considerare che la perdita dell'unità spirituale porta
seco fatalmente la perdita dell'unità politica, se questa già c'è, ' o ritarda
la sua formazione, se questa manca. « Non può mai esser libero » ammonisce il
Cuoco « quel popolo in cui la parte che per la superiorità della sua ra gione è
destinata dalla natura a governarlo, sia coll’auto rità sia cogli esempi, ha
venduta la sua opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta
allora la metà della sua indipendenza » (2 ). A ciò bisogna aggiungere
considerazioni d'altra natura. Il Cuoco nel suo stesso fondo culturale è
antirepubblicano, antirepubblicano per princípi, che trascendono la sua stessa
esperienza politica, la sua prassi civile. Ci obiet (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVI, p. 90, nota. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. 126
teranno: ma la sua partecipazione al moto del '99, par tecipazione (1 ) che
oggi al lume della critica storica appare più importante che per l'innanzi non
fosse sem brato, come si spiega? È dovere del buon cittadino ser vire la
patria, qualunque sia la forma di governo, qua lunque sia il suo reggimento
politico. Senza dimenticare che tra i Borbonici malversatori e le nobili figure
re pubblicane di Cirillo, di Pagano e di Ciaia Cuoco sapeva fare le opportune
distinzioni. Io credo che l'opposizione antirepubblicana e antigia cobina del
Cuoco derivi da veri e propri princípi filoso fici, oltre che da pura ostilità
pratica, che potrebbe anche essere un fenomeno transeunte. Nei Frammenti di
lettere, cioè nel pieno della rivoluzione scriveva che « un re ere ditario...,
quando non ad altro, serve a togliere agli altri l'ambizione di esserlo »; e
che egli credea « la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica degli
ordini liberi » (2 ). A me pare che il Cuoco inclini ad una forma di monarchia
costituzionale vera e propria. La vita dei popoli corre uno sviluppo
prestabilito. Dall'assoluta ti rannia all'assoluta libertà è un passo, da un
eccesso al l'altro eccesso: il punto d'equilibrio, che salva l'unità e la
coerenza interiore delle stirpi, è la monarchia costitu zionale. La libertà è
un astratto. Bisogna che il popolo se ne renda degno, ed abbia nello stesso
tempo un inte resse nella libertà, in quanto questa effettivamente mi gliori la
convivenza civile. Bisogna in sostanza che il popolo sia maturo per le
conquiste rivoluzionarie, e com prenda: se non è così, gli stessi più alti
benefíci si con vertono in pericoli. È matura, si domanda il Cuoco, l'Eu ropa
per l'assoluta libertà, per la repubblica? È matura Napoli per accogliere
ordini rivoluzionari? La risposta (1 ) Alludo alla preparazione del moto
insurrezionale in Avi. gliano, all'opera repubblicana che il nostro preparò in
Basili cata. Questa attività cuochiana era rimasta nell'ombra fino a ieri:
il primo che l'ha studiata e documentata è stato M. Ro MANO, op. cit., p. 19 e
sgg. (2 ) Framm. III, p. 250. 127 non lascia dubbio. I popoli hanno ancora
bisogno d'una guida, hanno bisogno d'una forza, che li tenga costretti nei
limiti d'una volontà generale, pur contemperando questa con una maggior
autonomia delle volontà parti colari o individuali. Questi sono gli ordini
costituzionali. Gli ordini giacobini sono costituzionali a parole, in realtà
sono anarchici, libertari. La saggezza dei popoli è ancora da ritrovarsi: i
popoli sono ancora più fantasia e mito, senso e leggenda anzi che pensiero ed
intelletto: i gover nanti mostrano di non avere intesa questa complessa e
primordiale natura loro. I popoli hanno bisogno d'un in telletto, che li guidi
ed eserciti ciò che essi, tutto senso e poesia nel significato vichiano, non
possono esercitare, la volontà dell'intelletto. « Un sovrano saggio sul trono »
scrive il molisano, « è meno raro d'un popolo saggio ne' comizi » (1). Notiamo
che il Cuoco scriveva queste righe, quando l'astro di Napoleone non brillava
ancora di pura luce, di tutta la luce grande che doveva poi spiegare, quando
egli scrivendo non poteva menomamente pen sare che dalle repubbliche di Francia
e d'Italia doveva svolgersi il consolato, l'impero. Il Cuoco ci appare dunque
coerente. I suoi sentimenti, ripetiamo una sua frase ti pica, sono eterni. In
Napoleone egli vedrà realizzato po sitivamente tutto il suo grande ideale.
Nessuno potrà accusarlo di particolarismo, d'amore per il suo parti culare. Ora
nella repubblica francese Vincenzo Cuoco vede pre cisamente la negazione di
tutto il suo sistema politico, l'astrattismo formulante vuoti schemi per
chiudervi l ' ineffabilità delle determinazioni naturali; la democra (1) Framm.
III, p. 242. Quanto quei sentimenti siano ra dicati nel Cuoco puoi vedere
leggendo i suoi articoli su pro blemi politici: in particolare cfr. Giorn.
ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno; n. 65, 66; p. 260, p. 264; 1805, 2, 7, 17
gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 26-28. Nel Platone in Italia, v. I,
p. 142 e sgg., riconferma il suo pensiero, « riafferma », come scrive il
ROMANO, op. cit., p. 85, « la sua fiducia in ungoverno misto, temperato, tra la
monarchia, l'aristocrazia e la democrazia ». 128 zia universale, che cerca di
sovrapporsi a popoli, diversi di coltura e di interessi, per costringerli ad
accettare un governo monotono uguale; la volontà generale, che cozza con le
volontà singole; un pazzo alternarsi d'anar chismo e di tirannia. Che cosa è
mai questa benedetta libertà, che i francesi portano? È la più sfacciata
tirannia. Essere libero signi fica adattarsi al metodo, all'andazzo giacobino;
se no, guai a chi si oppone: le baionette strappano il consenso liberamente
mancato. La libertà imposta non è più li bertà, cioè libero volere, libera
determinazione. La libertà data dalle repubbliche, nota Vincenzo, è sempre più
dura che non la libertà data dai re. Sembra un paradosso, ma è così. Le
repubbliche sono infatuate dai loro prin cípi, e credono che tutti siano
desiderosi di comparteci parne, e quando li vedono ripudiati, li impongono, poi
che non vedono bene e felicità fuori di essi. L'antifrancesismo, dunque, di
Vincenzo Cuoco real mente ha radici profonde in questioni di metodo e di po
litica. Il Cuoco non è un repubblicano. Egli vagheggia forme costituzionali,
che sintetizzino l'indirizzo potente mente unitario dello Stato con le volontà
autonome delle popolazioni. Queste considerazioni di natura generale possono
spie garci vari punti della biografia di Cuoco, che altrimenti sarebbero
destinati a rimanere senza delucidazioni; pos sono darci la ragione della
scarsa sua partecipazione alla rivoluzione partenopea, la ragione forse della
sua sal vezza dopo la prigionia borbonica, la ragione del suo iso lamento a
Milano prima che un nuovo ordine un po' più schiettamente italiano e meno
repubblicano non venga a costituirsi; questioni, assai gravi, come ognun vede,
ma che acquistano maggior luce, se le si riconducono ai princípi, che sopra
abbiamo accennato. Il pensatore, che, criticando il progetto di costituzione
del Pagano, scriveva a Vincenzio Russo amaramente ed ironicamente nello stesso
tempo: « Oh ! perdona. Non mi ricordavo di scrivere a colui, che, sull'orme
della buona memoria di Condorcet, crede possibile in un es 129 sere finito una
perfettibilità infinita »; il pensatore, che così ironicamente pungeva l'amico,
è lo stesso uomo, che oggi a Milano esule ricorda a un suo intimo il suo co
stante odio contro i Galli (1 ). « Non ti pare che io era profeta » scrive «
quando in faccia a Scipione Lamarra (generale e carceriere dei repubblicani del
1799 ) mi dissi cisalpino? E profeta anche più grande, quando diceva tanto male
dei francesi? Eccomi dunque cisalpino, per chè in Milano, ed odiator de'Galli,
quale lo era nel '93, nel '94, nel '95, nel '96, nel '97, nel '98 e finalmente
in Capua nel '99. I miei sentimenti sono eterni. » Il Cuoco ci appare come il
più genuino rappresentante di un pensiero politico in tutte le sue
manifestazioni in an titesi col pensiero e con la prassi politica francese. Il
suo spirito storico e pratico lo rimena al Vico, l'investi gatore profondo delle
leggi, che governano il corso delle nazioni, al Machiavelli, che dai fatti trae
le norme della vita pubblica, al Montesquieu, il più acuto studioso della
natura delle leggi e della loro conformazione ai bisogni fisici e spirituali
de' popoli. Nel Saggio, ricordiamo, dopo avere analizzato quanto la rivoluzione
era lontana dalla vita italiana e napoletana, quanto i bisogni nostri eran,
diversi da quelli francesi, quanto i nuovi princípi erano astrusi, scrive delle
righe assai importanti per una com prensione del suo pensiero. « La scuola
delle scienze mo rali e politiche italiane seguiva altri princípi. Chiunque
avea ripiena la sua mente delle idee di Macchiavelli, di Gravina, di Vico, non
poteva nè prestar fede alle pro messe nè applaudire alle operazioni de '
rivoluzionari di | Francia, tostochè abbandonarono le idee della monar chia
costituzionale » (2 ). Ecco, l'opposizione politica di viene una vera e propria
reazione culturale in nome del l'italianismo. Non mi sembra più il caso ora di
dubitare circa la po (1 ) La lettera che segue, pubblicata per primo da M. Ro
MANO, op. cit., p. 269, in parte fu poi ripubblicata da G. GEN TILE, Studi
vichiani, p. 350. (2 ). V. Cuoco, Saggio storico] sizione del Cuoco di fronte
alla rivoluzione. Il Cuoco non è repubblicano, è monarchico costituzionale. Il
Cuoco è antifrancese perchè è troppo profondamente italiano. La posizione non
potrebbe essere più chiara. Questa rinnovata posizione di critica non conduce
però Vincenzo ad un isolamento politico totale. Egli s'oppone ad uno stato di
cose profondamente radicato nella vita contemporanea, ma crede suo dovere
agire, operare in un mondo di illusi e di dormienti, mostrare agli italiani
quanto essi siano in errore, ripudiando la loro essenza per una natura
estrinseca. Come nel '99 egli, vagheggia tore d'una repubblica costituzionale
indipendente, da fondarsi subito dopo la partenza dei Borboni, prima del
l'ingresso dei francesi, d'una repubblica nazionale, non soggetta ad alcun
influsso estraneo, che sapesse intendere la natura del popolo, e su questo solo
trovasse la base d'ogni suo operare, rendendolo partecipe ed interessato, non
seppe, non potè abbandonare i suoi generosi compa gni per problemi e dissensi
di carattere teorico, e si senti travolto in quel vortice che pur non amava;
così oggi, a Milano, ricostituitasi bene o male una parvenza di libertà
italica, egli è al suo posto di combattimento, assertore infaticabile delle più
pure idealità nazionali. La vita ha una sua particolare dialettica. Questo spie
gamento non è lineare uguale, ma inframmezzato da cu riosi contrasti: una
affermazione è implicita nell'atto stesso della negazione. La rivoluzione
francese, che nega la storia, è nella storia, e afferma la storia. Tutto il
movi mento post -rivoluzionario, in antitesi alla rivoluzione, nasce da uno
stesso getto, con la rivoluzione. L'illumini smo afferma l'assoluto della
ragione e da questa desume formule e princípi ad informarne la vita. Il nuovo
pen siero trova il fondamento di tutto nello spirito, che è in sè e fuori di
se, istoria e natura, sviluppo continuo, pro duttività infinita, principio
attivo. Il Fichte in Germania in parte è ancora nella rivoluzione; lo Schelling
e l'Hegel, e con essi tutto il movimento storicista nella politica e nel diritto,
sono già fuori dalla rivoluzione. La filosofia della rivoluzione non aveva
prodotto un vero sistema costitu 131 zionale, aveva ondeggiato tra troppo
opposti princípi, per finire ad uno Stato, il cui contenuto etico era e non
era. La nuova filosofia riconsacra nella natura lo spirito, e lo spirito
sublima nello Stato, sua perfetta creazione. La fatale necessaria evoluzione
dello spirito porta allo Stato, e in esso celebra, diciamo pur così, tutto sè
stesso. Chi dice Stato dice realtà ed ideale, autorità e libertà, forza e
consenso. È la reazione dello Schelling e dell’Hegel alla rivoluzione. È la
stessa reazione, ma anticipata, di altri filosofi della restaurazione. In
Italia questa reazione, che però è una rivalutazione dello Stato monarchico nel
suo contenuto etico, è fatta da Vincenzo Cuoco. Col Cuoco, giornalista nella
repubblica cisalpina e poi nel regno italico, la rivoluzione muore, depone il
berretto frigio, lascia il posto allo Stato, come manifestazione ultima d'un
processo etico, in cui la libertà è nel con senso, l'unitarietà nella forza.
Pochi hanno notato l'importanza del molisano, come rivendicatore del principio
monarchico. Si è detto che egli è il primo, che si faccia araldo del problema
unitario in quanto problema spirituale e pedagogico; ma si è dimenticato che
nel suo pensiero il fine della rinascita morale è una unità, che non può
ottenersi che nella mo narchia. Affermazione questa, notiamo, che non implica
alcun assoluto politico, ma che è la risultante di mere contingenze storiche,
di una vera impreparazione popo lare a più ampie libertà, da studiarsi, dunque,
nell'am biente, in cui e per cui il Cuoco l'esprime. Il processo pedagogico,
che deve condurre all'unità, è un processo nulla affatto rivoluzionario, anzi
evolutivo. Mentre in Germania questa rivalutazione è posteriore: alla
rivoluzione, mentre in Germania il Fichte, il futuro autore dei Discorsi alla
nazione tedesca, scrive il suo Con tributo alla rettificazione dei giudizi del
pubblico sulla ri voluzione francese, che non può non essere, nel grave
incendio sovvertitore, una partecipazione a quei princípi che agiscono in tutto
il movimento, ed insieme una loro legittimazione; in Italia lo spirito
nazionale nasce nella stessa rivoluzione, come reazione d'una sostanza speci
132 ficamente italiana ad una forma vuota ed estrinseca che le si vuol
sovrimporre. Napoleone per Cuoco è la creatura di genio, che impersona in sè
tutto il nuovo ordine di cose, che sorge dalla rivoluzione e alla rivoluzione
s'op pone, ordine di cose che il pensatore ha previsto sin dai primi bagliori
dell ' incendio giacobino. Le prime pagine del Saggio storico, la Lettera
dell'autore all'amico N. 0., la Prefazione alla seconda edizione sono la
conferma di tutto ciò, che siamo venuti faticosamente esplicando fin qui. In
questi scritti la figura del gran capitano è esal tata: ma, se leggiamo
profondo, più che l'uomo fatale sono esaltati il nuovo ordine di cose e i nuovi
princípi ci vili, che affiorano nella politica generale di Francia. Il Cuoco,
dopo alcuni anni dalla rivoluzione di Napoli, di cui era stato spettatore, si
rivolge indietro, rivede con la fantasia accesa tutti gli avvenimenti, che nel
breve corso d’un anno, il 1799, la storia ha suscitato nella sua patria: il
regno del Borboni ruinato mentre minaccia la conquista d'Italia, un monarca
debole abbandonare i suoi Stati, la libertà sorgere e stabilirsi quando meno la
si attende, i fati combattere la buona causa, e poi gli er rori e il crollo;
rivede tutto con la fantasia e, facendo ciò prova il piacere di chi, essendo
stato giudice impar ziale, ha profetato un avvenire, nascente sulle contrad
dizioni del presente. L'uomo dei Frammenti è infine il profeta di Napoleone. «
Desidero » scrive Vincenzo nella Prefazione alla seconda edizione del Saggio
storico « che chiunque legge questo libro paragoni gli avvenimenti dei quali
nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti alla sua pubblicazione.
Troverà che spesso il giudizio da me pronunziato sopra quelli è stata una
predizione di questi, e che l'esperienza posteriore ha confermate le
antecedenti mie osservazioni » (1 ). La storia ha uno'svi luppo che non falla:
lo storico, il quale intende le idee che sono eterne, e non gli uomini che
brillano un istante, può a ragione divenir profeta. V'è nelle righe sopra
citate (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 8. 133 la soddisfazione
dell'uomo, che vede la conferma d'una realtà, che non gli sfugge. « Io ho il
vanto » aggiunge « di aver desiderate non poche di quelle grandi cose che egli
[Napoleone] posteriormente ha fatte; ed, in tempi nei quali tutt' i princípi
erano esagerati, ho il vanto di aver raccomandata, per quanto era in me, quella
moderazione che è compagna inseparabile della sapienza e della giu stizia, e
che si può dire la massima direttrice di tutte le operazioni che ha fatte
l'uomo grandissimo. Egli ha verificato l'adagio greco per cui si dice che gl '
iddii han data una forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee di
moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere, che io avea scritto al
mio amico Russo sul pro-. getto di costituzione composto dall'illustre e
sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le ho conservate e come
monumento di storia e come una dimostrazione che tutti quelli ordini che allora
credevansi costituzionali non eran che anarchici » (1 ). V'è qui tutta la spiegazione
della nuova situazione, che s'è imposta e di cui il Cuoco si sente partecipe.
La rivoluzione era un vortice, che se egli non odiava, certo non amava, al
quale s ' era abban donato un po' passivamente, più per criticare che per
esaltare, più per negare che per affermare: libertà, fra ternità, vane parole;
virtù e gloria: parole astratte, lon tane dall'intendimento del popolo. Il
regno d'Italia, l'impero di Francia, ora, sono invece realtà concrete, ove la
prassi politica è ispirata al concreto, al benes sere delle genti, è ispirata
ad un principio monarchico unitario, che trova una precisa e sicura
delimitazione tra volontà generale e volontà particolari, tra governo ed
individuo, in una nuova visione costituzionale, per cui lo Stato è concepito
come sublimazione dello spi rito, come forza e consenso, e quindi come autorità
e libertà. Il Cuoco dinanzi a Napoleone si trova nell'atteg giamento di chi
osserva una realtà, a lungo deside rata, finalmente concretata nella politica
generale euro (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 9. 134 pea, e non
nell'atteggiamento dell'adulatore che leva lodi per averne compensi. Si è
voluto dipingere il nostro come un volgare, se pur d'ingegno, procacciante, ma
coloro, che hanno sostenuto questa tesi non hanno esaminato certo per intero
gli scritti del molisano, o hanno perduto per il particolare quell'esatta e
continua visione d'in sieme, che ci spiega solo la natura d'una mentalità poli
tica. Il Cuoco è l'uomo dai sentimenti eterni, l'eterno an tigiacobino, e in
Bonaparte vede l'uomo geniale, sintesi delle nuove idee, che si sono venute
formando, di libe ralismo, di moderazione, d'equilibrio. Come sorgono quegli
uomini, che per il volgo sono usurpatori, che per lo storico non sono che
l'espressione d'una fatalità storica, determinata da bisogni insiti nelle
nature umane? « La mania di voler tutto riformare porta seco la
controrivoluzione: il popolo allora non si rivolta contro la legge, perchè non
attacca la volontà generale, ma la volontà individuale. Sapete allora perchè si
segue un usurpatore? Perchè rallenta il vigore delle leggi; perchè non si
occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontà sua, la quale prende
il luogo ed il nome di volontà generale, e lascia tutti gli altri alla volontà
in dividuale del popolo. Idque apud imperitos humanitas vocabitur, cum pars
servitutis esset. Strano carattere di tutti i popoli della terra ! Il desiderio
di dar loro sover chia libertà, risveglia in essi l'amore della libertà contro
gli stessi loro liberatori » (1). L'usurpatore ha una ragione di essere nella
stessa esagerazione della rivoluzione, rallenta il vigore delle leggi antiche,
lascia pochi oggetti a sè, il resto alla volontà singola. Mentre le repubbliche
nel l'esaltazione dei princípi cadono dalla tirannia all'anar chia,
dall'eccesso d’una volontà generale, che vuol sof focare ogni autonomia o
volontà subiettiva, all'eccesso di volontà individuali che non s'accordano in
una vo lontà generale, e viceversa, il monarca trova più facil mente
l'equilibrio, che nelle ere primitive è nella forza, (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVII, p. 96. 135 nelle ere evolute nel consenso. Il giacobinismo,
esaltando sè stesso, parimenti ha sviluppato una nuova opinione pubblica.
Napoleone è il rappresentante di questa nuova opinione pubblica. Non è detto
che il potere, che si viene accentrando in un singolo, quando si sia trovata la
delimitazione sovraccennata tra individualità e legge, sia per sè stesso
cattivo: quand'esso, anzi, è saldo sicuro, può anche essere umano e temperato.
È carattere pro prio dei principi deboli essere sospettosi e feroci, mentre i
sovrani, potenti su basi di consenso e di forza, non possono che essere
equanimi, larghi, liberali. Tutta la logica storica cuochiana porta alla
monarchia: la monarchia, date le condizioni dei tempi e degli uomini, è la
migliore forma di governo. Napoleone, ho detto, sorge dalla rivoluzione, e ad
essa si oppone. Il Cuoco stesso ha la lucida intuizione che al sistema
giacobino si è sostituito un sistema nuovo su nuove basi. Ciò non pertanto
egli, ingegno superiore sto rico, portato a valutare le conseguenze ultime
della ri voluzione, di fronte al nuovo reggimento instaurato, sa trovare i
benefíci che da questa sono scaturiti insoppri mibilmente per l'uman genere.
L'articolo Varietà (1 ) che il molisano pubblicò nel suo Giornale italiano, i
primi giorni del 1805, è un vero e proprio esame di coscienza, dinanzi alla
nuova situazione politica, che trova le sue origini, pur negandole, nella
rivoluzione. Col nuovo anno che si apre Vincenzo Cuoco s'arresta e guarda
indietro: molti mali da un lato, molti beni dall'altro: nonostante i grandi
errori, le grandi deficienze, si può notare un progressivo cammino sulla via
della saggezza. « Gran parte dell'Europa fa grandi progressi verso un ordine
migliore. « In Francia nell'anno scorso le opinioni sono diventate più
concordi, gli ordini più regolari. Le idee di rivolu- · (1 ) Giorn. ital.,
1805, 2, 7, 17 gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 27-28: Varietà (ristampato
in Scritti vari, v. I, pp. 134-144 col titolo La rivoluzione francese e
l'Europa). 136 zione, divenute una volta estreme, han fatto avverare il detto
di Mirabeau che l ' esaltazione de' princípi altro non è che la distruzione de'
princípi. Ma, incominciando tali idee a retrocedere dal 1795, non potevano
arrestarsi se non giunte ad una forma di ordine regolare. Imper ciocchè ciascun
costume richiede una forma di governo, e ciascun governo ha in sé talune parti
essenziali, senza le quali, invece di costituzioni, si hanno que' mostri po
litici, i quali soglion aver la vita di un almanacco. Possono sembrar sublimi
agli occhi de’ mezzo- sapienti, ma sem brerebbero comici agli occhi de'
sapienti veri, se l'espe rimento de medesimi non costasse tanto all'umanità. Ri
conosciuta una volta necessaria la concentrazione del potere, è indispensabile
renderlo ereditario; altrimenti sarebbe lo stesso che aprir la via a perpetue
guerre ci vili. Esempio ne sia la Polonia. Nè vale il dare al primo magistrato
il diritto di nominar il suo successore, poichè l'esempio di Roma antica e
della Russia ben dimostrano che questo ordine di successione non basta a render
lo Stato sicuro dai tristi effetti dell'ambizione de' privati. Reso una volta
il potere ereditario, è necessario rivestirlo di tutte le apparenze esteriori
della dignità, perchè queste accrescon la forza della opinione, e la forza
delle opinioni serve a risparmiar quella delle armi, della quale non si può mai
far abuso senza pericolo. Un governo, il quale non ha per sè la forza
dell'opinione, si chiami pure con quel nome che si voglia, sarà sempre un
governo militare, il pessimo di tutti. Un governo, il quale, avendo già tutto
il potere, procura di fortificarsi coll'opinione, se questa opinione non è di
sua natura teocratica, tende a cangiarsi da governo militare in governo civile.
« Tale è l'ordine delle cose, immutabile, eterno. L'ar restarsi dopo una
rivoluzione in mezzo a questa progres sione è lo stesso che dar fine ad una
rivoluzione per in cominciarne un'altra ». Come ognun vede, il pensiero di
Vincenzo Cuoco, nella sua limpidezza, non lascia dubbio alcuno. Il nuovo or
dine costituito, cioè Napoleone, ha la sua origine nella rivoluzione, ma la sua
ragion d'essere nella negazione 137 della rivoluzione, la sua base concreta ne'
bisogni dei popoli di trovare il loro punto d'equilibrio tra gli estre mismi di
destra e di sinistra in quel consenso, che nel mondo moderno solo può
fortificare i governi. In Napo leone il Cuoco vede il restauratore dell'ordine
civile, ma non vuol vedere, nello stesso tempo, il militare, il con quistatore.
Il governo militare, che si erige sulle baio nette, gli ripugna: non per nulla
egli ha parteggiato nel '99 per la repubblica, ha salutato con letizia la
partenza dei borbonici dalla sua Napoli. Il governo, che tiene in pugno la cosa
pubblica e la direzione dello Stato, deve avere seco la forza del consenso, e
da questa derivare la forza delle armi. Altrimenti si cade in quel governo mi
litare, che, come dice il nostro autore, è il peggiore dei governi, come
quello, che, essendo odiato, sovrapponen dosi alle volontà dei cittadini,
rinnega le esigenze, i bi sogni, gli interessi delle popolazioni. Lo Stato del
Cuoco non è nè lo Stato paterno, di polizia del Wolff, nè lo Stato
rivoluzionario, che pone un limite insuperabile alla sua autorità in una
visione anarchica dei diritti subiettivi. Nello Stato del Cuoco confluiscono
vari e complessi ele menti, dal Rousseau al Vico, dal Montesquieu ad Aristo
tele. Se vogliamo caratterizzarlo, diremo che è Stato di diritto, che importa e
riposa su un contratto sociale, non storico ma immanente alla vita stessa dello
Stato, sin tesi di attività e di diritti singolari, Stato infine che non pud
agire che sub specie juris, nella forma del diritto, in quanto il diritto
stesso, nella sua natura generale, è alla fine riaffermazione e consacrazione
delle libere vo lontà particolari, che lo costituiscono. Il molisano è ugual
mente lontano dalle esagerazioni rivoluzionarie, che egli stesso definì
anarchiche e non costituzionali, come dalle affermazioni di coloro, che in
Napoleone avrebbero vo luto il signore dei gratia, superiore ad ogni volontà na
zionale. Egli, ingegno storico, sente che tra Napoleone e il regime assoluto
c'è una rivoluzione, e la rivoluzione non si può nè politicamente ne
teoreticamente superare a ritroso, onde s'arresta nel giusto mezzo, e ci dà un
con cetto dello Stato, che si ricollega sotto alcuni aspetti al 138 Rousseau e
al Vico, che ha, pure, qualche rassomiglianza con la teorica kantiana, sebbene
il nostro del Kant cono scesse assai poco, e più per seconda mano che per let
tura diretta (1 ). Il Cuoco afferma in sostanza la monar chia liberale
moderata, che assomma in sè l'autorità e la forza con il consenso e l'autonomia
(2). Le opinioni degli uomini, aggiunge continuando il Cuoco, sono discordi: è
fatale che siano discordi, poi che v'è stato di mezzo una rivoluzione, e gli
uni parteggiano ancora per essa, gli altri ancora la maledicono. Perchè
l'equilibrio si ristabilisca, è necessario che sorga un or dine nuovo tra le
varie opinioni, diverso dall'ordine an tico distrutto, diverso dal nuovo che si
desiderava. Sono concetti di moderazione, che appaiono anche nel Platone.
Michele Romano ha fatto un'analisi minuta di questo ro manzo sotto l'aspetto
politico, e noi, che seguiamo un'al tra strada, vi rinveniamo facilmente la
conferma delle nostre affermazioni, ed una prova diretta della coerenza
cuochiana. « Viene anche per le nazioni il tempo ineluttabile dei mali; il
tempo in cui tutta la forza è nelle mani di coloro che non hanno virtù, e
qualche virtù rimane solo a co loro che non hanno forza; onde avviene che tra
le scel lerate pretese de' primi, tra le inutili tenacità de'secondi, tra quei
che tutto voglion distruggere e quei che tutto voglion conservare, sorge una
lotta asprissima, funesta, in cui i primi a cadere son sempre coloro i quali
osan parlar le parole di moderazione che dopo venti anni di strage e di orrore
diventa l'inutile pentimento di molti e l'unico desiderio di tutti ». La
moderazione, commenta però il Romano, non è virtù negativa in politica, perchè
« noi cresciamo andando avanti; ci conserviamo rima nendoci al nostro posto; ma
non possiamo riformarci tornando indietro, perchè indietro non si ritorna mai »
(3 ). Ai partigiani dell'ordine antico si può rispondere che (1 ) G. GENTILE,
Dal Genovesi al Galluppi, p. 377. (2 ) M. ROMANO, op. cit., p. 81 e sgg. (3) M.
ROMANO, op. cit., p. 84. 139 non è stato Bonaparte a distruggerlo: sono stati
essi stessi con la loro viltà, con la loro caparbietà. « Ai parteggiani della
libertà si può rispondere che la Rivoluzione non è stata interamente inutile.
Si è ot tenuta una forma di governo costituzionale, e, quando anche si volesse
credere che questa non sia ancora per fetta, si è sempre ottenuto molto
avendone una. Le ot time costituzioni sono figlie del tempo e non di sistemi.
Quali sono le parti loro più belle? le più rispettate. E quali le più
rispettate? le più antiche. Quindi due ve rità: 1° Per ottenere una buona
costituzione, è necessario aver, quasi direi, un antico addentellato al quale
attac carla. 2 ° Per giudicare di una costituzione è necessario il tempo,
perchè le nuove, non potendo ancora goder il rispetto del popolo, ancorchè sien
ottime, si credon cat tive. Col tempo, i vari corpi, che formano il governo, di
ventano più rispettati dal popolo, e perciò più potenti anche in faccia al
governo; e la libertà pubblica diventa maggiore. Intanto è sempre un gran bene
per una nazione che il suo capo s'intitoli tale per le costituzioni della Re
pubblica; che si parli di libertà civile, di libertà di per sone, di libertà di
stampa; che vi sien delle magistrature incaricate di vegliare alla loro
custodia; che vi siano delle assemblee nelle quali si riuniscano i migliori di
cia scun dipartimento e di ciascun cantone per proporre ciò che credon più
utile allo Stato. Tutte queste istitu zioni han prodotti finora molti beni e ne
produrranno ancora. In ogni caso, la religione è stata per sempre riu nita allo
Stato col vincolo della tolleranza; la feudalità è stata abolita per sempre, e,
quando anche risorgesse un patriziato, potrebbe esser quello de'greci e de '
romani, eccitator di grandi azioni e non già oppressore de'grandi ingegni; è
stata aperta libera e larga la via della gloria ad ogni specie di merito; non
vi saranno più le dispute e le persecuzioni de'gesuiti e de'giansenisti; non vi
sarà più la funesta distruzione de'tre stati, de' quali uno era con dannato a
pagare e soffrir tutto e a non aver mai nulla; le imposizioni saranno ripartite
egualmente fra tutti; le proprietà saranno tutte della stessa natura, e le
persone 140 della stessa classe. Questi vantaggi si sono ottenuti, nè si
perderanno più, e questi vantaggi non sono mica pic cioli ». Tutta la filosofia
cuochiana è rinserrata qui. È natu rale che, quando un ordine nuovo di cose si
afferma dopo turbamenti generali, questo si presenti come una pana cea di tutti
i mali, e temperi l'antico con il nuovo in una fiducia mirabile di sè stesso:
spazza via l'antico, e in tanto crea una nuova aristocrazia, se non di sangue,
d'armi; distrugge la teocrazia, e intanto vuol l'accordo con la religione;
sgomina l'anarchia, e dà una nuova costituzione, che, sia pur limitatamente, ha
la sua impor tanza; si basa sull’autorità, ma non prescinde dal con senso. Il
nuovo reggimento è in fine un reggimento eclet tico, ma è quel che ci vuole
dopo una rivoluzione, è quel che ci vuole in un'epoca, che ha bisogno di freno
per non dilagare nella licenza, di libertà per non rammaricarsi del passato
soppresso. Lo spirito del bonapartismo è in questo eclettismo moderato, che è
classico e moderno nello stesso tempo in arte, che è illuminista nello stesso
tempo che afferma la tradizione in filosofia, che è autoritario e non disprezza
il costituzionalismo in politica. Ma a noi poco importa la prassi politica del
primo console e del l'imperatore, a noi interessa il pensiero di Vincenzo Cuoco
in quanto sistematizza tutto un insieme di idee, proprie dell'èra sua, sia
sotto un aspetto critico, sia sotto un aspetto di simpatizzante affermazione.
Il senso squisitamente politico del Cuoco ci si appalesa sotto un altro punto
di vista. Il Saggio storico, abbiamo osservato, mostrava la rivoluzione in
atto, e di essa era la critica spietata e fiera. Ma la rivoluzione ha prodotto,
ha spiegato tutti i suoi effetti, ha sommerso un mondo, ne ha instaurato uno
novello. La realtà storica è quello che è, s ' impone senza rimedio. È
possibile rinnegare i benefici evidenti della rivoluzione? Il Cuoco risponde di
no. La rivoluzione ha prodotto benefíci senza pari in Italia e in Francia, e in
certi limiti anche altrove, ha ab battuto la feudalità, ha riattivata la vita
de' popoli in un ritmo più robusto. Il Cuoco ancor oggi crede che la 141
rivoluzione si sarebbe potuto evitare, con una savia mo derazione sia de'
governi sia de' popoli, ma la storia è stata quel che è stata, e non si ritorna
indietro per le recriminazioni. Oggi è inutile ogni constatazione artifi cioso,
occorre pensare a trarre i maggior frutti possibili dalla concreta realtà. « Le
crisi sono nate dall'ostinazione per cui i governi non hanno voluto mai
soddisfare [ i reclami dei popoli]. Con una savia moderazione, invece di
rivoluzioni distrut tive, si sarebbero ottenute utili riforme ». Il ritornare
oggi con ostinazione agli antichi princípi sarebbe lo stesso che preparare
nuovi torbidi rivoluzionari. Sono ' con cetti questi assai radicati nel Cuoco:
ritornano frequente mente ne' suoi articoli nelle forme più varie. Altrove
scrive: « Cangiamo di nuovo lo stato delle idee, facciamo prevalere l'opinione
di qualunque partito; e vedremo tutta l'Europa turbarsi di nuovo. E, sia
qualunque l'opi nione che noi vorremo far prevalere, l'effetto sarà sem pre lo
stesso » (1 ). La storia non si supera a ritroso. Ri tornando allo scritto, di
cui noi segnamo il filo ideale, vi troviamo una sicura legittimazione delle
nuove forze (1) Giorn. ital., 1804; 11, 23, 30 luglio, 1, 11 agosto; n. 87, 88,
91, 92, 96; pp. 350-351, pp. 356, pp. 367-68, pp. 371-372, pp. 393-394:
Politica (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 28-43 sotto il titolo Il
sistema politico europeo al principio dell'Otto cento ). Riporto in nota uno
squarcio dell'articolo, in seguito al brano citato. « Facciam ritornare in
campo i princípi che han dominato dal 1793 fino al 1798. Che avremo?
Nell'interno, incertezza nel potere, che lo rende più impotente nel bene, più
sospettoso e più crudele nel male; divisione tra i vari rami del potere
medesimo, onde l'anarchia e la guerra civile; l ' in certezza dei principi,
onde ne diventa l'uso difficile ai buoni e facile l'abuso agli intriganti ed ai
prepotenti. Nell'esterno, da una parte l'ambizione, che prende le apparenze di
democratiz zazione universale e diventa tanto più terribile quanto che alla
forza delle armi riunisce quella delle opinioni; dall'altra, il timore e
sospetto; dall'una e dall'altra, minacce, tradimenti, inganni di popoli e di
re, guerre interminabili e feroci ». Il quadro è fosco: è impossibile ritornare
ai princípi puri della rivoluzione, come è impossibile una restaurazione del
regime prerivoluzionario: il separamento è inderogabile. 142 ((umane espresse
dal capovolgimento rivoluzionario della borghesia. È una osservazione costante,
che da tre secoli in qua (anzi si potrebbe dire dall'epoca delle crociate ),
tutti gli Stati dell'Europa sono cresciuti di forza per l'accresci mento del
numero, dell'industria, dell'attività di quella parte della popolazione che
chiamavasi in Francia, e si potrebbe chiamar presso ogni nazione, terzo stato.
Quelli tra' popoli dell'Europa furono i primi a risorgere dalla barbarie,
dall'ignoranza, dalla debolezza, che primi sol levarono questo terzo stato.
Tali furono l'Italia, l ' In ghilterra, la Spagna. Quei popoli ne' loro
progressi s’ar restarono, che, per la forma del loro governo, tennero questo
terzo stato più oppresso: l'oligarchica Venezia, la Polonia. Quei popoli
soffrirono rivoluzioni e sedizioni asprissime, ne' quali il terzo stato non fu
distrutto ne ottenne giustizia.... E non vi è termine di mezzo. Lo stato di
oppressione è uno stato di guerra. Uno de' due: o convien che la classe
predominante distrugga la ser viente, o convien che divida con lei tutti i
vantaggi della vita civile. Nel primo caso, eviterà le sedizioni in terne,
perchè agli estremamente miseri che soffrono pa zientemente, la miseria toglie
loro, come diceva Omero, la metà dell'anima; ma, invece delle sedizioni
interne, avrà debolezza esterna grandissima, e sarà lo Stato esposto al furore
del primo che vorrà occuparlo. Tale è stata la sorte della Polonia; e perchè
non direm noi che è stata la sorte di tutti gli Stati ove ancora è feudalità?
Nel secondo caso, non solamente si accrescerà la forza esterna, ma si renderà più
durevole la tranquillità in terna, perchè la parte più numerosa del popolo non
avrà alcun motivo di doglianza;, ed, essendo la nazione piena d'amor di patria
e di orgoglio nazionale, mancheranno anche quei fomenti di sedizioni, i quali
vengono dalla stolta ammirazione degli stranieri ». Il terzo stato, la
borghesia, è il lievito del nuovo ordine, è la parte più sana della nazione,
che rivendicati i suoi diritti, è quella che, ugualmente lontana dalla potenza
corruttrice e dall' indigenza mortificante, realizza nella 143 modernità quella
classe dei migliori, che Aristotele ha indicata come la più adatta a reggere la
cosa pubblica. E precisamente nel senso aristotelico il molisano intende la
borghesia, non dunque come una casta chiusa e dit tatoria, ma come una classe,
in cui liberamente conflui scono le forze vitali del popolo tutto, una classe
insomma aperta a tutti coloro, che per virtù d'ingegno e di atti vità s'elevino
dall'indigenza. « Le idee, i costumi, gli ordini pubblici di tutta l'Eu ropa »
scrive il nostro in un altro suo articolo (1 ) che adduco a conferma di quanto
vengo dicendo « tendono al ristabilimento di una nobiltà più antica, meno di
struttiva e più illustre: a quella nobiltà della quale si gloriavano i Fabi,
gli Scipioni, i Camilli, de ' nomie degli esempi de'quali noi italiani dovremmo
esser più superbi che di quelli degli Agilulfi e de ' Gundebaldi. La proprietà
diventerà la base di tutte le costituzioni: quella proprietà che sola può tener
uno Stato lontano dalla letargica in dolenza dell'oligarchia e delle funeste
commozioni del l'oclocrazia, perchè nè lo priva dell'opera di molti, i quali
possono colla loro industria acquistare un podere, ma non potrebbero mai
disfare l'ordine de’ secoli passati e darsi un antenato che non hanno; nè,
dall'altra parte, affida la cosa pubblica alla fede, sempre dubbia, di co loro
i quali non hanno verun interesse a sostenerla. Non altra base che la proprietà
avea la costituzione di Roma, e noi abbiamo anche ciò che non poteano avere i
ro mani, cioè riputiamo proprietà anche l'industria ed il sapere. È la natura
delle cose che ha comandata questa differenza: i romani non aveano altra
industria che l'agricoltura e per molti secoli non conobbero studi più gravi di
quelli necessari a vincere i loro vicini. T (1 ) Giorn. ital., 1804, 14, 16,
18, 30 gennaio, 8 febbraio; n. 6, 7, 8, 13, 17; pp. 22-23, p. 27, pp. 30-31, p.
51-52, pp. 66-67: Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (ristampato in
Scritti vari, v. I, pp. 13-28 sotto il titolo Il sistema politico europeo al
principio dell'Ottocento in uno con l'altro articolo cuochiano da noi già
accennato, Politica. 144 « Io non nego che le varie circostanze, nelle quali
potrà trovarsi una nazione, possan render necessarie molte modificazioni; ma la
massima fondamentale rimane sem pre la stessa. Il migliore de' governi, diceva
Aristotele, è quello in cui governano i migliori; e, siccome essi non si
potrebbero mai ricercare ad uno ad uno, così il migliore dei governi è quello
in cui preponderano tutte quelle classi, nelle quali per l'ordinario si
ritrovano gli uomini migliori ». L'aristocrazia nuova, di cui l'autore nostro
discute a lungo, è, come ognuno bene intende, la borghesia. Questa classe, che
è la più numerosa, in quanto classe aperta a tutti, in quanto esprime la forza
di coloro, che si sono potuti sollevare dalle masse, dal proletariato, dal
l'artigianato, per darsi all'industria ed agli studi, ha di nanzi a sè un vasto
cammino da compiere, è destinata, ove non lo sia già, ad essere la classe
dirigente. Ritornando allo scritto sulla rivoluzione francese e i suoi effetti,
dal quale abbiamo preso le mosse, vi ri troveremo sempre le stesse idee. « Il
gran generale osserva il Cuoco « il profondo ministro sono uomini rari. Chi s '
impone la legge di ricercarli tra dieci, li troverà più difficilmente di colui
il quale li ricerca tra mille, tra tutto il popolo.... »). Ma non bisogna
abusare; la rivoluzione francese aprì la via alla canaglia. Ritorna il Cuoco
antigiacobino, l'odia tore de ' princípi esaltati, della democratizzazione uni
versale. « Si obliò la profonda osservazione di Aristotele, il quale avea detto
che l ' ottimo de ' governi era quello in cui predominavan gli ottimi, ma che
questi ottimi non si dovean nè si potevan ricercare individualmente, bensì
doveansi ricercare per classe; che vi era in ogni Stato una classe di ottimi, e
che questa era composta di co loro i quali non fossero nè corrotti per
eccessiva ric chezza né avviliti per soverchia povertà. Quindi la pro prietà,
nella nuova forma di governo, è divenuta con ragione base delle costituzioni.
Alla proprietà è ben af fidata la custodia delle leggi: i proprietari, dice lo
stesso 145 Aristotele, sono i più atti a tal fine; e come no, se le leggi son
tutte fatte per difendere i proprietari? Ove però non si tratta di custodire ma
di agire, ove non basta la volontà, ma vi bisogna la mente, è necessario
sostituire alla semplice proprietà l’educazione; che val quanto dire mettere il
merito personale nella stessa linea della pro prietà. Quella parte di popolo,
dice lo stesso Aristotele, la quale non ha nè proprietà né educazione; sarà su
bordinata se sarà contenta: è un gravissimo errore darle tutto e non darle
nulla ». A me sembra che il problema politico non potrebbe essere impostato dal
Cuoco in migliore maniera possibile. Che cosa sono le costituzioni, gli
istituti, gli ordinamenti, così come li studia la storia del diritto e il
diritto stesso, se non vuoti astratti? Quel che a noi importa non è la forma in
sè, che ci appare morta senza un contenuto umano, ma il contenuto stesso. Le
costituzioni in realtà sono, e con esse tutta la struttura giuridica d’un
popolo, in quanto in esso popolo c'è una classe dominante, ri stretta o vasta
importa poco, certo qualitativamente mi-. gliore, che le determina, e non per
via di pura ragione, ma d'analisi concreta sulla realtà viva e pulsante delle
masse, una classe dirigente, che si fa interprete sicura della società che
l'esprime. La storia del diritto, io credo, anzi che studiare morte
sovrastrutture, dovrebbe stu diare come classi dirigenti, per natura condizioni
coltura [ estensione diverse secondo le varie epoche, possano de terminare
tutto un complesso sistema giuridico e costi tuzionale. In tal caso la storia
del diritto, studio di strutture vuote di realtà concrete, si risolverebbe
nella politica, studio d’un vero contenuto umano, pulsante d'attualità. Ma
questo è un problema teoretico, che nel caso nostro importa relativamente, e la
di cui formulazio ne, a me sembra, sorge spontanea dal pensiero cuochiano. Come
ognun vede, la vita moderna nella sua vasta for mazione non poteva essere
tratteggiata in maniera più vivace, più rispondente al vero, a ciò che poi sarà
la realtà dello Stato moderno, di quanto è nell'analisi del grande molisano. Una
classe di migliori, che per la sua stessa composi zione e formazione è atta a
modificarsi e ad evolversi con la storia, tiene il reggimento dello Stato. Lo
Stato libe rale non è, come lo Stato assoluto e patrimoniale, sta tico, anzi è
il più atto ad ulteriori sviluppi. La base imprescindibile di esso è la
proprietà. La proprietà è la sua difesa, il suo presidio naturale. Chi ha una
sua pro prietà, mobile ed immobile, industriale o fondiaria, in tellettuale o
commerciale, tende per natura a conservarla e a migliorarla. Fate sì che uno
Stato si appoggi alla classe dei proprietari, questo Stato è al sicuro da ogni
attacco contro la sua compagine, poi che troverà sempre la sua difesa in
coloro, che, difendendo lo Stato, difendono i loro beni, i propri interessi.
Ove lo Stato transige sul l'inviolabilità della proprietà, tradendo le sue basi
e le sue origini, viene a mancare la classe de ' possidenti alla tutela della
cosa pubblica, e, se non interviene una pronta reazione a ristabilire
l'equilibrio, è il crollo, lo sfacelo. Abbiamo così uno Stato liberale, che,
pur tendendo alla sua conservazione in ogni manifestazione giuridica, si
afferma come dinamico e progressista, trovando però nella sua stessa
composizione un limite ad un progresso, che potrebbe divenire, se spinto troppo
oltre, anarchico e rivoluzionario. Questo concetto dello Stato borghese, che
solo nella proprietà può trovare una base salda, perchè non data
dall'estrinseca volontà legislativa, ma dagli umani in teressi per natura
conservativi, questo concetto politico della vita moderna non è nuovo, nè
sporadico in Vin cenzo Cuoco. Ne’ Frammenti è l'esempio di questa gran coerenza
del molisano, il di cui sistema politico non ha mai un'origine estranea alla
realtà umana, anzi tutto è organato ed ispirato a princípi superiori di logica
ed insieme ad una sicura visione storica. Dopo aver soste nuto che la
costituzione non può crearsi a tavolino, pre scindendo dalla vita, dopo aver
affermato che le costitu zioni debbono essere vive sensibili parlanti, e noi
abbiamo a lungo detto di ciò, il Cuoco viene ad analizzare il proble ma: come
si possa organizzare una divisione de' poteri. 147 « Dopo che avrete » scrive «
divisi i poteri, assodata la base della costituzione e fortificata la legge col
l'opinione e colle solennità esterne, per frenare la forza vi resta ancora a
dividere gli interessi. Fate che il po tere di uno non si possa estendere senza
offendere il potere di un altro; non fate che tutti poteri si otten ghino e si
conservino nello stesso modo; talune magi strature perpetue, talune elezioni a
sorte, talune pro mozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben
condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno
del favor di nessuno; tutte queste varietà, lungi dal distruggere la libertà,
ne sono anzi il più fermo sostegno, perchè così tutti i possidenti, e co loro
che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro
interessi. Per questa ragione negli ultimi anni della repubblica romana il
senato ed i pa trizi furono sempre per la costituzione » (1 ). Se voi vi
addentrate nel pensiero dello scrittore, ve drete però che egli, pur disposto a
dare alla proprietà la massima importanza tanto da fondare su di essa il
sistema politico moderno, non giunge mai a darle una origine metafisica, e
quindi a concepirla come un quid di eterno e di immutabile. Ed è naturale:
l'origine della proprietà non è in princípi generali filosofici, ma in quel che
nell ' uomo è senso, cioè bisogni mutevoli e transe unti. La stessa natura
dell'uomo, che vichianamente dà origine alle costituzioni, dà origine alla
proprietà, base degli odierni ordini civili. La natura, a cui accenno, non è la
natura intellettuale, ma quella natura primordiale e plebea, tutta senso e
fantasia, bisogni ed esteriorità. Quindi teoricamente non è impossibile un
sistema costi tuzionale, che prescinda dalla proprietà: resta a vedere come
questo sistema risolva il problema economico e pratico della vita, che sempre
bisogna aver di mira: lo che, evidentemente, non è facile ! Il titolo della pro
prietà !? È un po' arduo trovarlo nella metafisica.... (1 ) Framm. III., p. 247,
148 « Voler ricercare un titolo di proprietà nella natura è lo stesso che voler
distruggere la proprietà: la natura non riconosce altro che il possesso, il
quale non diventa pro prietà se non per consenso degli uomini. Questo consenso
è sempre il risultato delle circostanze e dei bisogni nei quali il popolo si
trova. Tutto ciò che la salute pubblica impe riosamente non richiede, non può
senza tirannia esser sottomesso a riforma, perchè gli uomini, dopo i loro bi
sogni, nulla hanno e nulla debbono aver di più sacro che i costumi dei loro
maggiori » (1 ). È chiaro ! La pro prietà ha un'origine schiettamente
economica, e questa origine posa su un consenso generale, ma storico, cioè
null’affatto immutabile ed eterno. Una giustificazione dell'istituto secondo i
principi del diritto di natura ap pare a Cuoco poco soddisfacente. Solo i
bisogni e gli interessi lo consacrano e lo legittimano: la ragione e la volontà
giuridica spiegano, ma non esauriscono il pro blema (2 ) Dato il concetto che
Vincenzo Cuoco ha della borghesia, che per lui non è una classe chiusa,
capitalistica, oppres siva nel monopolio della vita pubblica, è naturale che
egli non parli mai o assai di rado del cosiddetto proleta riato o quarto stato,
il quale per altro non ha, ne ' tempi di cui ci occupiamo, una sua fisionomia
sociale ed eco nomica. Se il Cuoco vede un quarto stato, lo vede, se mai, (1 )
V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 123 e sg. (2 ) In tutta questa esaltazione
della proprietà C., mi sembra, reagisce in parte alla rivoluzione, che nelle
sue esagerazioni ha cercato di scrollarla. Lo stesso Russo, l'amico del nostro,
non è tenero per i proprietari, e basa il suo sistema su un ele mento
comunistico. Io non faccio che rimandare il lettore, che si interessa del
problema, allo studio su V. Russo del CROCE (La rivoluzione napoletana, p. 90 e
sgg. ). Lo stesso Edmund Burke in Inghilterra reagà agli attacchidialcuni
giacobini con tro la proprietà, e ne affermò il gran compito sociale: è questo
uno de tratti comuni tra l’A. delle Reflections on the French Revolution e l'A.
del Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli. Il problema, di cui sopra ci
siamo occupati, fu studiato da M. ROMANO, op. cit., p. 152, il quale peraltro
non si diffuse molto. 149 nell'artigianato, il quale è il germe di ciò che noi
chia miamo proletariato, ma da questo differisce sotto molte plici aspetti.
L'artigiano è libero lavoratore, il prole tario è il salariato della grande
industria. La grande industria è il prodotto di condizioni, che in Italia, al
tempo in cui il nostro medita, non si sono ancora svolte nella loro interezza.
Le questioni attinenti al quarto stato sfuggono perciò al Cuoco, ma non in tal
misura che egli non vi accenni brevemente in qualche articolo del Gior nale
italiano (1 ). Sarebbe pur questo un tema interes santissimo; senonchè,
diffondendoci, noi usciremmo dal nostro assunto: tracciare una linea generale e
sommaria del pensiero politico di Vincenzo Cuoco. Se con il pensiero noi
andiamo agli scrittori politici, che il secolo XIX offre al nostro studio,
invano trove remo un quadro così vivo della società post -rivoluzio naria, ed
un intuito così immediato dei problemi, che ne agitano la compagine. Basterà
che noi riferiamo ciò che il molisano dice intorno ai benefici effetti della
rivo luzione, e che sono i capisaldi di tutta la vita successiva, per intendere
quanto lungimirante fosse il suo senso po litico e quanto fine la sua visione
economica. Un effetto importante del sovvertimento è un progres sivo
migliorarsi della morale pubblica. Quanto grande posto il Cuoco faccia alla
morale e alla religione nella vita civile de ' popoli è un problema, sul quale
dovremo indugiarci dopo. Una seconda conseguenza è « la perfezione della mi
lizia, poichè essa non è perfetta se non dove il nome di soldato si alterna con
quello di cittadino; e questo non può avvenire se non dove non siano nè
esenzioni nè pri vilegi ». Tutto il pensiero della rivoluzione si rivela nella
sua intima radice antimilitarista. Perchè? Lo Stato as (1) Giorn. ital., 1804,
6 febbraio, n. 16, p. 64, Economia po litica: a proposito di una cassa
filantropica a beneficio degli artigiani; Giorn. ital., 1804, 7 maggio, n. 55,
pp. 210-220: Pub blica beneficenza, a proposito della mendicità e dei problemi
connessi. 150 solutista era da esso considerato come estrinseco alla volontà
dei subietti singoli, come tirannico e nemico: l'esercito nelle sue mani una
forza passiva ed antide mocratica. Lo Stato repubblicano, il vero Stato rivo
luzionario, alla sua volta, riposa invece su un consenso così largo, da
ammettere, ed è un estremo, il diritto alla sommossa, e il consenso così concepito
non ha biso gno della forza a suo sussidio (1 ). Il Cuoco naturalmente non può
condividere questi princípi. Il suo Stato è stato di diritto, ma per natura
tende alla conservazione, e re spinge ogni attacco alla sua compagine anche
violente mente. Il contratto sociale, che è alla base della sua co stituzione,
non è un contratto storico, ma è immanente alla struttura dello Stato, cioè
bisogna riguardarlo come una esigenza ideale ed un presupposto della vita
civile stessa. Il Cuoco deriva il principio dal Rousseau, ma lo anima alla luce
di superiori meditazioni vichiane. Lo Stato sintetizza le volontà individuali o
le libertà indi viduali (libero volere è libertà ), ma, appunto perchè in ogni
momento della sua esistenza è tale, si afferma come autoritario, contro chi
rompe o cerca di rompere l'armonia delle volontà concomitanti al fine sovrano.
Il contratto sociale eterno, che è alla base della vita stessa, in quanto è
convergenza di volontà e di diritti particolari, dà allo Stato il diritto
generico della difesa e della conservazione. In ciò la filosofia giuridica del
Cuoco si differenzia dalla filosofia della rivoluzione e, pur mantenendo alcuni
punti di contatto con quella del Rousseau, si avvicina alla filo sofia di
alcuni pensatori germanici. Nell'uomo si realiz zano due qualità di sovrano e
di suddito, in quanto lo Stato è sintesi di volontà singole e insieme volontà
ge nerale, che non ammette peraltro sottrazioni, anzi ri chiede la più assoluta
sottomissione. In ogni atto giuri (1 ) Notiamo che persino la costituzione
inglese ha tolto al re e al potere esecutivo ogni possibilità di disporre della
forza armata. Il principio è stato superato durante la guerra, date le
condizioni eccezionali, ma resta sempre base degli ordini ci vili dell'isola.
151 dico dello Stato è implicita la volontà generale, la quale volontà generale
non permette che alcuno possa evitare la sua autorità. Ecco il principio della
forza, che integra il consenso; ecco lo stato di diritto, che nelle sue mani
festazioni sovrane diviene militare. Gli stessi cittadini, che sono sudditi di
una volontà generale e sovrani, poi chè sono gli elementi costitutivi di essa,
sono anche soldati, cioè forza diretta a tutelare il rispetto alla legge, la
cui genesi, ripeto, è nel popolo, pur trovando la sua manifestazione più piena
e sintetica nel monarca, sim bolo della continuità nella vita giuridica e
storica della nazione. Mentre tutta la filosofia della rivoluzione inglese, la
filosofia dell'illuminismo e del giacobinismo sono anti militaristiche - e le
costituzioni, da esse scaturite, sot traggono al potere esecutivo ogni forza
armata —; il pensiero politico del Cuoco, più addentro nelle concrete esigenze
della vita, è in senso altamente nobile milita ristico. La milizia, sotto i
Romani dovere e diritto, anzi più diritto che dovere, del cittadino, diviene
nel mondo feudale mestiere e prestazione con alla base un ob bligo
contrattuale, ritorna nel mondo moderno diritto del cittadino, che dà allo
Stato la forza morale del con senso, e la forza materiale delle armi, senza le
quali il consenso è mera parola e lo Stato s'espone indifeso agli attacchi di
pochi faziosi. Di ciò noi troviamo la con ferma in tutti gli scritti cuochiani,
dal Saggio storico al Platone in Italia. Dice assai bene il Romano: « L'anti
militarismo, così notevole nella letteratura meditativa del secolo XVIII,
permane nel Cuoco solo in quanto si ri ferisce alla bruta forza messa a
sostegno della tirannide. Con questa sarà militare il governo ma non il popolo;
e d'altra parte un popolo senza virtù militari passerà per vicende politiche
più frequenti e più crudeli » (1 ). Con un governo costituzionale, lo Stato
sarà forte, ma il po polo, essendo esso stesso che dà l'elemento materiale per (1
) M. ROMANO, op. cit., p. 88. 152 l'esercizio della sovranità, avrà tanto
coraggio da non sopportare alcuna inconsigliata modificazione dei suoi di ritti.
Quest'alto sentimento dell'importanza civile della milizia meglio vedremo,
allorquando il Cuoco, apostolo dell'unità italiana e della resurrezione morale
del popolo nostro, rincorerà i suoi concittadini a ritornare agli an tichi sani
esercizi bellici. E passiamo ad altro. « Il terzo vantaggio » continua il
nostro autore « e mas simo, sarà quello di abolire l'antico pregiudizio che con
dannava all'ignominia l'utile industria, e specialmente l'agricoltura. Divenuta
una volta la proprietà la massima tra le distinzioni civili, questo farà sì che
il primo sen timento sociale sarà il desiderio di accrescerla, e quindi
un'attività maggiore nell'industria. Un mezzo secolo fa, l'abate Coyer destò
gran rumore in Europa pel suo opu scolo Sulla nobiltà commerciante. Egli però
non faceva che predicar l'imitazione dell'Inghilterra, ma non tentò mai
d'esaminar la cagione per la quale in Inghilterra era comune ciò che si
reputava paradosso in Francia. L'industria inglese era figlia delle rivoluzioni
che quella nazione avea sofferte più frequenti e più feroci delle altre. È
un'osservazione costante che, quando le rivoluzioni finiscono in bene,
l'agricoltura fa nuovi e rapidissimi progressi. Questo fenomeno, osservato
negli altri secoli, si è ripetuto anche nel nostro entro la Francia. L'in
dustria, e specialmente agricola, fa grandi progressi, ed i progressi
dell'industria non possono esser mai divisi da quelli della pubblica morale.
Esser buon cittadino non è altro che esser cittadino utile, e cittadino utile,
diceva Catone, vuol dire buon agricoltore >> Il nuovo Stato, appunto
perchè Stato di consenso, lascia la massima libertà individuale; afferma la
volontà generale in tutto ciò che pertiene all'esercizio della so vranità, ma
lascia intatta la volontà particolare in ogni sua estrinsecazione, ove essa, s
' intende, si muova in una sfera determinata. Ogni attività, che non coinvolga
l'essenza sovrana dello Stato, è lasciata alla volontà dei singoli subietti: il
commercio, l'industria, la navi gazione, l'agricoltura, l'istruzione, con
riserve debite, 153 sono lasciate alla libera autonomia dei cittadini. Appa
riscono qui i princípi del liberismo economico, che ap pare già ne' primordi
dell'economia politica, nei Fisio crati, nella scuola liberale inglese e
francese, e giù di là ne' nostri maggiori scrittori, per essere l'anima d'ogni
ulteriore sviluppo della scienza. Secondo me, entro certi limiti, non si può
dubitare di un liberismo vero e pro prio nel Cuoco. Lo Stato assoluto, basato sul
principio patrimoniale regio, non potea di fatto non essere Stato monopolistico,
come quello che mirava ad un utile particolare e non collettivo, di classe e
non generale. L'equilibrio econo mico è la risultante di libere forze
individuali, è ciò che nasce dall'esplicazione di queste attività. Ciò che è, è
quanto di meglio si possa concepire. Questi princípi liberali, che noi troviamo
sviluppati in Adamo Smith, in Ricardo, in Giovan Battista Say, ecc. non sono in
antitesi notiamo ai principi della filosofia cuochiana, per meata di vichismo.
Le nazioni, dice il Cuoco col Vico, le società umane, i popoli sono governati
da leggi naturali eterne, che hanno un proprio sviluppo, un proprio spie
gamento, dietro un impulso originario ab antiquo. Gli uomini non possono mutare
queste leggi, perchè ciò che è dato dalla natura stessa meglio soddisfa le
esigenze umane, quindi rappresenta ciò che, date le condizioni sociali e civili,
di migliore si possa imaginare. È l'ordine delle cose che determina l'ordine
costituzionale, e non la nuda filosofia: è l'ordine delle cose che determina
l'or dine economico, e non l'astratta economia. Di ciò ab biamo una prova
diretta nel Cuoco. Esiste, secondo il nostro, una vera scienza economica, ma,
appunto perchè questa scienza ha una base non dommatica ed apriori stica, ma di
fatto e storica, i princípi che la governano sono pochi, di loro natura « tanto
semplici e pochi» che « scompagnati dall'esperienza » divengono « incerti e fa
cili ad esser corrotti » (1 ). I princípi dell'economia sono (1 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II, p. 89. 154 pochi, perché sono i princípi stessi della
natura. La na tura determina l'ordine e lo sviluppo delle cose umane, in tutte
le loro conseguenze. Lasciamo operare la natura, e questa condurrà a sviluppi,
che sono quanto di meglio si possa immaginare ed operare per predeterminazione
umana, ammesso cioè che gli uomini, lasciato da parte ogni intendimento
utilitario individuale, mirino apriori sticamente ad un fine utilitario
generale. La disarmonia di contrastanti interessi porta all'armonia
dell'utilità col lettiva, ad un utile generale, lo stesso che si avrebbe, qua
lora gli uomini abbandonassero, ed è mera astrazione, l'egoismo economico
nativo, che li porta alla ricerca della soddisfazione maggiore de' propri
bisogni anche a sca pito altrui. Lo Stato cuochiano quindi è Stato liberista:
il prin cipio però notiamo è tutt'altro che chiaro, e lo stesso no stro autore
lo intorbida e spesso lo rinnega. Il legislatore interviene a limitare
l'attività economica individuale, solo in quanto quell'attività lasciata a sè
stessa, in de terminate circostanze sociali anomali, possa risolversi in un
danno collettivo, o in quanto quest'attività indivi duale, nel rimuovere gli
ostacoli che le si oppongano, agisca fuori dal lecito giuridico. Il Cuoco è
troppo for temente concreto per potere formulare princípi astratti e crederli
validi per un'universalità di fatti. I princípi economici, ha detto sono pochi,
perchè poche sono le leggi eterne della natura; i casi concreti invece sono
molti moltissimi: quindi il principio economico trova nella realtà mille
limitazioni, e solo un'analisi caso per caso può ri solvere un problema
positivo che ci si presenti. Liberismo o protezionismo? Questione fino ad un
certo punto astratta. La vita nelle sue manifestazioni reali può ren dere
necessario il protezionismo, e lo può presentare, vi sono pur de' casi, come un
male minore di quello, che si avrebbe lasciando sfogare le libere forze
economiche. « Niente si cura produrre chi non è sicuro di vendere. Or, perchè
gli abitanti di uno Stato possan vendere molto e con vantaggio, è necessaria
una certa potenza politica nello Stato. È necessaria, perchè possa ottenere 155
dalle altre nazioni que patti equi, i quali non si otten gono se non quando
taluno creda che noi possiamo ot tenerli anche contro sua voglia. I popoli,
dice Melun, e noi diremo i governi, non si regalano nulla. Se non siete forte,
sarete sopraffatto. Non solamente non otter rete condizioni giuste, ma sarete
costretto a soffrirne delle ingiustissime » (1 ). Come mai il Cuoco, di cui
abbiamo veduto il pensiero nella sua sostanza liberista, sembra tradire così i
suoi princípi? In realtà, la concretezza del suo pensiero non può permettergli
apriorismi nè costituzionali, nè econo miei, ond’ei bene intende quanto
necessario sia il prote zionismo in certe contingenze politiche. Non dimenti
chiamo, poi, che non si può parlare di liberismo asso luto in un'età, in cui
ferve continua la lotta tra la Francia e le coalizioni europee, fra la Francia
e l'Inghilterra do minatrice de’mari, in un'età in cui ogni mezzo politico diviene
spietato per vincere economicamente, e le armi del contrasto non sono più la
libera concorrenza tra im prese nel campo internazionale, ma il sequestro marit
timo, il boicottaggio, il blocco. La realtà dell'èra napo leonica, tragica nel
conflitto tra il genio e le forze avverse, impone all' impero il protezionismo.
Il Cuoco lo crede ne cessario per evitare danni maggiori, senza però condurre
questa tattica positiva a princípi generali e valevoli in eterno (2 ). Ma dove
il pensiero cuochiano attinge una verità eco nomica di prim'ordine è in un
principio, al quale il no stro accenna ne' Frammenti di lettere a Vincenzio
Russo, (1 ) Giorn. ital., a. 1806; 5, 6, 7, 8 gennaio; n. 5, 6, 7, 8; pp.
19-20, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32; Politica: (ristampato in M. ROMANO, op.
cit., in Appendice; ed ora negli Scritti vari, v. I, pp. 201-213 col titolo La
politica inglese e l'Italia ). (2 ) Mi sembra che anche il ROMANO, op. cit., p.
155, creda così. Dopo aver riportato in nota il brano da me sovra ci. tato
aggiunge: « Anche qui è palese che il protezionismo del Cuoco non moveva da
teoriche astratte, sibbene dall'esame delle condizioni storiche del suo tempo.
E che avesse ragione allora.... non è chi non veda », 156 principio, al quale
egli stesso non dà alcuna elaborazione, ma in cui è il germe di dottrine, che
nella stessa nostra Italia hanno avuto così bello sviluppo. « Una nazione si
dirà virtuosa, quando il suo costume sia tale che non renda infelice il
cittadino; e se tutte le nazioni potessero essere sagge a segno che, invece di
farsi la guerra e di distruggersi a vicenda, si aiutassero, si giovassero,
questa sarebbe la virtù del genere umano. Il fine della virtù è la felicità, e
la felicità è la soddisfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desidèri e
le forze. Ma, siccome queste due quantità sono sempre variabili, così si può
andare alla felicità, cioè si può ottener l'equilibrio o scemando i desideri o
accrescendo le forze. Un uomo, il quale abbia ciò che desidera, non sarà mai
ingiusto; perchè naturale e quasichè fisico è in noi quel senti mento di pietà,
che ci fa risentire i mali altrui al pari dei nostri, e questo solo sentimento
basta a frenare la nostra ingiustizia, sempre che la crediamo inutile. L'uomo
selvaggio non cura il suo simile, perchè non gli serve: egli solo basta a
soddisfare i suoi bisogni, che son pochi. Debbono crescere i suoi bisogni,
perchè si avvegga che un altro uomo gli possa esser utile, ed allora diventa
umano. Per un momento nel corso politico delle nazioni le forze dell'uomo
saranno superiori ai bisogni suoi; allora que st'uomo sarà anche generoso. Ma
questo periodo non dura che poco: i bisogni tornan di nuovo a superar forze;
l'uomo crede un altro uomo non solo utile, ma anche necessario: ed allora non
si contenta più di averlo per amico, ma vuole averlo anche per schiavo » (1 ).
Per il Cuoco la felicità è ciò che con linguaggio più pro prio possiamo dire
soddisfazione de' bisogni, possibilità di sfruttare le qualità fisico -
chimiche de ' beni, dati de terminati bisogni individuali. L'uomo è felice,
cioè sod disfa interamente i suoi bisogni, realizza uno stato di ap (1 ) Framm.
VI, p. 262. Errerebbe colui che nel brano citato volesse vedere un abbozzo di
morale utilitaria: il problema mo rale ben altrimenti è impostato da V. Cuoco.
157 pagamento, trova un punto d'equilibrio, quando non v'è contrasto tra
desideri e forze. La visione però è moderna in ciò che segue. I bisogni,
aggiunge lo scrittore, non sono da comprimersi, tut t'altro, anzi è d'uopo
dargli il modo d’esplicarsi. « Invano tu colla tua eloquenza fulminerai il
nostro lusso, i no stri capricci, l'amor che abbiamo per le ricchezze: noi ti
ammireremo, e ti lasceremo solo ». L'economia privata e pubblica dà l'esempio
continuo di nuovi bisogni che sorgono, che non trovano soddisfazione che
parzialmente, e poi per le mutate condizioni delle produzioni vengono
soddisfatti sempre meglio. Il progresso civile è una ca tena ininterrotta di
bisogni nuovi e di soddisfazioni ade guate che si sviluppano. Che vale gridare
catoniana mente contro le troppo molteplici esigenze della vita moderna? Quel
che è non si discute. Passarvi sopra sa rebbe un condannarsi ad una eterna
infelicità. L'equi librio tra i desideri e le forze non può mantenersi che per
breve tempo, perchè tosto che si realizza, intervengono nuovi bisogni
impreveduti per romperlo. Nella realtà, anzi, è impossibile concepire un vero e
proprio equili brio: quel che più ci dà l'idea di questo mondo eco nomico è una
serie di equilibri tra desidèri nuovi e forze preesistenti, tra bisogni nuovi,
che dan luogo a nuove domande di beni atti a soddisfarli e lo stato della produ
zione, che s'adatta all'oscillazioni delle domande. Qual'è il comportamento
naturale dello Stato in tali contin genze? « La cura del governo deve esser
quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e quelle ancora le
quali consumano più di ciò che producono; e verrà a capo, se stabilirà tale
ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto di ricchezza
quanto colle arti utili se ne ottiene ». Il Cuoco continua in una esaltazione
del lavoro agricolo ed industriale, e in una deplorazione degli impieghi, che
chiama pericolosi per chè fomentano le ambizioni. Con ciò noi usciamo dalla
pura indagine economica. L'autore lascia intravedere la possibilità d'un
intervento statale in un campo che noi ne 158 vorremmo libero. Ma nel molisano,
purtroppo, i concetti economici non sono chiari: il Cuoco indulge troppo spesso
a forme d'economia statale, che portano ad un interven tismo e ad un
protezionismo fuor di luogo, che, se sono a volte spiegabili come espressioni
di circostanze ano male, non hanno mai ragioni scientifiche tali da imporli per
una pratica economica generale (1 ). (1 ) Bisogna pur riconoscere che elementi
estrinseci interven gono a turbare la mera analisi economica, onde il Cuoco so
stiene forme d'economia statale e d'intervento per altre ragioni, nobili e
spiegabilissime. Dopo gli studi del RUGGIERI (op. cit., p. 39) e del Cogo sopra
tutto (op. cit., pp. 13-23, pp. 59-66) non v'è alcun dubbio che l'opera
statistica Operazioni sul di partimento dell'Agogna anzichè al cittadino
Lizzoli Luigi come appare estrinsecamente dal frontespizio dell'opera (Dalla
tip. Nobile e Tosi, 8. d. ), debba attribuirsi al Cuoco, che la scrisse per
incarico dell'amico tutta di suo pugno, sia pure consigliato dal Lizzoli.
Orbene in detta opera (cap. XII, Istruzione pubblica, p. 107) il Cuoco tratta
dell'importanza delle scuole di disegno e de' vantaggi che da questa specie
d'educazione si ritraggono. « Saremo sempre » scrive poi « i servi degli esteri
fin che crede remo che essi sieno i nostri maestri: chi ha perduto la stima di
sè stesso, ha già perduto tre quarti della sua indipendenza. Or questa stima di
noi stessi non si perde tanto ammirando i genî che ha prodotto, e le grandi
azioni che ha fatte una na zione estera, quanto ammirando di soverchio alcune
cose che sono per loro natura indifferenti, e che forse anche sarebbero
migliori tra noi, se come nostre non fossero disprezzate. Pochi sono sempre
presso qualunque nazione coloro che intendono e pregiano le prime, e questi
pochi per lo più hanno uno sviluppo tale di ragione che impedisce l'abuso
dell'ammirazione. Ma mol. tissimi sono quelli che ammirano le chincaglierie, i
ventagli, le fibbie, i mobili, le stoffe, e che aspettano da Lione, o da Londra
il figurino della moda. Tra cento uomini convien trovare cin. quanta donne, e
quarantotto altri esseri inferiori alle donne, i quali ragionano così: in
Inghilterra le fibbie, i mobili, le scarpe sono migliori delle nostre: dunque
gl' Inglesi sono migliori di noi. Allora tutto è perduto. Le nazioni estere
attaccano sempre la parte più numerosa e più debole di un'altra nazione, e l'at
taccano per le vie del comodo e del bello; e quindiè che un go verno savio deve
procurar sempre di dare alla nazione propria gran facilità di mezzi, onde poter
vincere in questa concorrenza, e questa cura deve formar la parte principale
della pubblica istru zione ». 159 Abbiamo studiato come il Cuoco concepisca lo
Stato, Stato di diritto basato sul consenso e realizzante la sua sovranità
nella maggior pienezza, Stato militare e forte; abbiamo anche studiato come
questo suo Stato sia in fine lo Stato che egli vede sorgere per opera di
Bonaparte. Il Cuoco a me appare come il teorizzatore di quel tipo di Stato, che
alla storia è passato col nome di napoleonico. Abbiamo già dato in parte la
giustificazione di ciò che i legittimisti ben poteano chiamare usurpazione, ma
che per il nostro è lo sviluppo logico delle cose, è la fine di tutto un
processo storico: occorre però ritornare sul l'argomento per una più vasta
documentazione. La storia non s'interrompe. Il primo console diviene presto
imperatore di Francia e poi re d'Italia (1 ). Tutto il movimento spirituale che
porta dalla repubblica ita liana al regno italico, trova la sua spiegazione
negli scritti cuochiani. Sul Giornale italiano il molisano manda fuori le sue
Considerazioni sopra il senato - consulto (2 ), scritto denso di pensiero
politico, ove la monarchia napoleonica trova un'adeguata giustificazione nella
natura stessa delle cose, nel corso della storia, che tra due estremismi, la
tirannia e l'anarchia, trova il suo equilibrio nella costi tuzionalità. I
contemporanei non possono intendere Napoleone: la sua figura complessa sfugge
ad essi, perchè la conside rano isolatamente, avulsa dal moto storico, in cui
opera e dal quale è determinata, moto storico, che solo la po sterità potrà
intendere. Avevamo una repubblica. Come va che dal direttorio, dal consolato
decennale, dal conso lato a vita, dalla presidenza si passa all'impero e al
regno? « Noi diciamo, pieni di stupore: – Come mai ha potuto avvenir questo? —
E coloro che ci han preceduto, molto tempo prima che avvenisse, lo avean
predetto (1 ) M. Rosi, op. cit., p. 230 e sgg. (2 ) Giorn. ital., 1804, 30
maggio, 2 giugno; n. 65, 66; pp. 260, 264: Considerazioni sovra il senato -
consulto (ristampato dal Ro MANO, op. cit., in Appendice; ed ora in Scritti
vari, v. I, pp. 103-108, col titolo Napoleone imperatore). 160 inevitabile ».
L'impero è sorto, perchè tutte le idee por tavano all'impero. L'analisi di
tutti i precedenti storici, senza i quali ogni evento ci appare estrinseco, è
fatta dal nostro con una lucidità mirabile. La rivoluzione francese, prima di
scatenarsi sulle piazze e sui patiboli col terrore, aveva tentato un
esperimento costituzionale. Una monarchia moderata sarebbe stata quanto di
meglio potea avere in quel momento la Francia. « La rivoluzione scoppiò, perchè
era inevitabile. Tutte le idee degli uomini non ebbero allora altro scopo che
quello di formare una monarchia costituzionale; ma si errò nel circoscrivere il
limite del potere esecutivo, e se ne creò uno troppo debole e troppo poco
rispettato ». Si inde bolì costituzionalmente il potere centrale, togliendo
così ogni difesa agli stessi ordini civili, aprendo la via alla licenza
trionfante. Gli errori in questo campo furono in numerevoli. Il potere
legislativo esercitò un predominio eccessivo, inframettenze internazionali, in
campi che pra ticamente, se pur non logicamente, spettano all'autorità
amministrativa. La forza ' armata fu divisa, parte al re, parte al popolo: la
monarchia fu esautorata, ma il paese resto senza presidio alcuno. Il potere
esecutivo perse ogni autorità sul legislativo, e si giunse all'assurdo di
togliergli parte sia diretta sia indiretta, sia d'iniziativa sia di veto, nella
decretazione e nella sanzione delle leggi. Si separò ancora interamente il
potere esecutivo dal giu diziario, e al re fu vietato l'ultimo residuo
d'autorità: il diritto di grazia e d'amnistia, che pur tanto serve a sanare
situazioni in via strettamente giudiziaria irre solubili. « Che ne avvenne? La
monarchia costituzionale, simile ad un colosso di arena, si sgretolò e cadde ».
S'immaginò poi la costituzione del 1793. Un altro ec cesso. Per non cedere la
Francia il potere esecutivo ad un organo specifico, esso fu assunto dalla
stessa conven zione nazionale. « L'epoca, in cui noi ebbimo distrutto ogni
potere esecutivo, si può chiamar l'epoca in cui al governo si sostituì la
guillottina ». « Eravamo giunti all'estremo. Era necessità retroce dere. Si
comprese l’errore della riunione de' poteri e, 161 colla costituzione del 1795,
furon di nuovo separati. Si comprese che la forza fisica di uno Stato dovea
esser una sola, e che questa dovea dipendere dal governo. Le at tribuzioni
della guardia nazionale furono limitate; il co mando della forza armata, il
pieno comando, fu dato al Direttorio, a cui furon dati attributi più ampi che
al re ». Come ognun vede il processo della storia è sempre lo stesso: un
estremo porta all'altro estremo, ma nel l'urto e nell'antitesi si sviluppa
spontaneo un supera mento, che rappresenta il nuovo e logico equilibrio. La
costituzione del '95 avea molti difetti che dovevano in breve distruggerla: la
lentezza e la mancanza del se greto in azioni, che esigono rapidità ed unità di
comando; l'incertezza del sistema nel troppo rapido cambiamento del Direttorio;
l'ambizione de' membri che componevano il Direttorio stesso. Gli effetti del
sistema: vittorie inu tili, vertiginose disfatte, discredito all'interno e
all'estero. La storia continua il suo processo, alla ricerca d'un punto
d'equilibrio stabile. La costituzione del 18 bru male fu un rimedio solo in
parte. Comincia l'ascesa di Napoleone, ascesa che ora ci appare naturale,
inquadrata come è nella continuità d'un processo che si svolge con una
particolare logica. Invece che a cinque membri, il potere esecutivo fu affidato
ad uno solo, togliendo ogni lentezza alla vita statale; il potere fu prolungato
per dieci anni, evitando la troppo frequente rotazione di governi; s'evitò ogni
ingerenza legislativa nella sfera na turale d'azione del potere amministrativo
restituito così alla sua sovranità. Una volta preso questo cammino, le idee
andarono fino alla fine: per rendere l'ambizione privata meno nociva, si ebbe
il consolato a vita e si diede al console il diritto di nominare il successore.
L'ascesa di Napoleone appare così pienamente spiegata nella storia. V'è
perfetta reciprocanza: gli uomini deter minano la storia ed operano per la
storia; sono liberi perchè sono i fattori della storia, sono schiavi perchè
soggiacciono alla loro opera. « Ciò che è avvenuto posteriormente non è che il
com pimento di tali istituzioni. L'eredità rende il potere più 11 - F.
BATTAGLIA, 162 sicuro, ed in conseguenza ne rende l'esercizio più dolce; la
responsabilità de' ministri corregge ogni abuso che dal l'eredità potrebbe
avvenire. Coll'eredità e colla responsa bilità si riuniscono due cose che
paiono di loro natura inconciliabili: la libertà e l'impero ». Quand' io ho
analizzata la critica rivoluzionaria nel pensiero cuochiano, ho avvertito come
da questa critica nasca tutto un sistema politico, di cui la storia è la con
sacrazione e la legittimazione. Eccoci giunti al punto, in cui ciò che il Cuoco
ha preveduto trova la sua realtà e la sua riprova materiale. La storia ha un
processo dialet tico eterno, le cui grandi linee approssimativamente si possono
cogliere, pur quando l' ineffabilità de' partico lari ci sfugge. Il Cuoco ha
osservato le idee, che sono eterne e non fallano; ha trascurato gli uomini, che
brillano un istante ed ingannano, se li si astrae dal corso ideale delle cose:
le sue deduzioni fondate sulla natura umana non sono fallite, ed hanno avuto la
più piena sicura conferma. Com'ognun vede, siamo giunti a Napoleone attraverso
uno spiegarsi logico delle cose. Bonaparte è la risultante di tutta una
convergenza d'elementi, che allo storico e al politico acuto non isfuggono, e
de ' quali noi abbiamo descritto la natura. Bonaparte è il creatore di quel
tipo di Stato, che, pur lasciando il più vasto campo alle atti vità
individuali, esercita unitariamente il suo compito sovrano, e, pur riposando
consensualmente su un con tratto sociale, in ogni istante vero nella convergenza
delle volontà subiettive, sa trovare la sua difesa in una forza attiva che non
falla. Un'esperienza rovinosa di frammen tarismo e di debolezza porta
all'impero (1 ). Si è avuta troppo lunga pratica d'anarchismo costituzionale,
d'insuf ficienza esecutiva, perchè si possa continuare sulla stessa strada. I
popoli non possono prosperare, quando gli or dini civili non rispondono alla
vita stessa. La vita è vo lontà unitaria; lo Stato è sovranità, cioè
estrinsecazione di quella volontà suprema, che è alla base d'ogni atti (1 ) V.
FIORINI (F. LEMMI, op. cit., p. 619. 163 vità umana coordinata in società. Ogni
menomazione del principio porta all'anarchia. Le costituzioni debbono ri
spondere a quelle esigenze eterne ed immutabili, senza le quali gli organismi
sociali deperiscono e muoiono. Curioso e tipico è osservare come ugualmente
nella storia il Cuoco trovi la legittimazione di altre figure in signi di
capitani e di uomini eletti, il duca Valentino, Cromwell. Mi si permetta la
parentesi, anche perchè si tratta di considerazioni che illuminano direttamente
il nostro argomento. In uno scritto (1 ) il molisano immagina che un suo amico
possegga un manoscritto antico, descrivente un viaggio per l'Italia nel secolo
di Leone X, secolo aureo e grande nella sua pura italianità: dall'opera egli
desume un collo quio tra l'anonimo autore e il Machiavelli. Non istard qui a
riferire il dialogo, che si svolge animato e profondo di politica, tra i due,
nel quale Vincenzo tenta una giusti ficazione di quell'atteggiamento del grande
fiorentino, che i secoli hanno battezzato con l'epiteto di machiavel lismo.
L'Anonimo' nota al Machiavelli che il mondo lo accusa d'avere insegnato massime
di tirannia ai Medici e di avere presi per suoi modelli uomini scellerati, Ca
struccio e il Valentino. Alla prima obiezione il Machia velli risponde che egli
tanto poco è stato fautore dei signori della sua città, che questi al contrario
lo han per seguitato come troppo caldo fautore della libertà della patria; alla
seconda obiezione oppone un ragionamento assai acuto, sul quale merita
fermarvisici un po '. « Ascolta. Per Castruccio ti dirò che, scrivendo la sua
Vita, non ebbi altro pensiero che quello di ridestar gli animi degl'italiani,
inviliti tra l’ozio e la cura de' cani, della caccia, delle donne e dei
buffoni, all'amor delle cose militari, mostrando loro coll' esempio di un uomo
illu stre che per questa sola via si può ascendere alla gloria e all'impero....
». (1 ) Giorn. ital., 1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp.
39-40, pp. 43-44: Varietà (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 42-52 sotto il
titolo Due frammenti d'una storia della poli tica italiana ). 164 « Ma pel duca
Valentino?... » « Perchè quelli che egli oppresse e distrusse eran più
scellerati di lui.... Tra tanti scellerati io preferiva quello che almeno
dirigeva le sue scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir
l'Italia, che gli altri, con iscel leraggini più vili, dividevano e desolavano.
L'Italia non avea altro più da sperare: niuna virtù ne' popoli, niun ordine di
milizia. Quei tanti tirannotti, che la laceravano, si facevan ogni giorno la
guerra; ma questa guerra non decideva mai nulla. Nel massimo de' mali, era un
sol lievo diminuirne il numero. Valentino sarebbe rimasto solo. Più grande,
sarebbe stato più umano ed avrebbe accomodati i suoi pensieri all'ampiezza del
nuovo impero. Senza rivali, sarebbe stato anche senza sospetti e senza
crudeltà. L'Italia avrebbe cominciato a goder la pace, e dopo due età avrebbe
incominciato ad avere anche la virtù.... ». Il pensiero del Cuoco è chiaro. La
giustificazione del Duca è nei suoi stessi fini. Il secolo di Leone voleva
questi mezzi, e da essi non si poteva prescindere: un uomo, che aveva per
iscopo di realizzare la sua personalità, non po teva non agire in quella
maniera. Oggi la storia è cam biata. Napoleone non è il Valentino; Napoleone è
un ambizioso, il nostro autore non lo disconosce, ma un ambizioso, che unisce
la gloria alla virtù. Coloro che lo han preceduto sono inetti metafisici,
incapaci di portare la nazione ad un fine grande. Qual è la ragione etica e
storica, che possa impedire al genio di farsi strada e di trovare nella sua
stessa personalità la sanzione del l'impero? Nessuna. Tutte le cose invece
additano Na. poleone come il restauratore degli ordini civili sconvolti, come
colui, che può dare allo Stato un potente indirizzo unitario (1 ) (1) È curioso
ed interessante come l'anglofobo Cuoco spieghi e legittimi il Cromwell. In un
articolo del Giorn. ital., 1804, 5 marzo, n. 28, pp. 111-12: Considerazioni sul
libro in. glese « Uccidere non è assassinare » e sul diritto delle genti (ri
stampato in Scritti vari, v. I, pp. 81-85 col titolo L'assassinio politico e le
violazioni del diritto delle genti) scrive, a proposito 165 Napoleone ha
inoltre un titolo maggiore al trono, un titolo più nobile, il quale sta
maggiormente al cuore di Cuoco: egli ha dato all'Italia quell'unità, e in parte
quel l'indipendenza, che è stata il sogno di tanti pensatori e di tanti martiri
della Partenopea. Vedremo, in seguito, quando verremo a parlare della pedagogia
e dell'ita lianismo del nostro, come il problema unitario italiano sia anzi
tutto un problema spirituale, cioè educativo, e poi un problema politico.
Limitiamoci ora a vedere la cosa piuttosto dal di fuori, per poi penetrarla
meglio nel suo intimo. Bene o male s'è costituito nell'Italia settentrionale
uno Stato unitario. Quel che al Cuoco interessa è che, nella nostra patria, si
cominci a vivere italianamente, a pen sare nazionalisticamente. Altri dirà: il
nuovo organismo è accodato al carro di Napoleone ! Che importa ciò, se
quest'uomo grande ha di mira il bene comune dell'Italia, sua patria d'origine,
e della Francia, sua patria di ele zione. Il nuovo regno non ha con l'Impero'
se non quel vincolo di solidarietà reciproca, che lega il benefi cato al
benefattore: Napoleone è il pegno tra i due po poli, comune sovrano di due
nazioni sorelle. Come mai il Cuoco così irrimediabilmente antifrancese ora è
così strettamente francofilo, incline ad intendere i benefici dell'alleanza e
dell'amicizia franco- italiana, fino a ringraziare Iddio, che ha voluto porre
Italia e Francia sotto il comune scettro d’un uomo solo? La risposta è
implicita in tutto il pensiero politico del no stró scrittore. di un'operetta
del colonnello SEXBY, Killing is no murder e dell'attentato contro Napoleone
del febbraio 1804 queste con siderazioni sulla posizione storica del lord
protettore Cromwell: Dopo le crudeli stolidezze degli evangelici, de'puritani,
de' livellisti e di tutto quell'infinito numero di sette religiose e politiche,
che si agitavano allora in Inghilterra come igra nelli di sabbia quando spira
il vento di mezzogiorno ne' deserti dell'Arabia,... era inevitabile che
sorgesse finalmente un uomo atto a ricomporre in un qualche modo le cose. Ciò
che è ine. vitabile è sempre il minor male », 166 La Francia, che il Cuoco non
ama, è la Francia repub blicana, sinonimo d'astrattismo e di debolezza, che am
mannisce ai popoli parole vacue di libertà di fratellanza d'uguaglianza, e
intanto depreda musei archivi bibliote che, saccheggia case private, taglieggia
le stesse città che dice d'aver liberato. La Francia rivoluzionaria, che egli
descrive con così foschi colori, non può dare a noi l'indi pendenza e l'unità.
La Francia, che invece esalta, è la Francia che ha superato la rivoluzione, ha
ricostituito gli ordini pubblici sconvolti, ha trovato in Bonaparte, la sintesi
superba della sua rinascita. L’unità che il molisano osserva realizzata nel
nuovo Stato è, però, un'unità più politica che spirituale, più estrinseca che
intima. Bisogna dunque operare ancora per rendere le fondamenta del nuovo regno
salde ed eterne, bisogna formare quel che manca: la coscienza dell'italianità,
la volontà unitaria, un nazionalismo. A ciò mirano gli sforzi del Cuoco,
pedagogo dell'Italia, « il pedagogista del primo risveglio della coscienza
nazio nale » (1 ). Abbiamo il Regno italico libero indipendente, punto di
partenza per estendere a tutta la penisola i benefici d’un nuovo ordinamento. È
il gran sogno di Vincenzo Cuoco, che s'esalta, egli, temperamento posi tivo,
ovunque veda un barlume d'unità italiana, lo stesso sogno che lo farà fervido
murattista ne' suoi ultimi anni, sembrandogli d'intravvedere in Gioacchino il
desìo am bizioso d’un più vasto dominio. Certo l'autore del Saggio storico
avrebbe voluto che il nuovo organismo nazionale sorgesse più naturalmente, per
virtù d'italiani, per il formarsi e il maturarsi d'uno spirito civile nostrano,
per un processo politico naturale, senza quell'intervento napoleonico, che pur
serba sempre il suo peccato d'origine: la sua esteriorità. Ma, tutto è fatale
necessario nella storia. « Quella ragione, per la quale gl'italiani, reggendosi
a repubblica, non potrebbero for mar mai uno Stato potente, quella ragione
istessa fa sì (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 335. 167 che uno Stato
potente, tra le tante divisioni di luoghi e di animi, non possa sorgere in
Italia se non per mezzo dell’unione; e questa unione, non essendo più figlia
della virtù e degli ordini antichi, non può ottenersi se non per la forza. E
come mai non sarà straniera la forza, quando ogni forza patria è già da tanto
tempo distrutta? » (1 ). La repubblica non fa per noi, come non fa per i
francesi: essa è disgregazione e ruina, mentre occorre unitarietà e forza per
superare i mali e i dottrinarismi del secolo. La Francia repubblicana, dannosa
a sè stessa, non potea essere benefica per poi: i suoi rapporti con l'Italia
eran rapporti di sudditanza e non di parità. « I legami che ci uniscono alla
Francia » scrive il Cuoco, « sono legami di necessità e di vantaggio
vicendevoli. Era naturale che la Francia vincitrice volesse usare della sua vittoria;
ma, finchè la Francia ebbe apparenza di governo repubblicano, la sorte d'Italia
non fu per certo molto felice, perchè pessima è sempre la condizione de' paesi
conquistati o dominati dalle repubbliche. Par che la somma delle libertà tutta
si concentri entro le mura, e fuori non rimane che l'oppressione. Forse è
inevitabile nell'ordine della natura che l'estremo de 'mali non si possa
evitare senza rinunciare a quell'estremo de' beni, a quell'ottimo che si chiama
con ragione il peggior ne mico del bene, e mettersi in quella mediocrità che
forma la base de governi temperati. La Francia, quando ella stessa non avea
governo, prometteva agli altri popoli un governo simile al suo: con promesse,
per tutt' i popoli, fallaci, perchè non poteano eseguirsi; per l'Italia, an
corchè potessero eseguirsi, dannose. Imperciocchè, am messo per vero che i
costumi degli europei viventi fos sero capaci di pure forme repubblicane,
rimane però sempre problematico se con forme puramente repubbli cane l’Italia,
il di cui male più grave stava nella divi (1 ) Giorn. ital., 1805, 1, 3, 6
aprile; n. 39, 40, 41; p. 158 pp. 161-162, pp. 165-166: Sul regno d'Italia (ripubblicato
in, parte da G. Cogo, op. cit., pp. 134-136; ed ora in Scritti vari, V. I, pp.
149-158). 168 sione, avrebbe potuto mai riunirsi; e se, non riunendosi, poteva
acquistar forza e vera indipendenza; e se, senza indipendenza e senza forza,
preda del primo che volesse invaderla, avrebbe mai potuto perfezionar gli
ordini suoi? ». Ritorniamo alla critica rivoluzionaria di cui abbiamo parlato.
Il popolo italiano, pur diviso e suddiviso, ha una sua fisionomia speciale,
bisogni propri, antichi ordini na zionali, che non possono mutarsi ed adattarsi
ai sistemi nuovi d'oltralpe. Napoleone agisce diversamente: crea in Italia un
Regno nuovo e lo pone direttamente sotto il suo scettro, ma nello stesso tempo
gli dà, almeno in parte, una certa autonomia governativa, che intenda i bisogni
e gli interessi locali, gli dà un esercito proprio, che sol levi lo spirito popolare
depresso e lo riabiliti dopo un fiacco passato; gli dà istituzioni, leggi
proprie. V'è una politica imperiale, politica estera, amministrazione ge
nerale, la stessa in Italia e in Francia, dipendente dalla volontà del monarca.
V'è poi una politica locale, diretta alla soddisfazione di esigenze specifiche,
che varia da luogo a luogo, lasciata alla volontà delle popolazioni, che
intanto s’abituano alle gestioni pubbliche, alle fun zioni civili, dalle quali
sino ad oggi erano state tenute lontane. « Il cangiamento di governo che è
avvenuto in Francia, per quanto sia stato necessario ai francesi, si può dire
però che sia stato egualmente utile agl'italiani. Di tutti i legami che univan
questa a quella non rimane che l'al leanza; alleanza, che, se alla Francia è
utile, all'Italia è indispensabile. Il Regno dell'Italia è divenuto proprietà
dello stesso sovrano, e questo sovrano è il più grande uomo del secolo: egli
saprà, egli potrà e, ciò che più im porta, egli vorrà farlo prosperare. Questo
uomo avea già due titoli i più giusti alla sovranità: quello di creatore e di
restauratore dello Stato. Le circostanze politiche del l'Europa gliene dànno un
terzo, più giusto di tutti: la necessità di difendere ancora per altro tempo lo
Stato che egli ha creato, la necessità che ancora ha questa nazione dei
benefíci suoi », 169 H In Italia non si è formato ancora uno spirito pubblico
nazionale, una comunione d'idealità, un italianismo in somma. L'unità, che
Napoleone ha dato a noi, è un'unità che non può trovare altra ragione che nel
suo genio. L'in dipendenza per volontà intrinseca del popolo è un as surdo: in
Italia non c'è ancora un popolo consapevole della sua natura e della sua forza.
L'unica possibile ri soluzione del problema italiano è quella che la storia ha
sancito. Il fatto nuovo avrà per effetto di mostrare agli italiani, come la
convivenza comune ed unitaria sia possibile, anzi vantaggiosa; come essi uniti
siano più forti che non separati; come essi abbiano da sperar tutto da un
avvenire libero, e tutto da perdere ricadendo negli antichi errori. I germi di
quest'esperienza non andranno perduti, morto Napoleone, poi che la storia non
ritorna sui suoi passi, e procede infallibilmente. Qui il Cuoco è davvero il
profeta dell'avvenire. Siamo in un campo puramente politico. Ho detto che ci
riserviamo di studiare in seguito la maniera con la quale il Cuoco crede
possibile una unità italiana più in tima, di natura spirituale, attraverso
un'alta pedagogia, che cementi per l'eternità, ciò che il genio d’un uomo ha
potuto realizzare in maniera affatto pratica, e, nella sua stessa génesi,
estrinseca. Prima però di venire a questo problema, che formerà un capitolo del
presente lavoro, bisogna gettare uno sguardo rapido sulla politica gene rale
europea, in cui il nostro scrittore ebbe intuizioni ge niali e alcune poche
insufficienze tipiche. Per chi ritorna col pensiero alla tormentata storia del
secolo XIX, l'unità d'Italia appare come una necessaria conseguenza di forze
politiche in pieno sviluppo, come l'inderogabile fine d'un non mai interrotto
processo. La questione italiana, considerata da un punto di vista po litico,
appare, senza dubbio, come una grande questione europea. L'Italia è il centro
del Mediterraneo, il centro pulsante della vita civile di tante stirpi, il transito
tra l'Oriente mistico e voluttuoso e l'Occidente pratico e po sitivo; il paese
destinato a moderare, se libero ed uno, tutte le competizioni di predominio
commerciale, ad ali 170 mentarle, se disgiunto e schiavo, in quanto nessuna
grande potenza permetterà mai ad un'altra un dominio incontrastato sulla
penisola, che domina tutti gli sbocchi marinari e commerciali europei. L'unità
italiana è il fulcro del problema dell'equilibrio europeo. Le guerre
cesseranno, in gran parte, quando le nazioni si convince ranno di questa grande
verità: l'unità d'Italia è la condi zione indispensabile d'un assetto europeo
duraturo. È il concetto centrale del Saggio, il concetto animatore della
politica cuochiana. Vincenzo Cuoco si è tuffato nel vor tice che non amava, la
rivoluzione, solo perchè aveva una lontana vaga speranza d'indipendenza e di
unità italiana. « La rivoluzione di Napoli, rimpiange l’esule della Ci salpina,
potea solo assicurar l ' indipendenza d'Italia, e l'indipendenza d'Italia potea
solo assicurar la Francia. L'equilibrio tanto vantato di Europa non può esser
af fidato se non all'indipendenza italiana; a quell'indipen denza, che tutte le
potenze, quando seguissero più il loro vero interesse che il loro capriccio,
dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere converrà meco che, nella
gran lotta politica che oggi agita l'Europa, quello dei due partiti rimarrà
vincitore che più sinceramente favo rirà l'indipendenza italiana » (1 ). La
visuale politica di Vincenzo è senza dubbio vasta e profonda. La lotta tra le
grandi nazioni s'impernia sul Mediterraneo: la questione unitaria cessa di
essere, come per molti patrioti del tempo, strettamente nazionale, e s'inquadra
in problemi più complessi, europei. Gli uomini politici del Risorgimento,
purtroppo, non intesero questa grande verità, e la storia, si può dire, operò
per virtù naturale delle cose, fra l'incomprensione anche di menti riccamente
dotate. Per lo stesso Cavour la lotta è una questione continentale di
importanza limitata. Solo un po'tardi, ma a tempo, lo statista piemontese,
nell'im presa garibaldina del '60, s'accorge dall'atteggiamento in (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XLIII, p. 178. 171 glese quanto importante sia il
problema meridionale nel gioco delle forze mediterranee. Tutta la maggiore o
minore bontà della politica delle varie nazioni europee, vien giudicata dal
Cuoco alla stre gua di questo fine superiore, secondochè abbiano esse più o
meno favorito l'equilibrio internazionale nell'unità d'Italia. Abbiamo uno
scritto cuochiano, già innanzi ci tato, assai interessante per la comprensione
integrale del suo italianissimo pensiero politico, scritto del quale io darò un
largo riassunto, poi che mi sembra che non sia stato considerato dagli studiosi
a sufficenza (1 ). L'arti colo, Osservazioni dello stato politico dell'Europa,
è una sintesi mirabile delle intime ragioni della storia europea negli ultimi
secoli, delle lotte per il predominio, dell'as setto italiano. Lo studio è determinato
dalla lotta, che si riacutizza, tra l'Inghilterra e Napoleone, ma il Cuoco
supera le contingenze politiche e risale a notazioni di ca rattere assai ampio.
Nella vita moderna due sono le pietre miliari dello sviluppo storico, il
trattato di Westfalia e il trattato di Amiens, i quali segnano come due epoche
ben distinte della vita europea, dopo Carlo V. « Quello che si chiama in Europa
tempo di pace non è che il tempo della minor guerra possibile. L'equilibrio
politico dell'Europa è la causa principale di tutte le guerre e di tutte le
paci: gli uomini e le nazioni travagliano con una mano a distrug gerlo e coll'
altra a ristabilirlo. Vi sono sempre due na zioni preponderanti, le quali, a
calcolo sicuro, si fanno. la guerra un giorno sì ed un altro no; e la guerra
dura finchè ad una non riesca di acquistar sull'altra una su periorità tale che
sensibilmente faccia preponderare uno dei bacini della bilancia e faccia
nascere il bisogno di un equilibrio novello. » Le potenze, che fino a Westfalia
detennero il dominio in Europa, furono la Francia e la Spagna. Alla pace di (1
) Giorn. ital., Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (vedi in
precedenza, p. 143 ). 172 Westfalia si scoprì la ragione della debolezza
spagnuola, a Nimega questa si riconfermò: l'Inghilterra surse a prendere il
posto della Spagna nella rivalità con la Francia. Queste le linee sommarie
della storia. Vediamo, e qui sta il punto che a noi interessa, quale sia la
posizione della Spagna nella vita continentale e quale l'intima ra gione della
sua fiacchezza. La Spagna e la Francia erano due nazioni di forze quasi uguali,
l'una più grande, l'altra meglio preparata: la Spagna poteva ' trionfare, ma
non riuscì. Perché ! La Spagna diventò potente, perché la fortuna delle
successioni riunì sotto uno stesso scettro metà dell'Europa, perchè Colombo le
donò l'America, perchè potè guadagnare in un primo tempo gli animi degli
italiani divisi, discordi, e contro altri irritati. Ma, una volta acquistato un
dominio enorme, attese più ad estenderlo ancora, anzi che a rinforzarlo, ad
arricchirsi materialmente anzi che moralmente: l'espulsione degli ebrei, le
persecuzioni religiose, le dispute teologiche, i governatori rapaci furono le
piaghe della sua compagine. La mancata risoluzione del problema italiano, e qui
vo glio insistere, fu secondo il Cuoco la causa prima della mancata
affermazione della Spagna. « Se la Spagna, potendo riunir l'Italia o formarvi
un grande Stato, l'avesse fatto, avrebbe, ottenuto un eterno poten tissimo
alleato. Ma il fato avea riserbato ad altri tempi l'uomo grande cui era
commesso questo disegno. La volle ritenere distruggendola. Montesquieu dice che
la ritenne arricchendola: da troppo impure fonti avea bevuto Mon tesquieu la
storia nostra ! Dopo averli impoveriti e spo polati, questi paesi divennero per
la Spagna cagioni di spese e non di forza. Difatti la Francia attaccò sempre la
Spagna, non già nel centro della monarchia, ma nella Borgogna, nelle Fiandre,
nell'Italia, nelle provincie lon tane, le quali non si potevan difendere per
loro stesse, ed i successori de' bravi Gonsalvi, De’ Leva e D'Avalos si
perdettero inutilmente sulla Mosa e sul Po. La Spagna s ' indebolì per conservar
ciò che conservar non poteva ». L'errore politico, causa della rapida decadenza
spa 173 gnuola, è il non aver voluto costituire uno Stato d'Italia, libero ma
alleato, onde colpire la Francia avversaria da ogni lato; l'errore politico
della Spagna sta dunque nell’aver trattato l'Italia alla stregua delle colonie
ame ricane, anzi peggio, perchè in Italia la dominatrice di silluse un popolo
grande colto e capace, mentre fuori sfruttò solo genti barbare o semibarbare, tribù
selvagge. La politica francese nella lotta per il predominio, secondo il Cuoco,
fu l'opposto di quella spagnuola. La Francia divenne potente, mostrando di
proteggere gli italiani, proteggendo veramente l'Olanda, aiutando i principi
dell'Impero: così detta le condizioni a Munster; sostiene il Portogallo, si
allea con l'Inghilterra: indebo lisce in Europa e nelle colonie, la rivale. I
francesi sono forti, desiderosi di dominio, ma non si lasciano accecare dalle
ambizioni. Luigi XIV, il superbissimo monarca, non giunge mai ad aspirare al
dominio del mondo; ed è dif ficile trovare nelle storie un principe più di lui
moderato nelle vittorie. « La Francia ebbe per sistema quasi eterno di susci
tare sempre un'altra potenza contro la sua rivale. Ho detto che fece risorgere
il Portogallo e l'Olanda; fece uso anche del gran Gustavo, e chiamò le forze
svedesi sulle sponde del Reno. Dopo le vittorie di Eugenio e la pace di
Utrecht, la monarchia austriaca di Germania era divenuta infinitamente più
potente di prima. La Svezia non bastava più a contenerla. La Prussia, con
popolazione più numerosa, con sito più opportuno, era più atta al bisogno; e la
Francia fece sorger la Prussia. «Tale è stata la condotta colla quale la
Francia è giunta a tanta grandezza. È la condotta della saviezza, della
giustizia e della generosità ». Cuoco non accenna qui all'Italia. La Francia
ovunque suscita Stati liberi contro le sue rivali, la Spagna e l'Au stria, ma
non crea un Regno d'Italia: ecco la causa del suo non completo trionfo. «
Vediamo che han fatto gl'inglesi ». Battuta la Spagna, la cui insufficienza si
fa palese a Westfalia e poi a Nimega, l'Inghilterra prende il posto della
Spagna. L'Inghilterra 174 è il fomite per tanti anni sino ad oggi, pensa il
Cuoco, di tutte le guerre in Europa: per la sua stessa natura non può
mantenersi forte che con la guerra. « Il vero baluardo dell'Inghilterra è
l'immensa quantità de'capitali che ha accumulati: con questi conserva la sua
superiorità ma rittima, perchè con questi mantiene quelle flotte che gli altri
non possono costruire. Ma, siccome questi capi tali li può accumular qualunque
altra nazione, tostochè abbia industria, commercio e pace; così gl'inglesi deb
bono sostenere la loro superiorità con una continua guerra ». Dalle guerre di
successione ad oggi, alle guerre contro Napoleone è la stessa ragione che muove
gli iso lani a battersi. Ma questo metodo è assurdo e pazzesco: « l'Inghilterra
tende più rapidamente della Spagna alla sua dissoluzione ». Il Cuoco, senza
dubbio, s'inganna, ma s'inganna su dei particolari. La visione d'insieme a me
sembra luminosa, se pure in tutti i suoi punti non accet tabile. Gl'inglesi
prolungano le guerre, oltre il necessario, avidi desiderano troppo. Nella
guerra di successione di Spagna perdettero per un orgoglio male inteso ciò che
Luigi XIV voleva cedere prima delle vittorie del Villars. In essi nullà della
magnanimità de' romani. Essi sono forviati dalla saviezza dalla lusinga di più
felici successi. Alla guerra sono spinti dalla loro natura marinara stessa,
nella guerra permangono per migliorare il loro stato. Così ieri, così oggi:
così nelle guerre dinastiche di suc cessione, così nelle guerre nazionali di
oggi. E dire che l'Inghilterra con questa sua iniqua poli tica estera va
perdendo i frutti d ' un'antica continua savia politica interna di tolleranza e
di libertà ! Coloro, che ne' secoli favoriscono quella che il Cuoco chiama «
naturale irresistibile inclinazione a migliorare politica mente » lo stato de'
popoli, « o presto o tardi vincono gli uomini ed i tempi ». « L'Inghilterra è
giunta ad un grado di prosperità immenso; fin dall'epoca di Luigi IX, l'in
terna sua amministrazione era superiore a quella degli altri popoli: ce lo
attesta un uomo, che io chiamo al tempo istesso il Villani ed il Macchiavelli
della Francia, il signor di Joinville. Perchè? Perchè l'Inghilterra fu la prima
175 à riconoscere la proprietà e la libertà civile. Perchè i papi furono fino
al secolo XI gli arbitri di tutta l'Europa? Per chè, in tanta barbarie e
ferocia, erano i soli che predi cavano la pace; perchè abolirono la schiavitù;
perchè, dice Leibnizio, erano i più savi e i più giusti uomini dei loro tempi,
e senza i papi l'Europa sarebbe caduta in mali peggiori. Dopo il XII secolo
cangiarono massime, e la loropotenza incominciò a diminuire. Perchè la Fran cia
e la Svezia vinsero nella guerra dei trent'anni? Perchè sostennero il partito
della tolleranza, dell'umanità, delle idee liberali de'popoli tutti.
Nell'ordine eterno delle cose, la legge è sancita anche per i potenti; anche i
popoli hanno la loro morale: chi la trascura, chi la calpesta, o presto o tardi
ruina. I francesi promettevano agl'italiani grandi ed utili cangiamenti; non
quelli che la stoltezza de’tempi fa ceva millantare in un'epoca che si chiamava
di riforma ed era di distruzione,ma quelli che ogni uomo savio sperava da quel
disordine dover sorgere un giorno. Imperocchè gli utili cangiamenti- sogliono
incominciare per lo più da vivissime commozioni; ed errano egualmente coloro
che, amando troppo queste, voglion perpetuarle, e coloro che, temendole
soverchio, disperano di un fine migliore. Il destino dell'Italia era quello
che, dopo tre secoli di languore e d'inerzia, dovesse finalmente risorgere a
nuova vita. Inglesi, qual male vi avean fatto i discendenti di Galileo, di
Raffaello, di Virgilio, di Cicerone? Ed il vo stro Wickam ha ricoperte le loro
terre di tanti orrori ! Ed invece di concorrere al loro risorgimento, non avete
neanche voluto riconoscere la repubblica italiana ! » (1). Il Cuoco s'esprime
chiaramente. La sua anglofobia non ha origine, come sembrerebbe a prima vista,
in un en tusiasmo cieco per la politica di Napoleone contro l'acer rima isola
ribelle, ma si giustifica alla luce di supreme esigenze pratiche. La pietra di
paragone in tutta questa (1 ). A. BUTTI, L'anglofobia nella letteratura della
cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo, a. XXXVI (1909 ),
p. 434 e sgg. 176 analisi critica è la necessità dell'unità d'Italia, che tutti
intendono come fatale, ma che non tutti amano. Alcuno potrebbe dire che questa
visione pecca di so verchia parzialità bonapartistica, perchè il nostro scrit
tore non rivolge alcun incitamento, alcun rimprovero all'imperatore, per
spronarlo a condurre a buon fine l'opera intrapresa, di cui il regno d'Italia
non è che un buon cominciamento, che attende ulteriori sviluppi. Non è così.
Vincenzo stesso intende quanto poco ab biano fatto i francesi, e la sua parola
non è servile. « Se io dovessi parlare al governo francese » scrive nel Saggio
« per l'Italia, gli direi liberamente che o convien liberarla tutta ò non
toccarla. Formandone un solo go verno, la Francia acquisterebbe una
potentissima alleata; democratizzandone una sola parte, siccome questa pic cola
parte nè potrebbe sperar pace dalle altre potenze nè potrebbe difendersi da sè
sola, così o dovrebbe pe rire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla
Francia una continua inutile guerra.... L'Italia è più utile alla Francia amica
che serva, e quindi è meglio renderla libera che provincia » (1 ). Nella
Lettera a N.Q., dinanzi al Saggio storico leggiamo gravi parole. « Se io
potessi parlare a colui a cui (il ] nuovo ordine si deve, gli direi che
l'obblìo ed il disprezzo appunto [delle idee di moderazione] fece sì che la
nuova sorte, che la sua mano e la sua mente avean data all'Italia, quasi dive
nisse per costei, nella di lui lontananza, sorte di desola zione, di ruina e di
morte, se egli stesso non ritornava a salvarla. Un uomo gli direi, che ha
liberata due volte l'Italia, che ha fatto conoscere all'Egitto il nome francese
e che, ritornando, quasi sulle ale de’vènti, simile alla folgore, ha dissipati,
dispersi, atterrati coloro che eransi uniti a perdere quello Stato che egli
avea creato ed illustrato colle sue vittorie, molto ha fatto per la sua gloria;
ma molto altro ancora può e deve fare (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII, p.
178, nota. Cfr. an che tutto ciò che il Cuoco scrive a Napoleone nella Lettera
del. l'autore all'amico N. Q. che va dinanzi al Saggio storico,' a mo' di
prefazione, di cui solo poche righe ho riferito nel testo 177 per il bene
dell'umanità. Dopo aver infrante le catene all' Italia, ti rimane ancora a
renderle la libertà cara e sicura, onde nè per negligenza perda nè per forza le
sia rapito il tuo dono ». Queste righe il Cuoco scrive in piena Cisalpina, non
molti anni prima dell'articolo del quale ci siamo occupati. Queste righe furono
stampate, pub blicate, lette. La voce di Ugo Foscolo nella famosa de dicatoria
a Bonaparte liberatore non è più liberale della voce del Cuoco, anzi, direi,
che quest'ultimo nel suo genio politico metta il dito sulle piaghe, ond'è
afflitta l'Italia, con energia ed acume maggiore che non faccia il poeta de
Sepolcri. E dire che v'è sempre colui che vede l'adulazione, laddove questa non
c'è, e c'è solo un alto elogio per un uomo grande, il più puro interessamento
per le sorti della patria nostra ! Se ora ci accingiamo a dare un giudizio
sintetico sulla visione politica che il Cuoco ebbe dell'Europa e dell'Italia,
possiamo dire con sicurezza che la storia ha dato in gran parte ragione al
grande molisano, in minima parte gli ha dato torto. La questione italiana, a
chi la studia oggi, mentre l'unità non solo politica, ma eziandio, come il
Cuoco l'ha desiderata, spirituale, è un fatto compiuto, appare sopra tutto una
questione di politica generale europea e me diterranea e non limitatamente
nazionale. Gli uomini del Risorgimento, attori coscienti e incoscienti della
sto ria, mossi da idee e da forze, di cui essi erano gli espo nenti e non i
creatori, videro poco: noi storici e critici possiamo affermare certi fatti con
maggiore sicurezza, e figurarci l' unità nazionale come un fenomeno prepa rato
da secoli nella coscienza del popolo, legato da se coli intimamente ad una
realtà spirituale e ad una storia, che si celebrava con mirabile continuità
ovunque. La rivoluzione francese desta dall'imo dello spirito italiano, sia
pure come reazione allo stesso giacobinismo, un mo vimento di rivalutazione
civile, di cui il nostro è il mag giore rappresentante, ma non crea menomamente
un fe nomeno, le di cui origini sono assai più remote. Invero il Risorgimento
s’è manifestato come un movimento altamente spirituale da un lato, come un
problema d'equilibrio europeo dall'altro. Mazzini e Gioberti sono stati il
lievito della rinascita, ma essi non s'intendono se non si comprende il
pensiero del loro precursore Cuoco. L'equilibrio politico è stato la causa
prima, per cui il terzo Napoleone discese nel '59 in Italia contro l'Austria;
l'equilibrio mediterraneo è stato la causa, per cui l'Inghilterra permise
l'opera di Garibaldi nel '60, opera che l'imperatore de francesi prima osteggiò,
e poi, inconscio e gabbato dal Nigra e dal Cavour, finì per per mettere. Il
Cuoco intravide il problema, e, se errò ne' partico lari, nessuno può
condannarlo. L'Inghilterra per il molisano è la nemica naturale del l'unità
italiana. È ciò vero? La storia ha dimostrato di no. La stessa politica, che
egli attribuisce alla Francia di liberare i popoli per farne alleati ed opporli
ai suoi rivali, è stata la politica dell'Inghilterra, quando nel '60, di fronte
al Piemonte vincitore della guerra contro l'Austria, preferì un Regno d'Italia,
signore del mezzo giorno della penisola, grande e forte, ad un Regno di
Sardegna, grande sì da dominare tutto il settentrione, ma non tale da sottrarsi
al vassallaggio della Francia. L'Inghilterra dopo il '59, durante l'impresa
garibaldina, favorì l'Italia per le stesse considerazioni, di cui abbiamo
parlato: suscitiamo un forte organismo statale contro la Francia, aiutiamolo ad
esimersi dal legame con Napo leone III, esso ci sarà riconoscente, e non ci
nuocerà La storia procede così: uno Stato crea un altro Stato, questo dapprima
debole è legato all'astro del suo geni tore, poi s ' ingrandisce aiutato sia
dalla sorte e dalla sua intima virtù, sia da altri che abbia interesse a svilup
parlo, poi, un bel giorno, divenuto potente, saluta i suoi padroni, inizia il
suo corso fatale, la sua naturale evolu zione. Egoismo, mancanza di
riconoscenza, diranno i mo ralisti, che nella vita vogliono attuate le idee del
loro cervello ! È della storia, rispondiamo. L'.Italia sorge na zione dal
conflitto austro - inglese, trova ausilio nella Francia, nell' Inghilterra in
seguito contro la sua stessa 179 antica protettrice, oggi è autonoma e forte:
sarebbe ri dicolo che oggi seguisse la politica de' suoi vecchi mag giori
amici, essa che ha in sè forze latenti è, in isviluppo, più esuberanti e vitali
che non l'Inghilterra e la Fran cia. La storia consacra interessi, bisogni,
volontà e non precetti) filosofici aprioristici.... Che il Cuoco nella storia
vegga uno spiegamento di bi sogni naturali ed omogenei, ci si appalesa
facilmente, se riguardiamo la condanna, che egli fa di organismi storicamente
gloriosi, un giorno potenti, oggi deboli, fiacchi, superati. La caduta
dell'antica repubblica di San Marco nel Saggio storico è espressa nella sua
gelida obiettività, un sospiro, senza un rimpianto. L'Italia di fronte a
Bonaparte, che nel 1796 discende per la pri mavolta da noi, si trova « divisa
in tanti piccoli Stati », che", uniti potrebbero però opporre qualche
resistenza. Il papa propone un'alleanza difensiva. I Savii di Ve nezia
rispondono che da secoli nel loro paese non si parla di alleanze, che è inutile
quindi far proposte. Venezia con ciò sottoscrive la sua condanna di morte. «
Per qual forza » si domanda il Cuoco « di destino avrebbe potuto sussistere un
governo, il quale da due secoli avea distrutta ogni virtù ed ogni valor
militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e poscia avea
concentrata la capitale in poche famiglie, le quali, sentendosi deboli a tanto
impero, non altra massima aveano che la gelosia, non altra sicurezza che la
debolezza de ' sudditi e, più che ogni nemico esterno, temer doveano la virtù
dei propri sudditi? ». « Non so che avverrà » conclude « del l'Italia; ma il
compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione di quella
vecchia imbecille oli garchia veneta, sarà sempre per l'Italia un gran bene »
(1 ). Quanto diverso il politico Vincenzo Cuoco, che nella sua fredda
obiettività interpreta la storia presente, dal poeta Jacopo Ortis, che getta
uno sguardo sulle età di gloria che furono, piene di luce e di epopea, e sulle
ruine della senza (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, III, p. 22. 180 patria, non
trova di meglio, disperato dell'avvenire, che darsi la morte ! Sotto i colpi di
Napoleone un altro antichissimo Stato cede: il potere temporale de' papi. Il
trattato di Tolen tino ha una importanza senza pari per la storia. Mentre ne'
tempi trascorsi, i papi vinti, sgominati, afflitti si rifiu tarono sempre di
porre a base delle trattative la benchè minima particella del territorio della
Chiesa, a Tolentino per la prima volta per la storia si fa uno strappo, si
passa sopra ai diritti inalienabili e imprescrittibili della Sede Romana.
L'organismo antico invero è tarlato: un pro cesso storico di disgregazione
s'inizia, di cui il Cuoco non può vedere le conseguenze, ma che noi oggi
possiamo ben studiare. « La distruzione di un vecchio governo teocra tico » non
costa a Bonaparte « che il volerla » (1). La politica di Napoleone dal '97 in
poi ne' riguardi della Chiesa, il modo con cui egli impianta il nuovo ed
antichissimo problema delle relazioni, merita un acuto studio, che non possiamo
fare. Limitiamoci a vedere come Vincenzo apprezzi e giustifichi la visuale
ecclesiastica dell'imperatore. Non dimentichiamo che il Cuoco è nato in quel
Regno di Napoli, che nello stesso secolo XVIII ebbe a sostenere fiere lotte
contro la Curia, in cui il giu risdizionalismo ebbe una vera e propria teorica
non solo in iscrittori insigni come Giannone, D’Andrea, Capasso, Aulisio,
Conforti, ma anche in ecclesiastici eletti come il famoso arcivescovo Giuseppe
Capeceletrato (2): l'atteg. giamento cuochiano solo tenendo presente tutti
questi precedenti può apparirci chiaro. Prima però di venire a discutere questo
aspetto del pensiero del nostro, dobbiamo intendere quale posto egli assegni
alla religione nella vita dello spirito e nella vita dello Stato. Lo Stato deve
avere una base spirituale, la quale non può essere data che dall'istruzione
umana da un lato, dalla religione dall'altro. Lo Stato per il Cuoco è stato (1
) V. Cuoco, Saggio storico, III, p. 23. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 391.
181 etico, sintesi di volontà libere, e come tale non ha alcun limite alle sue
funzioni, se non nelle volontà particolari stesse che determinano la volontà
generale; esso non può essere agnostico, in quanto l'attività religiosa è uno
degli elementi che costituiscono la sua stessa natura, che stanno alla base
della sua vita. La funzione educativa è di tale importanza che lo Stato del
Cuoco, concepito come so stanza etica, non può disinteressarsene. La religione,
anche se lo Stato non volesse occuparsene per principio, rientrerebbe nel
quadro civile e pubblico, cioè sottoposto alla sovranità, nel fatto stesso che
essa non può nè vuole prescindere d'operare nel campo educativo. Anche lo Stato
agnostico di fatto deve riconoscere la religione, quando insieme con essa opera
nel terreno vivo della pe dagogia, nella sfera perciò delle coscienze singole.
Che cosa è per il Cuoco la religione? In una sua nota scritta su un foglietto,
lasciato inedito e pubblicato per la prima volta da G. Cogo nel suo tante volte
da me ci tato volume, egli si pone il formidabile quesito, se sia possibile una
delimitazione tra la morale e la religione (1 ). Vediamo. « In questi ultimi
tempi » egli scrive « si è domandato se si dovesse o no separare la religione
dalla morale, e si è risposto da tutti che si dovea; si è domandato se si po
tesse, e mille han risposto che si poteva; si è tentato di separarla, e quasi
nessuno vi è riuscito. Io non credo che abbiano sciolto il problema coloro i
quali hanno tratti i princípi della nostra morale e de' doveri nostri da una
profonda analisi del cuore umano, o dall'ordine generale dell'universo, o dalla
dignità dell'uomo; sublimi idee, ma inutili pe'l popolo il quale intende queste
cose meno del l'esistenza di una divinità !... Persuadiamoci: per esser ateo ci
vuole uno sforzo, e tutto nella natura ci parla di Dio. Coloro che,
restringendo l'idea della divinità a quella che noi abbiamo, invece di dire:
questo popolo ha un'idea della divinità diversa della nostra, o per imbe (1 )
G. Cogo, op. cit., p. 80. Vedi anche V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 653.
182 cillità o per malizia han voluto dire che non aveva ve runa idea della
divinità, han pronunziato l'assurdo di credere che una nazione selvaggia
potesse avere più forza d ' intelligenza della nazione culta; perchè di fatti
che altra è presso tutt' i popoli la prima idea della di vinità se non quella
di una forza di cui non possiamo nè evitare ne comprendere gli effetti? » In
sostanza il Cuoco non condanna coloro che credono la religione sopprimibile, o
almeno la credono distin guibile dalla morale, ma si limita positivamente ad
una affermazione: il popolo ha una religione, di essa non può fare a meno. Ben
nota Giovanni Gentile (1 ) come il Cuoco, ingegno eminentemente politico,
capace di ele varsi sicuro alle vette più eccelse della filosofia, ami,'una
volta attinto il sommo, ridiscendere al concreto della storia, lasciando a
mezzo ogni pensiero speculativo. Ogni problema, sia pure di natura teoretico,
al molisano si presenta nelle sue relazioni con la vita d'ogni giorno, con la
vita pratica dell'individuo e dello Stato. Noi nel caso nostro andavamo alla
ricerca d'un presupposto di natura ideologica, e ci imbattiamo in un problema
co stituzionale; ci attendevamo una dimostrazione di prin cípi, e il Cuoco ci
dà senz'altro il principio, come mero dato di fatto. « L'idea di una divinità
si può chiamare una proprietà intrinseca dello spirito umano. Se la verità di
cui noi siam capaci è la coerenza di una nostra idea con tutte le altre, l'idea
di una divinità sarà eternamente vera, e coloro che vogliono distruggerla non
possono opporle che parole le quali s'intendono meno ». La religione ci appare
come un quid d'insopprimibile, di non superabile, in quanto è un elemento
eterno della stessa nostra natura umana. « La prima idea che gli uomini hanno
avuto della di vinità è stata quella della forza; la seconda quella della
giustizia, la terza quella della bontà. Ecco il corso natu 11 ) G. GENTILE,
Studi vichiani, p. 376. 183 rale delle idee degli uomini. Se noi non daremo
loro una divinità, essi se ne formeranno mille, le quali spesso non
comanderanno quello che il bene dell'umanità esige, per chè l'idea di un nume è
potente sullo spirito umano ed è capace di far obliare i doveri dell'umanità
per quelli della religione ». Ritorniamo ad un concetto assai caro al Cuoco, di
cui il Saggio ci offre la conferma. « Non è ancora dimostrato che un popolo
possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè
stesso » (1 ). E perchè un popolo non può restar senza religione? Perchè la re
ligione è la morale fantastica del popolo, e il popolo ha bisogno di qualche
cosa che lo guidi e lo governi. Io credo che sia questo il pensiero del Cuoco.
L'uomo colto può superare la religione nella filosofia, il semiconcetto nel
concetto, trovando la norma della sua condotta nell'as soluto etico (2 ); il
popolo, invece, ha ancora bisogno d'una morale d'autorità, e quindi
parzialmente estrin seca, le cui basi non possono non essere religiose. Nelle
origini la religione è tutto: diritto, cosmologia, morale: nella religione
tutte le forme della vita trovano un prin cipio autoritario e un fondamento. La
distinzione fra l'una attività e l'altra è assai tarda. Il popolo però oggi ci
offre l'immagine, almeno in parte, dell'umanità primi tiva. La religione per
lui è tutto, perchè, essendo, come dice il Cuoco, forza giustizia bontà, è la
base insopprimi bile, nel suo pensiero, d'ogni educazione, d'ogni morale,
d'ogni diritto umano. Togliete questa base, egli non vi ubbidirà, perchè non
trova più alcuna cosa che legittimi l'ubbidienza all'autorità. Il legislatore
deve porsi da un punto di vista pratico, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p.
130. Vedi a propo sito B. LABANCA, op. cit., p. 411. (2 ) Questo superamento,
come vedremo in seguito, è più formale che sostanziale. Il Cuoco non crede
possibile una mo rale fuor dalla religione. L'uomo colto concettualizza ciò che
pel volgo è senso e fantasia, ma dinanzi al mistero si arresta pur esso. La
filosofia sistematizza quel che nel popolo è senza ordine, ma non rinnega la
religione, 184 e rendersi interprete della natura dei subietti, che vuol
disciplinare: se egli vuol regolare tutta l'educazione, in staurare una morale
uniforme e sicura, dare un diritto ri spondente a bisogni concreti, egli non
può prescindere da quest'elemento dello spirito, la religione; anzi su questo
elemento- base, nativo ed originario nella natura umana, edificherà il suo
edificio civile. Ecco come un problema di natura filosofica si è con vertito in
un problema politico, anzi nel problema poli tico per eccellenza, come quello
che involge tutta la vita giuridica della nazione. Da quanto abbiamo detto
derivano due corollari im portanti. Lo Stato, che combatte la religione entro
le sue stesse terre, quando la religione è la religione di tutti, è uno Stato
che ha sbagliato grossolanamente tattica: egli concepisce la religione come
mero fenomeno tran seunte, come pregiudizio, ignora che essa è nello spirito
dell'uomo un momento insopprimibile. Lo Stato agno stico, lo Stato neutrale in
materia di fede, è ugualmente uno Stato senza base, come quello al quale il
problema fondamentale d'ogni vita civile viene a sfuggire, cioè il compito
educativo, pedagogico. Lo Stato non può dar mai al popolo un'educazione
interamente laica. Il popolo è quello che è. La religione è radice di ogni suo
convinci mento, opera della natura e non de' preti. L'educazione popolare non
può essere che educazione, non dico reli giosa, ma su base religiosa. Date al
popolo i concetti di libertà, virtù, bontà, egli non vi comprende, perchè egli,
eterno barbaro, eterno fanciullo, non intende il linguag gio della ragione.
Date al popolo miti, leggende, precetti in forma sensibile semifantastica, egli
non solo vi intende, ma vi segue, perchè egli ha potente la facoltà fantastica
dello spirito, e tutto intuisce prima di pensare, e tutto vede e crede prima di
rendersi conto di ciò che vede e crede. Un'educazione popolare non può non
informarsi a questi principi. Chi ne prescinde, e va predicando l'istruzione
areligiosa e civile, naviga nell'astrazione. Ma del problema scolastico, come
problema pedagogico e statale dovremo occuparei in seguito; qui notiamo la 185
prassi politica dello Stato di fronte ad una realtà eterna, la religione. Lo
Stato, se vuole avere un fondamento incrollabile nel popolo, deve parlare al
popolo, e, se al popolo vuol parlare, deve parlargli nelle forme a lui
familiari, cioè il linguaggio fantastico della favola, il linguaggio semi
concettuale della religione, in quanto solo questo intende e non altro. Lo
Stato deve in sostanza utilizzare ai suoi fini la religione, come ogni altra
realtà umana. Nulla di odioso. Lo Stato fa il suo proprio bene, che collima con
gli interessi della popolazione che si vede meglio com presa, con le
aspirazioni universali della religione. Co loro, che credono di potere far la
guerra alla religione, ed incitano lo Stato ad una lotta impari, poi che esso
non può contare che su pochi, mentre la religione ha dietro di sè masse
compatte di credenti, non sono che de' vol gari astrattisti. Qui noi possiamo
ben vedere quanto il Cuoco si stacchi dal pensiero tipico della rivoluzione e
segua una strada tutta sua. Il giacobinismo è anticlericale; il Cuoco non è nè
clericale nè anticlericale, guarda la vita nel suo con creto, e si accorge che
lo spirito umano ha esigenze re ligiose. Il Lomonaco urla, s'inquieta, scara
venta invettive contro la Sede Romana, contro i leviti, contro i falsi sa
cerdoti; il Cuoco analizza, studia, infine edifica: due tem peramenti, due
mentalità diverse, due metodi antitetici: l'uno caduco, l'altro eterno. La
nota, sulla quale io vengo facendo le mie conside razioni e che a me appare
d’una importanza grande, con tinua ancora: « Io dirò a questo proposito un mio
pensiero. Coloro i quali per far la guerra ai preti han voluto segregarli dalla
società non hanno inteso il modo di combatterli. Era im possibile che in questa
guerra non vincesse quella causa che piaceva ai (sic ) Dei. Se fosse dipeso da
me, mi sarei con dotto diversamente: avrei riunito la religione allo Stato » (1
). (1 ) Seguono importanti considerazioni che io non posso ri portare: cfr.
Cogo, op. cit., p. 80 e sg. 186 mo La politica che il Cuoco consiglia è
confessionista. Que sto significa edificare su fondamenta incrollabili,
edificare sulla stessa natura degli uomini. Nel Platone in Italia, Archita
esprime concetti assai simili e stabilisce che il diritto, pur mantenendosi ben
distinto dalla religione, di questa si serva per raggiungere i suoi fini (1 ).
Il Cuoco non investiga in fine l'essenza vera della reli gione, anzi, come può
notare chi legga il bellissimo scritto di Giovanni Gentile sul nostro, egli in
ogni suo tenta tivo filosofico s'arresta timoroso dinanzi alla formida bile
incognita della divinità, e china il capo riverente. V’è in Cuoco un nucleo di
trascendenza, che nella nuova teologia vichiana è del tutto superata (2 ). « Il
savió» scrive nel Platone « si ritira in sè stesso, riconosce che la nostra mente
è una particella della divinità, che noi non riamo. Vede in questa massima il
fondamento della mo rale umana, e tenta di stabilirla e diffonderla, non con
misteri ristretti agli abitanti d'una sola città....; non con istorie, che
ciascuno può credere e non credere; ma con ragioni tratte dall'intrinseca
natura delle menti di tutti gli uomini, e dalle quali nessun uomo possa opporre
altro che l'ostinazione. Ecco il primo dovere del savio. Il se condo è quello
di compatire il volgo, che cerca ad ogni momento delle cose sensibili, ed i
filosofi, che, per stabi lir la virtù, si adattano talora al desiderio del
volgo » (3 ). Siamo sempre ad un punto. Una base religiosa della mo rale non
può mettersi in dubbio. Mentre l'uomo colto, pur arrestandosi dinanzi al
mistero della trascendenza, ha nella ragione, se non una impossibile
spiegazione, una maggior coscienza della rivelazione; il volgo ha bisogno di
vedere e di sentire anche le cose più immateriali nel travaglio inesauribile
della fantasia. Solo la religione può rendere vicina agli uomini la sublime
norma della morale: la religione, fondamento della morale, essa stessa pensa a
renderla viva nella coscienza. (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 84 e sg. (2 )
G. GENTILE, Studi vichiani, p. 385. (3 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 133. 187
Non posso negare che in tutto ciò vi sia una vera e propria incertezza. La
verità è che il Cuoco non è filosofo, e de' grandi problemi filosofici non può
darci un'esplica zione adeguata. La questione per lui è tutta politica e
pratica, e, se s'ingolfa in discussioni teoretiche, lo fa per ridiscendere più
agguerrito sul terreno pratico. Alcuno potrebbe obiettare che da questa
contamina zione di morale civile e di religione, di politica e di reli gione,
vengano a scapitarne sia lo Stato sia la religione, in quanto lo Stato penetra,
si dice, in una sfera non sua, la religione viene ad essere subordinata ad un
fine mon dano. Non è così, ripeto. Il Cuoco stesso ci avverte che v'è netta
delimitazione di fini, tra Stato e religione, in quanto il primo persegue un
fine politico e gli trova la base sua naturale nello spirito e nella natura
umana, mentre la seconda dal fine poli tico si astrae o dovrebbe astrarsi
limitandosi ad un'opera meramente interiore. Sul terreno politico non v'è
possibilità di conflitti, ammesso che la religione si volga all'eterno ed
obblii il mondano. Sul terreno spirituale v'è identità d'oggetto, il
miglioramento interiore del po polo, cooperazione e non antitesi. In ogni caso
v'è vi cendevole vantaggio: lo Stato deve favorire, pur essendo tollerante, la
religione, perchè persegua i suoi fini super terreni; la religione deve aiutare
lo Stato, perchè questo possa in terra fruire materialmente d'ogni
miglioramento morale degli uomini: l'uomo veramente in ispirito reli gioso non
può non essere un buon padre di famiglia, un buon cittadino. Da quanto abbiam
detto è evidente come il Cuoco non cada affatto nell'errore di molti,
proclamando uno Stato, per il quale non v'è che una sola religione, ed è
intolle rante verso le altre. Lo Stato del Cuoco persegue un fine politico
ed utilizza ogni forza fisica e morale che trova, utilizza quindi anche, col
vincolo d’un vantaggio reci proco, le forze smisurate della religione dominante
la cattolica nel caso nostro e a questa dà benefici, come li darebbe ad un
qualunque altro ente pubblico che per segua un fine collettivo e civile, senza
che ciò significhi > 188 intolleranza verso gli altri culti, che possono pur
essi fruire di benefíci, ove il loro fine collimi col fine statale. Lo Stato
agisce nel suo interesse pratico, ond'è chiaro quanto sia necessario un
controllo continuo da parte sua sulle istituzioni ecclesiastiche, controllo che
non può essere altrimenti ispirato che a superiori esigenze di di fesa pubblica
e di polizia. (1 ) Sino ad ora abbiamo parlato della religione come fa coltà
dello spirito, come insopprimibile realtà umana, e il caso di conflitti tra
Stato e religione non poteva a noi presentarsi se non come un caso abnorme. Ma
il problema politico particolare e il caso d'un conflitto nella sfera pratica
può presentarsi, quando noi non consideriamo la religione, ma la Chiesa,
l'istituto universale, che può porsi e si pone di fronte allo Stato con uguali
caratteri d'eticità e di assolutezza, e con pretese che a volta usur pano le
facoltà proprie dello Stato nel campo giurisdi zionale. Date le premesse che
abbiamo poste, il Cuoco non può negare il giurisdizionalismo dello Stato e la
subordina zione entro i suoi confini d'ogni istituzione ecclesiastica alla
legge. L'educazione religiosa non sfugge al controllo dello Stato: l'attività
ecclesiastica culturale non può sot trarsi alla norma comune. Il Cuoco
differisce solo dai giurisdizionalisti antichi, in quanto ha un senso
vigilissimo dell'importanza della religione, « un'intuizione sicura dello
spirito nella sua vita politica » (2 ). Con questa sua concezione dello Stato
come sostanzia lità etica, è naturale che il nostro non solo « della reli gione
come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi riformatori
della coscienza civile » faccia « uno strumento del fine politico », ma non
possa ne (1 ) Dopo quanto abbiam detto, ci appare affatto falsa l'af fermazione
di B. LABANCA, op. cit., p. 409, che il Cuoco non abbia mai approfondita la
questione religiosa. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. 189 ammettere che
la Chiesa di Roma, istituto fuori dello Stato, possa entrare a competere con lo
Stato in que stioni che involgono la sua sovranità. Libertà di culto e
d'istruzione, ma controllo dello Stato, subordinazione allo Stato ! Lo Stato
agisce nella forma del diritto, e il diritto pone un obbligo ed una tutela: la
religione ha, di conseguenza, l'obbligo di agire ne' limiti delle norme
giuridiche, e la libertà di operare come crede in essi, li bertà che si traduce
in una tutela civile contro i violatori di essà. Ognuno sa come t si siano
svolte le relazioni tra lo Stato e la Chiesa sotto Napoleone, sa come Pio VII
si mo strasse conciliante col déspota di Francia, come si giun gesse al
Concordato tra Francia e Santa Sede (1801 ), come il papa presenziasse
all'incoronazione di Parigi, come presto la politica giurisdizionalista
degenerasse in tirannia, per finire attraverso varie occupazioni (Ancona, 1805;
Civitavecchia, 1807; tutte le Marche, 1808), con l'arresto brutale del
Pontefice in Roma (1809), con la di chiarazione della fine del potere temporale
(maggio 1809). Noi non abbiamo documenti tali dá permetterci di seguire il
Cuoco nel suo pensiero dinanzi a tali e sì gravi eventi: dovendo stare allo
spirito dell'opera sua fin qui studiata, potremmo, credo, con quasi certezza
dire, che egli non partecipasse alle violenze ultime di Napoleone contro Pio
VII. Tuttavia per intendere come il Cuoco ponesse il pro blema de' rapporti tra
Stato e Chiesa, possiamo esami nare un suo articolo, Considerazioni sul concordato
del febbraio del 1804 (1 ). La pace religiosa è uno degli elementi
indispensabili della vita civile. Una nazione, che serri in sè discordie
chiesastiche si trova in condizioni peggiori d’una nazione, che alimenti in sè
le fazioni, poichè, mentre queste sono (1 ) Giorn. ital., 1804, 1, 4, 6
febbraio; n. 14, 15, 16; p. 56, pp. 59-60, pp. 62-63: Considerazioni sul
Concordato (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 62-70 col titolo Stato e
Chiesa ). 190 alimentate da meri bisogni materiali, le prime traggono origine
da esigenze spirituali, ben più profonde e durevoli. I turbamenti di molti
Stati derivano appunto dal credere che fenomeni di natura religiosa si possano
vincere con i metodi comuni, con i quali si distruggono le sedizioni. La
Francia in principio ha seguito queste massime, e ne ha fatto una tristissima
esperienza: la religione stessa è decaduta, ha perduto buona parte dell’utilità
sua; lo Stato ha subìto più d'una menomazione nella sua auto rità. «....
Chiunque ha un cuore deve applaudire (siamo, quando il Cuoco scrive, nel 1804,
e il conflitto tra Napo leone e Pio non s’è ancora delineato ) all'umanità
colla quale un governo savio ed un pontefice degno per le sue virtù del posto
eminente che occupa, ponendo fine ai dubbi, ai timori, alle querele, ne hanno
data quella pace che è preferibile a mille trionfi. La prudenza ha trovata la
via nelle angustie tortuose che vi erano tra il sacerdozio e l'impero ». Fin
qui, come ognun vede, ci troviamo di fronte a frasi d’occasione, a concetti ben
noti del Cuoco, altre volte espressi e ribaditi nello stesso Saggio storico.
Gli Stati sono tanto più forti, quanto più gli elementi della vita materiale e
spirituale convergono ad un fine unico. Lo Stato, ove diritto e religione non
cozzano in sieme, ma da punti opposti realizzano una stessa verità, è lo Stato
più forte che si possa immaginare. Guardiamo la storia: le nazioni floride sono
quelle, ove l’armonia tra diritto e religione, autorità e libertà, s'è meglio
pre sentata. Nel 1804, commentando la storia che Melchiorre Delfico avea
scritto della repubblica di San Marino, dopo aver ricordato che negli Stati non
è tanto l'ampiezza del territorio, il numero degli uomini, la forza degli
eserciti, che conta, quanto la virtù de ' cittadini e la giustizia degli
ordini, scrive riferendosi al fatto che il fondatore del pic colo Stato fu un
religioso: « Sulla porta della maggior chiesa leggesi questa iscrizione: Divo.
Marino. Patrono. Et. Libertatis. Auctore. Iscrizione che rammenta il de creto
col quale gli Ateniesi dichiararono Giove arconte perpetuo della loro
repubblica; iscrizione forse unica tra popoli moderni, i quali per lo più hanno
la religione di 191 visa dallo Stato, e degna che si mediti dai ministri del
l'una e dell'altro » (1 ). Il sogno del Cuoco mi sembra molto simile al sogno
di Dante e di Marsilio da Padova: una Chiesa, ricondotta alla natìa purezza,
riaffermante novellamente col divino Maestro che il suo regno non è di questa
terra: impero e papato, Napoleone e Pio, con diversi mezzi, con scopi diversi,
l'uno terreno, l'altro celeste, operano concordi in terra per assicurare il
benessere dei popoli. Il Con cordato, al quale specificamente si riferisce il
Cuoco, è il documento del nuovo patto. Breve patto invero ! Ma il Cuoco nel
1804 è fiducioso di un avvenire religioso di pace, che non sarà, crede
sinceramente che le antiche lotte giurisdizionali siano definitivamente della
storia e non più della vita: l'analisi, perciò, che vien facendo, è meramente
storica, è uno sguardo su un passato, che, pia illusione, non ritornerà più !
Nei primi secoli, riassumo il pensiero del nostro, si disputò pochissimo di
giurisdizione. Il divin Maestro aveva detto che il suo regno non è di questa
terra, onde non si potette confondere ciò ch'era di Dio con quel che spettava a
Cesare. Le dispute furono sul dogma. Costan tino mirò solo a mantenere l'ordine
nelle dispute, ma i suoi successori Ariani, Nestoriani, Eutichiani si mischia
rono ad esse, e l'impero ne fu turbato: lo stesso Giusti niano cadde
nell'errore. In Italia solo Teodorico mo strò bene ciò che un principe savio
deve alla religione. Egli la rispettò e la fece rispettare. Rigido conservatore
dell'autorità regia, fu giusto giudice nella controversia tra il pontefice
Simmaco e il suo competitore Lorenzo. « Teodorico volea esser il sovrano
egualmente e de’laici e de ' preti ». Ma anche i suoi successori non ebbero la
di lui virtù. Surse così in Europa un nuovo ordine di cose. « Delle vicende
della giurisdizione ecclesiastica nell’Oc cidente hanno scritto moltissimi, tra
i quali un gran nu mero forse non è stato esente da ogni spirito di partito. (1
) Giorn. ital., 1804 25 giugno, n. 76, p. 308: Memorie stori che della
repubblica di San Marino, ecc. 192 ) ). Noi crediamo che l'indicar le ragioni,
per le quali si con fusero i limiti delle due giurisdizioni, sia il più giusto
elogio che far si possa e del nostro governo e della Santa Sede (! ), che con
tanta prudenza li hanno ristabiliti. Tutto ciò —— scriveva San Bernardo ad
Eugenio papa, suo discepolo — tutto ciò che tu hai ricevuto non da Cri sto, ma
da Costantino, io ti consiglio a ritenerlo a seconda de ' tempi, ma non mai a
pretenderlo come un diritto Il consiglio, che il molisano ripete al Pontefice,
è un consiglio altamente politico. Il Cuoco dice: io riconosco che, in
determinate contingenze storiche, il papa, posto tra barbari armati, crudeli,
pronti alla violenza, abbia dovuto far ricorso alle armi per difendersi, abbia
quindi desiderato il potere temporale; oggi le condizioni sono mutate,
l'autorità regia non vuol menomare il prestigio della Chiesa, anzi vuole
accrescerlo, difenderlo, arric nirlo; a che dunque serve il potere temporale?
Il po tere temporale ci appare come il resto inutile d'età sor passate, poi
che, la base del rispetto e dell'autorità non è più nella forza e nelle armi,
ma nella giustizia e nella virtù. Il patrimonio di San Pietro è intangibile !
Ma perchè? Serve alla difesa della Chiesa.... Serviva: ora non più ! Le parole
che il Cuoco ripete sono le parole della sa viezza, le parole che la storia,
che non torna indietro, consacra nella realtà della vita. L'abdicazione ai
diritti antichi significa potenziazione della Chiesa nelle coscienze degli
uomini, ritorno alla purezza antica degli Apostoli. La Chiesa Romana ha in
sostanza un duplice elemento: un elemento dommatico, che nessuno pensa a
menomare, specie l'autorità pubblica, che non intende penetrare in una sfera
che non è sua; un elemento politico, determi nato dai tempi, soggetto a flussi
e a riflussi, ma sul quale il conflitto con il potere civile è stato e può
essere sempre facile. Il punto di minore resistenza è il dominio temporale, che
oggi è una vera barriera per una (1 ) Si riferisce sempre al Concordato. 193
comprensione tra Stato e Chiesa, e che occorre superare, perchè i rapporti
divengano da buoni ottimi. La Chiesa abdichi ad ogni temporalità, lo Stato
riconoscerà tutta la grandezza della religione, la potenzierà praticamente, le
darà tutti i mezzi per attuare in terra il compito antico. Certo le ragioni del
dominio temporale sono profonde, ma sono tutte storiche, cioè superate; mentre
le ragioni della grandezza spirituale della religione sono eterne, cioè presenti
alla nostra coscienza umana insopprimibil i mente. Che le condizioni, che han
reso il dominio temporale necessario per la religione e il suo bene, siano
sorpassate, il Cuoco lo dimostra con una acutissima analisi, sulla quale merita
fermarsi. I barbari, discesi dalle provincie nordiche dell'impero romano,
permisero, essi meno civili, ai vinti culti e ricchi di sapienza, di vivere
secondo le loro leggi, le loro usanze, i loro istituti. Nacque così, crede il
molisano, quella specie di giurisdizione personale ignota agli antichi, donde
poi scaturì la distinzione de' fori. « A poco a poco le menti degli uomini si
avvezzarono a concepire due legislatori diversi ed uno Stato entro un altro
Stato ». I vescovi professarono la giurisprudenza romana e l'adattarono ai
nuovi bisogni, divennero feudatari, divennero ministri, cancellieri dei grandi
sovrani. L'elemento romano trovò in essi un baluardo contro la sopraffazione.
La Chiesa insomma fu nell'alto Medio Evo davvero un faro di luce nelle tenebre.
Essa predicava l'umanità e la libertà, essa sola potè dichiarare la schiavitù
contraria alla religione. Tutti questi elementi contribuirono a darle una forza
grandissima, che si tradusse presto in un dominio terreno. È naturale quindi
che un mutamento profondo negli ordini sociali porti seco un mutamento negli
ordini ec clesiastici. La storia ha uno sviluppo che non permette a lungo
superfetazioni antisociali. « Noi scorriamo rapi damente » scrive il nostro
autore « sopra un soggetto che è di sua natura vastissimo. Ci basta avere
indicate le cagioni principali. Conosciute queste, è facile conoscere che, a
misura che gli uomini s'incivilivano e gli ordini pubblici ritornavano verso la
loro perfezione, dovea ces sare tutto ciò che la sola infelicità de' tempi avea
consi gliato, introdotto, tollerato; e dovean segnarsi di nuovo quei confini
entro de' quali la sovranità temporale fosse più energica e meglio ordinata, e
l'autorità religiosa più augusta e più sicura. Così dal caos emerse l'ordine, e
fu a ciascuna cosa assegnato il suo luogo ». Questo or dine il Cuoco vede
avverato in un giurisdizionalismo con fessionista, che tende a volte ad un vero
e proprio con fessionalismo all’austriaca. Gli elementi di questo sistema non
possono essere esposti brevemente, onde occorre pas sarvi su, Vincenzo Cuoco,
se noi guardiamo ora dall'alto le cose, e cerchiamo di raccogliere le fila di
ciò che siam venuti dicendo, ci si appalesa come un fermo sostenitore dei
diritti dello Stato, concepito come sostanza etica, sostenitore che non ammette
alcuna menomazione di quei caratteri salienti che abbiamo veduto. Egli si pre
senta come un vero e proprio giurisdizionista, rappre sentante di quel
giurisdizionalismo, che lo storico co nosce nelle forme del leopoldinismo, del
giuseppinismo e sopra tutto del tanuccismo. Che il Cuoco sia giurisdizio
nalista nel senso sovraccennato, molti elementi lo testifi cano. Egli è
giurisdizionalista, ma nello stesso tempo il suo Stato è confessionista,
sebbene tollerante: anzi il nostro lo consiglia ad essere più confessionista
che può, perchè gli interessi dell'autorità civile e dell'autorità ec
clesiastica collimano perfettamente. Lo Stato del Cuoco trova una Chiesa
dominante e le dà di fatto privilegi, benefíci, considera i suoi sacerdoti come
pubblici fun zionari, investiti di vere e proprie funzioni pubbliche,
esercitanti un compito che il potere supremo non solo riconosce ma subordina al
suo controllo: la stessa educa zione religiosa è vigilata dagli organi
centrali. « Il che» come ben nota Giovanni Gentile « non viene, in conchiu
sione, a soggiogare quello che non è soggiogabile, lo spi rito religioso e
scientifico, alle forme giuridiche istitu zionali dello Stato; ma soltanto a
risolvere nella vita concreta dello Stato l'elemento sociale e pratico di co
teste forme superiori dello spirito, le quali, se sono ideal 195 mente
sopramondane, storicamente rientrano anch'esse nella sfera dei rapporti
sociali, materia del diritto » (1 ). Questo giurisdizionalismo confessionista
del XVIII se colo, anteriore alla rivoluzione francese, aveva nei prin cipi e
negli statisti un fondamento di vere e proprie credenze e convinzioni
religiose, che portavano, come os serva lo Scaduto (2 ), all'affermazione d'una
supremazia nel campo morale della Chiesa sullo Stato. Il giurisdizio nalismo
napoleonico ha invece cause più politiche che re ligiose, s ' ispira più
all'analisi delle condizioni storiche contemporanee che ad altro. Il Cuoco
segue quest'ultimo indirizzo, temperandolo col tanuccismo, vale a dire, ri
conoscendo l'altezza etica della Chiesa. Nulla ci induce a credere che egli
fosse specificamente cattolico prati cante, ma da un'analisi minuta de' suoi
scritti, da un manoscritto inedito sull' Ideologia, di cui ci dà' notizia il
Gentile, dal Platone in Italia, noi possiamo ritenerlo uno spirito
profondamente religioso. La sua filosofia serba anzi resti di trascendenza, e
la sua teologia, se è lecito così esprimersi, ritorna ad una posizione che il
Vico, suo maestro ideale, avea già superata (3). Egli differisce dagli
scrittori politici del tempo suo, scettici e agnostici, per i quali il
confessionismo ha basi puramente effimere, dif ferisce dunque per il fatto che
nella religione vede un elemento insopprimibile della vita dello spirito. Da
noi la religione dominante è la cattolica: non vi è legge che da essa e dalla
sua morale possa prescindere. Il suo in gegno, la sua sicura intuizione delle
varie attività dello spirito, lo porta ad un riconoscimento che non è solo do
veroso in linea di principî, ma è savio in linea politica per lo Stato che
voglia realmente attuare la sua missione, e sulla natura umana costruire il suo
edificio istituzio nale. « Il primo dovere di chi ama la patria è quello di (1
) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. (2) F. SCADUTO, Diritto ecclesiastico
vigente, 1923, Cortona, v. I, p. 19 sg. (3) G. GENTILE; Studi vichiani, p. 385.
Una parte dell’Ideo logia è stata ripubblicata in Scritti vari, v. I, pp.
297-302. 196 rispettare la religione de' padri suoi; il primo dovere di chi ama
la religione è quello di rispettare il governo della patria, senza di cui non
vi sarebbe alcuna religione ». Qui mi sembra che veramente il Cuoco si
distacchi dal l’età che fu sua, e all'astrattismo filosoficizzante e scet tico
sostituisca la realtà insopprimibile dello spirito, che è anche religiosità,
ed, essendo religiosità, non può essere che tolleranza. CAPITOLO V. Nazionalità
e italianismo nel « Giornale italiano ». Le origini della nuova Italia. Il
concetto di naziona nalità presso Cesare Paribelli e Francesco Lomonaco. Presso
Vincenzo Cuoco. - Sua visione spiritualistica del problema unitario e
nazionale. - Mezzi per formare una nuova coscienza nazionale. Abbiamo nella
prima parte di questo studio a lungo parlato del pensiero costituzionale di
Vincenzo Cuoco, quale egli di fronte all'astrattismo rivoluzionario dei
giacobini franco- italiani sistematicamente espresse ne'suoi Frammenti di
lettere dirette a Vincenzio Russo, e quale poi mostrò in atto negato in quel
Saggio storico, che resta ancora il più mirabile documento dei terribili giorni
che passarono alla storia col nome di Rivoluzione napoletana e con la gloria
d'eroismi non emulabili. Nel nostro lavoro abbiamo studiato il concetto che il
molisano si è fatto dello Stato e dei suoi attributi, la visione della vita giu
ridica e politica, e, infine, il modo ond'egli fissa il mille nario problema
dei rapporti tra l'autorità civile e l'auto rità ecclesiastica. In tutta questa
nostra analisi abbiamo visto come unitario sia il pensiero del nostro autore,
che abbiamo definito il più vivo esponente dell'italianismo di fronte ad ogni
forma, ad ogni espressione di vita, che non sia consona al nostro spirito, alle
nostre esigenze, ai nostri bisogni, alla nostra tradizione. 198 L'italianismo
del Cuoco ci si appalesa in tutta l'opera sua multiforme e molteplice, e noi
non avremmo bisogno di insistervi più, se in esso non vi fosse un elemento
nuovo che lo differenzia dall'italianismo di tutti i con temporanei e degli
immediati ' posteri: il modo in cui egli concepisce la nazione e lo spirito
nazionale. È que sto il punto sul quale verterà la nuova indagine. Giustamente
Benedetto Croce, nella prefazione a La ri voluzione napoletana del 1799, dice
che chi cerca « le ori gini sacre della nuova Italia » deve di necessità
rifarsi ai fatti della Partenopea (1 ). Il tragico fato della repubblica
disperde per la penisola centinaia di patrioti, gente, che, per quanto
dottrinaria, astratta, più francese di costumi e di pensiero che italiana, ciò
non pertanto ha una fede rigida e calorosa nei destini immancabili della patria.
È il polline vivo, che trasportato dalla tempesta fecon derà in altri liti, e
poi s'esprimerà in nuovi fiori e in nuovi frutti. Sarebbe facile fare dei nomi
e degli scritti, ma uscirei dal mio compito e mancherei con ciò dal mio pro
posto: ricorderò solo due scritti molto importanti per due ragioni, in primo
luogo perchè in essi l'indagine storica può rinvenire le prime idee
sull'indipendenza e sull'unità della nazione italiana; in secondo luogo perchè
dal con fronto, che di essi si farà con le pagine cuochiane, sca turirà la
diversa posizione spirituale, che il Cuoco rap presenta. Cesare Paribelli, ex
ufficiale di Ferdinando IV, dal 1793 al 1799 rimasto quasi sempre in prigione per
ragioni politiche, poi membro del Governo Provvisorio a Napoli, il 18 giugno
1799, essendo incaricato d’una missione a Parigi, proprio mentre le sorti
repubblicane volgevano al peggio (il 17 giugno Ruffo accorda la resa alla città
di Napoli e la Partenopea è finita ) scrive un Indirizzo dei Patriotti Italiani
ai Direttori e Legislatori Francesi, in cui, dopo avere espresso numerose
lagnanze contro gli stra nieri nemici ed amici, dopo avere descritto la misera (1
) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. XII. 199 condizione dell'Italia
tutta, dopo avere enumerati i voti delle varie regioni conclude con profetiche
parole. « Legi slatori e Direttori, invoca, osate alfine di soddisfare il voto
universale dell'Italia, e di proclamare la sua indi pendenza e la sua riunione,
il di cui centro esiste già nella santa energia dei figli del Vesuvio, nello
spirito repubblicano dei montagnari Liguri, nello sdegno invano ritenuto dei
figli dell'infelice Vinegia, e nella disperazione di tutti i rifugiati
Piemontesi, Romani e Toscani, cui non resta più ormai verun'altra alternativa,
che o di cercare per via d'una morte volontaria un asilo nella tomba, o di
crearsi di bel nuovo, per mezzo d'una volontà ferma e determinata, il felice
avvenire, che era stato promesso alla loro Patria. Legislatori e Direttori del
popolo fran cese, parlate, e la Repubblica Italica esisterà. Un'assem blea
Nazionale e un Governo provvisorio, riunito in Fi renze nel centro dell'Italia,
saranno invito a tutti gli abitanti di queste belle contrade; un'armata
ausiliaria sarà formata, lo stendardo Italico sventolerà nell'aria ac canto al
vessillo tricolorato, e gl ' intrighi stranieri sa ranno sventati ancor questa
volta; e il secolo decimonono vedrà folgorare questi due astri vittoriosi e
protettori, che annunzieranno all'Austria e al gabinetto Brittanico la vicina
distruzione, o ai discendenti dei germani e agli abitanti delle tre isole,
ormai troppo serve, la prossima loro libertà (1 ). Il documento è
importantissimo, e la sua importanza appare ancor maggiore, se si pensa che è
esso stato ver gato, quando le sorti non solo di Napoli e d'Italia, ma anche di
Francia, volgevano al male, e molti pavidi disperavano. Lo stesso pensiero, un
po ' più tardi, esprime Francesco Lomonaco in uno scritto, enfatico e gonfio di
forma, ma caldo e commosso d'amor patrio: il Rapporto fatto al cit tadino
Carnot, fiera requisitoria contro le malefatte degli (1 ) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 335; M. Rosi, op. cit., v. I, p. 215 e sgg.; V.
FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 151 e sgg 200 stessi francesi in Italia,
malefatte, che non ebbero altro effetto che quello di allontanare sempre più le
simpatie del popolo dalla causa rivoluzionaria. Anche il vesuviano Lo monaco
sente che in Italia si sta formando una volontà che non era per l ' innanzi, ma
invano si sforza di spie garsela filosoficamente, troppo imbevuto com'è di rigi
dismo giacobino. Egli enumera i diritti, quelli che egli almeno dice diritti
del popolo italiano, all'unità e all'in dipendenza, quegli elementi che
l'indagine sistematica del secolo XIX poi preciserà come i presupposti del con
cetto di nazionalità. L'Italia, non divisa da grossi fiumi nè da grandi mon
tagne, separata dalle Alpi e dal triplice mare dagli altri popoli, forma una indissolubile
unità geografica: è questo il primo elemento della nazionalità. Gli abitanti
che l'a bitano hanno la stessa tinta di passioni e di carattere, godono d'un
eguale germe di sviluppo morale e di fisica energia, hanno gli stessi
interessi, la stessa lingua, la stessa religione: tutto li addimostra per
membri della stessa famiglia: sono questi nuovi e complessi elementi della
nazionalità, elementi etnici, linguistici e religiosi, che si pongono accanto
al primo elemento geografico. Aggiungete a ciò una ininterrotta tradizione
storica, per cui uno è il processo evolutivo della stirpe, uno il fasto e la
sventura, come uno l'avvenire, ed avrete l'ultimo elemento, che informa di sè
un popolo e cementa quel che possiamo dire d'una nazione (1 ). Gli italiani
hanno perciò un diritto naturale, ab aeterno acquisito, all'unità e all '
indipendenza. La Francia, dice in sostanza lo stesso scrittore, può e deve
riconoscerlo positivamente. Solo così l'Italia, dopo tanti secoli potrà vedere
sanate le sue molte e sanguinose piaghe, che la tormentarono e la tormentano. «
Qual riparo » scrive il Lomonaco « a tanti mali? Qual rimedio a piaghe sì
profonde? Come imprimere alle de (1 ) F. LOMONACO, Rapporto al cittadino
Carnot, ecc., in se guito al Saggio storico di V. Cuoco, Laterza ed., Bari,
1913, p. 323. 201 presse ed avvilite fisonomie italiane il suggello dell'an
tica grandezza e maestà? Uno dei principali mezzi, se condo me, è l'unione.
Perchè termini il monopolio in glese, e i vili isolani cessino di arricchirsi
su le rovine del continente; perchè si oppongano argini all'ambizione del
l'Austria, la Francia abbia una fedele alleata, la condotta della Prussia sia
meno equivoca, il gran colosso dell’im pero russo stia immobile ne ' ghiacci
del nord, la Spagna divenga stabile amica della gran repubblica; perchè, in una
parola, vi sia in Europa bilancia politica e si disec chi la sorgente delle
guerre, è d'uopo che l'Italia sia fusa in un solo governo, facendo un fascio di
forze. Rea lizzandosi quest'idea, gl'italiani, avendo nazione, acqui steranno
spirito di nazionalità; avendo governo, diver ranno politici e guerrieri;
avendo patria, godranno della libertà e di tutti beni che ne derivano; ecc. » (1
). La ragione prima dell'unità italiana così è un fattore esterno, quello di un
presunto equilibrio europeo, quello d'una nuova armonia tra i popoli, tra le
genti del nostro belligero vecchio continente. Questi gli antecedenti dell'idea
unitaria, queste le sante origini di quel concetto di nazionalità (2 ), che
troverà poi in Giuseppe Mazzini il suo apostolo. Il Cuoco, che a Na poli visse
ed operò, che con tutti i patrioti di Napoli a lungo ebbe rapporti, non può non
agitare gli stessi senti menti. Ma questi da lui come vengono trasformati, in
lui quanta nuova luce acquistano ! Esule dalle sventure della Partenopea,
visitato Marsi glia, Chambery, Parigi, dopo Marengo, nel dicembre 1800 il Cuoco
è a Milano, ove presto pubblica il Saggio e i Fram menti (3 ). Io non mi
indugierò neppur brevemente sul l'attività del molisano nella Repubblica
cisalpina (poi italica ) e nel Regno italico, attività vasta e complessa di (1).
F. LOMONACO, op. cit., p. 327. (2 ) Chi vuole avere notizie più ampie veda La
rivoluzione napoletana del CROCE, ove vi è un largo studio sull'argomento, pp.
329-342. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p. 3 ]. 202 studioso, di cui sono documento
le Osservazioni sul Dipar timento dell'Agogna, che vanno sotto il nome di L.
Lizzoli, sebbene siano, come è stato indiscutibilmente dimo strato (1), del
nostro scrittore, e i frammenti su la Sta tistica della Repubblica italiana,
opera scientifica di vasto respiro (2 ), che dimostrano quanto alto fosse il
bisogno del nostro autore d'esaurire ogni forma di realtà umana, poichè solo
sovra una conoscenza adeguata di essa si può fondare un coerente edificio
politico e legislativo. Sono punti questi oramai acquisiti alla storia e su
essi non mi soffermo. Vengo piuttosto ad un altro punto, la fonda zione del
Giornale italiano, che tanta larga parte ha nella formazione della nostra
coscienza nazionale, che primo agita, nel fulgore della gloria napoleonica, il
problema unitario. In quel periodo tumultuoso, che comprende i primi decenni
del secolo XIX, Milano è il centro culturale più cospicuo d'Italia. Napoli,
dopo le aspre lotte giurisdi zionali con la Chiesa, dopo il fiorire della sua
Università, dopo la gran luce diffusa da Filangieri, Galiani, Pagano, Cirillo,
caduta la breve repubblica del 1799, colla restau razione del Ruffo, aveva
visto disperso tutto quel te soro di sapienza che cinquant'anni di attività
scientifica aveano accumulato. Torino era un centro troppo ristretto, ancor
provinciale e particolaristico, sebbene già comin ciasse a dar segno di nuova e
più ampia vita, ma non poteva offrire assolutamente nulla, dato che con le vit
torie del Bonaparte aveva perduto l'antica libertà. Di Venezia, di Firenze, di
Roma inutile parlare. Milano dunque ne ' primi anni del nuovo secolo è il
centro più attivamente colto d'Italia. Grandi in essa sono le memorie del
popolo, grande la tradizione recente. « Ivi si era formata prima la scuola del
giansenismo, e poi la scuola de' diritti dell'uomo »; ivi « la 6 Società
patriot tica ”, divenuta poi Società popolare, aveva lavorato alla diffusione
delle idee nuove ». Come rileva Francesco (1 ) N. RUGGIERI, op. cit., p. 40; G.
Cogo, op. cit., pp. 13-23, (2 ) G, Cogo, op. cit., p. 24 e sgg. 203 De Sanctis (1
) ivi s'era espresso, contemporaneamente forse ai primi tentativi
giurisdizionalisti del Tanucci, un moto, diretto principalmente contro la curia
romana, per sonificata nei gesuiti, e contro l'aristocrazia, che pur non avendo
portato ad immediati mutamenti politici, annun ciò importanti riforme civili
per il miglioramento del l'uomo, che già erano concrete conquiste civili, allor
quando il turbine rivoluzionario si scatenò, distruggendo tutto, l'antico e il
nuovo, il cattivo e il buono, ciò che doveva crollare e ciò che era degno di
restare. A Milano aveva scritto il Beccaria, instaurando nel campo penale nuove
dottrine, che, reagendo a tutto il sistema degenere del medievale processo
inquisitorio, preludono ad un mi rabile fiorire delle dottrine criminalistiche;
il Verri aveva disputato di economia, di finanza, di sociologia; il Caffè aveva
agitato nelle menti più illuminate i nuovi pro blemi filosofici e scientifici,
le nuove posizioni artistiche, che appassionavano non solo l'Italia, ma la
Francia e l'Europa tutta. Questa la tradizione, che ne' primi anni del nuovo se
colo Milano rinnova in una vita sempre più grande e degna. Le varie rivoluzioni
vi hanno fatto affluire esuli non solo da Napoli, ma da ogni parte d'Italia,
poeti e filosofi, soldati e commercianti, giureconsulti ed econo misti (2 ). È
il periodo grande della vita milanese; il pe riodo in cui, per dare tre
illustri nomi, appena da poco spento il Parini, cantano Monti Foscolo Manzoni.
Nulla da meravigliare se in questo ambiente d’intellettualità si agitano quelle
questioni, che poi lo stesso secolo XIX vedrà realizzate e risolte, concreterà
insomma nell’azione politica. L'animo ardente di Vincenzo Cuoco in questa
società così vivace ed attiva trova tutta lo stimolo per destarsi da quella sua
natural pigrizia, che lo stesso Manzoni in (1) F. DE SANCTIS, Saggi critici,
Milano, Treves ed., 1918, v. III, p. 2. (2 ) R. SORIGA, L'emigrazione
meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della
Società pavese di storia patria, a. XVIII (1918 ), pp. 102-117, pp. 119-121,
204 lui notava, e della sua nuova attività, oltre gli scritti statistici su
citati, sono testimonianza gli articoli sul Gior nale italiano, che egli
pubblica il 2 gennaio 1804 e di rige continuamente fino all'agosto del 1806,
fino cioè al suo ritorno in patria, avvalendosi della cooperazione di due
valentuomini, Bartolomeo Benincasa e Giovanni d'Aniello (1 ). Seguendo il
nostro metodo di non occuparci di pro blemi biografici, noti a sufficienza,
sorvoliamo sulla fon dazione del foglio milanese (2 ), e vediamo piuttosto che
cosa esso rappresenti nella storia dell'idea nazionale, quale sia il suo
rapporto con i precedenti ideologici del nazionalismo, che abbiamo visto in
Paribelli e Lomonaco. Che cosa è innanzi tutto la nazione per Vincenzo Cuoco? È
qualcosa di già acquisito, di rigidamente fatto, di sta tico, o invece qualcosa
da acquisirsi, da farsi, di dina mico, qualcosa insomma che diviene in un
processo inin terrotto? Esiste realmente e storicamente una naziona lità
italiana, che è formata con questi e con quegli altri elementi, che sono questi
e quelli, e nulla più? E quali sono questi elementi? Abbiamo noi perciò un
diritto na turale ad essere nazione, diritto che gli stranieri non pos sono
contestare, donde scaturisce un correlativo supe riore dovere a permettere la
nostra unità nella forma d'uno Stato indipendente e sovrano? Sono questi al
trettanti problemi, ai quali dovremo singolarmente ri spondere. Se noi
ritorniamo col pensiero agli scritti del Paribelli e del Lomonaco, noi vediamo
in essi uno sforzo a definire concretamente gli elementi costitutivi di questo
concetto di nazionalità, che poi alla resa dei conti finisce per man care e per
sfumare, proprio nel momento, in cui pure essi credono d'averlo conquistato e
fissato. Nè è a dire che (1 ) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 655. (2 )
Cfr. A. BUTTI, La fondazione del Giornale italiano » e i suoi primi redattori,
Milano, Cogliati ed., 1905 (estr. dall’Ar chivio stor. lomb., a. XXXII, fasc.
VII); vedi pure N. RUGGIERI, op. cit., p. 43 e sgg.; nonchè G. Cogo, op. cit.,
pp. 30-34. 205 l'insufficienza sia dovuta all'insufficienza della loro cul tura.
Uomini di ben maggiore preparazione si sono sfor zati d'esaurire criticamente
il contenuto della naziona lità e non ci sono riusciti. Ogni elemento, tra
quelli da noi presi in esame, si rivela attivo nella formazione della
nazionalità, ma poi non può essere a rigore accolto come necessario essenziale
costi tutivo. Ancora: vi sono elementi, che a volta sono, a volta non sono;
altri che operano storicamente con una certa intensità, ed altri con una
intensità maggiore o minore. Il Lomonaco accenna ad elementi geografici,
etnici, lin guistici ed eziandio religiosi, quali antecedenti del nostro
concetto, del concetto che noi tutti abbiamo di nazione, per cui gli italiani
sono fatti per essere membri d'una sola famiglia. Tutti questi egli afferma
come la base concreta, sovra la quale s'aderge il superiore diritto a che
l'Italia sia un solo Stato. Data questa concezione naturalistica, la
conseguenza che ne scaturisce è una sola: il popolo italiano ha una superiore
ragione a divenire indipendente, a trovare la sua forma giuridica in un
reggimento uni tario; gli stranieri non debbono che riconoscere positiva mente
quel che Dio o la natura, o altri che dir si voglia, segnarono sulle coste
delle montagne e nel corso de'fiumi, separando la patria nostra dalle altre
patrie, facendo si che essa, geograficamente delimitata dalle Alpi e dal mare,
sia abitata da una sola gente, parlante un solo idioma, avente una sola
religione, una sola storia, una sola mis sione, una sola somma d'interessi.
Ecco perchè il Paribelli e il Lomonaco si rivolgono ai francesi. Essi sono i
più forti, essi possono perciò estrin secamente donare all'Italia quell'unità
statale, a cui senza dubbio ha diritto, perchè la nazionalità è una realtà non
da farsi, ma già fatta e perciò statica. Quel che ancora non è fatto ma da
farsi è lo Stato uno ed indipendente, considerato come esterno alla nazione,
quasi come una sua sovrastruttura, che può essere e può non essere, ma che, sia
o non sia, lascia inalterata la nazionalità. Può esservi la nazione e non
esservi lo Stato, e viceversa. Lo Stato sarà il riconoscimento susseguente ed
esteriore d'una 206 realtà già concretizzata, e quindi definitiva, che è la na
zione con quegli elementi che sappiamo. Contro questa concezione s’oppone il
Cuoco Nessuno de gli elementi positivi della nazionalità può dirsi essenziale
al concetto di nazionalità. Prendiamoli uno ad uno, ed ognuno di essi ci
apparirà fallace e transeunte. Costruire sovr’essi val quanto costruire sovra
la sabbia. Che è la terra se non una mera quiddità naturale, che in sè e per sè
non ha che una importanza relativa, tant'è vero che gli ebrei sono nazione pur
fuori dal territorio nativo, e lo sono dopo quasi due millenni da che si sono
dispersi per il mondo? Che è la religione, se noi la concepiamo come religione
comune di tutti, con quei determinati solenni riti e con quella certa gerarchia
ecclesiastica, se non un astratto? Ma d'altra parte ognuno di questi ele menti,
ed altri che abbiamo sorvolato, acquistano mag giore consistenza, se noi li
guardiamo non già nella loro estrinsecità e nella loro astrattezza, ma se li
consideriamo nella loro significazione spirituale, vale a dire in quanto noi li
compenetriamo di noi, de ' nostri affetti, de' nostri sentimenti. Non è più
allora la terra fisica geografica, « bagnata » come dice il Lomonaco « dal
Mediterraneo, dal l ' Jonio, dall'Adriatico, e separata dagli altri popoli da
una catena di monti inaccessibili », ma bensì quella terra che ci vide nascere
e vide nascere i nostri avi, ove i nostri avi sono sepolti, saranno sepolti i
nostri padri, saremo sepolti noi pure, quella terra ove noi lavoriamo ed amia
mo, ove lavorarono le generazioni che furono e compi rono grandi cose, quelle
grandi cose, di cui si vede ancor oggi la testimonianza nelle grandi
costruzioni, nelle opere plastiche, ne ' carmi, nelle.storie, che ci commovono
e ci fanno fremere d'orgoglio. Non è più allora la religione cattolica romana
con i suoi dommi scritti e rivelati, fissati perennemente ne' sacri libri,
bensì quella religione che vive ne ' nostri cuori, e ci anima nelle opere
degne, ci rimprovera nelle indegne, ci consola nelle disgrazie, che brilla come
speranza di luce futura, che noi sentiamoogni momento, sempre nuova e presente,
sempre viva e rin novantesi. 207 La nazione insomma è in noi, è quella maggior
consape volezza che noi abbiamo di noi, onde ci sentiamo fratelli di tanti
altri individui, che perciò poniamo non come estranei a noi, ma simili
ne’sentimenti e negli affetti, for manti una superiore unità spirituale. Non è
perciò nè il territorio, nè la lingua, nè la razza, nè l'interesse che de
termina la nazionalità, il suo essere e il suo contenuto, ma siamo noi stessi,
che con la nostra spiritualità affermiamo i vari elementi di volta in volta
come costituenti la nazio nalità, e li plasmiamo in una suprema volontà, che è
co scienza ed energia. La nazionalità così non è fuori di noi, ma in noi; non è
materia o natura, ma spirito; non è contenuto, ma forma del più vario contenuto.
Le conseguenze di questa posizione sono incalcolabili. La nazionalità non è,
diviene; non è qualche cosa di preesistente alla nostra determinata energia
spirituale, ma coeva con essa, perchè da questa posta e generata in ogni suo
momento. Tale più alta visuale del problema il Cuoco esprime in quel Disegno di
un giornale italiano, che egli presentò nel 1809 al vice- presidente della
Repubblica italiana Fran cesco Melzi d'Eril (1 ). La nazione, egli dice, non è
formata; si tratta anzi di formarla. « Fra noi non si tratta di conservar lo
spirito pubblico, ma di crearlo. Conviene avezzar le menti degli italiani a
pensar nobilmente, condurle, quasi senza che se ne avvedano, alle idee che la
loro nuova sorte richiede, e far divenire cittadini di uno Stato coloro i quali
sono nati abitanti di una provincia o di paesi anche più umili di una provincia
» (2 ). Da ciò è facile vedere come la con cezione naturalistica sia superata:
la nazione non esiste (1 ) Il documento tratto dall'Archivio di Stato di Milano
è stato pubblicato dal prof. ATTILIO Butti in appendice alla sua op. cit.,
nonchè ristampato da G. GENTILE: VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti e
rari, Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909, p. 3 e sgg.; e poi da N.
CORTESE e F. NICOLINI: VINCENZO Cuoco, Scritti vari, Bari, Laterza ed., 1924,
v. I., pp. 3-12. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 208 in natura, come
mera entità di fatto, ma nello spirito, come superiore unità ideale.
Quest'unità dello spirito, che poi è energia plasmatrice e volontà
realizzatrice, come abbiamo detto, consiste di due parti principali: « la prima
è la stima di noi stessi e delle cose nostre; la seconda è l'accordo de'
giudizi di tutti su quegli oggetti che possono essere utili o dannosi » (1 ).
Io direi: è in primo luogo autocoscienza, consapevolezza di noi e delle nostre
pos sibilità; in secondo luogo quell'atto, per cui il nostro io particolare,
coincidendo con tutti gli altri particolari in una sola volontà, s'afferma come
universale. La nazione così null'altro è che volontà di nazione, e, siccome con
cretamente la volontà è in noi uomini, la nazione è in noi, quella nazione che
noi amiamo, sospiriamo, che noi idoleggiamo ne' nostri pensamenti, che vediamo
cantata ne' grandi poeti, che desideriamo grande e possente nel futuro come lo
fu nel lontano passato, che infine noi vo gliamo ed affermiamo in ogni nostro
pensiero ed atto, onde ogni nostra opera o scritto reca l ' impronta d'un
superiore carattere, che è il carattere di nostra gente. La stessa così detta
tradizione nazionale non è, non ha alcun valore, se non nel presente, se non in
quanto la poniamo come presente, e perciò solo operativa di grandi cose,
incitamento a maggiori grandezze. Se noi l'assu miamo come passato, essa
null'altro è che retorica, sban dieramento inutile di grandi fatti, su cui
tutti possono meritamente ridere. « Un giornalista di Londra o di Pa rigi può
mille volte al giorno ripetere ai suoi compatrioti: Noi siamo grandi. Egli sarà
sempre creduto. Un giornalista italiano, se pronunzierà questa stessa propo
sizione, desterà il riso; ed una proposizione di cui si è riso una volta, dice
Shaftesbury, non può produrre mai più verun buon effetto » (2 ). Anche la
tradizione, come tutti gli elementi della nazionalità non deve essere fuori
degli uomini, ma veracemente parlare agli uomini. La sto ria resta mera
erudizione passiva inerte, se la riguardiamo (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I,
p. 3. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 209 come un frigido insieme di
fatti; ma se questi fatti par lano ad uomini, e ad essi dànno maggior
consapevolezza di loro stessi, ond'essi acquistano maggiore energia e vo lontà
di dominio, allora la storia diventa davvero maestra de' popoli. Così la
tradizione ben'intesa diviene autoco scienza, stima di noi stessi. « Alla stima
di loro stessi » scrive il Cuoco « e delle pro prie cose debbono le grandi
nazioni e quella energia, per cui han fatto le grandi operazioni; e quella
pazienza, per cui han sopportati grandi mali e sacrifizi gravissimi; e quell'
affezione al proprio governo, che si raffredda ed estingue dall'idea che esso
non operi bene o che un altro operi meglio; e finalmente quella costanza ne'
pensieri, ne' disegni e nelle operazioni, la quale, fondata sul rispetto che
abbiamo per i nostri maggiori, può sola farci ottenere i grandissimi effetti.
Quando si analizzano le nazioni, si trova che i beni ed i mali, la verità e gli
errori sono misti egualmente da per tutto, e che la differenza tra l'una e
l'altra non dipende da altro che dalla loro diversa ma niera di pensare e di
sentire » (1 ). Posto ciò, allorquando la nazione non si è ancora con cretata
nella forma di uno Stato, non può esservi un di ritto, una pretesa a Stato
unitario, che noi possiamo esi gere dagli stranieri, aventi verso di noi un
corrispondente dovere al riconoscimento. Lo Stato è sì riconoscimento di
nazionalità, ma non riconoscimento estrinseco di altri, ma bensì intima
affermazione della nazionalità in ogni suo momento. Dire volontà di nazione e
dire volontà di Stato nazionale è la stessa cosa: affermare la nazione val
quanto affermare lo Stato nazionale. E siccome la nazione non è, ma diviene; lo
Stato non è, ma diviene. In un senso altamente ideale esso è anche quando
giuridicamente non è riconosciuto dagli altri Stati, in quanto è in noi che lo
poniamo ed operiamo per realizzarlo, e lo realizziamo continuamente in ogni
nostro atto. Come si tratta di fare lo spirito pubblico, la coscienza
nazionale, si tratta di (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. 14 fare lo Stato, e lo si fa, facendo lo spirito
pubblico e la coscienza nazionale. Circa la seconda parte della nazionalità,
dello spirito pubblico, il Cuoco dice, c'è poco da aggiungere: è il pro blema
dell'accordo di più uomini nelle idee utili (1 ), onde la loro volontà si può
considerare come una sola volontà. Basta presentare queste idee utili,
presentarle caldamente sinceramente, presentarle spesso, perchè tutti siano
d'ac cordo. « È necessario che tutti gli uomini convengano in tre cose: in
rispettar i governi, in rispettar la religione ed in praticar la morale; e se
tra queste cose si potesse stabilire una progressione, io non avrei veruna
difficoltà di dire che la corruzione della morale porta seco il di sprezzo
prima della religione e poscia del governo. È na tura dell'uomo trascurar prima
i doveri, indi conculcar le leggi che sanciscono i doveri, e finalmente
disprezzar coloro dai quali ci vengono le leggi » (2 ). Dato che lo Stato
moderno null'altro è che nazione, coincidendo la volontà di Stato con la
volontà di nazione, e posto che questa non è fuor di noi, ne viene che la
volontà statale non è estrinseca al soggetto, ma a lui intima e connaturale:
anzi la volontà di Stato coincide con la nostra in quanto que sta si pone come
universale, una ed armonica con tutte le altre. Il rispetto al governo non deve
essere una coa zione, ma un'accettazione libera, poichè nell'atto go vernativo
vediamo l'espressione di posizioni da noi con divise, anzi da noi volute. Il
rispetto quindi allo Stato è in quanto nello Stato vediamo la sublimazione di
quanto di meglio è in noi, e, siccome lo Stato del Cuoco è stato etico, e, in
termini giuridici, professionista, ne scaturiscono come conseguenze
inderogabili: il bisogno che i soggetti rispettino la loro religione che è
anche religione di Stato, pratichino la loro morale che è anche morale di
Stato. Vincenzo Cuoco, in quella parvenza di Stato unitario che è la Repubblica
italica, poi Regno italico, si pone (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2
) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 8. 211 dinanzi una sublime missione, un
compito titanico: for mare la coscienza di quel che sarà o diverrà la nazione
italiana. Il problema che abbiamo esaminato nei napo letani del '99 è
invertito. La rivoluzione imponeva una unitarietà estrinseca, mirava a formare
un sentimento vuoto ed astratto di pseudo - solidarietà umana; il Cuoco invece
s'affisa nell'interiore degli uomini, opera sui loro spiriti, ne ridesta quella
coscienza che il nuovo secolo XIX dirà nazionalità, e che infine null'altro è
che un atto d'energia volitiva, che plasma e fonde in sè ogni parti colare
contenuto. V'è il popolo, quel popolo che i giacobini idolatravano e levavano
alle stelle, ma a questo popolo la patria non è da darsi bell’e fatta, compiuta
e grande, attraverso l'opera di pochi disinteressati idealisti, o italiani o
stra nieri; no, questo popolo deve agire, vivere pur esso, sen tire i grandi
problemi del tempo, acquistarne la cono scenza, prepararsi liberamente
l'avvenire. Il Cuoco pone il popolo come elemento indispensabile della vita
civile, come il grande operatore della storia in tutti i suoi sviluppi. La
rivoluzione sublima in teoria il popolo, ma di fatto ne ha poco rispetto;
poichè crede po terlo dominare dal di fuori, e fargli subire i nuovi sistemi
politici, come già subiva i vecchi, vuote sovrastrutture, in cui può vibrare
ogni mutevole realtà. La rivoluzione infine è ne' giacobini, che sono i pochi,
non nel popolo, che è la molteplicità. Il Cuoco crede ciò un grande errore, ed
è questa la grande sua trovata, ond’egli meritamente s’as side tra i grandi del
nostro paese. Se vogliamo creare quella realtà spirituale che è la nazione, non
possiamo prescindere dal popolo, dal popolo che abbiamo visto nel Saggio essere
il solo autore delle rivoluzioni e delle con trorivoluzioni. Il principio della
storia è in lui, e in lui sono tutte le più remote scaturigini della vita.
Parlare al popolo, dunque, e ridestarlo, inserirlo nel pulsare della cosa
pubblica, fargli acquistare dignità e sensibilità, e allora esso non odierà le
istituzioni o non sarà ad esse indifferente, in quanto queste vede fuor di sè
stesso, ma le amerà come sue, espressione della sua più alta eticità, 212 e con
le istituzioni amerà la morale e la religione, che con le prime vedrà
intimamente legate. Oggi, dice il molisano, esiste bene o male una Repub blica
o un Regno italico; il popolo però ancora ne è fuori: bisogna unire i due
termini, perchè solo così il primo sarà veramente un ente vitale, il secondo
un'unità cosciente e non una molteplicità naturale e perciò bruta. Se domani,
il Cuoco non lo dice ma noi lo intendiamo, vicende storiche nuove
distruggeranno la mal connessa unità napoleonica, e nuovi stranieri invaderanno
il bel suolo d'Italia, se in questo domani il popolo sarà ancor sopito o morto
alla vita pubblica, ohimè, non vi sarà speranza più di unità e di indipendenza;
ma, se per av ventura questo popolo noi lo avremo educato, istruito, reso
elementó vero dell'attività sociale, oh, allora non vi sarà bisogno di
lunghissime lotte perchè la volontà co mune di nazione, la volontà di Stato
libero si concreti, s'imponga in giuridiche affermazioni dinanzi agli stra
nieri, che le subiranno e le riconosceranno ! Così il problema politico in
Vincenzo Cuoco diventa sopra tutto problema pedagogico, anzi il problema peda
gogico per eccellenza, come quello che è destinato a creare un popolo, una
nazione, uno Stato (1 ). Ben nota Guido De Ruggiero che, laddove il carattere
spirituale dei moti, che dalla rivoluzione si espressero, sfuggiva ai
rivoluzionari, anche ai più eletti, il Cuoco intende la nuova esigenza e vuol
essere educatore: nella sua grandezza come peda gogista intendiamo la sua
grandezza come storico e po litico (2 ). Certo gli ostacoli a questa missione,
a questo fine sono grandissimi, ma non per ciò il molisano si sbigottisce:
quanto maggiori sono gli ostacoli tanto più bello sarà il premio nell'avvenire.
Oggi in Italia non v'è nazione, non v'è senso unitario; siamo poveri, pochi,
disgregati, senza un esercito vero e (1 ) P. ROMANO, Per una nuova coscienza
pedagogica, G. B. Pa ravia, s. d. (1924 ), Torino, p. 106. (2 ) G. DE RUGGIERO,
op. cit., p. 175. 213 proprio; non importa, tutto si farà, ammonisce Cuoco, ed
esce in una profetica dichiarazione di fede, che, ancor oggi, commove e rende
superbi nello stesso tempo. « Ogni Stato » scrive « ha un periodo da correre.
Tutte le nazioni piccole son destinate ad ingrandirsi o a perire. Quelle non
periscono, le quali dispongon per tempo le loro menti all'ampiezza de’destini
futuri; onde, quando il corso de gli avvenimenti loro presenti le occasioni
opportune, esse, per mancanza di preparazione, non si ritrovano impo tenti » (1
). L'unità d'Italia prima sia nello spirito, poi certamente sarà nella vita
giuridica: ma noi non possiamo presu merla in questa se non ci sforziamo di
concretarla in quello. Dalla frase che io ho richiamato appare chiaro quanto
caldo sia in Cuoco il pensiero unitario: non basta quella parvenza d'autonomia
che la Francia ci dà e Na poleone mantiene, occorre di più, occorre che ciò che
è Italia a Milano sia Italia a Scilla, e viceversa, occorre la vera unità, cioè
lo Stato nazionale. Questo non è un di ritto del passato inestinto e
inestinguibile, sacra eredità di generazioni trascorse, ma unità da formare ex
novo attraverso un'opera diuturna e disinteressata, in cui tutto ciò che è
diritto e storia antica deve rifondersi e rifog giarsi nel presente, diritto e
storia nuova, perchè nuova volontà e nuova consapevolezza. La storia in un
certo senso è peso bruto, se non si vince come passato; è atti vità
propulsatrice, se noi la riviviamo e ne ritragghiamo incitamento. Perciò tutto
il Giornale italiano è pieno di storia, di memorie antiche, di riesumazioni
dotte, d'in formazioni nazionalistiche: ma tutto ciò non è materiale d'archivio,
da biblioteca, bensì esempio da prospettarsi ad animi italiani, ond'essi vibrino
di un legittimo orgoglio, che non è comodo adagiarsi in una indiscussa
superiorità o antico primato italico, ma incitamento a nuove opere. Ecco ciò
che si propone all'incirca il Giornale italiano: un'alta opera di pedagogia
pubblica. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 7. 214 Questo giornale,
divenuto rarissimo, per lungo tempo è stato dimenticato dagli studiosi, ma oggi
ad esso si è ritornati, e in esso si sono rinvenute le vere ideali origini, di
questa nostra Italia, di cui il Risorgimento è stato la cosciente affermazione,
non l'estrinseco dono di questo o di quello, sia esso il terzo Napoleone o il
Gabinetto britannico. La direzione cuochiana al Giornale italiano durò tre anni:
sono tre anni d'un apostolato fervido sincero ele vatissimo, senza mai un
minuto di riposo. Nessun pro blema, giuridico o politico, etnografico o
storico, econo mico od agricolo, militare o industriale, sfugge alla mente di
Vincenzo, e tutto egli rivolge ad un ben noto fine, poichè, com'egli stesso
osserva, « per formar la mente de’ lettori, è necessario che l'opera istessa,
abbia una mente, cioè un fine unico, e parti tutte corrispondenti al fine » (1
). L'importanza di questo foglio non isfuggì ai più acuti studiosi delCuoco.
Già il Romano lo proclamò « un nobi lissimo apostolato di italianità (2 ) », e,
come il Cogo ri leva, questa affermazione il sopra detto critico convalida con
prove sicure, sebbene sarebbe stato forse opportuno che egli vi avesse fermato
un po' di più la sua atten zione (3 ). Parimenti sul Giornale italiano ha
scritt oltre il Cogo, Paul Hazard, il quale nel suo obiettivo e felice intuito
ha ben visto quanto il Cuoco si differenzia dai gia cobini francesi e quanto
rigidamente affermi la sua na zione (). Ma, nonostante il loro acume, il
Romano, il Cogo, l'Hazard, non poterono avere quella sensazione sicura della
grandiosa importanza di quel giornale, che solo noi oggi possiamo apprezzare
dopo che ulteriori studi hanno messo in luce come quegli scritti della gazzetta
milanese, spesso non firmati, o sottoscritti con la sem plice sigla C., fossero
letti da un giovanetto idealista ap (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2
) M. ROMANO, op. cit., p. 136. (3 ) G. Cogo, op. cit., p. 32. (4 ) P. HAZARD,
op. cit., p. 231 e sgg. 215 pena uscito dall'università, che li postillava e li
trascri veva, da Giuseppe Mazzini: piccola favilla atta a destar gran fuoco.
Per raggiungere i suoi alti fini tre sono i mezzi che il Giornale italiano si
propone, e che esplicitamente di chiara: in primo luogo, « presentare al
pubblico quanto più spesso si possa le memorie degli altri tempi: non, come
talora si è fatto, sfigurate e dirette a turbar gli ordini che si avevano, ma
quali realmente sono, e per confermar colla stima di noi stessi gli ordini che
abbiamo »; in se condo luogo, « incominciare a misurarci, almen col pen siero,
colle altre nazioni »; poi, « ragionar frequentemente sulle operazioni nostre
», onde acquistare coscienza delle nostre possibilità, delle nostre virtù e dei
nostri vizi (1 ). Tutti questi tre mezzi miravano ad un fine unico, far
comprendere agli italiani che « chi oggi non è grande » e « quasi diffida di
poterlo divenire », lo sarà, come « lo è stato una volta » (2 ). Nel luglio
1805 Vincenzo Cuoco, recensendo uno scritto del Monti, di quel Monti, che egli
pur non troppo ammira come personalità morale (3), scritto col quale il poeta
cesareo esalta l'Eroe, che' la gratitudine nazionale in voca « nel tempo stesso
suo conquistatore, suo liberatore, suo Re », non loda l’autore per il suo
lodare l'Eroe, « soggetto tanto comune qual è sempre », ma bensì per la novità
che ha saputo trovare e per « l'interesse che ha saputo destare rammentando le
antiche glorie italiane, e le sciagure e l'avvilimento, che alla gloria
succedettero, ridestando le ombre de' tempi antichi, e dopo di esse l'ombra di
Dante, di quel poeta del quale nessuna nazione p. 5. (1 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. I, p. 5 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, (3 ) Vedi N.
RUGGIERI, op. cit., p. 163; nonchè A. LEVATI, Saggio sulla storia della
letteratura italiana nei primi venti cinque anni del sec. XIX, Milano, Stella
ed., 1831, p. 131 e sgg., e G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, 3a
ediz. corretta da P. THOUAR, Firenze, 1853, v. II, p. 259, n. 3, ai quali il
Ruggieri stesso rimanda. 216 può vantarne un altro più pieno di civile sapienza
» (1 ). « Non altri » commenta « vi era di più opportuno di Dante all'occasione
solenne che Monti celebrava; di Dante il quale forse il primo incominciò a
illuminar le opre infi nite degli antichi italiani per ammaestramento de' mo
derni; di Dante il più zelante dell'antica gloria degli italiani; il più severo
censore della corruzione nella quale ai suoi tempi l'Italia era caduta; di
Dante che tutti i suoi studi e tutte le sue cure dirigeva al solo fine del
risorgimento dell'Italia; e con quali arti vi tendeva ! Col predicare tra gli
abitanti delle varie parti nelle quali era allora divisa l'Italia l’unione, e
negli ordini pubblici la concentrazione del potere moderata dalle leggi ».
L'alta coscienza del Cuoco vede in Dante il simbolo d'ogni attività della
stirpe, e per il divino poeta ha un vero culto, come lo hanno e l'avranno tutti
i grandi fattori della nostra storia e della nostra civiltà, da Manzoni a
Carducci, da Mazzini a Gioberti (2 ). E la sua volontà d'esaltare tutto ciò che
è italiano, e in Italia ha avuto origine e nascimento, si compenetra con un
felice intuito storico, per cui il fenomeno politico (1 ) Giorn. ital., 1805,
27 maggio, n. 63, p. 274: Visione del professore V. Monti. Per altri accenni
del Cuoco sull’Alighieri vedi Scritti vari, v. I, p. 235, 257; v. II, p. 267. (2
) L'alto concetto che V. Cuoco avea della grandezza di Dante si addimostrò
chiaramente in una circostanza spiace vole, in una di quelle tante polemiche,
con cui gli stranieri cercano di menomare quel che è nostro e di impicciolirlo.
Avendo un giornalista dei Débats scritto che una vita di Dante poteva ritenersi
a priori una lettura sonnifera, e che la Divina Commedia era l'opera di un
piccolo politico, di un poeta bar: baro, del quale solo pochi frammenti
potevano dirsi buoni, il molisano rimbecca: « Sia permesso all'autore
dell'articolo di ignorare la storia, e non saper quanto Dante fosse politica
mente grande. La gloria del sublime poeta ha offuscata quella del profondo
politico, ed il maggior numero degli uomini ram menta l'autor della Divina
Commedia e quasi oblìa l'autor della Monarchia, libro che, ad onta delle
spinosità scolastiche onde è ricoperto, racchiude pensieri profondi, e, ciò che
più importa, non è molto lontano dai nostri attuali bisogni ». Vedi Giorn. Ital.,
1804, 25 gennaio, n. 11, p. 45. 217 e culturale è mirabilmente rappresentato.
Esalta il se colo XVI, « il secolo in cui rinacquero tutte le arti e tutte le
scienze, e tutte rinacquero in Italia, e dall'Italia si diffusero per tutto il
resto ancor barbaro dell'Europa; si scopersero due nuovi mondi, e tanti mali e
tanti beni si aggiunsero all'antico; sursero nuove sette religiose, ed il
fermento che esse produssero fecondò li primi semi di quella libertà di pensare
che dovea col tempo produrre e la sana filosofia e l'imsensato pirronismo »; ma
subito si entusiasma, e, quasi a suggellare tanta gloria, esclama: « e tutti
questi avvenimenti o nacquero o agitaronsi o compironsi in Italia o per
l'Italia o per l'opera degli italiani...! » (1 ). Il secolo XVI è il secolo di
Leonardo, di Raffaello, di Michelangiolo, di Cellini, di Palestrina, di Ariosto,
di Tasso, di Machiavelli. Il Cuoco è un ammiratore del se gretario fiorentino.
E chi mai, se si eccettui Francesco De Sanctis, intese così profondamente
l'autore del Prin cipe e delle Deche? Anzi astraendo e generalizzando un
parallelo tra il Cuoco e il Machiavelli si può fare, ed è stato fatto (2). «
Più di uno » nota Giuseppe Ottone « ha paragonato [ Il Cuoco) al Machiavelli,
perchè al pari di lui trovò i princípi e le formule di un rinnovamento della
coscienza nazionale: e come il Machiavelli segna il punto nel quale i fervori umanistici
si incarnano nella realtà della vita politica, e, svestito il paludamento
retorico, si rivelano nelle linee semplici e precise di un nuovo ideale, così
il Cuoco, dopo un secolo di vaneggiamenti filosofici e col concorso di una dura
esperienza, per la quale si fondono come cera le antiche illusioni, ci rivela
rinnovata e con sapevole di sè la coscienza italiana » (3 ). (1 ) Giorn. ital.,
1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44:
Varietà: (vedi in precedenza, p. 163 ). (2) G. OTTONE, Vincenzo Coco è il
risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tipografica vigevanese,
1903, Ap pendice B. LABANCA, op. cit., p. 407 e sgg. (3) G. OTTONE, op. cit.,
p. 4. 218 « Le ragioni che possono suggerire il pensiero di una certa affinità
tra i due scrittori sono parecchie: 1° la tradizione, superficiale e scolastica
più che al tro, della trasmissione dell'ideale unitario; 2º una certa affinità
nelle circostanze che hanno sug gerito all'uno e all'altro scrittore di
attendere alle fatiche dello scrivere; 30 il comune intento di ricamare sul
tessuto della storia il disegno della loro personale esperienza e delle loro
convinzioni; 40 le frequenti citazioni che il Cuoco appunto fa di detti e
sentenze del Machiavelli; 50 la comune ammirazione per Roma repubbli cana » (1
). Ma non è questo che a noi interessa vedere, poi che i paralleli hanno sempre
un valore approssimativo, dato che prescindono dalle mutevoli condizioni dei
tempi, che di volta in volta sono e non si riproducono più, onde il
Rinascimento, fenomeno sopra tutto culturale e in su bordinata politico, non si
può mai raffrontare col Risor gimento, fenomeno soprattutto politico sebbene
anche culturale. Quel che a noi invece interessa, ripeto, è la nuova luce che
il Cuoco riverbera sul segretario di Fi renze, onde per vie diverse da quelle
che tiene Ugo Fo scolo, tende a scagionarlo dai « giudizi ingiusti che il
maggior numero degli uomini dà sugli scritti suoi ». A ciò immagina che un suo
amico conservi il mano scritto d'uno de' suoi antenati, che visse nel secolo di
Leone X ed ebbe rapporti con i grandi uomini del tempo: in questo manoscritto
l'avo descrive una sua conversa zione col Machiavelli sovra un tema politico.
La discolpa del grande fiorentino non potrebbe essere più completa e sicura. «
Il maggior numero (degli uomini), dice il Machiavelli, è ingiusto, perchè pieno
di passioni e servo de' partiti. Io (1 ) G. OTTONE, op. cit., p. 51.
Giustamente nota l’A. che l'ideale unitario nel Machiavelli è scolastico,
laddove nel Cuoco è più profondo ed intimo. 219 ho voluto scrivere senza
passione veruna; non ho seguito nessun partito, e li ho offesi tutti. Ho
scritto per gli uomini ragionevoli, e questo è stato il mio torto: gli uomini
ragionevoli son pochi ». Il Cuoco perciò intende studiare e giudicare il Machia
velli realisticamente, da un punto di vista storico, pre scindendo da ogni
giudizio a priori (1 ). Ha il Machiavelli insegnato massime di tirannia ai Me
dici, ha preso per modelli uomini scelleratissimi quali Ca struccio e il duca
Valentino? Nulla di tutto ciò. Egli ha visto i costumi e gli ordini dei suoi
tempi, e li ha descritti. Ha detto ai principi: che fate? voi non sapete essere
nè buoni nè cattivi, voi finirete con l'essere nulla e vi per derete; voi non
avete religione e virtù, necessarie allo Stato, e finirete per distruggerle
negli altri. Ha detto: siate giusti, e, se pure qualche volta vorrete
permettervi di derogare dalle leggi della giustizia, sia questo a voi soli
permesso, non agli altri, non a tutti. Ecco un Machia velli più umano dell'uomo
foscoliano: che temprando lo scettro a' regnatori gli allòr ne sfronda, ed alle
genti svela di che lagrime grondi e di che sangue. (1 ) Che questa sia proprio
la posizione, sulla quale il Cuoco crede di poter pervenire ad una esatta
comprensione di Ma chiavelli politico, lo dimostra assai bene un passo di un
altro suo articolo: Giorn. ital., 1806, 5, 6, 7, 8 gennaio, n. 5, 6, 7, 8; p.
19, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32: Politica (ristampato in Scritti vari, v.
I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l’Italia ). « Quelli li quali
leggono » scrive il Cuoco « le opere di Macchiavelli colla stessa attenzione
colla quale leggono un romanzo, e quegli altri i quali lo giudicano senza
averlo letto (com'è accaduto al padre Possevino ed a tutta la scuola ge suitica
) credono che Macchiavelli abbia date lezioni di tiran nide o abbia voluto
rappresentar quella stessa parte che rap presentò Samuele al popolo ebreo. Io
son persuaso che Mac. chiavelli non volle fare nè l'una nè l'altra cosa, ma
vide i costumi e gli ordini de' suoi tempi, e ne giudicò con una mente la quale
era superiore ai tempi suoi, e che in conseguenza doveva esser per necessità
ammirata o biasimata, e sempre senza ragione, perchè non era mai ben compresa ».
220 Ma perchè invece di parlare ai sovrani non ha parlato ai popoli? Ha tentato
di parlare anche ai popoli, ma si è avveduto che avrebbe parlato, dati i tempi,
invano. I principi si muovono per il loro potere, i popoli per la loro virtù.
Sperimentati i popoli tra i quali viveva, non ha potuto dir loro: fate uso
della vostra virtù; essi non l'avevano. Invece si è rivolto ai principi ed ha
detto: fate uso del vostro potere; e questo precetto prima o dopo avrebbe
dovuto produrre gli stessi effetti del primo, « perchè è tanta l'efficacia
della virtù che, anche simulata, vale a ricomporre gli animi e gli ordini delle
nazioni ». Ma perchè ha scelto come suo esempio il duca Valentino? Perchè
quelli che il duca oppresse e distrusse erano più scellerati di lui, e fra
tanti scellerati ha preferito quello « che almeno dirigeva le sue scelleraggini
ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel
leraggini più vili, dividevano e desolavano ». Da queste notazioni scaturisce
ben netto il giudizio che il Cuoco fa del Machiavelli, giudizio ben diverso da
quello che ne davano tutti gli storici e ne dà lo stesso Foscolo, che si
arresta sbigottito di fronte alla crudezza e alla rigidità delle massime
politiche dell'autore del Principe. Ma il molisano troppo vigile senso storico
e troppo realismo ha in sé per arrestarsi, ed il suo giudizio infine coincide
con quello di Francesco De Sanctis (1). Conobbe questi proprio lo scritto
cuochiano? Io ne du bito assai; ma certo è che i due critici si incontrano,
spinti forse ad un punto comune da un solo ideale, da studi similari sovra la
grande opera vichiana, da un eguale temperamento meridionale, più nobilmente
concreto nel suo idealismo critico che non astratto in un nebuloso atomistico
positivismo. (1 ) « C'è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le
lingue, il Principe, che ha gittato nell'ombra le altre sue opere. L’autore è
stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo
valore logico e scientifico, ma nel suo va. lore morale. E hanno trovato che
questo libro èun codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine
giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machia. 221 Il
Cuoco risulta da questo nostro esame un esaltatore caldo delle glorie italiche,
ma la sua esaltazione non è un'esaltazione cieca fanatica, bensì cosciente
illuminata da fine senso storico, per cui ogni uomo, poeta o statista, ogni fenomeno
politico, glorioso od infausto, deve inse rirsi nel suo tempo, ove trova le sue
radici, cioè la sua determinazione genetica. Dante è Dante nel suo tempo;
Machiavelli è Machiavelli nel suo. Quel che per essi potea avere una ragione,
per noi può anche non averla. In ogni caso noi non dobbiamo essere dinanzi a
loro passivi, ma assorbirli, farli nostri, sentirli, fare la loro esperienza no
stra, affinchè la loro vita spirituale non resti campata in cielo ma si saldi
con la nostra, e si continui e si perpetui. Quest'alta dignità umana di
Vincenzo lo differenza ben nettamente dagli stessi suoi cooperatori. Ben rivela
a questo proposito l ' Hazard che, per esempio, il Benin casa esercita nel
giornale una propaganda continua d'ita vellismo questa dottrina. Molte difese
sonosi fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o
quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata
e un Machiavelli rimpiccinito ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 50). «
Machiavelli bisogna giudicarlo da un alto punto di vista. Ciò a cui mira è la
serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi
diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da
riguardi accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non intorbidato da
elementi so prannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il suo
Eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che com prende e regola le
forze naturali e umane, e le fa suoi istru menti. Lo scopo può essere lodevole
o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e
protestare in nome del genere umano.... Ma, posto lo scopo, la sua am mirazione
è senza misura per colui che ha voluto e saputo con seguirlo. La responsabilità
morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel
non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il
terribile; non ammette l'odioso e lo spregevole. L'odioso è il male fatto per
libidine o per passione e per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la
debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che
pur bisogna andare ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 69 ). 222 lianità
esaltata, che finisce per divenire noiosa nella sua metodicità, che fa pensare
al partito preso. Si tratta di geografia: sono gli italiani che hanno scoperto
India ed America (1804, n. 6 ); si tratta del sistema di Gall: esso è stato
preceduto da trovate di italiani (1804, n. 140); si tratta d'arte tipografica:
il primato italico con i vari Bo doni è indiscusso (1805, n. 55): e così in
materia di belle arti, di poesia, di teatro (1 ). Il Cuoco ha un altro metodo,
spesso esagera sull'infe riorità dei suoi connazionali di fronte agli
stranieri, ma esagera non per altro che per provocare una specie d'emu lazione,
una specie di slancio a cose più alte. Nè è a dire però che la lode manchi al
Cuoco, no, anzi gli abbonda, e si rivolge non solo ai grandi antichi, ma anche
ai contemporanei più eletti o a coloro che da poco sono mancati ai vivi. E in
quest'elogio quasi sempre co glie nel segno, e le sue osservazioni sono quanto
di più giusto si possa concepire. Esprime un giudizio su Verri, ed il giudizio
gli sgorga caldo, come un'apoteosi. « Egli fu » scrive « sublime filosofo,
profondo letterato; il primo storico della sua patria, la quale avanti di lui
non aveva avuto che cronichisti privi per lo più di filosofia, di cri tica, di
gusto; magistrato zelante, attivissimo, autore o almeno parte principale di
tutte le utili riforme che can giarono quasi interamente la vita politica della
Lom bardia austriaca ». E il Verri richiama alla mente un altro grande, che in
una disciplina delicatissima, come quella dei delitti e delle pene, segna
l'inizio d'una nuova èra. « A Verri deve l'Europa Beccaria. Egli fu quasi
l'oste trico di un genio grandissimo che taceva compresso dal l'indolenza a cui
era portato per fisica costituzione » (2). Spesso sono nomi, grandi ma non
abbastanza noti, quelli ai quali si riferisce, e allora il Cuoco si accalora e
la parola diviene incitatrice ed eloquente, sebben dolorosa (1 ) P. HAZARD, op.
cit., p. 235. (2) Giorn: ital., 1804, 4 luglio, n. 80, p. 323-324, Scrittori
clas sici italiani di economia politica. 1 223 nello stesso tempo per la
incomprensione degli italiani. Parlando d’economia trova modo di ricordare un
pio niere di questa scienza e di richiamarvi l'attenzione na zionale, Giammaria
Ortez. « Chi era questo Giammaria Ortez? Ecco una domanda che tutti gl'italiani
fanno, e che intanto farebbe torto a tutti gl'italiani se un uo mo di tanto
merito quanto Ortez, non avesse voluto egli stesso rimanersene ignoto, non
sapremmo dir se per mo destia o per orgoglio; modestia sempre lodevole,
orgoglio spesso nobile in un secolo corrotto, ma tanto l'una quanto l'altro
eccedenti quei limiti tra quali si contiene la virtù » (1 ). In questa difesa
del nome italico il molisano muove contro tutti gli stranieri che a lui
ingiustamente s’oppon gono e divengono dispregiatori delle glorie nostre. Recen
sendo infatti nel giornale un opuscolo di Vincenzo Monti, Del cavallo alato
d'Arsinoe, nel quale il poeta si scaglia contro Salvatore De Coureil, che con
gallica fatuità aveva osato menomare glorie purissime d'Italia, il Cuoco lo
loda assai di ciò. « Noi non entriamo in questa disputa.... Ma il sig. De
Coureil chiama Parini cattivo poeta; Alfieri, se non mediocre, almeno non degno
di tante lodi quante gliene dànno gli italiani sol perchè non hanno altri tra
gici; ecc. ecc.... Haec non sana esse, non sanus juvet Ore stes » (2 ). (1 )
Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 573: Economisti italiani. (2)
Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 574: Il cavallo alato di drsinoe di
V. MONTI. Nè la tutela vigile che il Cuoco fa del buon nome italico s’ar resta
qui: allorquando « un Lalande dice con pueril sangue freddo, che l'Italia non
ha oggi un solo (un solo? ) uomo di merito»; allorquando il tragico -comico,
drammatico -sentimen tale e memorioso Kotzebue tratta tutti gl'italiani da
ignoranti, da incolti e quasi da canaglia » (Giorn. ital., 1805, 18 agosto, Sup
plemento al n. 98, pp. 577-8, Necrologia ), egli è là, e s'appa lesa bellicoso
difensore d'italianità. Recensisce un opuscolo di Luigi Bossi, in cui questi
vendica « l'onore italico trattato con poca civiltà dal sig. Akerblad », egli
pur sempre ha dinanzi a sè un alto fine civile: la difesa delle nostre
intangibili glorie 224 Da questa rapida scorsa attraverso il Giornale italiano
appare chiara la posizione di Vincenzo. « Noi italiani ab biamo un maggior
numero di uomini grandi che non le altre nazioni », ma noi non li conosciamo
neppure per la nostra apatia: « longa urgentur nocte, carent quia vate sacro » (1
). La pianta uomo da noi cresce florida, ma gli ' italiani non la coltivano; e,
se vicendevolmente non si ignorano, gli italiani si disconoscono. « Dotati gl'
italiani dalla natura di grandissimo ed acutissimo ingegno, non mancano di
cognizioni ed osservazioni, e nell'angolo più incolto si ritrova talora un uomo
il quale vale per dieci accademici. Che pro? Le sue osservazioni, le cognizioni
sue vivono una brevissima vita, ristretta tra i confini di una picciola terra e
muoiono con lui. Gli italiani sono grandi, ma l'Italia rimane picciola » (2 ).
E così gli stra nieri si avvantaggiano su noi: scoperte che furon fatte da
italiani, poi vengon ripresentate come novità francesi o inglesi, e magari da
noi ammirate, da noi che forse le avevamo vilipese e trascurate. E nel rilevare
ciò Cuoco non esita a discendere a problemi pratici, per dimostrare, per
esempio, come un ramo d'industria, la pastorizia « tanto utile » e largamente
sfruttata all'estero, sia stata esercitata tecnicamente per la prima volta da
un italiano, il Dandolo, il quale poi l'ha diffusa con grande dottrina e
ripetuta esperienza (3 ); come, ancora, certe pratiche agricole generalizzate
in Inghilterra o altrove, siano po steriori d’un buon secolo a ricognizioni
nostre, del tutto (Giorn. ital., 1805, 22 luglio, n. 87, p. 470: A proposito
della « Lettre » di L. Bossi allo SCHLEGEL ). Sovra Lalande, Kotzebue e
Akerblad vedi G. Cogo, op. cit., p. 89-90, ove di essi si parla
esaurientemente, dando biblio grafia e notizie. (1 ) Giorn. ital., 1804, 28
marzo, n. 38, p. 152: Scrittori italiani di economia politica. (2 ) Giorn.
ital., 1804, 19 novembre, n. 139, p. 566: Biblioteca di campagna, ecc. (3)
Giorn. ital., 1805, 25 febbraio, n. 24, p. 96: Del governo delle pecore
spagnole e italiane, ecc., saggio di VINCENZO Dan. DOLO: sovra il Dandolo vedi
G. Cogo, op. cit., p. 88. 225 nostre secondo il giudizio degli stessi stranieri
(1 ); come, infine, addirittura pretese scoperte fisiche intorno a cui inglesi
e galli si disputano il primato siano scoperte, ri trovati di un filosofo il
cui nome va per la maggiore, nientemeno di Giambattista Vico (2 ). Tutte queste
osservazioni rispondono ai mezzi, con cui il Cuoco si propone di raggiungere il
suo fine: la formazione della coscienza nazionale e dello spirito pubblico.
Bisogna cominciare a misurarci con gli stranieri, ond'essi così ci p. 87. (1 )
Giorn. ital., 1805, 31 ottobre, 2, 4 novembre; n. 148, 150, 152; p. 874, pp.
882, p. 889-90: Giudizio sopra tre istituzioni agrarie. A proposito di questo
articolo vedi G. Cogo, op. cit., (2 ) « Abbiamo parlato della scoperta fatta da
un inglese della virtù che hauna sfera magnetica nuotante nel mercurio di
rivolgersi intorno al proprio asse, e d'indicare così la la titudine e la
longitudine. Ora i francesi disputano agli in glesi l'onor della scoperta, e
pretendono che questo fenomeno trovasi descritto nelle Efemeridi geografiche di
Busch, 1803. È pur graziosa cosa veder altri popoli disputarsi la gloria di ciò
che è italiano. Nella Vita che Vico ha scritto di sè stesso (e la scriveva
circa il 1730, quasi un secolo prima di Busch e del l'inglese ), quest'uomo
parla di una nuova teoria che egli avea imaginata per ispiegar il fenomeno
della calamita, e da questa sua nuovateoria trae la conseguenza che la calamita
non solo si dirige al polo, ma anche al zenit, onde vien poi la rotazione
intorno al proprio asse, l' imitazione, diciam così, del giro della terra, ecc.
Ķico conchiude dicendo che questa nuova proprietà si sarebbe osservata tosto
che si fossero fatte dell'esperienze, in modo che la calamita avesse potuto
svilupparla. Non parliamo della ragione che mosse Vico a far questa congettura:
essa era figlia di una ipotesi forse falsa. E qual altra ragione può aver altro
fondamento che un'ipotesi, o qual altra ipotesi può dirsi vera? Del resto Vico
proponeva un'esperienza: dovea farsi e non si fece. Ma già da due secoli
l'Italia non mancava di sommi ngegni, perchè questi li producono il suolo ed il
cielo: però l'italiani più non navigavano, più non commerciavano; i overni non
si curavano di nulla ed i privati curavan solo lo studio delle leggi o della
medicina, dal quale speravan ric chezza, quello della teologia, che li
promoveva ad un canoni cato, e qualche sonetto, unico mezzo che un uomo
d'ingegno avea per vedersi aprire la casa d'un grande... ». (Giorn. it., 1804,
6 'ottobre, n. 120, p. 489, Senza titolo: vedi V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p.
244. 15 appariranno sempre meno grandi di quello che presu mono di essere, e
noi appariremo sempre più grandi di quel che noi stessi non crediamo. Se essi
poi di fatto « sono oggi più grandi di noi »; « non importa: appariranno sem
pre tanto meno grandi quanto più ci saranno vicini, e perderanno quella
riverenza che suole aversi per le cose lontane » (1 ). Ma in quest'esaltazione
dell'italianità l'autore del Sag gio storico non è cieco, anzi, laddove vede
una deficienza, la rileva, la rileva, direi, con crudeltà e freddo sguardo
d'anatomista. Gli italiani, per esempio, hanno rinvenuto quella filosofia delle
lingue che è una scienza tutta nostra, ma i piccoli nipoti, i discendenti di
quel Vico, che in essa tant’orma stampò, non che curarla, l'hanno abbando nata (2
): gli italiani hanno creato i più splendidi melo drammi e libretti, che si
conoscano, orbene, oggi essi stessi non sono capaci di darci nulla più di
buono, e la deca denza del libretto porta seco la decadenza della musica (3 ):
gli italiani un dì maestri nella difficile arte della sacra eloquenza, oggi
sono inferiori agli stranieri che da noi hanno appreso (4 ). Questa posizione
critica, che tanto distingue l'italiani smo del Cuoco da quello del Benincasa o
del Lomonaco, si rivela anche nel terzo mezzo dal molisano adottato per creare
un sentimento unitario: il ragionar di frequente delle cose nostre. « Delle
cose nostre o non ne abbiamo parlato, o ne abbiam parlato con insensato
disprezzo e con più insensata lode; cose le quali, sebbene opposte, pure per la
natura dello spirito umano, che oscilla sempre tra gli estremi, non sono
inconciliabili tra loro ». Delle cose nostre occorre invece ragionare
obiettivamente, senza (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 5. (2 ) Giorn.
ital., 1804, 25 febbraio, n. 24: Sullo studio delle lingue (ristampato in
Scritti vari, v. I, p. 78 e sgg., col titolo G. B. Vico e lo studio delle
lingue come documenti storici). (3 ) Giorn. ital., 1804, 8 ottobre, n. 121, p.
493: Spettacoli. (4 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (ristam
pato in Scritti pedagogici, pp. 16-22; ed ora in Scritti vari, v. I, pp. 89-92,
col titolo di Eloquenza ecclesiastica ). 227 accenderci troppo, con scienza e
ragione, e allora saremo davvero illuminati, e allora troveremo « mille volte
motivi di renderci migliori e non mai di crederci pessimi » (1 ). A questi
princípi superiori il nostro uniforma l'analisi, che, di volta in volta, fa dei
più importanti fenomeni del tempo. Recensendo, per esempio, un libro dell'avv.
An tonio Corbetta sulla malavita, (2 ) ritiene che tra le altre cause, che
questa alimentano, la più importante și debba ritrovare nell'educazione
insufficiente. « Noi non abbiamo costume ». « Noi non abbiamo educazione fisica
». « Noi non abbiamo educazione dello spirito. I figli del popolo non imparan
da fanciulli nulla di ciò che.... dovrebbero sapere quando sono adulti». Ecco
come Cuoco getta rapi damente la luce sul fenomeno, e dal fenomeno risale alle
cause, anzi alla causa per eccellenza, più remota, ma più vera. Provvedimenti
di sicurezza? Ma questi sono insuf ficienti per eliminare il male, una volta
note le cause de terminanti. Se volete estirpare la delinquenza, consiglia
Vincenzo, i mezzi non sono la reazione e il carcere, ma le istituzioni sociali
con una intensa opera di pedagogia preventiva. Che abbiamo fatto, si domanda,
in questo campo? Nulla. Ecco come un problema giuridico diviene un problema di
natura superiore, pedagogico, anzi filosofico: l'educa zione del popolo, di cui
il Cuoco è il più strenuo soste nitore, e che egli pone sovra basi nuove e
geniali. Ma questo problema, che poi è il fulcro del pensiero del mo lisano, il
problema insomma per eccellenza, noi esamine remo più a lungo, quando verremo a
parlare del Rap porto e Progetto di decreto per l'ordinamento della pubblica
istruzione nel regno di Napoli. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 6. (2)
Giorn. it., 1804, 20 agosto, n. 100, p. 410: Osservazioni di un ex giudice, ecc. L'opera filosofica di Cuoco nella Repubblica
e nel Regno italico non si esaurisce nei molte plici articoli del “Giornale
italiano”. La filosofia italica di Cuoco si continua nel “Platone in Italia”,
nuova ed alta testimonianza di quello spirito che vediamo in opera
ininterrottamente dai frammenti agli scritti del foglio milanese. Questo
sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello spirito e non fuori
di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e compenetra il suo Platone.
Quello stesso uomo, nota giustamente Hazard, che scrive che “ama di morir per
la sua patria,” con la sua Napoli, “poichè essa più non esiste”, mentre Cuoco vive ancora, ed aggiungeva che ad
essa ha consacrati tutti i suoi pensieri. Ora consapevole sempre di più di
quanto nel saggio storico ha pur detto, cioè che l'amore di patria nasce dalla
pubblica educazione. Ora scrive un saggio il cui solo fine è sempre lo stesso:
creare lo spirito nazionale, e crearlo, presentando quanto più spesso si possa
le memorie dei tempi gloriosi. Che questo e lo scopo del suo “Platone in Italia”
nessun dubbio. E Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone dice Cuoco, in una
lettera al vicerè Eugenio è “diretto a formar la morale pubblica degl'italiani,
ed ispirar loro quello spirito d’unione, quell’amor di patria, quell’amor della
milizia che finora non hanno avuto.” Il “Platone in Italia” di Cuoco perciò è
un romanzo a tesi, o, se volete, un romanzo didattico, se con ciò noi vogliamo
riferirci al suo fine, lasciando impregiudicata assolutamente l'ulteriore
valutazione filosofica. E chi lo legge con cura non può non accorgersi di
questo scopo, estrinseco sì all'arte, ma non allo scrittore, di questo scopo
che Cuoco persegue, e per il quale solo sembra vivere. La trama del “Platone in
Italia” in sè è tenuissima, tanto tenue che Cuoco quasi non se ne accorge, onde
appena l'abbozza per tosto sorvolarla. Un greco, Cleobolo, fa un viaggio
culturale nella Magna Grecia con il suo tutore, Platone. Platone e il suo
scolaro visitano le più importanti città d'Italia: Crotone, Taranto, Metaponto,
Eraclea, Turio, Sibari, Locri, Reggio, ecc., e conosce direttamente o
indirettamente i più fieri popoli della pe [ROBERTI, Lettere inedite di G.
Botta, U. Foscolo e V. Cuoco, in Giornale storico della letteratura italiana. La
lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari. Cuoco, Saggio storico. BUTTI,
Una lettera di V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al
Leopardi, per Nozze Scherillo -Negri, Milano, Hoepli. La lettera è ora ripro.
dotta in Scritti vari] pennisola, i sanniti e i romani, ammira le opere d'arte,
disputa di filosofia, si innamora di Mnesilla. Cleobolo stringe con Mnesilla un
bel nodo d'amore. La trama è questa. Ma vien meno dinanzi all'urgere d'un
contenuto didascalico svariatissimo, che la spezza, la frantuma, e in fine ce
la fa dimenticare. Nè il “Platone in Italia” è sotto questo riguardo un romanzo
originale. Anzi ha i suoi bravi antecedenti, tra cui sopra tutti importante
quel “Voyage du jeune Anacharsis en Grèce,” che ha una grande diffusione in
Francia e fuori, che ovunque ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior
parte de' casi, come nota il Sanctis, il viaggio di Platone e Cleobolo è “un
semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro contenuto,” che non sia quello
vero e proprio di descrivere paesaggi e monumenti. Lo scopo non è più il
viaggio. Lo scopo e l'espressione di certe idee e sentimenti, fatta più
agevole, con questo mezzo. I secoli XVIII e XIX amarono il romanzo viaggio,
come del resto anche il romanzo-epistolario, perchè col suo meccanismo si piega
ad ogni finalità. Il “Platone in Italia” di Cuoco anzi è nello stesso tempo
viaggio ed epistolario, è un insieme di lettere spedite visitando l'una dopo
l'altra le varie città d' Italia. Il viaggio, come forma letteraria, può
servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto. E cera, che può
ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi secondo il
capriccio dello scultore. È difficile trovare una forma più libera, più
pieghevole al vostro volere. Passate da una città in un'altra: nessun limite
trovate al vostro pensiero. Potete incontrarvi con gli uomini che vi piace;
immaginare ogni specie d'accidenti; saltare dalla natura ai costumi, da'
costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio; rin chiudervi,
tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere,
a vostro grado, sogni, ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloqui,
visioni e rac conti. Se voi vi proponete uno scopo particolare, questo v '
impone il tal contenuto, il tale ordine, la tal proporzione: insomma v’impone
un limite, che non procede dal mezzo liberissimo di cui vi valete, ma dal fine
che avete in mente. Ma se voi leggete l'opera del Barthélemy e la raffron tate
con l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà su bito agl’occhi, nell'alto
fine che il nostro scrittore s'è proposto e che nel francese, naturalmente,
manca del tutto. È il fine, quello che interessa il Cuoco, e che da lungo tempo
egli persegue ne' più vari modi. Il Giornale italiano, a questo proposito, ci
mostra come l'idea d'un viaggio educativo nei vari reami della storia si sia al
molisano altre volte presentata. Tra tante opere che ci si dànno ogni giorno,
buone, mediocri, cattive quella descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo
di Leone X, non sa rebbe certamente la meno utile per la nostra istruzione e
per la nostra gloria ». Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui
immagina che un suo amico conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà
un saggio in quel colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto (2
). Il fine dunque è quello che occupa l'animo del nostro, e questo domina
tutto, soffoca, purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia [Il
romanziere cerca di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una
deficienza fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione
scrive che la sua storia e rinvenuta in un antico manoscritto, autentico,
perchè ritrovato da suo nonno proprio fra le fondamenta d'una sua casa,
ergentesi sovra quel suolo ove un dì superba e Eraclea, manoscritto che è
lacerato in varî punti e perciò lacunoso, onde varje situazioni, prima
accennate, non sono poi svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una
scusa che non scusa nulla, poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non
nell'immaginazione del Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma [DÉ SANCTIS,
Saggi critici, v. III, pag. 290 e seg. (2 ) Giorn. ital., 1804; 21, 23, 25
gennaio; n. 9, 10, 11, pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà (vedi p. 163
del nostro lavoro ). (3) L. SETTEMBRINI] -noscritto dei Promessi Sposi è
nell'immaginazione di Don Alessandro. Perciò l'esiguità della trama si deve
unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte, pedagogici e didascalici.
E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega, sono e non sono. Noi li
vediamo e non li vediamo. Soprattutto, noi non li vediamo mai in azione, in
atto, con i loro caratteri e con le loro passioni. A rigore possiamo dire che
non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci – Platone e il suo scolaro
italiano -- appaiono, se mai, nella stessa funzione del prologo in certi
antichi componimenti teatrali, che si limita ad annunciare ciò che fu o sarà e
fa alcune sue considerazioni. Essi hanno perciò un nome, come ne potrebbero
avere un altro. Non sono essi quelli che contano, conta quel che dicono, o che
per essi dice Cuoco. Da questa condizion di cose, è evidente, scaturisce un
dissidio insanabile tra quello che è arte, e che perciò non ha nè può avere un
fine estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso dichiarato dall'autore: il
rammentare agl’italiani che essi furono una volta virtuosi, potenti, felici, he
furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo
spirito umano. Come il Vico nel “De antiquissima italorum sapiential” si pone
dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si debba trarre dalle origini
della lingua latina, quella filosofia che in antico dovè certo essere
professata dai sapienti italiani. Così il Cuoco si propone di dimostrare che,
nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra penisola, ve ne
furono di civilissimi, popoli, la cui civiltà fu persino anteriore alla civiltà
ellenica, che dalla prima riceve luce, e non viceversa. E come chi voglia
intendere il ”De antiquissima” non deve tenere nessun conto del suo titolo e
del proemio, e di tutte le vane investigazioni che qua e là, vi ricorrono dei
riposti con cetti, che, secondo Vico supporrebbero talune voci latine, per
considerare unicamente in sè stessa questa dottrina che Cuoco pretende
rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente e dell’anima italica, e
che non è altro che una dottrina modernissima, quale puo essere costruita da
esso Vico. Così chi voglia comprendere il vero spirito del “Platone in Italia”
di Cuoco deve prescindere dall'esil nucleo romantico, come dalla faticosa
ricostruzione archeologica, e considerarlo nella sua attualità. Esso non
esprime i pensieri nè di Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del Cuoco,
scrittore del Regno italico, meditante sulle proprie personali esperienze, e
non sulle esperienze di venticinque secoli avanti. All'anno di grazia vanno,
per esempio, riferite tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla
religione, sulle istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera di Vico è un'opera
dottrinale, filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile. L’opera
del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal punto di vista
dell'arte. Da ciò un insormontabile dualismo, onde noi veniamo risospinti
dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di Cristo, da
Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai giacobini
di Francia, da Alcistenide e Nicorio a Monti. E in questo urto di due visioni
opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove finisca la
finzione e cominci la realtà. La funzione è troppo evidente, perchè noi
possiamo ingannarci. V'è troppa erudizione, troppi richiami di testi classici,
e non solo greci, ma anche latini, medievali, moderni, perchè la fantasia possa
godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla, che disputa così
bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che conosce Vico? E chi è
quel Cleobolo, che cita opinioni del Filangieri e del Pagano, e parafrasa
persino versi del Petrarca? [GENTILE, Studi vichiani, p. 95. (2 ) L.
SETTEMBRINI, In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto. Così,
passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso sopraggiunge la
sera; e, mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore veglia,
innalzandosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che [ E chi è
quel Platone, che non ignora i princípi della nazionalità e con Archita disputa
di filosofia moderna! La contaminazione è troppo evidente, e la filosofia
pitagorica e platonica si mesce in uno strano viluppo con quella vichiana. Da
ciò, notiamo, scaturisce non solo, come abbiam detto una deficienza grande
nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza filosofica del Platone in Italia. È
questo un'opera d'arte? Un lavoro filosofico? Uno scritto politico? Nulla di
tutto ciò, e pure tutto ciò misto in una unità singolare. Non scritto storico,
perchè, a parte il valore molto discutibile del suo metodo, che egli si propone
di ragionare e giustificare più tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano
appunto l'incertezza del pensiero e l'oscurità da vincere, Cuoco è troppo
preoccupato da fini estrinseci alla storia, artistici ed educativi] non
filosofia, perchè Cuoco non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto dal
l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è patrimonio dell'antichità
con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della spiritualità del
reale. Non opera d'arte per ragioni sovradette, poichè Cuoco non riesce mai a
trovare in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che sola può generare
creature vive. L'arte «non c'è principalmente nota » il Gentile « perchè Cuoco
non si dimentica abbastanza in questa visione confortante, che a un tratto gli
sorge nell'animo, di un'Italia grande per virtù private e pubbliche, perchè
retta da una saggia filosofia. E corre a ogni po' col pensiero all'Italia per
cui scrive, all'Italia presente, piccola, inferma, senza spirito pubblico,
senza amor di grandezza, senza orgoglio di nazione, senza forze vive: e
ondeggia tra la statua brillano sul mio capo; e, dopoaverli riguardati ad uno
ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia immensa, la quale pare che
tutto circondi l'universo. Di là si dice che le nostre anime sien discese, ed
ivi ritorneranno e rimarranno unite per sempre! [G. GENTILE, Studi vichiani, p.
375. 235 che avrebbe da animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto;
e gli trema la mano ». Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del
tutto morta e caduca. Ci sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si
placa in una commossa visione d'amore, o in un paesaggio italico, ricco di
tinte forti calde sfumanti (1 ); poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un
fine, che, se è estrinseco all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre
in lui, e l'accende di sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma
una matura attività dello spirito, che, sia che [Per dare un esempio dell'arte
del “Platone in Italia” di Cuoco, trascrivo un brano, che già al RUGGIERI apparve
degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. Ieri sera sedevamo in quel
poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più delizioso
della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo propriamente sulla
sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la quale, ren dendo più
ristretto l'orizzonte, par che renda più ristretti e più forti i sensi del
cuore. Il sole tramontava; spirava dal l'occidente il fresco venticello della
sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del colle. Eravamo
soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue in quella
languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera, forse più
grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo in tempo
io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava; ella li
abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li rial zava,
quasi dolendole di non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello di cotogno?
— mi disse (e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi come il vento,
che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare che sfoghi tutta
la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello? Quanta verità è in
quei versi di Ibico: Il mio cuore è simile al cotogno fiorito, che il vento
della primavera afferra per la chioma e ne con torce tutti i teneri rami!... Tu
non hai detti tutti i versi di Ibico; no escləmai io tu non li hai detti tutti....
Esso è stato nudrito colla fresca onda del ruscello che gli scorre vicino; ma
nel mio cuore un vento secco, simile al soffio del vento di Tra cia, divora....
Io voleva continuare; ma ella mi guardò e le vossi.... Qual potere era mai in
quel guardo, in quell'atto?... Io non lo so; so che tacqui, mi levai e ritornai
in casa, se guendola sempre un passo indietro, senza poter mai più alzar gli
occhi dal suolo.”] eccesso e analizzi le antiche istituzioni del Sannio; sia
che valuti i germi della futura grandezza di Roma, sia che da questi discenda
ai fatti moderni, e indirettamente dica della rivoluzione francese e de'
popoli, che tra un l'altro amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare
la pace in un Napoleone, tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre
un uomo d'alta coscienza, con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo.
Noi dimentichiamo l'artista mal riuscito, il metafisico contaminato, lo storico
poco sicuro, ma ammiriamo il pedagogo, che dai dati concreti della storia umana
trae un non perituro insegnamento. Cuoco parla non a sè stesso, poi che non si
pone dal rigido punto di vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a noi, a
noi italiani; e per noi vibra, per noi di sputa, per noi parla. Platone non
parla al suo discepolo Cleobolo. Archita non parla ai suoi tarantini. Ponzio
non parla ai suoi sanniti. Ma tutti e tre, attraverso il Cuoco, si rivolgono a
noi, e il loro insegnamento mira a formare una più sicura anima italica. Certo
questa posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad insistere su punti
già precedentemente esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel Giornale italiano,
ma, se guardiamo l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo, le
ripetizioni non appariranno mai soverchie. Da noi non si tratta, dice il Cuoco,
di conservare lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera lunga,
spesso do lorosa. La tesi principale del ”Platone in Italia”, che del resto non
è una novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra penisola vi
sia stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca, quella etrusca, che
per il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore d'arte, della
quale civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore riverbero.
L'opinione, sia essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le origini
greche del pitagorismo sono indubbie, sia essa vera, come sostengono altri, per
cui l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà italiche è
parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui serietà
scientifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è fortemente compenetrato
di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo suo trema
d'intima com mozione e di passionata esaltazione. Al tempo del viaggio di
Platone, la Magna Grecia è in decadenza. Molte città, che già furono grandi,
vennero nelle civili dissensioni rase al suolo. Altre, che un dì dominarono
molte terre, sono ridotte a piccoli borghi. Stirpi, che hanno un passato
glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono nell'ozio e
nella effemina tezza. Ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose s'appalesano
i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne' monumenti
architettonici, vivi negli ordini civili, parlanti nelle costruzioni
filosofiche del pensiero e dell'arte. “Io credo, dunque,” dice Ponzio a
Cleobolo, “ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne'
tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricoltura, per armi
e per commercio. Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo. Troverai però
facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso
dirti io: che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro
imperio chiamavasi etrusco. Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia è assai
antica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicendano: l'una è scomparsa,
l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica, nelle
innegabili im migrazioni dei greci. Nel suo spirito è italica, erede della prim.
Pitagora, che la impersona, null'altro è che un mito, ma un mito italico, una
sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi tutta italica. Come nella
natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per cui la faccia della terra è
alterata, i monti si fendono ed aprono larghe valli, in cui scorrono nuovi
fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono alterato il loro corso, così
nella storia antiche catastrofi hanno distrutto una fiorttura senza pari e
modificato organismi civili possenti. Sappi dunque, dice Cleobolo a Platone,
riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto, che un
tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi etrusco.
Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze; e, de' due mari che, a modo
d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del popolo, Etrusco;
l'altro, dal nome di una di lui colonia, Adriatico. Antichissima è l'origine di
questi etruschi.. Le memorie della sua gloria si confondono con quella de'
vostri iddii e de ' vostri eroi. Ma chi potrebbe dirti tutto ciò che gli
etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri iddii? Oscurità e
favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però che gl’etrusci
estendevano il loro commercio fino all'Asia. Gl’etruschi signoreggiavano tutte
le isole che sono nel Mediterraneo, ed anche quelle che sono vicinissime alla
Grecia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità. Quest'impero però era
troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città che stato unitario,
onde esso avea in sè stesso il germe della dissoluzione. Non mai si era pensato
a render forte il vincolo che ne univa le varie parti. Ciascun popolo ha
ritenuto il proprio nome: era il nome della regione che abitava, era quello
della città principale. Che importa saper qual mai fosse? Non era il nome “etrusco”.
Ciascun popolo ha governo, leggi e magistrati diversi. Non vi e nè consiglio,
nè magistrato comune se non per far la guerra. Da ciò trassero origine grandi
mali che distrussero ogni organizzazione: La corruzione de' costumi produce la
corruzione delle arti, le quali sono de' costumi ed istrumenti ed effetti, e
poi generò la corruzione della religione, la quale, corrotta, accelera la morte
delle città. Perciò l'Etruria, o Italia, si sfasciò per legge naturale di cose.
Così cade, o Cleobolo, commenta il pellegrino Platone, qualunque altro impero
ove non è unità. Così cade la Grecia,, se non cessa la disunione tra le varie
città che la compongono, tra gl’uomini che abitano ciascuna città.
Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al l'unità. All'unità si tende ovunque
è virtù, il fine della quale è di render i cittadini concordi e simili. Nè
possono. esserlo se non son buoni. La vita istessa di tutti gl’esseri non è se
non lo sforzo degl’elementi, che li compongono, verso l'unità. Ovunque non vi è
unità, ivi non è più nè sapienza, nè virtù, nè vita, e si corre a gran giornate
alla morte. Ma la morte non è mai interamente morte, bensì tra sformazione,
cioè riduzione in nuove forme di vita, forme nuove, che della prima vita
mantengono alcuni elementi originari ed altri novelli acquistano. Così
l'Italia, divenuta deserto nella ruina, tosto si ripopola di genti, di città,
si organizza, si riabbellisce, e si ri presenta composta all'ammirazione
universa. Ma la civiltà italica, che possiamo dire pitagorea, nella sua essenza
è pur essa autoctona, se pure apparentemente ellenistica. Quando le colonie si
sono stabilite in Italia, le stirpi indigene dalle montagne eran discese al
piano, e due civiltà s'erano espresse. Noi disputiamo, osserva un italico a
Cleobolo, per sapere se i ellenici abbian popolata l'Italia o gl'italiani
abbian popolata la Grecia. Ed intanto è l'una e l'altra regione sono state
forse popolate da un popolo – l’ario --, il padre comune degl’elleni e
degl'italiani. Comune è perciò l'origine dei due popoli, ma, stanziatisi in
diverse sedi, gl’italiani hanno avuta una fioritura più precoce che non gl’ellenici,
che pure ai tempi di cui trattiamo, sembrano i più civili, i maestri degl’italiani
in ogni campo dell'umana attività. L'antico primato italico però ancor si
conserva, trasformato sì, ma sempre attivo, e si manifesta. Su questo primato
italico il Cuoco insiste, insiste, insiste calorosamente. E la sua tesi
nucleare. La pittura e in Italia già vecchia ed evoluta, allorquando Panco,
fratello di Fidia, «ipinse ne' portici di Atene la battaglia di Maratona, riempiendo
di stupore i suoi concittadini per la rassomiglianza che seppe mettere nelle
immagini dei duci greci e dei capitani nemici [Furono gl'italiani che primi danno
opera alle matematiche, e ne fecero un istrumento principale della loro
filosofia. Prima che Teodoro reca agl’elleni la scienza degli italiani, in
Grecia, le idee geometriche sono puerili, frivole, con traddittorie. Invece, gl'italiani,
potenti per un istrumento di filosofia tanto efficace, fanno delle scoperte
ammirabili in tutte quelle parti delle nostre cognizioni che versano sulla
quantità: nella geometria, nella astronomia, nella meccanica, nella musica; ed
hanno spinte al punto più sublime e più lontano dai sensi tutte quelle altre
che versan sulla qualità. La stessa arte della guerra e delle milizie in Italia
si perde nella remotezza de' secoli, onde ancora ai tempi di Platone gl’italici
mantengono indiscussa la loro superiorità. La guerra presso gl’elleni ancora è
duello, scienza rudimentale. Presso gl’italiani l’arte della guerra è savio
urto di masse e organica distribuzione di manipoli. La stessa legge, che regola
la convivenza nella penisola, e originaria e nazionale, frutto di una intima
esperienza sociale, e perciò nel loro complesso immuni da contaminazioni
eterogenee. Le romane XII tavole quindi non sono mai derivate, come alcune
storie vogliono, da Atene, poiché Atene nulla poteva dare a un popolo, come il
romano, discendente da popoli dell’ateniese più antichi. Vedete dunque, dice
Cleobolo ad alcuni legati di Roma, che una parte delle vostre leggi è più
antica della città vostra. Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che
voi dite aver imitate le leggi d’Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’
dieci e quelle dei re, le quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio
sotto il regno del buon Servio Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le
ripetete anche tra queste. Tali sono tutte quelle che regolano gl’auspici, l’assemblee
del popolo, il diritto di giudicar della vita di un cittadino, e che so io!
Queste dunque già esistevano in Roma; ed e superfluo correr tanti stadi e
valicare un mare tempestosissimo per prenderle da un popolo che non le ha. Tre
quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser imitato da noi. Vi rimane
una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può aver luogo l’imitazione,
perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un modo ed in un altro. Tali sono
le leggi sulla patria potestà, sulle nozze, sulle eredità, sulle tutele. Ma
queste cose sono dalle vostre leggi ordinate in un modo tanto diverso dal
nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori abbiano inviati de' legati in
Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per imparare, non ciò che
volevano, ma ciò che non volevano fare. Passando nel campo delle arti belle,
tra gl’elleni la poesia drammatica è meno antica che tra gl'italiani. Ben poche
olimpiadi, dice un comico italiano, Alesside, a Platone e Cleobolo, contate
dalla morte di Tespi e di Frinico, padri della vostra tragedia. Quando il
siciliano Epicarmo si ha già meritato quel titolo di principe della commedia,
che, più di un secolo dopo, gli ha dato il principe de’ vostri filosofi,
Magnete d'Icaria appena balbutiva tra voi un dialogo goffo e villano, che tutta
ancor oliva la rusticità del villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi
nasceva, tra noi era già adulta. I poemi omerici stessi nel loro nucleo
fondamentale sono stati elaborati in Italia, poichè di favole omeriche gl’italiani
ne hanno più degl’elleni, e quelle elleniche cominciano ove le italiche
finiscono. In tutto ciò noi non possiamo non notare il partito preso, la
volontà di dimostrare ad ogni costo quel che il Cuoco a priori afferma,
l'originario primato italico. Ma lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a
fare perdonarelo varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e Cleobolo
iniziano il loro viaggio per l'Italia, la Magna Grecia è in dissoluzione. I vari
popoli hanno fra loro relazioni saltuarie ed estrinseche. Non si sentono
fratelli animati da un'unica missione. Guerre, dissensioni, lotte sono
frequenti, donde scaturisce una condizione di perpetua incertezza. Vedi, da una
parte, l'Italia simile a vasto edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle
acque, dall'impeto del terremoto. Là un immenso pilastro ancora torreggia
intero, qua un portico si conserva ancora per metà. In tutto il rimanente
dell'area, mucchi di calcinacci, di colonne, di pietre, avanzi preziosi,
antichi, ma che oggi non sono altro che rovine. Ben si conosce che tali
materiali han formato un tempo un nobile edificio, e che lo potrebbero formare
un'altra volta. Ma l'antico non è più, ed il nuovo dev'essere ancora. È l'unità
che si è infranta, per cui alla primigenia unitaria forza statale è sottentrata
la debolezza della molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di
alcune stirpi, come i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma
questa molteplicità tende quasi per fatale legge di natura all'unità, e
dall'indistinto pullulare delle genti dove pur sorgere chi di esse fa una sola
gente, un nome unico: ‘Italia.’ Pure, se tu osservi attentamente e con costanza,
ti avvedrai che le pietre, le quali formano quei mucchi di rovine, cangiano
ogni giorno di sito; non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri. E mi par
di riconoscere un certo quasi fermento intestino e la mano d'un architetto
ignoto che lavora ad innalzare un edificio no vello. È la gran fede del Cuoco. Da questa unità o da
questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola. Tutta l'Italia, dice
Cleobolo, riunisce tanta varietà di siti e di cielo e di caratteri, e nel tempo
istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti, che per essi mi par che
non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella storia, come han dato
finora, gl’esempi di tutti gl’estremi, di vizi e di virtù, di forza e di
debolezza. Se saranno divisi, si faranno la guerra fino alla distruzione. Tu
conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in Grecia in molti
secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo. Cuoco però ha fede che
questo suo ideale non resterà mero ideale. Questo ideale si concreta in una
entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte vite darà
organizzazione e potenza. Cuoco dice che questo ideale non è nuovo, ma quasi
conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di continuo
risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora concepì l'ardito disegno di
ristabilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può durare. Pitagora volea
far dell'Italia una sola città; onde l’energia di ciascun cittadino ha un campo
più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a cozzare continuamente con
coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume facean nascer suoi fratelli e
la divisione degl’ordini politici ne costringeva ad odiar come nemici. E l'energia
di tutti non logorata da domestiche gare, potesse più vigorosamente difender la
patria comune dalle offese de’ barbari. Egli dava il nome di barbari a tutti
coloro che s’intromettono armati in un paese che non è loro patria, e chiama
poi barbari e pazzi quegl’altri, i quali, parlando una stessa lingua, non sanno
vivere in pace tra loro ed invocano nelle loro contese l'aiuto degli stranieri.
Egli sole dire agl'italiani quello stesso che Socrate ripete agl’elleni. Tra
voi non vi può nè vi deve essere guerra: ciò, che voi chiamate guerra, è
sedizione, di cui, se amassivo veracemente la patria, dovreste arrossire. Sia
stato Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia egli invece un'idea, un
mito elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene, nel quale esse han fatto
confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari esperienze, ciò dimostra
l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza collettiva del problema
unitario. Ma come attingere l'unità? Ritorniamo a posizioni che noi già
sappiamo. Il problema è un problema etico e pedagogico insieme. A questa meta
non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini civili. Onde non vi sia
chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e chi possa venderla. Ma
l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie della viltà e del vizio,
sia quasi co stretta a prender quella della virtù. È necessario istruir il
popolo. Un popolo ignorante è simile all'atabulo, che diserta le campagne:
spirando con minor forza il vento delle montagne lucane, porta sulle ali i
vapori che le rinfrescano e le fecondano. È necessario istruir coloro che
devono reggerlo. Un popolo con centomila piedi ha sempre bisogno di una mente
per camminare, e, con centomila braccia, non ha una mente per agire. Ma
quest'educazione pubblica, che occorre diffondere, non deve essere per sua
natura uniforme, uguale per tutti, bensì multiforme, varia, secondante le
infinite varietà che la natura umana ci offre: deve essere educazione vera,
cioè deve parlare agl’spiriti, e perciò deve essere in essi, e non fuori di
essi. Diversa perciò l'educazione della classe dirigente da quella delle classi
povere, diversa però non nell'intima qualità. L'una e l'altra si volgono alla
stessa natura umana e alle stesse potenze dello spirito. Un popolo, dicono
alcuni, il quale conoscesse le vere cagioni delle cose, sarebbe il più saggio
ed il più virtuoso de'popoli. Non è invero così. Riunite i saggi di tutta la
terra, e formatene tante famiglie. Riunite queste famiglie, e formatene una
città: qual città potrà dirsi eguale a questa! Nessuna, risponde il Cuoco o
Archita per lui. Essa non meriterebbe neanche il nome di città, perchè le
mancherebbe quello che solo cangia un'unione di uo mini in unione di cittadini.
La vicendevole dipendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura
la vita e la perfetta indipendenza dagli stranieri. È necessario perciò ai fini
dello stato che gl'indotti coesistano accanto ai dotti, come i poveri accanto
ai ricchi, perché si realizzi quell’armonica convergenza di forze distinte che
è la vita. Ciò, che veramente è neces sario in una città, è che ciascuno stia
al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e
l'altro, sono necessarie egualmente la scienza e la subordinazione. Diversa
sarà l'educazione dei poveri da quella dei dirigenti. Ma una educazione per i
primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere la loro stima. Non
perdete la stima del popolo, se volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che
disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica severissimamente i
maestri, e li giudica da quelle cose che sembrano spesso frivole, ma che son
quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto?
Quando si tratta d'istruirlo, tutt'i diritti sono suoi. Tutt’i doveri son
nostri, e nostre tutte le colpe. Al popolo occorre insegnare tutto ciò che è
necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile o più utile il
lavoro, più costante e più dolce la virtù. Al savio, invece, è necessaria la
conoscenza delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della medesima può render
più chiara, più ampia e più sicura la conoscenza delle stesse cose. Al volgo
conoscer le vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe farne quell'uso che ne
fanno i savi. È necessario però che ne conosca una, in cui la sua mente si
acqueti. E questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi non gli direte una
cagione, se la farneticherà egli stesso. Errano perciò i filosofi che credono
opportuno divulgare la filosofia è mettere il popolo a contatto con i sublimi
princípi della vita. Del resto ben diversa è la natura del dotto filosofo e del
popolano. Laddove il savio è ragione, il popolano è tutto senso e fantasia. Il
popolo è un eterno fanciullo che ha sempre più cuore che mente, più sensi che
ragione. E quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso linguaggio che
s'usa con il fanciullo, dan dogli in un certo qual modo cose e massime già
fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e parlarne con il
linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi. Se è vero che gl’esempi
muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono altro che esempi,
debbon muovere più degli argomenti. I proverbi, che a noi possono sembrare
inintelligibili, perchè ignoriamo i veri costumi dei popoli per i quali furono
immaginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo scopo prefissoci.
La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con mezzi diversi di
quelli che ci si offrono nella filosofia. La virtù è saviezza: la saviezza ha
bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo. I pregiudizi, gl’errori,
i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono come le onde del nostro
Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel bacino, che tu vuoi scavare a
poco a poco per formarne un porto. È necessità piantare con mano potente una
diga, che freni la violenza delle onde sempre mobili. Prima di avvezzare il
popolo a ragionare, convien comandargli di credere. E, per convincerlo che il
vero sia quello che tu gli dici, convien per suadergli, prima, che non possa
essere vero quello che tu non dici. Non cerchiamo l'uomo che abbia detto più
verità, ma quello che ha persuase verità più utili. E, se talora la necessità
ha mossi i grandi uomini ad illudere il popolo, cerchiamo solo se l'hanno
utilmente illuso. Sono queste conclusioni che già sono implicite nel saggio
storico, ma riescono sempre interessanti, sia per il loro intrinseco valore,
sia per la forma con la quale l'autore ce le prospetta. Questa educazione che
mira a far sentire l'interesse comune alla virtù, e quindi a radicarla in
eterno, deve precedere la stessa attività legislativa, se non si vuole che essa
cada nel vuoto. Quando tu avrai incise le leggi della tua città sulle tavole di
bronzo, nulla potrai dir di aver fatto, se non avrai anche scolpita la virtù
ne' cuori de' suoi cittadini. La legge e la costume sono i principali oggetti
di tutta la scienza politica. La prima risponde all'ordine eterno che è nelle
cose, sempre perciò buono e vero; i se condi invece presentano estreme varietà,
e, nella maggior parte dei casi, ci si presentano anzi che come correttivo
delle prime, come deviazione da esse; onde coloro, che traggono da una corrotta
natura de' popoli le norme obiettive del vivere, invece di evitare il male,
spesso lo sancisce, e la sua opera pedagogica manca. La legge è sempre una,
perchè la natura dell'intelligenza è immutabile. Mutabile è la natura della
materia, di cui gli uomini sono in gran parte composti; e quindi è che il
costume inclina sempre ad allontanarsi dalla legge. È necessità, dunque,
conoscere del pari la natura sempre mobile di questo fango di cui siamo
formati, onde sapere per quali cagioni i nostri costumi si allontanano dalle
leggi, per quali modi, per quali arti possano riavvicinarsi alle medesime; il
che forma l'oggetto di tutta la scienza dell’educazione. Nn di quella
educazione che le balie soglion dare ai nostri fanciulli, ma di quell'altra che
Licurgo e Minosse seppero dare una volta agli spartani ed ai cretesi. La
ignoranza di una di queste due scienze ha moltiplicati sulla terra i funesti
esempi di quei legisla tori, i quali, volendo tentare riforme di popoli, hanno
o cagionata o accellerata la loro ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle
sole idee intellettuali delle leggi ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li
hanno spinti ad una meta a cui non potevan pervenire, perdendo in tal modo il
buono che poteano ottenere, per avere un ottimo che era follia sperare; o,
conoscendo solo i costumi ed igno rando il vero bene ed il vero male, hanno
sancito i me desimi, ed han fatto come quel nocchiero, il quale, non conoscendo
il porto in cui dovea entrare, e servendo ai venti ed all'onde, ha rotto
miseramente il suo legno tra gli scogli. La legge però resterà sempre un astratto, se
gl’uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più conta, la sua
utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da pene, onde possa
con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da premi, onde possa
allettare alla virtù. Occorre parlare agli uomini un lin guaggio utilitario ed
edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa scienza, che si occupa
dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili sono senza premî e
pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so pra tutto delle pene
con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve studiare non tanto i
rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di essi rapporti, entità
concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto in veste d’educatore,
anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza delle pene e de' premî
» dice il Cuoco con perfetta sicurezza « appartiene alla pubblica educazione. La
legge, date alla città, hanno necessità di uomini atti ad eseguirle, che
veglino alla loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono nell'ordine eterno delle
cose, onde la filosofia a lungo le ha ritenute provenienti dalla divi nità.
Perciò il primo dovere degli esecutori è di comandare ne' limiti di esse, sovra
la loro base, poichè solo così si adempie l'universa volontà di Dio, o meglio,
s'attua l'ar monia immanente nelle cose. « Ora, ordinate le leggi di una città,
per qual modo ritroveremo noi gli uomini degni di eseguirle? Questa èla parte
più difficile della scienza della legislazione: perchè, da una parte, le buone
leggi senza il buon governo sono inutili; e, dall'altra, sulla natura del
migliore de’governi gli uomini son più discordi che su quella delle buone leggi.
Anche questo secondo problema è di natura spirituale e pedagogica: la
preparazione della classe dirigente, la sua natura, ecc. non possono non
rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto i caratteri e le forme. In
quanto al problema subordinato se sia da accogliere il governo di un solo, di
pochi, o di molti; il governo ereditario o l'elettivo; e tra quest'ultimo
quello regolato dalla nascita, dagli averi, dalla sorte, questo è un pro blema
essenzialmente relativo e che del resto abbiamo già storicamente esaminato in
altra parte di questo la voro. La risoluzione è offerta dal Cuoco in poche
parole che giova riportare. « Noi diremo il miglior de' governi esser quello
che non è affidato ad uno solo, perchè un solo può aver delle debolezze; non a
tutti, perchè tra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi
sempre sono gli ottimi. E questi pochi avranno obbligo di render ragione delle
opere loro, onde la spe ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare per
negligenza le leggi o a conculcarle per ambizione; e perciò divideremo il
pubblico potere in modo che le diverse parti del medesimo si temperino e
bilancino a vicenda, e, dando a ciascuna classe di cittadini quella parte a cui
pare per natura più atta, riuniremo i beni del governo di uno solo, di pochi e
di tutti. Ma piuttosto altre considerazioni occorre fare, che ci riportano ad
un punto troppo caro al Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo: le
considerazioni intorno alla religione. Abbiamo già visto i rapporti tra
autorità reli giosa ed autorità statale, il posto che la religione deve
occupare nello Stato, e lo abbiamo visto da un punto essenzialmente storico,
cioè in rapporto ai tempi del mo lisano: ora dobbiamo esaminare lo stesso
problema da un diverso punto, osservando quale posto può occupare la religione
nella formazione spirituale dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal
quale non si può prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali
credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter
colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite
dei cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte; quelli rende ranno vacillante
lo stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente costumi,
religione e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina. Il
bisogno della religione per il Cuoco non si basa tanto su ragioni ideali quanto
su ragioni pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione, s'eleva agli
occhi de'singoli e acquista maggiore rispetto. Nè è a dire che esso con ciò
menomi la religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso assorbe quel
che può assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della religione,
lasciando intatto il dommatico. I paesi, in cui i patrizi conservano
autorità, sono quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in questi paesi
la religione può moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose [ religione
e costumi, Stato e Chiesa) sono naturalmente inseparabili tra loro; perchè nè
mai religione emen derà utilmente i costumi se non sarà dipendente dal go verno;
nè mai religione, che non emendi i costumi e non ispiri l'amor della patria,
potrà esser utile allo Stato » (1 ). Ora concepite in questa maniera le due
classi dei ricchi e dei poveri, dei savi e degli stolti, il Cuoco riguarda la
vita pubblica come una loro armonizzazione continua, in una evoluzione
ininterrotta. Ricco non vuol dire a priori savio, ma è certo che il ricco,
coeteris paribus, può pro curarsi un'educazione superiore, che il povero non
può procacciarsi che in casi eccezionali, onde quasi sempre, nella sua
indigenza, resterà ignorante e spesso stolto. L'opposizione tra savi e stolti
si può in linea generalis sima presentare come opposizione tra patrizi e
plebei, op posizione delucidata anche dal fatto che i patrizi, cioè coloro che
nelle epoche primitive s'affermano negli Stati e perpetuano la loro posizione
dirigente per eredità di sangue e di censo, sono, per lunga consuetudine e
pratica pubblica, i più atti al reggimento civile, mentre i plebei, gente nova,
spesso portata su da súbiti guadagni, sono di solito inesperti e fiacchi,
perchè ignari del nuovo go verno della cosa statale. Il segreto della varia
vita delle città è nella saggia ar monia di queste due forze, l'esperienza
matura dei patres e la giovinezza audace delle classi nuove. Quelle nelle quali
i primi furono troppo fieri difensori dei loro diritti lan guirono: i patres
non vollero essere giusti, preferirono es sere i più forti, onde fu mestieri
che divenissero tirannici ed oppressori: conservarono i loro privilegi, ma il
prezzo di questi privilegi fu la debolezza dello Stato, che al primo urto
divenne preda dell' inimico. Quelle altre, in cui la plebe per atto
rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi diritti, ebbero sempre costituzioni
ispirate più dalla vendetta che dalla sapienza, e poterono durare, per lo più,
breve tempo, per turbolenze e dissensioni interne. Ben diversa è la vita degli
Stati, ove si giunge ad una reciproca graduale integrazione de' due opposti in
una vitale sintesi. È nell'ordine eterno delle cose che « le idee non possano
mai retrocedere », ed hanno vita felice soltanto « quelle città nelle quali e
la plebe ed i grandi vengono tra loro ad eque transazioni. Ma pur tuttavia il
Cuoco. concepisce la lotta di classe non solo come un utile spediente, purché
mantenuta ne' limiti della legge per giungere ad un buono e durevole reggimento
politico, ma come necessità di vita: e qui è un punto fermo della sua dottrina
politica, che nel suo saggio storico non appare, e che nel ‘romanzo’, “Platone in
Italia,” si rivela nella sua luminosa chiarezza. Or vedi tu questa lotta eterna
tra gli ottimati e la plebe, tra i ricchi ed i poveri? In essa sta la vita non
solo di Roma, di Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è, ivi
non è vita: ivi un giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le
passioni dell'uomo e, con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte
le più grandi imprese. Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro:
e che invidierebbe, se son tutti nulla? Quanto dura la vera vita di una città?
Tanto quanto dura la disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e
quasi diresti fatale, il quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè
dall'estrema ignoranza ed op pressione, e finisce nell'estrema licenza di
ordini, di co stumi, di idee. Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto,
fanno tutto, posseggon tutto. Se le cose si rima nessero sempre così, la città
sarebbe sempre barbara, cioè sempre fanciulla. È necessario che si ceda alla
plebe, poco a poco, ed in modo che non se le dia ne meno nè più di quello che
le bisogna: l'uno e l'altro ec cesso porta seco o pericolosa sedizione o
languore più funesto della sedizione istessa. È necessario che il popolo
prosperi sempre e che abbia sempre nuovi bisogni, per chè questo è il segno più
certo della sua prosperità. Guai a quella città in cui il popolo non ha nulla !
Ma due volte ma guai a quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È
segno che la miseria gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà
dell'anima, ma anche l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e
che consiste nel la gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con
modestia, e riceva con gratitudine, e non cessi mai di sperare » (1 ). Da
queste considerazioni il molisano trae una impor tante conclusione. Se la vita
è molteplicità, ma molte plicità non inorganizzata, bensì tendente ad unità, la
molteplicità è pur necessaria per attingere quella diffe renziazione di
funzioni, il cui convergere forma la felicità dello Stato. La vita di questo
perciò è varietà, e non può essere diversamente: l'uguaglianza assoluta è un'u
topia, anzi un'utopia dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi
saranno sempre i pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri; pochi
industriosi e molti scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I
partigiani de' primi si diran sempre patrizi, quelli de'se condi sempre plebei.
Allorquando la plebe avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più
avranno a cedere, allora, « dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si
vorranno eguagliare anche gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà
l'eguaglianza anco dei beni: e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose.
Eterne, perchè la ragione delle dispute sussisterà sempre: vi saranno sempre
poveri, vi saranno sempre uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno
di meritar molto. Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più
numerosa del popolo: i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali,
nulla avendo che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare....
Le assemblee diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I
cittadini dalle sedizioni civili passeranno alla guerra. Fra tanti partiti
nascerà la necessità che ciascuno abbia un capo; tra tanti capi uno rimarrà
vincitore di tutti. Ed avrà fine così la lite e la vita della città. Da ciò
scaturisce un'altra conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre
osservazioni circa la politica cuochiana: i più adatti al pubblico reggimento
non sono nè i ricchi, pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in
senso inverso dei ricchi, ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e
diversi aspetti, secondo i vari tempi e la mutevole realtà storica, è nello
stato. I migliori ordini pubblici sono inutili se non vengono affidati ai
migliori cittadini. Quelli sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini,
i quali fan sì che la somma delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi.
Ma dove sono gli uomini ottimi? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i
massimi, corrotti sempre dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città,
avviliti sempre dalla miseria. Ecco qui ritornare il concetto da noi già
esaminato di un governo temperato, equilibrio di forze opposte, e perciò
armonia e giustizia, la quale giustizia null'altro è se non obiettiva elisione
d'ogni antagonismo e d'ogni dissension. Ove avvien che siavi un ordine scelto,
ma nel tempo istesso la facoltà a tutti d'entrarvi, tostochè per le loro azioni
ne sien divenuti degni, ivi tu eviti gli scogli del l'oligarchia e della
democrazia. Il popolo non permetterà che i grandi, per gelosia di ordine,
trascurino il merito; i grandi non soffriranno che altri si elevi per via di
viltà e di corruzione: per opra de’secondi eviterai quella dissi pazione che
ne' tempi di pace dissolve le città popolari; per opra de' primi eviterai
quella viltà per cui le città oligarchiche temono i pericoli, e quel livore col
quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed ardito, e che vien dal timore dei
grandi di dover ricorrere al merito di un uomo il quale non appartenga al loro
numero. Queste città così temperate sono quelle che fanno più grandi cose delle
altre, perchè non vi manca mai nè chi le pro ponga nè chi le esegua. Soltanto
attraverso questa coscienza politica dei diri genti, attraverso
quest'educazione dei poveri, attraverso questa organizzazione di classi, sarà
possibile realizzare quell’unione che è nel pensiero del Cuoco: fare delle
varie stirpi italiche un popolo unico. Come nelle singole città è possibile un
contemperamento di interessi e di volontà singole, così nella più vasta Italia
è possibile un armo nizzamento di stirpi, di genti, d' ideali diversi. Ma,
mentre nelle città il processo d’unità procede dal l'interno all'esterno,
poichè una tirannia imposta estrin secamente è sempre nociva e deleteria;
nell'Italia il processo unitario può essere affrettato dalla conquista e poi
cementato dall'opera pubblica e pedagogica, dalla religione unica e dalla legge
unica. Il primo effetto della filosofia, dice il Cuoco, è quello di avvezzar
gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo di distrug gersi, ma di
difendersi. E e, aggiungiamo noi, si di fende spesso più validamente colui,
che, essendo forte impone la sua ragion civile, la sua legge agli altri, e non
si assopisce in una pace senza parentesi d'attività belli gera, assopimento che
può diventare anche sonno e poi ancora morte. La conquista perciò non deve
rimanere mera conquista, cioè estrinseca forza, ma deve conver tirsi in
attività pubblica, imporsi alle volontà, plasmarle di sè, unificarle nel nome
d'un superiore verbo, il diritto. Questa, ammonisce il Cuoco, è la missione
d’un popolo tra i tanti popoli della penisola, che Platone e Cleobolo nel loro
viaggio incontrano, missione divina, missione il cui spiegamento d'altra parte
è nell'attualità della storia. Certo Platone e Cleobolo, nel frammentarismo
italico del V secolo, non avrebbero mai potuto dire quel che Vincenzo pone in
bocca loro; ma le loro osservazioni, per quanto il nostro spirito critico le
riferisca all'autore del romanzo, non possono non commoverci, e la commozione è
in noi com'è nel molisano. In una prima età, scrive Platone all'amico Archita,
le città vivono pacificamente, e perciò s ' ignorano; ma in un secondo tempo si
conoscono, e quindi si fanno guerra, o con le armi o con le sottigliezze del
commercio; ma questa conoscenza e questa guerra non sono mai distruzione, ma
reciproca integrazione: « da questa vicendevole guerra, sia d'armi, sia
d'industria, io veggo un'irresistibile ten denza di tutte le nazioni a riunirsi;
e, siccome ciascuna di esse ama aver le altre piuttosto serve che amiche...,
così veggo che, ad impedire la servitù del genere umano ed a conservar più
lungamente la pace sulla terra, il miglior consiglio è sempre quello di
accrescer coll' unione di molte città il numero de' cittadini, prima e
principal parte di quella forza, contro la quale la virtù può bene insegnare a
morire, ma la sola cieca e non calcolabile fortuna può dar talora la vittoria ».
« Non pare a te » continua il filosofo antico caldo ne' suoi accenti e
attraverso lui il magnanimo Cuoco « che la natura, colle diramazioni de' monti
e de' fiumi, col circolo de' mari, colla varietà delle produzioni del suolo e
della temperatura de'cieli, da cui dipende la diversità de' nostri bisogni e
de' costumi nostri, e colla varia mo dificazione degli accenti di quel
linguaggio primitivo ed unico che gli uomini hanno appreso dalla veemenza de
gli affetti interni e dall'imitazione de’vari suoni esterni; non ti pare,
amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli abitanti di ciascuna regione: — Voi
siete tutti fratelli: voi dovete formare una nazione sola? Da ciò scaturisce la necessità della conquista
come mezzo per affrettare dall'esterno un processo naturale: chi si assume
questa missione, diviene arbitro e stru mento della Provvidenza, Provvidenza
che per il Cuoco, come del resto per Giambattista Vico, è nell'immanenza della
storia, piuttosto che nella celeste trascendenza del divino posto fuori di noi:
questo l'intimo concetto, se pur qualche volta tradito dall'esteriorità delle
parole e dei simboli, nonchè da una certa oscillanza di pensiero. In Italia,
intuisce Platone, un solo popolo sarà di ciò capace, il romano, che sovra la
fiera rudezza dei san niti, sovra la imbecillità effeminata dei greci del mez
zodì, sovra la volubilità dei galli del Nord imporrà la sua legge, il suo
diritto, strumento d’universale civiltà, e che, in un lontano avvenire, venuto
a contatto con i cartaginesi e poi con i greci, non solo li debellerà come
entità politiche, ma solo s'assiderà dominatore del Me diterraneo e del mondo. Rimarrà
un solo popolo dominatore di tutta la terra, innanzi al di cui cospetto tutto
il genere umano tacerà; ed i superbi vincitori, pieni di vizi e di orgoglio,
rivolge ranno nelle proprie viscere il pugnale ancor fumante del sangue del
genere umano; e quando tutte le idee liberali degli uomini saranno schiacciate
ed estinte sotto l'im menso potere che è necessario a dominar l'universo, e le
virtù di tutte le nazioni prive di vicendevole emula zione rimarranno
arrugginite, ed i vizi di un sol popolo e talora di un sol uomo saran divenuti,
per la comune schiavitù, vizi comuni, sarà consumata allora la vendetta degli
dèi, i quali si servono delle grandi crisi della natura per distruggere, e
dell'ignoranza istessa degli uomini per emendare la loro indocile razza. Grande
sogno questo, in cui vibra tutto l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma
che noi critici non dob biamo lasciare nel passato inerte e perciò morto, come
quello che non ritornerà più, ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel
presente del 1806, che noi vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa
e menomata da straniere superfetazioni, sia pur benigne come quelle
napoleoniche, l'unità era davvero un sogno; nel nostro presente, nella nostra
vita, che non è stasi, ma divenire, e perciò slancio, espansione, conquista
prima di noi stessi, della nostra maggiore unità, e poi del vario mondo dei
commerci e delle genti, che noi non vogliamo lasciare fuori di noi, inerte
grandezza da contemplare taciti am miranti, ma rendere nostre, per la nostra
civiltà, che è civiltà latina. Considerato da questo punto di vista altamente
poli tico, prescindendo da ogni considerazione artistica o filo sofica, il
Platone in Italia riacquista una grandissima importanza, « riacquista » come
ben dice il Gentile « tutto il suo valore, ed è la più grande battaglia,
combattuta dal Cuoco, per il suo ideale della formazione dello spirito pubblico
italiano. È l'animato ricordo d'un tempo che fu e d'una grandezza, che sta a
noi rinnovel lare, in cui tutta l'Italia si pose maestra di civiltà tra i
popoli, che da essa appresero le cose belle della vita, la poesia, il teatro,
la musica, la scultura, la pittura, che da essa intesero i primi precetti del
vivere e le norme de ' savi reggimenti; in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi
scussa, che nella storia non si ripresenterà più se non forse nel Rinascimento:
ma, oltre che ricordo, è nello stesso tempo vivo presente, perchè molte
considerazioni che si fanno riferendosi all'Impero etrusco, alla Magna Grecia,
a Roma calzano nella loro semplicità, s'adattano alla nostra travagliata vita
moderna: ciò fa del Platone un libro, la cui importanza trascende la sua
deficienza artistica, il suo ibridismo filosofico. Perciò un solo raffronto
legittimo, quello tra il Platone e un altro grande libro, il Primato morale e
civile degli italiani, come quelli il cui obietto è uno solo, e la materia
alfine è pur essa comune: un'alta nazionale pedagogia politica. Questo
parallelismo fu prima accennato dal Gentile (2 ), ma poi sbozzato da un
francese, acuto studioso del Cuoco, al quale nel nostro studio abbiamo
frequentemente cennato, Paul Hazard (3 ). ac (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani,
p. 386, (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 387. (3 ) P. HAZARD, op. cit., p.
246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5 raffronta il Cuoco e il Gioberti e dice
che il “Platone in Italia” è la preparazione del Primato morale e civile degli
Italiani. Il principio genetico dei due libri è lo stesso: una na zione non può
esplicare le forze vere, che sono in essa in potenza, nè può di esse usare, se
non ha la coscienza d'avere queste forze, o almeno la coscienza di poterle
sviluppare, e quindi dispiegare nella storia: perciò bi sogna nutrire un
orgoglio nazionale, che, basato sulla concreta realtà, è legittimo, non
arbitrario. Ma, d'altra parte, laddove il Primato giobertiano, pur riannodan
dosi, attraverso le glorie romane, alle remote genti italo pelasgiche, trova il
suo asse, il suo fulcro nel Papato, espressione di purità religiosa e
d'originaria sapienza, e si rinnoverà, se il presente sarà a sufficienza legato
al passato, cioè alla tradizione medievale- cattolica; il Cuoco, pur mantenendo
ferma la remotissima storia italo -pela sgica ed estrusca e poi ancora romana,
pur riconoscendo l'alta missione civilizzatrice della Chiesa nel Medio Evo,
questo primato vuol rinnovellare solo nel gioco delle li bere forze, espresse
da quella tragica crisi che è la rivo luzione francese ed italiana, nel loro
sviluppo, e nello spiegamento della loro maggior coscienza; nello Stato laico,
insomma, che afferrni sì la religione, come luce alla plebi, ma affermi pure
una sua intima naturale ra gione, che con la religione non ha nulla a che fare.
E in quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle quali bisogna
parlare, perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la volontà di
Stato realmente Stato, Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande, Mazzini,
tanto diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella visione del
futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione nazionale nel
pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola. - I tre caratteri di una educazione
nazionale: universalità, pubblicità, uniformità. - Tre gradi in una completa
educazione: scuola elementare, media, universitaria. - Morale e religione nella
scuola. - Educazione filosofica. Quanto sopra abbiamo detto segna ben precisa
la po sizione di Vincenzo Cuoco come politico e pedagogo nel Regno italico. Il
Platone e gli scritti del Giornale italiano sono i do cumenti luminosi del
periodo milanese della vita del l'autore, e basterebbero a dargli una gloria
non dubbia nelle lettere del nostro paese, confortata anche da una amicizia
intellettuale, che egli godette con uomini come il Monti e il Manzoni (1 ). Con
il 1806, ritornati i francesi oramai a Napoli, Vin cenzo pur esso riede in
patria, preceduto da una vasta notorietà e annunciato da missive ufficiali del
governo di Milano per quello meridionale. È l'ultimo tratto della nobile vita
del molisano, che, attraverso una fiera ma (1 ) B. LABANCA, op. cit., p. 409;
N. RUGGIERI, op. cit., p. 48; B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 172; G.
GEN TILE, op. cit., p. 389. 261 lattia di nervi e di mente, si concluderà il 13
dicembre 1823 con la morte, tratto di vita, che è pur ricco di atti vità
pubblica, per cui il nostro attinge cariche supreme (1 ), nonchè di un'opera
dottrinale e pratica nello stesso tempo (2 ), il Rapporto e il Progetto di
decreto per l'ordi namento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli, che
di per sé sola basterebbe ad assicurargli un posto eminente tra i pedagogisti
dell'epoca, Rapporto, che, seb bene tragga « occasione da un incarico
speciale.... agli inizi del regno murattiano » non è « il prodotto dell’oc
casione, poichè come vedremo, risponde nelle linee prin cipali, a idee
profondamente maturate dal Cuoco in tutta (1 ) G. GENTILE, op. cit., p. 390. (2
) Oltre il Rapporto il Cuoco lavorò in vari campi dello sci bile, e della sua
attività sono documento varie pagine raccolte nel secondo volume degli Scritti
vari. Del Rapporto e del Pro getto di decreto esistono numerose edizioni: una
prima, senza data e senza frontespizio, fatta a spese del governo prima del 10
ottobre 1809 per tenere il luogo del manoscritto nelle distri buzioni che del
Rapporto e del Progetto si fece al re, ai mini stri e ad altre autorità, e
quindi non pubblica; una seconda, che dovea essere il primo volume delle Opere
di V. Cuoco, raccolta iniziata nel 1848 a speso di Luisa de Conciliis, nipote
del gran molisano, e naturalmente non venuta mai a compi mento, edizione che
porta il titolo: Progetto di decreto per l'or dinamento della pubblica
istruzione seguito da un Rapporto ra gionato per V. Cuoco (Napoli, Migliaccio,
1848); una terza infine, che uscì alla luce nel primo tomo della Collezione
delle leggi, de' decreti e di altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione
promulgati nel già Reame di Napoli dall'anno 1806 in poi (Na poli, Fibreno,
1861). Sovra queste edizioni, tutte e tre scor rette, il Gentile trasse la sua
edizione critica del Rapporto e del Progetto, corredata di documenti e note bio
-bibliografiche illustrate, che inserì negli Scritti pedagogici inediti o rari (pa
gine 49-276 ). I criteri critici di collazione delle tre suddette edizioni,
seguìti dal Gentile, non furono dismessi da N. Cortese e da F. Nicolini, che
dovettero far posto sia al Rapporto che al Progetto negli Scritti vari (v. II,
pp. 3-161 ), correggendo ta lune sviste e supplendo in talune omissioni il loro
illustre pre decessore. Nonostante che gli Scritti vari abbiano visto la luce,
allorquando questo lavoro era già compiuto, le citazioni sono state su di essi
rivedute definitivamente anche per la parte pedagogica. 262 ī la sua carriera
di scrittore e di uomo politico, in rela zione con le questioni fondamentali
del tempo suo » (1 ). Evitando di entrare nell'analisi dei fatti, che al Rap
porto precedettero e che perciò lo determinarono, perchè oramai sufficienza
noti, vengo a studiare le idee che in esso si agitano ed i loro addentellati
con tutto il pen siero cuochiano. L'istruzione è la chiave di volta d'ogni sistema
po litico. E, come ogni sistema politico mira al benessere sociale, in quanto
questo è realizzato eticamente dallo Stato, così chi questo benessere vuol
attuato, deve ope rare col mezzo dell'istruzione e della scuola. Il Cuoco vuol
rendere grande uno indipendente il popolo italiano, dan dogli veramente il modo
di formarsi una coscienza na zionale. Ma praticamente come? Con la scuola. « La
sola istruzione, risponde, può far diventare volontà ciò che è dovere. La sola
istruzione può renderci l'antica gran dezza e l'antica gloria » (2 ). Il
termine di riferimento di questa istruzione è pur sempre il popolo, nel di cui
spi rito dovranno essere alimentate le più nobili idealità pub bliche e civili,
alimentate da un lato dall'opera giorna listica, dall'altro dalla scuola. Per
comprendere questo punto occorre riferirsi, aver presenti le condizioni del
popolo e della scuola ne' primi decenni del secolo XIX. Di chi era la scuola?
Non certo del popolo, il quale, assente in tutte le manifestazioni della vita,
era assente anche nella scuola. Di chi dunque? Di pochi fortunati, dotati dalla
sorte dei mezzi necessari, onde formarsi quel che si suol dire una cultura: i
nobili, i possidenti delle campagne, i borghesi e i commercianti nelle grandi
città. La rivoluzione ha il grande merito di avere richiamato l'attenzione dei
governanti sulle masse popolaresche, ha il merito di aver compreso che solo
queste sono il nucleo dello Stato, e che cointeressarle alla cosa pubblica equi
vale eternare lo Stato stesso. Ma la rivoluzione non po (1 ) G. GENTILE, op.
cit., p. 336 e sg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 3. 263 teva dare nel
campo educativo, e in generale formativo, buoni risultati, dato il suo
astrattismo e la sua filosofia, troppo razionalista, lontana com'era dai
bisogni e dagli interessi delle classi basse. Il Cuoco di contro accetta il
postulato rivoluzionario, per cui dal popolo non si pre scinde, ma lo rinnova
col suo concreto senso storico della realtà: bisogna, dice, non elevare il
popolo alle nostre supreme idee di libertà, di virtù, di moralità, che, in
quanto assolute, esso non comprenderà, ma noi discen dere a lui, entrare nel
suo spirito, nel suo sistema men tale, e, attraverso un progresso graduale e
lento, mostrar gli l'utilità, oltre che la necessità ideale, della libertà,
della virtù, della moralità. Questo compito, essenzial mente pratico, si può
assolvere con la scuola, che prende l'uomo fanciullo, e lo conduce
all'adolescenza, e magari alla gioventù, maturandone i sentimenti con un
processo intimo ed interiore, non mai estrinseco e forzato. Sol tanto così il
popolo entrerà nello Stato, rafforzandolo e potenziandolo. Sentite come ragiona
il Cuoco. « Le rivoluzioni » scrive « sogliono svelare il gran segreto della
forza di quel po polo, che ne' tempi di tranquillità suol esser la parte pas
siva di uno Stato. La rivoluzione francese lo ha messo in istato di produrre
grandi beni e grandi mali: la sua condizione è cangiata in gran parte degli
Stati dell'Eu ropa. Chiamarlo a parte della difesa dello Stato e delle leggi
senza istruirlo è lo stesso che renderlo pericoloso, facendogli fare ciò che
non sa fare. Volerlo ritenere inu tile, qual era prima, è lo stesso che voler
condannare lo Stato a perpetua debolezza esterna, a frequente disordine
interno. Debolezza, perchè è sempre debole quello Stato che non è difeso da’
cittadini, e non sono cittadini co loro che occupano col loro corpo sette palmi
di terra in una città, ma bensì coloro che contano tra i loro doveri l'amarla
ed il difenderla. Disordine, perchè le leggi e le istituzioni politiche non
hanno la loro garanzia se non nella volontà del maggior numero, e, se questo
maggior numero non è istruito, o non ha volontà o spesso ne ha una contraria
alla legge.... Tutto in Europa mostra la 264 necessità di dare al popolo, e
specialmente alla classe degli artefici e degli agricoltori, una nuova
educazione ed ispirargli l'amor della patria, delle armi, della gloria
nazionale » (1 ). Indietro non si torna ! Avranno i conser vatori tutte le loro
buone ragioni per fossilizzarsi in forme statali superate, ma essi non potranno
mai negare al popolo, quello che a lui si deve: l'educazione, A coloro che
obiettano che il popolo è un ammasso inemendabile di vizi e di passioni è
facile rispondere. « E pure tra questo popolo noi viviamo; questo popolo forma
la parte più grande della nostra patria, da cui di pende, vogliamo o non
vogliamo, la nostra sussistenza e la difesa nostra; e noi abbiam core di dormir
tran quilli, affidando la nostra sussistenza e la difesa nostra a colui che noi
stessi reputiamo pieno di ogni vizio ed incapace d'ogni virtù? ». A coloro poi
che dicono il popolo essere senza mente, o che ripetono il vecchio sofi sma
aristotelico, esservi uomini nati a servire ed altri nati a governare, è pur
facile controribattere. « Ebbene questo popolo nato a servire, questo popolo
che non ha mente, è quello che tante volte vi fa tremare con quei delitti, ai
quali lo spingono quella miseria, quell’ozio, quella roz zezza in cui, per
mancanza di educazione, voi lo lasciate. Se la religione non avesse presa un
poco di cura della educazione sua, qual sarebbe mai questo popolo? ». Oggi non
si può tornare indietro: il bisogno dell'edu cazione è immanente, sentito da
tutti, sovrani e sudditi, governanti e governati. « Non mai il bisogno dell'educa
zione è stato maggiore. Tutti gli usi antichi, che tenevan luogo di precetti,
vacillano: gli uomini, dopo i troppo vio lenti cangiamenti di ordini e d'idee,
soglion cadere nel l'anarchia de'costumi, che è peggiore di quella delle leggi.
Non mai vi è stato bisogno maggiore di educare quella (1 ) Giorn. ital., 1804;
n. 61, 62, 75; 21, 23 maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp. 303-304:
Educazione popolare (ri stampato in Scritti pedagogici, p. 23 e sgg.; ed ora in
Scritti vari v. II, pp. 93-102 ). 265 parte della nazione che chiamasi popolo e
diffonder l'istru zione ne' villaggi e nelle campagne ». Per queste sue
considerazioni il Cuoco si ricollega al grande pedagogista prerivoluzionario, a
Jean- Jacques Rousseau, il solo forse che primo sentì le vive pulsanti forze
del popolo nuovo ed il bisogno di provvedere alla di lui istruzione,
riferendosi alla sua natura e all'evolu zione delle sue facoltà (1 ). A chi noi
daremo mai questo alto compito di creare degli uomini consapevoli del loro
posto nella società ! La risposta del Cuoco non è dubbia. Dato il carattere
etico -giuridico che egli attribuisce allo Stato, è ovvio che l'educazione
debba essere impartita, o almeno control lata, dallo Stato. L'educazione mira a
formare buoni cit tadini: è naturale dunque che lo Stato » volontà collet tiva,
somma di volontà individuali, da essa non possa prescindere. « Posto questo
bisogno nello Stato » osserva giustamente il Gentile « di consolidare sempre
più le pro (1) Del resto il concetto di natura e quello d'educazione e di Stato
nel Rousseau hanno un significato ben più profondo di quanto generalmente non
si creda. Vedi a questo proposito il libro di G. DEL VECCHIO, Su la teoria del
contratto sociale, Bologna, Zanichelli, 1906, p. 32. « È.... massima (del Rous
seau ) che nella realtà si distingua ciò che è fattizio, ossia sopravvenuto per
arbitrio ed arte dell'uomo, da ciò che è na turale, ossia fondato nell'essenza
medesima della cosa. Questo ha valore di norma rispetto a quello. La natura è
dunque per Rousseau il principio del dover essere, più ancora che quello
dell'essere. Essa esprime la realtà in un senso filoso fico e non già fisico;
rappresenta la sua ragione e non la sua contingenza ». Ma questa concezione
della natura, propria del Rousseau, nel Cuoco viene integrata e corretta, come
nota il GENTILE (Studi vichiani, p. 419), con la concezione storica dello spirito.
« Ed è in verità non una contaminazione delle due filo sofie, ma la schietta
pedagogia del Vico, che aveva più salda mente fondata (benchè con fortuna
storica senza paragone minore) che non il Rousseau, il motivo di vero del suo
natu ralismo: l'autonomia dello spirito ». A due distinte fonti oc corre
ricondurre la pedagogia cuochiana, al Rousseau che gli dà vivo il senso
dell'essenza prima d'ogni realtà, al Vico che gli dà la consapevole riduzione
della stessa realtà allo spirito nella sua dialetticità. 266 prie basi nella
coscienza nazionale, è evidente che l'istru zione, come pensavano i pedagogisti
della Rivoluzione francese, e come prima aveva insegnato il Montesquieu per lo
Stato democratico, è funzione di Stato. Poichè lo Stato si regge sulla
coscienza nazionale, e questa si forma con l'istruzione pubblica, rinunziare a
questa è per lo Stato un assurdo: sarebbe come rinunziare a sè stesso » (.1).
Il compito educativo certo non si esaurisce nella scuola, ma questa trascende:
l'ecclesiastico, il filosofo, il legi slatore tutti e tre mirano allo spirito e
al suo sviluppo, ma la loro opera è di necessità insufficiente, se non è in
tegrata dall'attività generale e pubblica dello Stato. Scuole di morale, laiche
od ecclesiastiche, possono pur vivere, occorre però che lo Stato le controlli,
e le adatti sempre meglio allo scopo, alla finalità che esso si pro pone, e le
riconduca a questo, ove se ne allontanino. Sarà perfetta quella città, quello
Stato, in cui il sa cerdote, il filosofo e il legislatore si saranno messi di
ac cordo, e concorreranno ugualmente all'educazione del popolo. Stabilito il
punto primo che l'educazione deve essere dello Stato, ancorchè sia educazione
religiosa, fissiamo i suoi caratteri: essa deve essere in primo luogo univer
sale, poi pubblica, infine uniforme. L'educazione deve essere universale. Il
Cuoco concepi sce la vita da un punto di vista spiritualistico. Vita non è
vegetazione o deambulazione, è coscienza della propria posizione nel mondo,
perciò è innanzi tutto attività dello (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 408.
Noto a questo propo sito come soltanto tenendo presente il concetto di Stato
qual'è nel Rousseau, il Cuoco poteva giungere a concepire uno Stato educatore.
« Quando il Rousseau parla (Vedi DEL VECCHIO, op. cit., p. 33) della « nature
du corps politique », non intende con ciò di riferirsi alla guisa onde lo Stato
si presenta nei fatti; ma alla ragione dell'essere suo ingenerale, all'esigenza
suprema, cui esso ha da corrispondere.... La libertà e l'uguaglianza, fon date
nell'essenza stessa dell'uomo, debbono aver nello Stato la loro assoluta
sanzione ». E la libertà e l'uguaglianza bisogna intendere in un senso
spirituale e non empirico, intimo e non estrinseco. 267 spirito. Lo spirito è
qualcosa di inscindibilmente uni tario, onde l'educazione dev'essere
inscindibilmente uni taria. Tutto, scienze ed arti, scienze fisico - naturali e
scienze morali, debbono convergere ad un sol centro, lo spirito. I secoli
barbari potranno dire « non esservi alcun rapporto tra le scienze e le arti » (1
); i secoli di pro gresso, in quanto più hanno consapevolezza della realtà
mirano ad unire le disiecta membra di quel che in astratto sarà questa o quella
scienza a noi precostituita, ma che in concreto non è che una elaborazione
dello spirito, una nostra formazione, e nello spirito attinge l'uni versale.
Perciò, dice il Cuoco, « noi adopriamo la parola istruzione nel suo più ampio
significato; ed in ciò, oltre d'imitare tutta l'Europa colta, abbiam la gloria
di se guire gli esempi domestici. I nostri pittagorici, forse i più savi
istruttori di tutta l'antichità, niuna parte della vita umana escludevano dalla
pubblica istruzione » (2 ). L'educazione, in secondo luogo, deve essere
pubblica. L'Italia è sempre stata una terra feracissima di ingegni, ricca di
uomini grandi, ma costoro, maturatisi in am bienti apatici e morti alla
cultura, hanno molto contri buito alla propria gloria, poco alla gloria dello
Stato e al benessere della collettività. Poichè « la nazione non era istruita,
essi fecero molto per la gloria loro, nulla o poco per l'utilità della patria;
tra essi ed il popolo non eravi nè lingua intelligibile, nè mezzo alcuno di
comunica zione » (3 ). Occorre quindi che lo Stato dia un'istruzione ai suoi
cittadini, onde le loro forze non vadano disperse, ma convergano sempre più e
meglio ad un fine unico,. il progresso civile. Ma il fatto che l'istruzione sia
pubblica e statale si gnifica dunque la morte delle scuole private, specie in
un paese come l'Italia ed in particolare Napoli, ove la scuola privata ha una
storia nobilissima? No certo: le scuole private sussistano pure gestite da
chiunque, ma (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 4. (2 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. II, p. (3) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 4. 5. 268 lo Stato ha
l'alto controllo a che i maestri siano degni e moralmente e culturalmente, a
che la materia d'in segnamento sia comune a quella delle scuole pubbliche, a
che non si propaghino per mezzo loro dottrine con trarie all'ordine pubblico e
alla moralità media della società. Il fatto però che l'ente pubblico, cioè lo
Stato, dia una educazione ai suoi cittadini non significa che tutti i cit
tadini debbano divenire altrettanti dotti. Lo Stato non pud perseguire questo
fine. Ricordiamo quel che il Cuoco dice nel Platone in Italia, laddove osserva
che una città di soli savi non meriterebbe nemmeno il nome di città, perchè le
mancherebbe ciò che solo tramuta una congre gazione d’uomini, in città, in
Stato: « la vicendevole di pendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata
e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stra nieri » (1 ). Accanto al
savio è necessaria la coesistenza della massa dei non savi, e in questa è poi
necessaria una ulteriore differenziazione di funzioni, per cui l'agricoltore
non sia calzolaio, il muratore non sia mugnaio. Coloro che si propongono un
assoluto illimitato eleva mento intellettuale del popolo cadono nell'errore,
poichè vogliono l'impossibile e il dannoso: l'impossibile, « per chè non si può
giungere alla perfezione nelle scienze se non per la stessa via, per la quale
vi si perviene in tutte le arti, cioè dividendo gli oggetti del lavoro ed occu
pandosi di un solo; il che da un popolo intero non si può fare, poichè, per
sapere, dovrebbe egli rinunciare ai mezzi di vivere »: il pernicioso, « perchè
rimanendosi il popolo a mezza strada, avremmo una nazione di mezzo sapienti; ed
un mezzo sapiente, diceva il Chesterfield, è unpazzo intero » (2 ). Da ciò
consegue che l'istruzione, sebbene pubblica, non può essere uguale per tutti, e
come nel paese vi deb bono essere i ricchi e i poveri, i conservatorie i
filoneisti, (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 86. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v.
II, p. 5. 269 così vi debbono essere i dotti e gli indotti, i più colti e i
meno colti. Vi sarà perciò una istruzione per pochi, che diremo sublime o alta,
una per molti, che diremo media o secondaria, una per tutti, che diremo
elementare o pri maria. La prima è destinata al progresso delle scienze, la
seconda ha per iscopo di diffondere i trovati dell'alta cultura nella vita
commerciale industriale agricola a con tatto con il popolo, la terza di dare
allo Stato fedeli sud diti, virtuosi e morali cittadini. Questa tripartizione
della scuola rivela il gran senso pratico del nostro autore, a cui della vasta
gamma della vita umana nulla sfugge e si perde. Ma la discriminazione non si
ferma qui. Occorre che l'istruzione, che lo Stato impartisce alle donne, sia
diversa da quella, che impar tisce agli uomini, e che per le donne stesse
sianvi pure le tre forme o gradi di scuola sovra dette. L'istruzione alle donne?
È questo un tema caro al Cuoco. Le donne, scrive nel Platone, hanno il
grandioso compito di allevare figli per lo Stato, e di allevarli non nel senso
comune, cioè di nutrirli, ma di istillare in essi i primi sensi della vita
sociale, i primi germi, che poi nell'interiorità dello spirito si
svilupperanno. Esse, che hanno un così alto compito, conviene che abbiano una
adeguata preparazione. Infatti, scrive il Cuoco, « non può dare al figlio
l'educazione di un cittadino colei che ha la condizione e la mente di una serva
» (1. ). Perciò lo Stato si deve preoccupare dell'educazione femminile, e
provvedervi in modo da non turbare l'ordine della natura e la sua essenza:
educare le donne da donne, ed educarle secondo la diversa posizione sociale che
nel mondo esse avranno: e « quando le donne saranno educate, sarà com piuta per
metà l'educazione degli uomini » (2 ). Una questione subordinata è quella della
gratuitità del l'istruzione. Deve essere questa gratuita per tutti? No.
L'istruzione inferiore o primaria, appunto perchè ha i (1 ) V. Cuoco, Platone,
v. I, p. 25. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 21. 270 caratteri della più
vasta generalità, è offerta dallo Stato a tutti senza retribuzione alcuna, ma
l'istruzione media e superiore, siccome risponde ad utilità non solo sociale,
ma altresì particolare, deve essere pagata da chi ne usu fruisce, salvo sempre
a fare condizioni di favore a chi, essendo sfornito di beni di fortuna,
s'addimostri degno per altezza d'ingegno di essere mantenuto agli studi dallo
Stato, che un giorno o l'altro con le opere sue glo rificherà. Infine, in terzo
luogo, l'istruzione deve essere uni forme. Dopo quanto abbiamo detto
l'uniformità dell'istru zione appare chiara: in ogni suo grado, inferiore medio
e superiore, in ogni suo aspetto, maschile e femminile, l'istruzione deve
essere uniforme, svolta con gli stessi programmi, con gli stessi metodi, con
gli stessi libri. Il Cuoco non si nasconde i gravi difetti insiti nell'abuso
d'un simile sistema: le scienze possono anche arrestarsi, poichè la discussione
e il contrasto sono il vero e più efficace stimolo al progresso: si può
generalizzare un abito di servilità verso il passato, che è quanto di più
nocivo per la vita, che si sviluppa in un irrefrenabile superamento dell'antico
nel nuovo. Perciò questa uniformità non si può intenderla in un senso assoluto,
ma bensì relativo. Ognuno che insegna deve insegnare, previa autorizzazione
dello Stato, ed in segnare sulla base di un programma -metodo anteceden temente
presentato alle superiori autorità pubbliche. I corsi impartiti da privati non
avranno effetto accade mico, se non in seguito ad un esame dinanzi ai docenti
di Stato. Lo Stato inoltre esamina e giudica i libri di testo che andranno per
le mani dei giovani. Certo questo sistema potrebbe portare con sè il più grave
degli inconvenienti, lo staticizzarsi dell'insegnamento, il chiudersi in for
mule, in programmi, in metodi, cioè in quanto di più astratto si possa
immaginare. Per eliminare tutto ciò il Cuoco propone una direzione o ministero
di tecnici, che aperto a tutti gl'influssi scientifici europei, nell'opera sua
di controllo riconosca meriti e punisca abusi, ed 271 in ogni caso abbia di
mira il progresso e lo sviluppo del l'attività spirituale (1). Posti questi
princípi fondamentali, Vincenzo Cuoco abbozza un suo vero e proprio progetto di
riforma sco lastica, particolareggiato e minuto, monumento insigne di sapienza
pedagogica, in cui davvero noi sentiamo vi vere quella che è la scuola moderna.
Noi non possiamo seguirlo fino alle ultime delucidazioni, ma ci proponiamo di
astrarre dall'opera quei princípi generali, che più hanno relazione con
l'assunto politico. Caratterizzando la scuola primaria il nostro scrittore dice
che questa, oltre a dare le prime nozioni della lettura e della scrittura, mira
a formare una morale, volendo significare che mira a formare una moralità media
so ciale. È un punto importante. La morale è necessaria per gli aggregati
umani, ed è necessaria in sè e nella sua uniformità. Possiamo anzi osservare
che essa è un bi sogno dello spirito che la elabora e la pone. Questo pro cesso
di formazione è un processo spontaneo. Lo Stato non può ignorarlo. O esso
interviene e lo promuove, al lorquando prende i fanciulli nelle prime scuole e
li porta giovinetti fino alle superiori, plasmando e riplasmando le loro
coscienze, o esso inattivo assisterà a degli svi luppi spirituali, dai quali
può anche ricevere danno. « È necessario che ai popoli si dia (una morale ]:
altri. menti se la formeranno da loro » (2 ). Questo compito, il dare al popolo
una morale, è af fidato alla scuola primaria, allorquando l'uomo è tenero ed
atto a ricevere le più svariate nozioni e a compene trarle di tutto il proprio
afflato spirituale. Se questa mo rale « la riserbate all'età adulta, quando già
l'uomo ha sentito ed ha agito, voi gliela darete tardi; egli si tro verà di
aversene già formata un'altra: siete sicuro che non sia diversa dalla vostra, e
che, essendo diversa, vi riesca di distruggerla? » (3). (1 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. II, p. 14. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 16. (3 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II, p. 16. 272 La prima morale, quella dell'infanzia, è la più
pro fonda. Il fanciullo la riceverà, quando il suo animo è ancora puro, in
sublime stato d'innocenza, scevro di passioni conturbatrici, e non la
dimenticherà mai più, poichè essa gli è divenuta abitudinaria, vale a dire con
naturale al proprio esssere. E, se tutti i fanciulli saranno stati educati
dallo Stato allo stesso modo, l'opinione dei singoli sarà coincidente con
l'opinione universale. Qui si rivela un grande senso pratico. Non basta im
porre la legge ai singoli, occorre sentirne la necessarietà od anche, ov'è
possibile, l'utilità, perchè essa non resti un astratto, ma vibri davvero nella
coscienza collettiva: e questo è il compito della morale. Lo Stato perciò di
Cuoco non si preoccupa dell'istru zione letteraria soltanto, ma anche, e sopra
tutto, del l'istruzione morale e politica. Dell'istruzione religiosa non si
preoccupa « perchè appartiene ai di lei ministri » (1 ). Ma quest'affermazione
non bisogna assumerla in senso rigido. Dato il sistema politico del Cuoco, per
cui lo Stato è stato professionista e giurisdizionalista, è ovvio che lo Stato
non può disinteressarsi di quell'educazione reli giosa, che, ancorchè si ponga
fuori dalle mura delle aule scolastiche, mira agli spiriti, cioè agli uomini,
che sono poi cittadini. La religione è un mirabile strumento d'educazione, an
corchè non sia l'educazione stessa. Come può lo Stato ri manere indifferente
dinanzi ad essa? « È necessario che la legge le dia la norma, perchè spetta
alla legge, alla sola legge, il determinare qual debba essere la virtù del
cittadino. È necessario che la filosofia le indichi i mezzi, perchè la
filosofia è quella cui spetta conoscere il cuore e la mente umana e le vie per
insinuarvi la virtù e la saviezza » (2 ). Ma d'altra parte la stessa educazione
di Stato deve (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 12. (2 ) Giorn. ital.,
1804, n. 61, 62, 75; 21, 29. maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp.
303-4: Educazione popolare (vedi p. 264 del presente lavoro ). 273 avere
carattere religioso. Il Cuoco ha detto che la reli gione non s'insegnerà nelle
scuole: va bene: ma l'in segnamento, ' specie il primario, non sarà efficace se
non sarà circonfuso di quello spirito religioso, che parla alle anime semplici.
Il dotto trova nell'assoluto etico il soddisfacimento delle sue esigenze di
libertà; l ' indotto, il fanciullo hanno bisogno di quella morale rivelata ed
oggettiva che è la religione. In un articolo del Giornale italiano il Cuoco,
par lando di una scuola normale danese, atta a creare ottimi maestri, scrive
che « il popolo deve esser istruito, ma non deve esser dotto: ad ottener
ambedue questi fini, non vi è altro mezzo più efficace che dargli de' maestri
egual mente lontani dall'ignoranza e dalla pedanteria; met terli in tutt'i
punti dello Stato, onde sieno.in contatto col popolo, nè il popolo abbia
bisogno di cercarli; rive stirli di un carattere che pel popolo è il più sacro,
cioè del carattere religioso » (1 ). Quindi anche l'istruzione ele mentare,
ancorchè laica e gestita e controllata dallo Stato, non può prescindere da quel
carattere, che diremo in senso assai largo religioso, come quello che meglio
risponde all'indole e alla natura del popolo, che è tutto senso e fantasia e
poco ragione. Sovra questa base religiosa si potrà fondare una mo rale civica, poichè
chi è buon credente in massima sarà buon cittadino, e sulla morale poi si
assicurerà il rispetto alle leggi e allo Stato. Ma la base di tutto è la
religione. E, siccome la pubblica autorità « si occupa dapertutto a fare sì che
vi sieno istituzioni uniformi di quelle idee che più importa che sieno comuni e
concordi, così dia una norma anche per le istruzioni che fanno i ministri
dell'altare; le quali, se non sono concordi colle altre, sa ranno inutili; se
sono discordi, diventeranno nocive ». Da tutto ciò una illazione. « Riuniamo (esse
non si avreb bero dovuto separar giammai) le istruzioni della casa, (1 ) Giorn.
ital., 1804, 29 ottobre, n. 130, p. 528-29: Utilità pubblica. 18 - F. BATTAGLIA.
274 del fòro, del tempio; tolgansi una volta quelle diversità di princípi, per
cui ciò che la legge economica di una famiglia richiede è condannato dalla
legge politica di tutta la città, e ciò che la patria impone è indifferente per
la religione; facciam sì che costumi, leggi, religione non abbiano che un sol
fine, che è quello di render i cit tadini più virtuosi e la patria più felice »
(1 ). È la naturale logica conseguenza di quella visuale che il Cuoco ha dei
rapporti tra Stato e Chiesa e del posto che egli attribuisce alla religione
nella vita dello spirito, so luzione tirannica, se si vuole, ma altamente
liberale, se si pensa alla natura dello Stato cuochiano, Stato etico, attuante
una sua libera finalità superiore ad ogni parti colare transeunte ed assommante
in sè tutte le varie ma nifestazioni della vita. Lo Stato del Cuoco ha molti
punti di contatto con lo Stato del Fichte e dell' Hegel. « E ogni - volta »
nota giustamente il Gentile « che si sente forte mente la sostanzialità etica,
il valore ideale e morale dello Stato (il che avviene quando piuttosto si
guarda all'idea di esso o a uno Stato futuro, che non quando si abbia
sott'occhio un determinato governo, il quale di tanto è imperfetto a
rappresentare realmente lo Stato, di quanto è inferiore alle idealità che nello
Stato pure si agitano, senza raggiungere la forma giuridica ), così della
religione come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi
riformatori della coscienza civile, si fa necessariamente uno strumento del
fine politico » (2 ). Laddove l'educazione primaria deve mirare alla fan tasia
e al senso, e perciò deve essere essenzialmente re ligiosa, l'educazione
superiore deve essere filosofica, cioè mirare allo spirito nelle sue più
elevate manifestazioni razionali. Le qualità proprie d'ogni vera educazione, in
quanto spirito, l'unitarietà sopra tutte, si rivelano ora. « L'educazione ben
diretta non ha tanto in mira d’in segnare una o due idee positive di più o di
meno, quanto (1 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (vedi
p. 226 del presente nostro lavoro ). (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416.
275 d'ispirare l'amore di una scienza e dare alla mente una attitudine maggiore
a comprenderla. Quasi diremmo che non si tratta di formar un libro, ma un uomo:
giacchè ad un libro rassomiglia un uomo meramente passivo, il quale tante idee
tiene quante se gliene son date; mentre al contrario il carattere della mente è
quella di esser at tiva, creatrice, capace di formare le sue idee, ordinarle,
saperle insomma dominare in tutti i modi e signoreg giare » (1 ). Il concetto
realistico della vecchia pedagogia è superato. Il maestro, infine, è tale in
quanto è nello spirito del discente, in cui si compie quel processo, per cui la
nozione divien vita, cioè atteggiamento spirituale e s’armonizza in un vasto
tutto, la personalità. La scuola non è accademia, ma intima affermazione di
coscienze formatesi gradualmente in un logico libero sviluppo. Tutto il vecchio
macchinario formalistico deve essere bandito: il giovane deve essere posto a tu
per tu con i grandi scrittori, poeti storici filosofi, senza il tramite di quei
cimiteri di formule che sono le grammatiche, senza il tramite di quelle carceri
di idee, che sono le retoriche e le poetiche: il giovane deve mirare al
contenuto ideale delle cose, formarsi quel che si può dire estrinsecamente un
metodo acquisitivo, ma che in sostanza null'altro è che una forma dello spirito
inscindibile dal suo conte nuto. Questo stesso carattere unitario deve offrire
l'istru zione superiore. Una differenziazione di facoltà o scuole speciali e di
cattedre s ' impone per i fini professionali che si perseguono, ma «
l'istruzione vera è quella che tutte le parti dello scibile ci presenta ben
ordinate, tutte ce le addita e ci mette nello stato di poter da noi stessi
trattenerci intorno a quella che più ci piace » (2 ). Messo dinanzi ai mezzi
con cui si può progredire nello spirito, il giovane deve scegliere,
perfezionarsi nel sapere, af fermarsi nella gara della vita. (1 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II, p. 25. (2) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 53. 276 Se
ora l'istruzione media ed universitaria, come ho detto deve avere carattere
filosofico, ne deriva una pro fonda trasformazione di tutto ciò che era per l'
innanzi. Un esempio solo basterà per mostrarci le infinite conse guenze di
questa nuova posizione. L'eloquenza per gli antichi null'altro era che uno
strumento per il ben scri vere, e questo bene scrivere tutto si imperniava
sovra il gioco delle grammatiche, delle retoriche, delle poe tiche. Ora,
osserva il Cuoco, la filosofia s'è impadronita delle materie dell'eloquenza. Nè
è a dire questa una usur pazione, ma una legittima rivendica di ciò che la
filosofia già possedeva in antico, cioè con i Platoni e gli Aristo teli. La
forza del dire, la perspicuità dello stile non di pendono da cause estranee a
noi, come le norme più o meno buone apprese sui " libri scolastici, ma
dalla ric chezza della nostra vita interiore, « dalla forza e dal nu mero delle
idee presentate al nostro spirito » (1 ). Perciò quello che nella riforma del
Cuoco serba il vecchio nome di eloquenza, diviene una vera filosofia del bello
o este tica, che dir si voglia, come quella che direttamente mira allo spirito
e alle sue manifestazioni fantastiche, cioè artistiche. Ne il Cuoco si arresta
qui, ma seguendo la sua idea che la vera grammatica non possa essere se non
nella vita del periodo, in quanto questo scaturisce dalla mente originario e
fresco, vagheggia una grammatica universale e filosofica, che insegni il meccanismo
di tutte le lingue sulla base della comune uniforme mente umana (2 ). La stessa
filologia, come la stessa erudizione e lo stesso studio dei monumenti antichi,
sia grafici che tecnici, « ha le sue idee astratte, ha la sua parte filosofica;
perchè ha (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v p. 56.. II, (2 ) Qui più che mai si
palesa quel concetto della natura, per cui nelle cose occorre distinguere quel
che è fattizio accessorio da ciò che è essenziale ed originario, che il Cuoco
attinge come abbiamo veduto dal Rousseau ed integra con una sicura intui. zione
dello spirito in ogni suo aspetto o attività di vita, che de riva certamente
dal Vico. 277 le sue regole universali applicabili ai fatti di tutte le na
zioni. » (1 ). Bisogna uscire dallo studio del fatto in sè e per sè, sia esso
un documento grafico o un rudere ar chitettonico, risalire allo spirito,
all'idea che ha mosso un popolo o un individuo a crearlo. E come nello spi rito
umano c'è un'essenzialità comune, dalle conclusioni particolari ad un popolo
occorre risalire a conclusioni più vaste, a generalizzazioni più audaci,
investenti il nu cleo della universalità, seguendo questi stessi princípi, che
il Vico ha divinato nella sua Scienza nova. Giambattista Vico, analizzando la
filologia dei greci e dei romani, ha così fissato le norme per ogni filologia,
ha stabilito leggi sicure, addimostrando non le leggi che governano il
linguaggio dei singoli, ma bensì quelle che governano il linguaggio delle
nazioni. E così si dica, per i miti, per le norme giuridiche, per i riti. « In
tal modo la scienza dell'erudizione diventa veramente filosofica; e ciò, che
sappiamo de ' greci e de ' romani, diventa utile ad intendere ciò che della
filologia delle altre nazioni o ignoriamo o conosciamo imperfettissimamente »
(2 ). (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 62. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari,
v. II, p. 62. Conclusione. Ed ora che abbiamo analizzato la personalità di Vin
cenzo Cuoco in tutte le sue manifestazioni politiche e pedagogiche, ci sia
lecito concludere, pur sapendo quanta parte del pensiero del molisano sia
rimasta fuor dalle linee tracciate. Qual'è la posizione del nostro scrittore
nella storia culturale d'Italia? Posto a cavaliere tra il secolo XVIII e il XIX
è il più importante rappresentante di quel che un critico francese, Paul
Hazard, ha detto l'italiani smo, e che, se nel secolo XVIII s'impersona nel pen
siero storicista, e perciò antirazionalista, di Giambattista Vico, reagente
contro l'astrattismo razionalistico di Car tesio, nonchè contro il materialismo
di altri minori, in nome di supreme esigenze dello spirito; nel secolo XIX si
impersona nel Cuoco, che animato dall'alta tradizione nazionale muove contro ogni
forma di vita, che italiana non sia, e quindi non connaturale a noi, e perciò
non veramente storica ma rigidamente morta, astratta, vuota d'ogni vibrante
contenuto umano. È un'ideale continuità quella che lega il Vico al Cuoco, è la
gloria perenne del pensiero italico rinascente, quando le straniere
infiltrazioni sempre più sembrano soffocarlo. Il Vico rappresenta un profondo
rinnovamento nella filosofia, e perciò in tutte le attività umane, che dal me
todo filosofico non possono prescindere: la politica, la storia, la
giurisprudenza, l'economia. Asserendo lo spi 279 rito fonte prima d'ogni realtà
morale, asserisce la vera libertà, libertà che nè il Medio Evo nè il
Rinascimento, moventisi ancora nell'antico dualismo dell'essere e del divenire,
potevano assolutamente concepire. Egli è il primo, che sente il dinamismo dello
spirito e pone le grandi proposizioni della filosofia moderna: il mondo del
l'arte sensuoso e fantastico, il mondo della storia delle nazioni concretato
nelle istituzioni e nelle leggi, il mondo della religione e della moralità
s'originano da noi, in noi trovano la loro fonte prima perenne inesauribile,
nella continua attività dello spirito. E, se teniamo fermo questo punto, tutto
ci si discopre trasformato, e quel che prima era estrinseco, incasellato, morto
diviene intimo, libero, vivo. Ma questa posizione implica un nuovo e diverso
processo: la realtà spirituale non si conosce, se non affi sandosi nelle più
varie manifestazioni delle sue concretiz zazioni, vale a dire discendendo al vero
storico, per poi risalire di nuovo allo spirito prima e remota scaturigine:
l'unità dello spirito non si comprende se non attraverso la molteplicità, e
viceversa la molteplicità non si com prenderebbe se non per il tramite
dell'unità. Chiamiamo filosofia la scienza dell'idea eterna ed im mutabile, di
ciò che non è transeunte e contingente; chiamiamo filologia la scienza dei
fatti umani, assom mante in sè ogni mutevole prodotto storico: occorre con
ciliare l'una con l'altra, la filologia con la filosofia. È il grande assunto
del Vico: porre questo nesso correlativo: non v'è filosofia senza filologia, nè
filologia senza filosofia. La mente umana è l'origine dell’una e dell'altra,
produce l'idea, il vero filosofico, come genera il fatto umano, il vero storico.
Da ciò scaturisce che la sua realtà è questo mondo degli uomini, in cui siamo
nati ed in cui ci muo viamo, in cui dobbiamo foggiare la nostra individualità
ed agire per noi e per gli altri, per il nostro particolare e per lo Stato, in
cui vive il nostro miglior noi. E questo il Vico esprime nella notissima
icasastica frase: « questo mondo civile certamente è stato fatto dagli uomini,
onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritruovare i prin cípi, dentro le
modificazioni della nostra medesima mente 280 umana » (1). Questo il nucleo
profondo della filosofia del Vico, che Cuoco acquisisce e fa sangue del suo
sangue, movendo da esso a rinnovare la struttura della politica e della
pedagogia tradizionale: Il Cuoco in senso rigido non è filosofo vero, come
colui nel quale rimangono vecchi e irresoluti reliquati intellet tualistici
nonchè contraddizioni insanabili, per cui in qualche punto è ancor più indietro
del suo istesso maestro; ma il suo grande merito è l'aver posto in termini poli
tici quel che in Vico era filosofia, e l'aver visto quale inesauribilità di
situazioni poteva germinare dalla vec chia esperienza vichiana. In un mondo
vuoto e falso quale quello della rivolu zione italo - francese, egli,
riinnestandosi al Vico, dà alla nazione quel senso storico che le mancava, e le
ridona * quella comprensione sicura della realtà, quella fiducia, che solo può
scaturire da una ferma credenza in noi, nelle nostre possibilità, nel nostro
avvenire. Nella rivoluzione napoletana si è detto con felice frase sono i germi
dell'unità d'Italia, e, notiamo, non solo dal punto di vista estrinseco, ma dal
punto di vista anche intellettuale. Con il cadere della Partenopea, diecine e
diecine di esuli si diffondono per il Nord d'Italia, ed ivi portano il loro
sapere, la loro cultura filosofica più o meno permeata di vichismo, il loro
diritto, la loro economia: da ciò nasce una più intima comunione di spiriti,
una più attiva fratellanza di idee tra italiani ed italiani. E chi resta
insensibile a questo gran movimento cultu rale, in cui sono non pochi e piccoli
germi di quel che sarà il Romanticismo? Nessuno, direi: non v'è alta co scienza
che per effetto di questa propaganda non vi chianeggi. È un po' la moda, ma una
moda benefica, che porta ad una migliore intesa tra uomini di diverse regioni
d'Italia, che erano per secoli rimaste quasi estranee tra loro. Più gli studi
si approfondiscono e più questo fenomeno (1 ) G. Vico, Scienza nova, v. I, p.
172. 281 appar vero, ' e, notiamo, anteriore in un certo senso al l'opera
stessa di Vincenzo Cuoco. È di ieri, recentissimo, uno scritto di Luigi Rava,
che ci informa di una rivista, fiorita a Venezia verso il 1796, tre anni prima
dunque dell'esilio del nostro molisano, il Mercurio d'Italia, in cui Ugo
Foscolo giovinetto fa le sue prime armi e pubblica i suoi precoci scritti, La
Croce, l'Ode a Dante, La morte di *** ed altri componimenti di minore
importanza (1 ). Ebbene in un articolo anonimo sovra l'Abbozzo di un quadro del
progresso dello spirito umano del Condorcet v'è un raffronto tra le dottrine
del francese e quelle di Giambattista Vico. È proprio ca suale questa
coincidenza? E il Foscolo giovinetto, che del Vico poi certo si nutrì come
dimostrano molte idee dei Sepolcri e degli scritti critici, rimase insensibile
al richiamo di questo grande filosofo italiano, « così poco conosciuto fuori
della sua Napoli »? (2 ). Ma i veri apo (1) Luigi RAVA, Le prime armi del
Foscolo giornalista: il Mercurio d'Italia, in Rivista d'Italia, a. XXVII (1924),
v. I, fasc. III, pp. 257-279. (2 ) Un certo quale influsso vichiano forse
inconscio si può rinvenire in Carlo Gozzi e nella posizione assunta con le sue
ce lebri Fiabe contro il Chiari e il Goldoni, in cui certo egli rappre senta
una tradizione veramente italica, se pure esausta dal tempo, contro una riforma
che a lui pareva una volgarità, troppo permeata di verismo com'era. Lastessa
ricerca del fan tastico per il popolo in una società razionalista, superba
della infinita sicurezza dell' intelletto, è una posizione vichiana. « Il
contenuto » scrive il DE SANCTIS, (Storia, II, p. 305 e sg. ) se è il mondo
poetico com'è concepito dal popolo, avido del meraviglioso e del misterioso,
impressionabile, facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale
nelle sue forme: miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immagina
zione, tanto più vivo quanto meno l' intelletto è sviluppato, è la base
naturale della poesia popolana sotto le più diverse forme: conti, novelle,
romanzi, storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita,
ma per demolirlo, per gettarvi entro il sorriso incredulo della colta
borghesia. Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la
fola, cercare ivi il sangue giovane e nuovo della com media a soggetto: questo
osò Gozzi in presenza d'una società scettica e nel secolo de’lumi, nel secolo
degli spiriti forti e 282 stoli del vichismo sono nell'Italia settentrionale
gli esuli napoletani del '99, come osserva B. Croce (1 ), sono Vin cenzo Cuoco,
Francesco Lomonaco, Francesco Salfi, il Massa, il De Angelis ed innumerevoli
altri minori ma pur degni. Per la loro opera si può dire che non vi sia grande
scrittore che non vichianeggi. L'influsso che il Cuoco od altri esercitò sul
Foscolo, è indiscutibile. A noi non risulta alcun documento com provante
possibili e diretti rapporti Cuoco - Foscolo, ma è certo che, se il molisano
ebbe relazioni, anche super ficiali, con amici del poeta dei Sepolcri, questi
non potè ignorare l'autore del Saggio storico (2 ). Ma sia o non sia stato il
Cuoco od altri (3 ) a far conoscere il Vico al Foscolo, de’belli spiriti. E
riuscì ad interessarvi il pubblico, perchè quel mondo ha un valore assoluto e
risponde a certe corde che, ma neggiate da abile mano d'artista, suonano sempre
nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo e del popolo ».
Del resto l'ultimo editore di C. Gozzi, Domenico Bulferetti, (Le memorie
inutili, Torino, 1923, vol. due) non ha potuto ne gare che lo spirito
dell'autore delle Fiabe assuma atteggia menti non certo consoni al tempo suo e
alla veneta società, come tutte le società del tempo illuminata, ma riecheggi
un po' il nuovo storicismo meridionale, pur senza essere riuscito a provare una
diretta influenza di quest'ultimo sugli studi del suo autore. (1 ) B. CROCE, La
filosofia di G. Vico, p. 289; B. CROCE, Storia della storiografia, v. I, p. 12.
(2 ) G. ROBERTI, in Giornale storico della letteratura italiana, a. XII, v.
XXIII, pp. 416-427. Il Roberti raccoglie nell'arti colo alcune lettere che C.
Botta, U. Foscolo, V. Cuoco inviarono al suo bisavolo paterno, Giovanni Giulio
Robert (poi italianiz zato in Roberti). Le lettere di Foscolo sono delle mere
com mendatizie di due esuli meridionali, uno certo Piscopo, l'altro un anonimo,
che il Roberti crede, senza peraltro dimostrarlo, che sia il Lomonaco. Da ciò
si deduce sicuramente che Ugo ebbe rapporti con meridionali e con amici diretti
del Cuoco. (3 ) Vedi a proposito G. PECCHIO, Vita di U. Foscolo, Città di
Castello, Lapi, ed., 1915, p. 170, p. 210 e passim. P. HAZARD, op. cit., p. 241
osserva: « Son influence se répandra même dans la littérature pure, où en
trouvera des traces chez Monti et chez Foscolo. Toux ceux lacomprennent les
articles que Cuoco consacre à son maître (Vico] ». Ora F. NICOLINI nella Nota
agli Scritti vari di V. Cuoco, v. II,p. 397, dice che gli 283 gli scritti del
poeta stanno lì a testimoniare come pro fondamente nutriti essi siano di
pensiero vichiano: così il processo dell'incivilimento descritto nel carme, per
cui furono nozze e tribunali ed are, che diero alle umane belve essere pietose
di sè stesse e d'altrui, è derivato di-. rettamente dalla Scienza nova, ove è
meditato il pas saggio dall'età degli dei alle grandi società eroiche (1 ); e
così pure il costume che tolse i miserandi cadaverici avanzi alle fiere e li
provvide di sepoltura (2 ). Parimenti articoli del Giornale italiano furono
letti attentamente, « molto letti » oltre che da V. Monti e A. Manzoni anche da
U. Fo scolo, e allo scopo di provare ciò rimanda ad una recensione, in cui il
molisano parla del libro Della Tumulazione di A. DELLA PORTA, Como, Ostinelli,
in cui « è, come si vede, il medesimo fondo di idee vichiane, a cui.... s’
ispirò il Foscolo nei Sepolcri » (v. I, p. 254). (1 ) B. CROCE, La filosofia di
G. B. Vico, p. 172. (2) Confronta i su citati brani foscoliani con i seguenti
di Vico: à Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per
immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lon tane, divisamente fondate,
custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte
contraggono matri moni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; nè tra
nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più
ricercate cerimonie e più consagrate solennità che reli gioni, matrimoni e
seppolture. Chè per la Degnità, che « idee uniformi, nate tra popoli
sconosciuti tra loro, debbon avere un principio comune di vero, dee essere
stato dettato a tutte, che da queste tre cose incominciò appo tutte l'umanità,
e perciò si debbano santissimamente custodire da tutte, perchè 1 mondo non
s'infierisca e si rinselvi di nuovo » (Scienza nova, v. I, p. 173). «
Finalmente, quanto gran principio dell'umanità sieno le seppolture, s'immagini
uno stato ferino nel quale restino insep polti i cadaveri umani sopra la terra
ad esser esca de corvi e cani; chè certamente con questo bestiale costume dee
andar di concerto quello d'esser incolti i campi nonchè disabitate le città, e
che gli uomini a guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande, colte dentro
il marciume de’ loro morti congionti. Onde agran ragione le seppolture con
quella espressione su blime Foedera Generis Humani ci furono diffinite e, con
minor grandezza, Humanitatis Commercia ci furono descritte da Ta cito ». (Scienza
nova, I, p. 177 ). Notiamo che nel primo brano citato il rinselvarsi sta per
284 lo stato ferino dei figli della terra, duellanti a predarsi, primi avi
dell'uomo, quei cannibali che s ' imbandiscono convito delle carni umane, così
vivi nel mondo rifinito de Le Grazie, non si intendono, se non riferendoci ad
un sistema filosofico che è certo quello del Vico (1 ), si stema che
siffattamente compenetra l'opera del poeta, che questa trascende e si riflette
in tutti gli scritti pro sastici, sia pure storici e critici (2 ). Onde tutta
la sua cri tica trova il nucleo originale nei nuovi portati dell'este
significare il ritorno allo stato selvaggio primitivo, onde la parola selva
significherebbe lo stato stesso, e che precisamente in questo senso il primo e
il secondo termine sono stati as sunti da Ugo Foscolo nella celebre Orazione
inaugurale: « le umane belve ancor vagabonde per la grande selva della terra » (Opere,
ed. Lemonnier, v. II, p. 21 ); nonchè ripetuti da un gio vane, pur esso
destinato a divenire un grande scrittore, da GIOSUE CARDUCCI: « fuggendo per la
gran selva de la terra il nato de la donna ululò già co' leoni a la preda
cruenta: indi con vitto ferin la vita propagando, incerti videsi intorno i
figli: e lui cedente de la materia a le vicende eterne l ' immane salma, per lo
gran deserto dilaceraro i lupi ». (Rime, San Miniato, Tipografia Ristori, 1857,
p. 84). (1) La vita preistorica è con viva arte descritta dallo stesso Vico
nelle prime pagine dell'opera sua, laddove accenna alle prime trasmigrazioni
marittime: «.... gli antenati di coloro che furono poi gli autori delle
trasmigrazioni medesime: furono dapprima uomini empi, che non conoscevano niuna
divinità; nefari, chè, per non esser tra loro distinti i paren tadi co'
matrimoni, giacevano sovente i figliuoli con le madri, i padri con le
figliuole; e, finalmente, perchè, come fiere be stie, non intendevano società,
in mezzo ad essa infame comu nion delle cose, tutti soli e, quindi, deboli e,
finalmente, miseri ed infelici, perchè bisognosi di tutti i beni che fan d'uopo
per conservare con sicurezza la vita. Essi, con la fuga de propri mali,
sperimentati nelle risse, ch'essa ferina comunità produ ceva, per loro scampo e
salvezza, ricorsero ecc. » (Scienza nova, v. I, p. 27 ). (2 ) Il vichismo del
Foscolo è stato rilevato da N. TOMMASEO, Storia civile nella letteraria,
Torino, 1872, ma certo non com preso, troppo imbevuto, com'era il critico, di
passioni oscura trici d'un equanime giudizio e di false idee d’un'arte pedago
gica: il brano, al quale intendiamo riferirci, è stato raccolto nell'antologia
del TOMMASEO, Scritti di critica e di estetica scelti da A. ALBERTAZZI, Napoli,
Ricciardi ed., s. d., p. 192 e sgg. 285 tica vichiana, che prima scuote le
vecchie scolasticherie, a base di retoriche e di poetiche per penetrare nello
spi rito vivo e fantastico dell'opera d'arte (1). Ma l'influsso più importante
e diretto Cuoco lo eser cita direttamente sul Monti col quale ebbe rapporti epi
stolari (2 ), nonchè disappunti letterari, dovuti al fiero" giudizio che
l'autore del Saggio faceva circa il carattere del poeta cesareo assai volubile
in politica; e sul Man zoni di cui fu davvero intimo (3 ). Le lezioni universi
tarie, dal primo tenute a Pavia, specie la prolusione Della necessità
dell'eloquenza (1 ), il Discorso sulla storia longobarda del secondo (5 ), sono
la prova sicura della dif fusione delle dottrine del Vico. (1 ) Vedi a
proposito come Foscolo intende l'eloquenza e confrontala con il modo come
l'intende il Cuoco: G. PECCHIO, op. cit., p. 210, nota; B. ZUMBINI, Studi di
letteratura ita liana, Firenze, Le Monnier ed., 1894, p. 267; G. A. BORGESE,
Storia della critica romantica in Italia, Milano, Treves ed., 1920, p. 248 e
sgg., sopra tutto p. 266: « non è una scoperta, dice quest'ultimo, quella dello
Zumbini che anche le lezioni di eloquenza siano tutte nutrite di concetti
vichiani; anzi fa rebbe una scoperta chi indicasse uno scritto capitale del Fo
scolo, nel quale la filosofia della Scienza nova non abbia bene o male la sua
parte ». (2 ) G. Cogo, op. cit., p. 181; N. RUGGIERI, op. cit., p. 47; P.
HAZARD, op. cit., p. 241; vedi anche V. Cuoco, Scritti vari v. II, pp. 318, 367,
passim. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p. 48, il quale in nota richiama G.
CAPITELLI, Patria ed arte, Lanciano, Carabba ed., 1887, p. 182 e sg.; vedi V.
Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 285; v. II, pp. 318, 358, 367, 397, passim. (4 )
V. MONTI, Prose e poesie, Firenze, Le Monnier, 1847, v. IV, p. 31 e sgg. (5 )
A. MANZONI, Prose minori con note di A. BERTOLDI, Firenze, Sansoni ed., s. d.,
p. 22 e sgg. Allorquando questo lavoro era già ultimato usciva per le stampe
l'opuscolo di G. GENTILE, Vincenzo Cuoco; commemorazione tenuta a Campo basso
nel primo centenario della sua morte, Roma, C. De Al berti ed., *1924.
L'influsso vichiano, per il tramite del Cuoco, nota il prof. Gentile, si rivela
« non solo per l'alto concetto in cui dimostra di tenere il grande filosofo
napoletano, ma anche e principalmente per la forma definitiva della sua mente,
per alcuno dei caratteri più significativi della sua individualità di 286 n Nè
questa si arresta qui, ma plasma disè tutta la nuova critica d'arte, e in parte
la nuova storiografia, rifonden dosi con dottrine di diversa origine e di
diversi paesi, specie con i canoni romantici di Germania: a chi legge gli
scritti del Berchet (1 ), del Torti (2 ), del Di Breme (3 ), non sarà difficile
rinvenirvi idee e proposizioni vichiane. Così, gradualmente per opera del Cuoco
e di pochi altri napoletani, il pensiero nazionale si vien formando attra verso
un apporto di storicismo e d’idealismo meridio pensatore e scrittore, quale è
rappresentata sopra tutto ne romanzo. Poichè anche Manzoni pensatore e
scrittore è un realista che non conosce tipi astratti, ma vede sempre gli uo
mini e li rappresenta come sono in fatto storicamente; non repubblica di
Platone e neppur feccia di Romolo; ideale col suo limite, come diceva De
Sanctis: tutto determinato, vero e certo: e così in questa determinatezza e
limitazione e storia, tutto segnato dal dito di Dio, tutto,come aveva insegnato
Vico, governato da una Provvidenza che non precede per mi racoli, ma opera
naturalmente attraverso gli stessi effetti delle cose e le azioni degli uomini.
(1 ) Vedi BORGESE, op. cit., p. 105: « il Berchet s'era nutrito degli scrittori
più audaci d'oltremonte: la Staël, il Bouterweck, gli Schlegel erangli
familiari; conobbe non leggermente la let teratura inglese e la tedesca; dei
nostri venerò sopra tutti il Vico e il Beccaria. Vari fili della vita
intellettuale d'Italia, annodandosi, davano origine alla nuova critica e alla
nuova letteratura;.... nel secolo decimottavo la filosofia aveva silen
ziosamente ed oscuramente rinnovato gli spiriti e s' era con pertinace lentezza
accostata alla letteratura, col Vico, non compreso, col Cesarotti non comune
ragionatore, col Beccaria autore di un trattato dello stile: e, se forza di
filosofare non ebbe il Berchet, questi filosofi studiò e ammirò non debol mente
». (2 ) BORGESE, op. cit., p. 189: « il Torti fu uomo di non co mune coltura e
d'ingegno e, cosa a quei tempi molto rara, conobbe il Vico e si richiamò alle
leggi da luisegnate, senza divenire per questo critico grande ». (3 ) L'ampia
influenza del Vico si stende su tutta l'opera di Ludovico Di Breme e su quella
di tutti i redattori del Concilia tore, ed è stata ben messa in luce
dall'ultimo editore dell'abate piemontese C. CALCATERRA (L. d. B., Polemiche,
Torino, Unione tip. - editrice torinese, s. d. (1923 ) ], che dell'idealismo
dei primi romantici, della loro reazione ai vecchi sistemi filosofici, dei loro
studi, fa un'ampia disamina. 287 nale al positivismo e al razionalismo
settentrionale. È certo un processo lento e faticoso, ma nondimeno si curo, le
di cui conseguenze ultime occorre osservare non soltanto nel campo critico e
storiografico, ma anche, e sopra tutto, nel campo politico. « Eppure si come
giusta mente nota Giovanni Gentile « nonostante la propaganda del Cuoco,...
quantunque i germi da lui seminati sian caduti in intelligenze delle maggiori
del secolo, si può affermare che la voce del Cuoco come banditrice della verità
vichiana non trovi nessuna eco in tutto il resto del secolo. Altri scrittori,
segnatamente il Gioberti, hanno lavorato ad educare le menti italiane al
realismo poli tico; altri filosofi, segnatamente lo Spaventa, hanno la vorato a
sviscerare il nucleo centrale della filosofia vi chiana; ma fino ai nostri
giorni nessuno ha visto in questa filosofia così nettamente e fermamente come
Vincenzo Cuoco il nuovo metodo, veramente rivoluzionario, " del pensare
storico e politico e un potente irresistibile argo mento per un programma
politico nazionale. Egli, per questo rispetto, rimane sulla soglia del secolo
XIX, maestro unico solitario: un veggente » (1 ). Con ciò vo gliamo
semplicemente dire che se le dottrine vichiane nel campo estetico, attraverso
la propaganda del Cuoco, dànno subiti e luminosi effetti, nel campo politico,
que sti effetti sono più lenti e tardi, quasi misconosciuti al lorquando si
manifestano: Vincenzo Cuoco è un maestro senza discepoli, o meglio, con un solo
discepolo, e per avventura grandissimo, Giuseppe Mazzini. Quel che nel Cuoco
abbiamo detto realismo politico, derivazione stretta di tutto l'insegnamento
della Scienza nova, non è destinato a perire, ma, rinnovandosi, tra sformandosi
porta alle più grandi conquiste del secolo: « primo, a riconoscere e a mettere
in rilievo l'individua lità insopprimibile di tutte le formazioni storiche; se
condo, a negare che un popolo, come un individuo, possa nulla ricevere di
fuori, e che possa progredire ed elevarsi senza uno sforzo proprio fondato
sulla stima di sè e sulla (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p. 13 e
sg. 288 fiducia delle proprie forze » (1 ). Questi due postulati gran diosi e
veri, posti dal Cuoco nella coscienza degli Italiani, non si distaccheranno più
da essa, e formeranno il nucleo di tutta l'educazione nazionale e di tutta la
pratica po litica, che si sintetizza nell'opera di Mazzini. Ora i nuovi studi
di F. L. Mannucci circa la prima fase del pensiero mazziniano hanno messo bene
in luce come il genovese non solo si sia nutrito del Vico (2 ) per il tra mite
del Michelet (3 ), ma in suoi privati zibaldoni abbia recensito e fatto
estratti de ' numerosi e vivi articoli, che (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco:
commemorazione, p. 14. (2 ) L'influenza del Vico su Mazzini è stata ben posta
in luce prima che dal Mannucci dal BORGESE, op. cit., p. 291 e sgg. « Egli era,
come il Foscolo, lontano dal finalismo dommatico che impediva in ogni modoal
Tommasèo di trarre vita e nutri mento dalle dottrine del Vico. Epperò egli era
in condizioni più felici di quei due che l'avevano preceduto nell’a i mirazione
pel Vico, e se ne disse discepolo con convinzione non minore, ed anzi ne
persuase lo studioproprio per il rinnovamento della storia letteraria. « Il
vuoto esistente nella filosofia », egli la mentava, « deve naturalmente
ripetersi nella critica letteraria, che è la filosofia della letteratura »; e
la filosofia ch'egli desi derava era proprio la Scienza nova. « Il vincolo »,
disse altrove, paragonando le antiche congerie erudite che usurpavano il nome
di storie letterarie con quelle che venivano in onore per effetto del
rinnovamento romantico, « il vincolo che annoda in un popolo le istituzioni, le
lettere e i progressi della civiltà, indovinato un secolo innanzi dal nostro
Vico, fu posto in chiaro, sottomesso ad analisi e diede cominciamento ad una
sola scuola, il cui scopo santissimo or s'irride da chi non sa, o non cura
comprenderlo ». E si compiaceva che ora molti libri e molti studiosi traessero
il Vico da quell'obblìo a cui per cento anni lo avevano condannato le
baieerudite e l'inerzia degli animi». (3 ) F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e
la prima fase del suo pensiero letterario: l'aurora d'un genio, Casa ed.
Risorgi. mento, Roma, ecc., 1919, p. 16, p. 23 e sg., p. 66 e sgg., p. 143. Il
Mannucci ci rende edotti che uno dei cinque mss. da lui stu diati, di cui due
sono aPortomaurizio in casa dei sigg. Cremona eredi Ferrari, tre nel Museo del
Risorgimento a Genova, con tiene una recensione dei Principes de la philosophie
de l'histoire traduits de la Scienza Nuova de Fico et precédés d'un discours
sur le système et la vie de l'auteur, par J. MICHELET, professeur, ecc., Paris,
Renouard, 1827. Vedi a proposito di questa versione fran cese, CROCE. La
filosofia di G. B. Vico, pp. 289, 291, 304. 289 il Cuoco andava pubblicando sul
Giornale italiano, firman doli con la semplice sigla C (1 ). E in questi
zibaldoni il lettore commosso può rinvenirvi annotate le Osserva zioni sullo
stato politico dell'Europa, le Considerazioni sul Concordato, in cui Vincenzo
getta uno sguardo rapido non solo sul passato e sul presente d'Italia, ma anche
nel più lontano avvenire, risolvendo, da una parte, sovra basi giurisdizionali
il millenario problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, dall'altra la questione
dell'equilibrio europeo. È interessante notare, pure, come il Mazzini, po
stillando il famoso scritto cuochiano sul Machiavelli, da noi a più riprese
richiamato, laddove il molisano loda con il segretario di Firenze il duca
Valentino, perchè tra tanti scellerati principotti avrebbe potuto rimanere
solo, nota: oltre a questo aggiungerei che un tiranno si spegne più facilmente
di cento ». Esuberanze giova nili che il Cuoco avrebbe rimproverato e che lo
stesso Maz zini maturo avrebbe certo rinnegato ! Sicuramente.... Ma io amo
pensare il giovane Giuseppe, appena uscito dal l'università, chino sulle pagine
del Cuoco, e, meditabondo, ripensare con lui le sorti della patria e la sua
redenzione morale non attraverso giuridici compromessi o speranze d'equilibrii
europei, ma attraverso un'azione che è pen siero, perchè guidata dal pensiero,
attraverso un pen siero che è azione, perchè mirante agli uomini e alle loro
coscienze. Il grande merito del Mazzini è precisamente l'avere accettato le
ultime conclusioni politiche cuochiane ed averle con un apostolato senza pari
concretate nella vita. Il popolo, il popolo, che il Cuoco vede nell'avvenire
nucleo vibrante della patria, diviene il fondamento della repubblica del
Mazzini, e in suo nome e per lui l'Italia (1 ) Il fatto che gli articoli non
siano firmati che con una si gla, il fatto che negli zibaldoni il Mazzini non
citi espressamente il Cuoco fa pensare al Mannucci (op. cit., p. 107, n. 101 )
che il grande agitatore non abbia mai pensato che gli articoli da lui letti nel
Giornale italiano fossero proprio di V. Cuoco: così pure GENTILE, V. C.:
commemorazione, p. 26. In quanto poi al Saggio storico il prof. Gentile
sostiene nella stessa pagina che il genovese non solo lo conobbe ma lo
menzionò. 19 F. BATTAGLIA, 290 diviene dopo tante lotte una e indipendente,
diviene nazione e Stato. Il Cuoco intuisce che il problema unitario è un
problema di coscienze, Mazzini lo conferma, e nel binomio Pensiero e azione
redime l' Italia. Questa vasta trama d'influssi, che la dottrina cuo chiana, in
tutti i suoi attributi, sopra tutto nelle inter ferenze politiche, ha
esercitato nel pensiero italiano, specie settentrionale, meriterebbe uno studio
a parte, ma a me basta averne tracciato le somme linee, il filo conduttore,
perchè risulti ai lettori uno essere il processo che porta all'unificazione
d'Italia nel nome di una tra dizione secolare, che dal Vico va al Mazzini e che
un'unità così raggiunta, vale a dire attraverso una compenetra zione graduale e
lenta di spiriti e d'idee, per quanto ancor recente, è troppo salda, perchè
alcuno possa te mere di vederla infranta nell'urto fragoroso d'interessi
antagonistici internazionali o classisti, perchè altri si ar roghi il non
ammissibile diritto di salvarla e di rappre sentarla. 4 Nota bibliografica. Ho
seguito i testi più sicuri dal punto di vista tipografico, cioè: VINCENZO
Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 a cura di Fausto
Nicolini, Bari, Laterza ed., 1913, che ho raffrontato con l'edizione milanese
del Sonzogno, 1820, e con quella fiorentina del Barbèra, 1865; VINCENZO Cuoco,
Platone in Italia a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza, ed., 1916-24, volumi
due; VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti o rari raccolti e pubblicati da
Giovanni Gentile, Roma-Milano, Albrighi e Se ganti ed., 1909. Gli articoli del
Giornale italiano ho veduto sul testo originario, ma spesso mi sono servito
delle ristampe in appendice alle opere critiche del Romano e del Cogo.
Allorquando il mio lavoro era già compiuto sono usciti i due volumi di scritti
cuochiani, che integrano nella raccolta degli Scrittori d'Italia laterziana il
Saggio e il Platone: VIN CENZO Cuoco, Scritti vari a cura di N. Cortese e F.
Nicolini, Bari, Laterza ed., 1924, volumi due. Con questa stampa quanto di
meglio è stato scritto dal grande molisano è oramai stato dato al pubblico, e
ben poco resta da fare nel campo dell'ine dito. Non tutti gli articoli del
Giornale italiano invero hanno tro vato l'attesa ripubblicazione, ma, sebbene
alcuni scritti di una certa importanza siano stati posti fuori, quei ventisette
che il Cortese e il Nicolini hanno scelto, uniti al catalogo ragionato dei 292
rimanenti, bastano a dare un'idea più che sufficiente al let tore dell'attività
pubblicistica del nostro autore. Va data lode ai due insigni editori Cortese e
Nicolini per non avere lasciato da parte gli articoli; che il Cuoco ha
pubblicato nel Corriere di Napoli e nel Monitore delle due Sicilie, i quali,
sebbene assai meno interessanti di quelli del Giornale italiano, pure possono
essere utili, e per avere di essi pure offerto un catalogo ragio nato. S’
intende che ho riveduto il testo di tutti gli scritti minori di Vincenzo Cuoco
sovra la nuova edizione laterziana, che offre i migliori affidamenti di serietà
e di rigore, sopra tutto per la ortografia, che, specie nei fogli originari del
Giornale italiano, è la più volubile e ineguale. P. ALBINO, Biografie e
ritratti degli uomini illustri della pro vincia di Molise, Campobasso, 1864, I,
pp. 1-36; F. BALSANO, Vincenzo Cuoco e gli studi della gioventù italiana in
Rivista Bolognese, a. II, v. I, fasc. IV, aprile 1868; F. BATTAGLIA, Critica
rivoluzionaria e tradizione nel pensiero di V. Cuoco in Studi politici, a. I,
fasc. 4-5, aprile 1923; A. BUTTI, La fondazione del « Giornale italiano » e i
suoi primi redattori (1804-1806), Milano, Cogliati ed., 1905 (estr. dall' Arch.
stor. lomb., a. XXXII, fasc. VII ), alla quale operetta si riferisce la
recensione di G. OTTONE in Riv, stor. it., a. XXIII, za serie, vol. V (1906 ),
p. 341 e sgg.; A. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al vicerè Eugenio, nella
miscellanea Dai tempi antichi ai tempi moderni (per nozze Scherillo- Negri),
Milano, Hoepli ed., 1904, p. 529 e sgg.; A. BUTTI, L'Anglofobia nella
letteratura della cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo,
a. XXXVI (1909), p. 434 e sgg.; C. CANTONI, Giambattista Vico, studi storici e
comparativi, Torino, Civelli ed., p. 23 e sgg.; N. CAPRARA, V. Cuoco, Isernia,
1919 (1 ); (1 ) L'indicazione dell'opuscolo non è esatta, poichè la sola copia
che ho potuto vedere manca del frontespizio: del resto si tratta di uno scritto
di mero inte resse bio - bibliografico. 293 9 G. Cogo, Vincenzo Cuoco, note e
documenti, Napoli, Jovene ed., 1909 (cfr. le recensioni di G. GENTILE in
Archivio stor. nap. XXXIV (1909), pp. 588 e sgg., poi ristampata in ap pendice
agli Studi vichiani, Messina, Principato ed., 1915; di G. GALLAVRESI in Il
Risorgimento italiano, a. III, fasc. I - II, p. 223 e sgg.; e ancora di G.
GALLAVRESI in Arch. stor. lomb., a. VII, (1910), p. 462 e sgg. ); L. CONFORTI,
Napoli nel 1799, critica e documenti inediti, Napoli, De Falco ed., 1886, p. 21
e sgg., passim (una confuta zione di molte affermazioni ingiuste dell'autore è
in N. RUG GIERI, Vincenzo Cuoco, Rocca San Casciano, Cappelli, ed., 1903, p.
104 e sgg., nonchè in M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, Isernia, 1904, p. 99 );
B. CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza ed., 1911, passim;
B. CROCE, La rivoluzione napoletana del 1799, terza edizione, Bari, Laterza,
1912, passim; B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX,
Bari, Laterza, 1921, vol. I, p. 8 e sgg; R. DE RENZIS, Il risveglio degli studi
intorno a V. Cuoco in Italia moderna, 1905; G. DE RUGGIERO, Il pensiero
politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari, Laterza ed., 1922, p. 166 e
sgg.; F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed., v.
II, p. 309, p. 327 (accenni ); F. DE SANCTIS, Saggi critici, Milano, Treves, v.
III, p. 291; A. FRANCHETTI, Storia d'Italia, Milano, s. d., Vallardi, p. 557 e
sgg.; G. GENTILE, Studi vichiani, Messina, Principato ed., 1915 (in cui è
ristampato lo studio Un discepolo di G. B. Vico: Vincenzo Cuoco pedagogista,
già pubblicato in Riv. pedagogica, a. II, 1908); G. GENTILE, Dal Genovesi al
Galluppi, Napoli, edizione della Critica, 1903, p. 375 e sgg. G. B. GERINI, Gli
scrittori pedagogici italiani del secolo XIX, G. B. Paravia ed., 1910, Torino,
pp. 30-44; F. GUEX, Storia dell' istruzione e della educazione, trad. o note
con app. su Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico di G.
VIDARI, G. B. Paravia ed., s. d., Torino, v. II, p. 314 e sgg.; 294 e P.
HAZARD, La révolution française et les lettres italiennes, 1779-1815, Paris,
Hachette ed., 1911, p. 218 e egg.; B. LABANCA, Giambattista Vico e i suoi
critici cattolici, Na poli, Pierro ed., 1898, p. 406 e sgg.; A. LEVATI, Saggio
sulla storia della letteratura italiana nei primi venticinque anni del secolo
XIX, Milano, Stella ed., 1831, p. 228; G. MAFFEI, Storia della letteratura
italiana, riveduta da P. Thouar, Firenze, Le Monnier ed., 1853, v. II, p. 259,
p. 348 e sgg.; F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo
pensiero letterario; l'aurora di un genio, Casa ed. Risorgimento, Roma, 1919,
(cfr. recensione di G. GENTILE in Critica, v. XVII, p. 317 e sgg. ); G. B.
MARCHESI, Studi e ricerche intorno ai romanzieri e ro manzi del ' 700, Bergamo,
1903; A. MARTINAZZOLI E CREDARO, Dizionario illustrato di peda gogia, F.
Vallardi ed., 1901-5, Milano, v. I, p. 420 e sgg. (1 ); 0. MASTROIANNI,
Ricerche storiche pubblicate per delibera zione del R. Istituto d'
incoraggiamento di Napoli, Napoli, Pierro ed., 1907, p. 196 e sgg.; P. MONROE
ed E. CODIGNOLA, Breve corso di storia dell'edu cazione, trad. di S. CARAMELLA,
Vallecchi ed., 8. d., Firenze, v. II, pp. 207 e sgg.; G. NATÁLI, Nel primo
centenario della morte di V. Cuoco in Rivista d'Italia, a. XXVI, fasc. XII (15
dic. 1923); G. NATALI, L'idea del primato italiano prima di V. Gio berti, Roma,
1917 (estr. dalla Nuova Antologia ); G. NATALI, La letteratura italiana nel
periodo napoleonico, 1916 (estr, dalla Rivista d'Italia ); G. NATALI, La vita e
il pensiero di F. Lomonaco, Napoli, San giovanni ed., 1912 (estr. dagli Atti
della R. Accademia di sc. mor. di Napoli: cfr. GENTILE, Studi vichiani, p. 361
); L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815 in
Nuova Antologia, a. XXVI, fasc. XXVI, 16 novembre, 1-16 dicembre 1891, p. 433 e
sgg. (1 ) L'articolo Cuoco è fifmato A. Martin azzoli. 295 1 G. OTTONE, V.
Cuoco e il risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tip.
vigevanese, 1903 (cfr. le recensioni di A. LEONE, in Riv. stor. ital., a XXI,
s. 3a, v. III, pp. 57-8; di A. Butti, in Giorn. stor. d. lett. it., a. XLIV (1904),
p. 240 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. létt. it. a. IX (1904), p. 277 e
sgg.; e infine di G. G[ ENTILE) in Arch. st. per le prov. nap., a. XXX (1905),
p. 73 e sgg. ); G. OTTONE, La tesi vichiana di un antico primato italiano nel «
Platone » di V. Cuoco: contributo alla storia del risveglio nazionale nel
periodo napoleonico, Fossano, Rossetti, 1905, (cfr. recensioni di A. Butti, in
Giorn. st. d. lett. it., a. XLVII (1906), p. 157 e sgg.; di S. Rocco, in Rass.
crit. d. lett. it., a. XI (1906), p. 181 e sgg. ); G. OTTONE, Mario Pagano e la
tradizione vichiana del secolo scorso, Milano, Trevisini, 1897; G. PEPE,
Necrologia: Vincenzo Cuoco, in Antologia, a. XIV (1824), p. 99 e sgg. (riprodotta
dinanzi a varie edizioni del Saggio storico del Pomba di Torino ); I. RINIERI,
Della rovina d'una monarchia; relazioni storiche tra Pio VI e la Corte di
Napoli negli anni 1776-1779, Torino, 1901, p. 484 e sgg.; G. ROBERTI, Lettere
inedite di C. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco in Giorn. st. d. lett. it., a. XII,
v. XXIII (1894), p. 416 e sgg.; M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, politico,
storiografo, ro manziere, giornalista, Isernia, Colitti, 1904 (cfr. recensioni
di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it., a. IX (1904 ), p. 147 e sgg.; di A.
BUTTI, in Giorn. st. d. lett. it., a. XLVI (1905), p. 412 e sgg; infine di G.
GENTILE, in Critica, III (1905), p. 39 e sgg., ristampata in Scritti vichiani,
p. 427 e sgg. ); M. ROMANO, Una pagina inedita di V. Cuoco su G. B. Vico, nella
miscellanea: Scritti di storia, di filosofia e d'arte (nozze FEDELE- DE
FABRITIIS ), Napoli, Ricciardi ed., 1908, p. 181 e sgg.; P. ROMANO, Per una
nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia ed., s. d., Torino, pp. 102-124; N.
RUGGIERI, Vincenzo Cuoco: studio storico critico con una appendice di documenti
inediti, Rocca S. Casciano, L. Cappelli ed., 1903 (cfr. recensioni di B. CROCE,
nella Critica, v. I (1903), ſ. pad 296 p. 298 e sgg.; di G. R[OBERTI), in
Giornale st. d. lett. it., a. XLII (1903 ), p. 429 e sgg.; di F. TORRACA, in
Rass. bibl. d. lett. it., a. XII (1904 ), p. 132 e sgg.; di S. Rocco, in Rass.
crit. d. lett. it., a. IX (1903), p. 34 e sgg.; di C. R [INAUDO), in Riv. stor.
it., a. XXI, 3a 8., vol. III (1904), p. 58 e sgg ); L. SETTEMBRINI, Lezioni di
letteratura italiana, Napoli, Mo rano ed., 1872 v. III, p. 279 e sgg.; R.
SÓRIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX,
in Bollettino della società pavese di storia patria, XVIII (1918 ), pp. 102-117,
pp. 119-121; U. TRIA, Vincenzo Cuoco a proposito di due sue lettere ine dite in
Rass. crit. d. lett. it., v. VI (1901 ), p. 193 e sgg. (cfr. RUGGIERI, op. cit.,
p. 94; ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg. ); A. Zazo, Le riforme scolastiche di
Gioacchino Murat, Roma, Albrighi e Segati ed., 1924, (estratto dalla Rivista
pedagogica, a. XVII ). « Nel 1905, scrive il GENTILE (Studi vichiani p. 336),
l'Accade. mia delle scienze morali e politiche di Napoli bandì un concorso sul
pensiero politico di V. Cuoco, da studiarsi anche nei mss. acquistati dalla
Nazionale di Napoli. Fu presentata una sola memoria, ancora inedita, di M.
ROMANO, Di V. Cuoco consi derato come scrittore politico e dei mss.
recentemente acquistati dalla Nazionale di Napoli (sulla quale vedi F. PERSICO,
Rel. sul concorso per il premio annuale dell'anno 1905 sul tema « Di Vincenzo
Cuoco, ecc. » nei Rend. dell'Acc. ecc., tornata del 22 dic. 1906 ». Circa
questi mss. vedi Suppl. alla Riv. di bibl. ed arch., 1905, pag. 3, nonchè
RUGGIERI, op. cit., p. 63; Cogo, op. cit., p. 45, n. 13, il quale ultimo di
essi mss. abbondante mente si serve, documentando le sue acute asserzioni, e
infine CROCE nella Critica, a. I (1903 ), p. 299. Del Cuoco si sono occupati
varî autori in storie generali politiche e letterarie, di cui citerò soltanto
alcuni più noti: V. FIORINI e F. LEMMI, Periodo napoleonico dal 1799 al 1814,
in Storia politica scritta da una Società di professori, Milano, Vallardi, s. d.
passim; F. LEMMI, Le origini del Risorgimento italiano (1789-1815), Milano,
Hoepli, 1906, passim; M. Rosi, L'Italia odierna, Unione tip.- editr. torinese,
1922, v. I, p. 206, p. 238, passim; G. MAZZONI, L'Ottocento, Milano, Vallardi,
1913, p. 106-7, p. 131-32, e passim, in Storia letteraria scritta da una 297
società di professori; V. Rossi, Storia della letteratura italia na, Milano,
Vallardi, 1915, v. III, p. 243; A. D' ANCONA e 0. BACCI, Manuale della
letteratura italiana, Firenze, Barbèra, 1914, v. V, p. 132, v. VI, p. 386-7 (1
); F. TORRACA, Manuale della letteratura italiana, settima ed., Firenze,
Sansoni, 1918, v. III, p. II, p. 441 e sgg. Il primo centenario della morte di
V. Cuoco è stato degna mente ricordato agli italiani, oltre che dalla
pubblicazione dei due volumi di Scritti vari per cura di N. Cortese e di F.
Nico lini, dalla commemorazione di Campobasso tenuta da G. GEN TILE (Vincenzo
Cuoco, Roma, Alberti ed., 1924). Preannunziando o annunziando la ricorrenza
scrissero del grande molisano S. ARCOLESE, Vincenzo Cuoco (1823-1923 ), in Il
popolo molisano, 15 marzo 1923; G. COLESANTI, Un realista; Vincenzo Cuoco, in
Il mondo, 13 dicembre 1923 (2 ); F. BARIOLA, Vincenzo Cuoco, in Gazzetta delle
Puglie, febbraio 1924; F. Mo MIGLIANO, Commemorazione di V. Cuoco, in
Conscientia, 2 feb braio 1924. Ottima sotto ogni rapporto è la prolusione al
Corso di Fi losofia Giuridica tenuta nella R. Università di Firenze da G. DE
MONTEMAYOR: La buona politica: dal Vico al Cuoco al Risorgimento Italiano (Roma,
Soc. Anonima Poligrafica 1925). Altra raccolta di scritti per uso scolastico.
V. CUOCO - Educazione e politica (Bemporad 1925 ) fu composta, pre ceduta da
una larga introduzione, da G. MARCHI. (1 ) A pag. 387 v'è una duplice
inesattezza: ad A. BUTTI sono riferiti gli scritti, Un articolo dimenticato di
V. Cuoco sugli scrittori politici italiani, in La Critica, II, p. 337 e Una
pagina inedita su G. B. Vico in miscellanea Per nozze Fedele- Fabritiis, p. 181,
la riesumazione dei quali spetta, del primo a B. CROCE, del secondo a M.
ROMANO. (2) L'articolo del Colesanti era presentato su Il mondo come facente
parte di un numero unico cuochiano da pubblicarsi in Campobasso, che non ho
potuto avere nè vedere. INDICE CAP. I. La tradizione italica Pag. CAP. II. I «
Frammenti di lettere a V. Russo » e la critica rivoluzionaria. 27 CAP. III. Il
« Saggio Storico sulla rivoluzione di Napoli » 80 CAP. IV. Napoleone e la sua
politica generale. 123 CAP. V. Nazionalità e italianismo nel « Giornale
italiano » 197 CAP. VI. Il « Platone in Italia » e la tesi di un antico primato
italico.. >> 228 Cap. VII. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano
260 Conclusione 278 Nota bibliografica. ·Felice Battaglia.
Keywords: valori italiani, essere italiano, valori italiani, “spirito nazionale in Italia” -- ius, giure. –
spirito nazionale, spirito italico, spirito italiano, spirito nazionale in
Italia, Vicco, Cuoco, roma antica, Etruria, ‘la tradizione italica’, il
‘Platone’ di Cuoco, ‘Cuoco non e un vero filosofo’, Gentile, Schelling,
volksseele volksgeist, anima di una nazione, anima universale, animus di una
nazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Battaglia” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Battista – la percezione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nicosia). Filosofo italiano. Grice: Very good. – Giovanni
Battista – he assumed the name “BONOMO” Gabriele
Bonomo Frate Gabriele Bonomo o Bonhomo – Appartenente all'Ordine dei Minimi.
Scrive un saggio sulla “trigonometria”. e inventò un orologio automatico. Entra come frate nell'Ordine dei Minimi con
il nome di Gabriello e fu assegnato al convento di Santa Oliva di Palermo. Pietro Riccardi, Bibliotheca mathematica
italiana dalla origine della stampa ai primi anni del secolo XIX, Editore
Soliani, Antonio Muccioli, Le strade di Palermo, Editore Newton & Compton,
1998127. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Biografie: di
biografie Categorie: Teologi italianiMatematici italiani del XVIII
secoloFilosofi italiani Professore Nicosia (Italia) PalermoMinimi. Batista.
Giovanni Batista. Giovanni Battista. Battista. Keywords: percezione, trigonometria,
orologio automatico, la filosofia della trigonometria, Comte, la trigonometria
nella matematica italiana, Venezia, la filosofia illustrata, la teoria causale
della percezione. Refs.: “Grice e Battista” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Bausola –
solidarietà – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ovada). Filosofo
italiano. Grice: “I would call Basuola a Griceian – he speaks of the ‘reasons
for solidarity,’ which is exactly the point I want to make, alla Kant, in
‘Aspects of reason,’ as people kept asking me for the rationale – i. e.,
literally, the rational basis – for conversational cooperation – People agree
that conversation is rational; but my stronger thesis is that it’s cooperation
which is rational. That is Bausola’s point.” “Basuola has also explored the
topics of ‘inter-personal relation’ from a philosophical rather than
sociological perspective – and therefore into the compromise between self-love
and other-love, or freedom and responsibility --. A genius! That he also
admires my latitudinal and longitudinal unity of philosophy (‘storiografia
filosofica,’ as the Italians call it) is a plus, or bonus!” – Figlio di
Filippo, scultore cieco di guerra ed Eugenia Bertero. Conseguita una formazione
cattolica attraverso le scuole primarie delle Madri Pie, fondate da Paolo
Gerolamo Franzoni, e dei Padri Scolopi, gli studi liceali lo vedono a Novi
Ligure al Classico Statale "Doria" dove «la materia che veramente fu
per lui una rivelazione è la filosofia».
Sceglie così la facoltà all'Università Cattolica a Milano, dopo un
incontro con Padre Agostino Gemelli e Monsignor Francesco Olgiati, vincendo
anche il concorso per un posto gratuito nel Collegio Augustinianum. Fra i suoi
docenti emergono due figure che per lui sono «maestri di vita e di pensiero»,
esponenti di spicco del movimento neotomista: Gustavo Bontadini e Sofia Vanni
Rovighi. Diventa così libero docente di filosofia morale nel 1962. Nel 1970
vincendo la cattedra di storia della filosofia viene chiamato alla Cattolica,
dove dal 1974 al 1979 è ordinario di filosofia morale passando poi, nel 1980,
ad ordinario di filosofia teoretica. È preside della facoltà di lettere e
filosofia dal 1974 al 1983. Nel 1982 è
chiamato a far parte del Pontificio Consiglio della Cultura istituito da
Giovanni Paolo II per il periodo 1982-1992. Nel 1983 dell'Università Cattolica
del Sacro Cuore ne diventa il Rettore, carica che mantiene fino al 1998. È stato anche direttore della Rivista di
filosofia neo-scolastica, ininterrottamente, dal 1971, e dal 1984 della rivista
Vita e Pensiero e condirettore della Rivista Internazionale dei diritti
dell'uomo. Inoltre ha diretto la sezione di filosofia moderna della collana dei
Classici della Filosofia dell'Einaudi Rusconi. Ha fatto parte del Direttivo del
Centro di metafisica istituito dalla Cattolica, e per esso ha co-diretto la
collana di pubblicazioni Metafisica e storia della metafisica. Tra gli altri incarichi e funzioni è
stato: Socio dell'Accademia Nazionale
dei Lincei nella categoria scienze filosofiche; Membro dell'Istituto
LombardoAccademia di Scienze e lettere; Membro del direttivo della Società
Filosofica Italiana; Vice Presidente del Comitato Scientifico e Organizzatore
delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani dal 1985 al 1994; Consulente
della Sacra Congregazione per l'Educazione Cattolica; Presidente di una delle
Commissioni del Convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana a Roma
dal 30 ottobre al 4 novembre 1976; Moderatore di uno dei cinque ambiti del
Convegno ecclesiale Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini a Loreto
dal 9 al 13 aprile 1985; Uditore al Sinodo straordinario dei Vescovi indetto
dal Papa per il 20º anniversario del Concilio Vaticano II; Studi Sul piano
teorico, le direttive di indagine di Bausola sono soprattutto quella etica
(fondazione della morale), quella antropologica (il problema della libertà; il
tema della cultura e della cultura cristiana in particolare), e quelle della
metafisica e della gnoseologia. I suoi interessi principali di studioso sono
rivolti, sul piano storico all'idealismo e al neo-idealismo, esperto a livello
internazionale di Friedrich Schelling e di Blaise Pascal i suoi studi sono
rivolti anche a Franz Brentano, John Dewey e al pragmatismo, alla tematica
esistenzialista. Caratteristico delle opere di Bausolalà dove si tratti dello
studio di filosofi del passato, o del nostro tempoè il legame tra ricostruzione
storica e ripensamento critico, secondo criteri teoretici: un orientamento
volto, attraverso il dialogo con alcune delle più importanti prospettive della
filosofia moderna e contemporanea, ad un ripensamento della concezione classica
del sapere. La sua attività pubblicistica si è svolta sul terreno filosofico,
politico-culturale, etico-religioso, e si è realizzata su giornali e su riviste
di cultura. Altre opere: “Saggi sulla
filosofia di Schelling” (Milano, Vita e Pensiero); “L'Etica di John Dewey,
Milano, Vita e Pensiero); “Filosofia e storia nel pensiero crociano, Milano,
Vita e Pensiero); “Metafisica e rivelazione nella filosofia positiva di Schelling,
Milano, Vita e Pensiero); “Etica e politica nel pensiero di Benedetto Croce,
Milano, Vita e Pensiero); “Il pensiero di Schelling); “Conoscenza e moralità in
Franz Brentano, Milano, Vita e Pensiero); “Indagini di storia della filosofia.
Da Leibniz a Moore, Milano, Vita e Pensiero); “Lo svolgimento del pensiero di
Schelling. Ricerche, Milano, Vita e Pensiero); “Il problema del valore nella
filosofia analitica, Milano, Scuole Grafiche Opera Don Calabria); “Il problema
della libertà. Introduzione a Sartre, Milano); “Filosofia della rivelazione.
Federico Guglielmo Giuseppe Schelling” (Bologna, Zanichelli); “Introduzione a
Pascal, Bari, Laterza); “Friedrich W. J. Schelling, Firenze, La Nuova Italia);
“Filosofia Morale. Lineamenti, Milano, Vita e Pensiero); “Natura e progetto
dell'uomo: riflessioni sul dibattito contemporaneo, Milano, Vita e Pensiero); “Libertà
e relazioni interpersonali: introduzione alla lettura di L'essere e il nulla,
Milano, Vita e Pensiero); “Pensieri, opuscoli, lettere di Blaise Pascal, con Remo
Tapella, Milano, Rusconi); “Libertà e responsabilità, Milano, Vita e Pensiero
“La libertà” (Brescia, La Scuola); “Le ragioni della libertà, le ragioni della
solidarietà” (Milano, Vita e Pensiero); “Fra etica e politica, Milano, Vita e
Pensiero. Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura
e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della
scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1981 Commendatore dell'Ordine
al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCommendatore
dell'Ordine al merito della Repubblica italiana —Cavaliere di gran croce
dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere
di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — Roma, 2 giugno
1988 Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magnonastrino per
uniforme ordinariaCavaliere di Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magno
Note Anna Maria Bausola Grillo, Adriano
Bausola nei ricordi della sorella, ne Atti del convegno "Studi di Storia
Ovadese", pubblicazione dedicata alla memoria di Adriano Bausola,
Accademia Urbense di Ovada, Avvenire, su swif . Quirinale: dettaglio
decorato. Sito web del Quirinale:
dettaglio decorato. Sito web del
Quirinale: dettaglio decorato. Emilio
Costa, Un Ovadese nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo,
in URBS Silva et flumen, Alessandro Laguzzi; Edilio Riccardini, Atti del
Convegno Studi di Storia Ovadese, Ovada, Accademia Urbense, Costa, Un Ovadese
nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, URBS silva et
flumen, trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno su
archiviostorico.net. Flavio Rolla, Adriano Bausola, filosofo. Ricordo
dell'illustre ovadese a 10 anni dalla scomparsa, URBS silva et flumen,
trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, su
accademiaurbense. Dal sito filosofico.net: Adriano Bausola Diego Fusaro, su
filosofico.net. blogphilosophica.wordpress Lorenzo Cortesi PredecessoreMagnifico
Rettore dell'Università Cattolica del Sacro CuoreSuccessoreStemma UCSC.png
Giuseppe Lazzati19831998Sergio Zaninelli Filosofia Università Università Filosofo del XX secoloAccademici
italiani Professore Ovada RomaBenemeriti della scuola, della cultura e
dell'arteCavalieri di gran croce OMRICommendatori OMRIStudenti dell'Università
Cattolica del Sacro CuoreRettori dell'Università Cattolica del Sacro
CuoreProfessori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Adriano Bausola.
Keywords: solidarietà, storia in Croce – “The problem with Bausola is that he is
a Roman!” – Grice. Croce, fascismo, totalitarismo, utilitarismo, egoita,
noi-ita, Marx, conflitto, cooperazione, soderale, anche solidaria, Butler,
egoism, altruismo, self-love, other-love, self-love, benevolence, ichheit,
wirkheit, weness, we-ness, io-ita, ioita – Archivio di Filosofia – noi-eta,
noi-ita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bausola” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Bazzanella – il
luogo dell’altro – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste).
Filosofo italiano. Grice: “I like Bazzanella; he has a totally different
background from mine, but we can communicate – I have focused on conversational
communication; he specializes in televisional communication; he has used
Heidegger’s concept of contamination to elucidate that of structure .” Grice:
“My favourite of his tracts must be one on ethics and topology, broadly
understood, which is all that my theory of conversational helpfulness is about
– Bazzanella entitles his essay, ‘il lugo dell’altro,’ playing with the
strictness of his topological approach as applied to the ethos that results
when ‘ego’ meets and communes with ‘alter.’”
Partecipa a tre edizioni della Biennale di Venezia e a una edizione
della Biennale di Architettura. Di formazione fenomenologica e tutee di Rovatti,
inizia la sua attività filosofica a con un saggio su Jankélévitch, per poi
approfondire il pensiero di Heidegger, Husserl, nonché di autori francesi del secondo
dopoguerra quali Derrida, Foucault, Lacan, Merleau-Ponty, Deleuze e Guattari. Delinea
una echologia. Ipotizzando che l'ontologia non e che una finzione o un
dispositivo di tipo immunologico, storicizzabile e tipico della società
occidentale. Successivamente elabora l’echologia inserendola nel contesto più ampio
del senso -- applicandola al consumo. Espone a Udine "Size". Il suo sviluppo della performance introduce
nella gestualità del corpo le nuove tecnologie multimediali sulla scia delle
installazioni di Tony Oursler. Alla
Biennale di Venezia progetta un'installazione multimediale (Blue Zone)
che inaugura una serie di opere ispirate alla "morte dell'arte". In
una mostra surreale, quasi post-human, le opere degli artisti sono ricoperte da
un velo, mentre in una serie di monitor sparsi negli spazi espositivi vengono
riprodotti i volti degli artisti che cercano di descrivere a parole le loro
opere invisibili. Alla Biennale di Venezia del, invece, propone
un'installazione (Overplay), inserita nel contesto di un palazzo veneziano, in
cui 16 iPad riproducono in maniera casuale e differenziata delle domande
generate da un software. Si tratta di un'evoluzione del progetto "Tautologia"
nel quale invece il programma riproduce in rete una serie infinita di pensieri
filosofici. Dal pensiero debole al pensiero orizzontale. Bazzanella
declina la debolezza nel senso di un passaggio dalla profondità della
metafisica a un'idea del superficiale di cui vede alcune tracce presenti in
Husserl, Merleau-Ponty e Heidegger. In questo passaggio il relativismo non
viene più interpretato come una manifestazione del nichilismo, bensì come il
tentativo di articolare una filosofia di una “relazionie orizzontale” che tende
a scardinare l'impianto della logica aristotelica. L'echologia è un
termine che Bazzanella desume da Deleuze a proposito di Tarde. Nella genesi
delle Categorie di Aristotele ci siano stati movimenti contrapposti, in cui
soltanto in una seconda istanza sarebbe prevalsa un'impostazione
"usiologica", “ouisologia” -- cioè basata sulla centralità della
"sostanza" (ousia, stantia, essential, izzing, x izzes y. Questo passaggio è decisivo poiché segna il
definitivo abbandono delle suggestioni della filosofia presocratica (Velia,
Parmenide, Zenone, Crotone, Empedocle da Girgentu) ponendo le basi di quello
che sarebbe stato l'impianto della filosofia occidentale. La lateralizzazione,
dunque, della categoria di “échein” (hazzing – habitus) nel suo duplice
significato di "avere" (Grice: x hazzes y”) e di "essere in
relazione" ha comportato il privilegio dell'"essere" e di
un'ontologia che impone un principio ed una gerarchia verticale, colla,
suddivisione tra la "cosa" ed il "oggetto" (Grice’s
‘obble’). x Fid y. La relazione diadica
x/y e una “echo-logia, e non una “onto-logia”. L’echologia e decostruttiva.
L’echo-logia evidenzia come ogni costruzione di senso, prima che “onto-logica”
od ‘ontica’ e fondata sull’ente e
articolata sulla relazione o, come li definisce Bazzanella,
sull’”essema”. In “Echologia,” attraverso una rilettura del concetto di “aletheia”
(disvegliamento), sviluppa una teoria del senso secondo la quale il senso non
può sussistere senza un rapporto essenziale con il “non” senso. Ciò significa
che le classiche legge di Parmenide dell’identità, la legge della non-contraddizione,
e la legge del terzo escluso sono costruite sopra una superficie illogica. La
legge logica e una forma di copertura (vegliamento) dell'”àlogon”
(‘irrationale’). Bazzanella sostiene inoltre che la legge logica (a izz a,
non-a non izz a, a o non-a), dipende mimeticamente o iconicamente da una
relazione essematica esprimibile come una pre-posizioni che istanzia una
relazioni senza referenza a le due relati. La preposizione "in" (‘jack IN the
box). La preposizione "con" (p & q, p con q). La preposizione
"di” (il perro di Strawsn). La preposizione “ri-" (Grice ri-torna).
Si tratta di una filosofia al limite della pensabilità. Invita a non concepire la
cosa o l’oggetto. Invita a concepire la *re-lazione* (re-ferenza) -- che
vengono ad esempio esperite dal neonate. l'"in" esprime l'in-essere
del feto nel grembo materno – Jack in the box, il feto nel grembo. Il
"con" esprime l'essere-con la propria madre e il suo seno (“Achille e
Teti”, “Romolo con la lupa”, La madre di Ascanio. La madre di Enea. La madre di
Romolo (Rea Silva). Il padre di Romolo: Marte. Il "di-" echeggia nel “dià”
del “dia-framma” rappresentato dal liquido amniotico rispetto al mondo esterno.
Il dia-framma della dia-logo. El dia-lettico. Il "ri-" allude alla
ri-petizione e al carattere originariamente ossessivo del bambino che cerca
sicurezza ri-petendo sempre i medesimo gesto (pianto, sorriso) e i medesimi suono (‘ma-ma’ ‘da-da’). L'impostazione
relazionistica che è partita da una fenomenologia dell'orizzonte per
articolarsi attraverso un'echologia e una teoria del senso, trova il suo
significato nel "paradigma immunitario. Lo desume da Foucault e,
soprattutto, da Gehlen, Sloterdijk ed Esposito. Se l'Ego si trova ggettato"
nell'Altro sin dalla nascita, cioè in una relazione che viola la legge della
logica e, soprattutto, che non consentono un ancoraggio rassicurante alla cosa ed
all’ oggetto, deve proteggersi e difendersi. Questo processo avviene però in
analogia con il sistema immunitario del corpo. Cioè l'Altro, il non-Ego, il
non-senso (o anche il "reale" come lo definisce traendo spunto dalla
definizione di Lacan) non può essere addomesticato che attraverso l'Altro. Il
senso ha una funzione difensiva e immunizzante e si basa su una
"mimesi" del reale mediata dall’essema. Il senso "imita" iconicamente
così il non-senso, ne è una sorta di estrusione. Questo paradosso implica anche
una riconsiderazione del soggetto e della relazioni di soggeti
(l’inter-soggetivo), soprattutto alla luce del suo dispiegamento a partire dal
cogito cartesiano. Il soggetto non coincide con un'identità, un "io"
pre-costituito. L’”io” rappresenta una funzione immunologica in cui l'individuo
assoggetta una cosa o un’altra persona, delegando le medesime ad affrontare il
reale al proprio posto. Il soggetto è un a-soggetto nel doppio senso di
non-essere-soggetto e di as-soggettare (ab-sub-jectum, ad-sub-jectum). La
communita inter-soggetiva rappresenta il paradigma di un processo di normo-tipizzazione
in cui una relazione essematica il puro cum senza relati, in questo caso si
trasforma in una difesa immunologica nei confronti del "fuori". Riprende
il dispositivo come orizzonte di potere intersoggetivo che funge da barriera o
filtro nei confronti del reale, nonché da sistema di controllo endo-geno e
normalizzante. La normotipia da' senso a una relazione nella misura in cui
riesce a bilanciare più o meno efficacemente il senso e il non-senso. Il
rischio di un sistema di senso, infatti, è paradossalmente quello di un eccesso
di senso. Ciò implica infatti una psico-tizzazione della comunità intersoggetiva,
e, quindi, una sorta di non-senso di ritorno. Gli esempi sono ormai
classici: il marxismo declina nel leninismo e degenera nello stalinismo. Il fascismo dai un
presupposto socialista diviene un
totalitarismo spietato e annientante. Si tratta di un *eccesso* di senso, di un
surplus immunitario che, se inizialmente intendeva distanziare e filtrare il
reale, comporta alfine una sorta di "divenire-reale" del senso
stesso, un'insensatezza reattiva e reazionaria. È in tale prospettiva che il
modello di senso tardocapitalistico sembra svolgere una funzione
autoimmunitaria. Il soggeto non ha a che fare soltanto con un processo di
stretta pertinenza economica, ma con un orizzonte di senso condiviso che permea
ogni aspetto dell'esistenza itersoggetiva. Società dello spettacolo e società
dei consume momenti in cui in particolare si esplica il capitalism non
sarebbero che una forme dialettica di reazione all'eccesso di senso del
totalitarismio. Si tratta di un bilanciamento tra un'evasione nell'immaginario
e un ri-torno al reale che si manifesterebbe nel momento stesso del consume. Note A. Fabris, La noia, il nulla, in «aut aut»,
n. 270, La Nuova Italia, Firenze, Bonami, La dittatura dello spettatore,
Catalogo generale della 50. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di
Venezia, Marsilio, Venezia, Storr (a c. di), Pensa con i sensi, senti con la
mente, Catalogo generale della 52. Esposizione Internazionale d'Arte. La
biennale di Venezia, Marsilio, Venezia, Birnbaum (a c. di), Fare Mondi,
Catalogo generale della 53. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di
Venezia, Marsilio, Venezia, Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso
al Collège de France, Feltrinelli, Milano, Esposito, Immunitas. Protezione e
negazione della vita, Einaudi, Torino, Esposito, Communitas. Origine e destino
della comunità, Einaudi, Torino, Tempo e linguaggio. Studio su Vladimir
Jankélévitch, Franco Angeli, Milano, Orizzonte. Passività e soggetto in Husserl
e Merleau-Ponty, Guerini e associati, Milano, Contaminazione. L'idea di
struttura in Heidegger, Franco Angeli, Milano, Spazio e potere. Heidegger,
Foucault, la televisione, Mimesis, Milano, Il luogo dell'Altro. Etica e
topologia in Jacques Lacan, Franco Angeli, Milano, Idee per un'echologia
fenomenologica, Franco Angeli, Milano, Echologia. Introduzione a una
fenomenologia della proprietà e a una critica del pensiero ontologico, Asterios
Editore, Trieste, Fede, echologia, sapere, Asterios Editore, Trieste, La
Fabbrica, Trieste, FrancoPuzzoEditore, Trattato di echologia, Mimesis, Milano, La
fabbrica, FPE Editore, Trieste, Il ritornello. La questione del senso in
Deleuze-Guattari, Mimesis, (Milano). Il tardocapitalismo. Decorsi e patologie
di una rivoluzione permanente, Asterios Editore, Trieste, Etica del
tardocapitalismo, Mimesis, Milano, Logica e tempo, Abiblio, Trieste, Autoscrittura,
Asterios Editore, Trieste, Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo,
Mimesis, Milano Religio II. La religione
del soggetto, Mimesis, Milano. Indignatevi, Asterios Editore Trieste. Oltre la
decrescita. Il Tapis Roulant e la società dei consumi, Asterios Editore,
Trieste. Lacan. Immaginario, simbolico e reale in tre lezioni, Asterios,
Trieste. Filosofie della paura. Verso la condizione post-postmoderna, Asterios
Editore, Trieste. La filosofia e il suo consumo. Nuovo realismo e postmoderno,
Asterios Editore, Trieste. Religio III. Logica e follia, Mimesis, Milano. Eros
e Thanatos. Senso, corpo e morte nel XX Seminario di Lacan, Asterios Editore,
Trieste,. Come. Linee guida per una immuno-fenomenologia, Asterios Editore,
Trieste,. Il numero e il fenomeno, Asterios Editore, Trieste. Il tragico e il
comico nell'epoca del grillismo e del trumpismo, Asterios Editore, Trieste.
Simbolo e violenza, Asterios Editore, Trieste. Del fallimento. Simbolo e
violenza II, Asterios Editore. Filosofi italiani del XX secoloFilosofi.
Emiliano Bazzanella. Keywords: il lugo dell’altro – etica e topologia, L’echologia
di Grice (dal greco ‘echein,’ avere, hazzing), essema, essematica, inessema,
coessema, diaessema, riessema, aritmetica. Esposito, communita, immunita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bazzanella” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Beccaria – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “I
would call Beccaria a Griceian, but I’m not sure he would call me a Beccarian!”
Grice: “His explicit, rather than implicated, Griceian ideology is in the
opening chapter on “Lo stilo conversazionale’ – he notes that the implicaturum
ain’t a part of the ‘sintassi’ of the ‘proposizione’ which is explicated – he
adds that ‘senses’ should not be multiplied because your addressee may get YOUR
sense, but trust he will lose interest if you keep multiplying – “to the risk
that he won’t get your sense in the last place!” – Grice: “Like me, Beccaria
was a unitarian philosopher; his tract on ‘I piaceri’ is delightful, very
pleasant read!” – If Austin and us met on different grounds and pubs, Beccaria
met at the caffe, and he liked it – Italians, unfortunately, only know him for
his tract on guilt and punishment!” – Grice: “Most Italians don’t even consider Beccaria an Italian philosopher but
as a member of the Accademia dei Pigne, as part of the illuminismo Lombardo
--.” Grice: “The philosophical panorama or landscape of Italian philosophy is
much diverse than our Oxonian dialectic!” --
One of the most essential of Italian philosophersReferred to by H. P.
Grice in his explorations on moral versus legal right, studied in Parma and
Pavia and taught political economy in Milan. Here, he met Pietro and Alessandro
Verri and other Milanese intellectuals attempting to promote political,
economical, and judiciary reforms. His major work, Dei delitti e delle pene “On
Crimes and Punishments,” 1764, denounces the contemporary methods in the
administration of justice and the treatment f criminals. Beccaria argues that
the highest good is the greatest happiness shared by the greatest number of
people; hence, actions against the state are the most serious crimes. Crimes
against individuals and property are less serious, and crimes endangering
public harmony are the least serious. The purposes of punishment are deterrence
and the protection of society. However, the employment of torture to obtain
confessions is unjust and useless: it results in acquittal of the strong and
the ruthless and conviction of the weak and the innocent. Beccaria also rejects
the death penalty as a war of the state against the individual. He claims that
the duration and certainty of the punishment, not its intensity, most strongly
affect criminals. Beccaria was influenced by Montesquieu, Rousseau, and
Condillac. His major work was tr. into many languages and set guidelines for
revising the criminal and judicial systems of several European countries. Se
dimostrerò non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la
causa dell’umanità.» (da Dei delitti e delle pene) Cesare Beccaria
Bonesana, marchese di Gualdrasco e di Villareggio (Milano), giurista, filosofo,
economista e letterato italiano considerato tra i massimi esponenti
dell'illuminismo italiano, figura di spicco della scuola illuministica
milanese. La sua opera principale, il trattato Dei delitti e delle pene,
in cui viene condotta un'analisi politica e giuridica contro la pena di morte e
la tortura sulla base del razionalismo e del pragmatismo di stampo
utilitarista, è tra i testi più influenti della storia del diritto penale ed
ispirò tra gli altri il codice penale voluto dal granduca Pietro Leopoldo di
Toscana. Nonno materno di Alessandro Manzoni, Cesare Beccaria è
considerato inoltre come uno dei padri fondatori della teoria classica del
diritto penale e della criminologia di scuola liberale. nacque a Milano
(allora appartenente all'impero asburgico), figlio di Giovanni Saverio di
Francesco e di Maria Visconti di Saliceto, il 15 marzo 1738. Fu educato a Parma
dai gesuiti e si laureò in Giurisprudenza il 13 settembre 1758 all'Università
degli Studi di Pavia. Il padre aveva sposato la Visconti in seconde nozze nel
1736, dopo essere rimasto vedovo nel 1730 di Cecilia Baldroni. Nel 1760
Cesare sposò Teresa Blasco contro la volontà del padre, che lo costrinse a
rinunciare ai diritti di primogenitura (mantenne però il titolo di marchese);
da questo matrimonio ebbe quattro figli: Giulia, Maria (1766-1788), nata con
gravi problemi neurologici e morta giovane, Giovanni Annibale nato e morto nel
1767 e Margherita anch'essa nata e morta nel 1772. Il padre lo cacciò
anche da casa dopo il matrimonio, così dovette essere ospitato da Pietro Verri,
che lo mantenne anche economicamente per un periodo. Teresa morì il 14
marzo 1774, a causa della sifilide o della tubercolosi. Beccaria, dopo appena
40 giorni di vedovanza, firmò il contratto di matrimonio con Anna dei Conti
Barnaba Barbò, che sposò in seconde nozze il 4 giugno 1774, ad appena 82 giorni
dalla morte della prima moglie. Da Anna Barbò ebbe un altro figlio,
Giulio. l suo avvicinamento all'Illuminismo avvenne dopo la lettura delle
Lettere persiane di Montesquieu e del “Contratto sociale” di Rousseau, grazie
ai quali si entusiasmò per i problemi filosofici e sociali ed entrò nel
cenacolo di casa Verri, dove aveva sede anche la redazione del Caffè, il più
celebre giornale politico-letterario del tempo, per il quale scrisse
sporadicamente. Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, nel
1764 diede alle stampe Dei delitti e delle pene, capolavoro ispirato dalle
discussioni in casa Verri del problema dello stato deplorevole della giustizia
penale. Inizialmente anonimo è un breve scritto contro la tortura e la pena di
morte che ebbe enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo e in particolare in
Francia. Contro le posizioni di Beccaria uscì, nel 1765 il testo Note ed
osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene di Ferdinando
Facchinei. Le polemiche che ne seguirono contribuirono alla decisione di
mettere il trattato di Beccaria all'Indice dei libri proibiti nel 1766, a causa
della distinzione tra peccato e reato. Nel 1766 Beccaria viaggiò poi
controvoglia fino a Parigi, e solo dietro l'insistenza dei fratelli Verri e dei
filosofi francesi desiderosi di conoscerlo. Fu accolto per breve tempo nel
circolo del barone d'Holbach. La sua giustificata gelosia per la moglie lontana
e il suo carattere ombroso e scostante, fecero sì che appena possibile tornasse
a Milano, lasciando solo il suo accompagnatore Alessandro Verri a proseguire il
viaggio verso l'Inghilterra. Il carattere riservato e riluttante di Beccaria,
tanto nelle vicende private quanto nelle pubbliche, ebbe nei fratelli Verri, e
soprattutto in Pietro, un fondamentale punto di appoggio e di stimolo
soprattutto quando iniziò ad interessarsi allo studio dell'economia. Come
Rousseau, Beccaria era a tratti paranoico e aveva spesso sbalzi d'umore, la sua
personalità era abbastanza indolente e il carattere debole, poco brillante e
non portato alla vita sociale; ciò non gli impediva però di esprimere molto
bene i concetti che aveva in mente, soprattutto nei suoi scritti. Tornato
a Milano nel 1768 ottenne la cattedra di Scienze Camerali (economia politica),
creata per lui nelle scuole palatine di Milano e cominciò a progettare una
grande opera sulla convivenza umana, mai completata. Antonio
Perego, L'Accademia dei Pugni. Da sinistra a destra: Alfonso Longo (di spalle),
Alessandro Verri, Giambattista Biffi, Cesare Beccaria, Luigi Lambertenghi,
Pietro Verri, Giuseppe Visconti di Saliceto Entrato nell'amministrazione austriaca
nel 1771, fu nominato membro del Supremo Consiglio dell'Economia, carica che
ricoprì per oltre vent'anni, contribuendo alle riforme asburgiche sotto Maria
Teresa e Giuseppe II. Fu criticato per questo dagli amici (tra cui Pietro
Verri), che gli rimproveravano di essere diventato un burocrate. Gli studiosi,
però, considerano questi giudizi ingiusti dal momento che Cesare Beccaria si
dedicò ad importanti riforme, che richiedevano una notevole preparazione
intellettuale, non solo amministrativa. Fra queste ci fu la riforma delle
misure dello stato milanese, intrapresa prima di quella del sistema metrico
decimale francese, e a cui Beccaria, insieme al fratello Annibale, dedicò quasi
vent'anni della sua vita. (La riforma, notevolmente complessa, coinvolse alla
fine solo il braccio milanese. La successiva riforma dei pesi non fu mai
realizzata.) Il suo rapporto con la figlia Giulia, futura madre di
Alessandro Manzoni, fu conflittuale per gran parte della sua vita; ella era
stata messa in collegio (nonostante Beccaria avesse spesso deprecato i collegi
religiosi) subito dopo la morte della madre e lì dimenticata per quasi sei
anni: suo padre non volle più sapere niente di lei per molto tempo e non la
considerò mai sua figlia, bensì il frutto di una relazione extraconiugale delle
numerose che la moglie aveva avuto. Beccaria non si sentiva adeguato al ruolo
di padre, inoltre negò l'eredità materna alla figlia, avendo contratto dei
debiti: ciò gli diede la fama di irriducibile avarizia. Giulia uscì dal
collegio nel 1780, frequentando poi gli ambienti illuministi e libertini. Nel
1782 la diede in sposa al conte Pietro Manzoni, più vecchio di vent'anni di
lei: il nipote Alessandro nacque nel 1785, ma pare fosse in realtà il figlio di
Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro, e amante di Giulia.
Prima della morte del padre, Giulia abbandonò il marito, nel 1792, per andare a
vivere a Parigi insieme al conte Carlo Imbonati, rompendo i rapporti
definitivamente col padre, e
temporaneamente anche con il figlio. Beccaria morì a Milano il 28
novembre 1794, a causa di un ictus, all'età di 56 anni, e trovò sepoltura nel
Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, in una sepoltura popolare (dove
fu sepolto anche Giuseppe Parini) anziché nella tomba di famiglia. Quando tutti
i resti vennero traslati nel cimitero monumentale di Milano, un secolo dopo, si
perse traccia della tomba del grande giurista. Pietro Verri, con una
riflessione valida ancora oggi, deplorò nei suoi scritti il fatto che i
milanesi non avessero onorato abbastanza il nome di Cesare Beccaria, né da vivo
né da morto, che tanta gloria aveva portato alla città. Ai funerali di Beccaria
era presente anche il giovane nipote Alessandro Manzoni (che riprenderà molte
delle riflessioni del nonno e di Verri nella Storia della colonna infame e nel
suo capolavoro, I promessi sposi), nonché il figlio superstite ed erede,
Giulio. Beccaria fu influenzato dalla lettura di Locke, Helvetius,
Rousseau e, come gran parte degli illuministi milanesi, dal sensismo di
Condillac. Fu influenzato anche dagli enciclopedisti, in particolare da
Voltaire e Diderot. Partendo dalla classica teoria contrattualistica del
diritto, derivata in parte dalla formulazione datane da Rousseau, che
sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale (nell'omonima opera)
teso a salvaguardare i diritti degli individui e a garantire in questo modo
l'ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in maniera laica come una
violazione del contratto, e non come offesa alla legge divina, che appartiene
alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica. La società nel suo
complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura
proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo della pena) e
secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della
vita di un altro (Rousseau non considerava moralmente lecito nemmeno il
suicidio, in quanto non l'uomo, ma la natura, nella visione del ginevrino,
aveva potere sulla propria vita, e quindi tale diritto non poteva certamente
andare allo Stato, che comunque avrebbe violato un diritto
individuale). Il punto di vista illuministico del Beccaria si concentra in
frasi come «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni
eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Ribadisce come è
necessario neutralizzare l'«inutile prodigalità di supplizi» ampiamente diffusi
nella società del suo tempo. La tesi umanitaria, messa in risalto da Voltaire,
è parzialmente da lui accantonata, in quanto Beccaria vuole dimostrare
pragmaticamente l'inutilità della tortura e della pena di morte, più che la
loro ingiustizia. Egli è infatti consapevole che i legislatori sono mossi più
dall'utile pratico di una legge, che da principi assoluti, di ordine religioso
o filosofico. Beccaria afferma infatti che «se dimostrerò non essere la morte
né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità». Beccaria quindi si
inserisce nel filone utilitaristico: considera l'utile come movente e metro di
valutazione di ogni azione umana. Monumento a Cesare Beccaria,
Giuseppe Grandi, Milano L'ambito della sua dottrina è quello
general-preventivo, nel quale si suppone che l'uomo sia condizionabile in base
alla promessa di un premio o di un castigo e, nel contempo, si ritiene che
sussista fra ogni cittadino e le istituzioni una conflittualità più o meno
latente. Sostiene la laicità dello Stato. Adotta come metodo d'indagine quello
analitico-deduttivo (tipico della matematica) e per lui l'esperienza è da
intendersi in termini fenomenici (approccio sensista). La natura umana si
svolge in una dimensione edonistico-pulsionistica, ovvero sia i singoli, sia la
moltitudine, agiscono seguendo i loro sensi. In poche parole l'uomo è
caratterizzato dall'edonismo. Gli individui possono essere parago dei «fluidi»
messi in movimento dalla costante ricerca del piacere, intesa come fuga dal
dolore. L'uomo però è una macchina intelligente capace di razionalizzare le
pulsioni, in modo da consentire la vita in società; infatti certamente ogni
uomo pretende di essere autonomo e insindacabile nelle sue decisioni, ma si
rende conto della convenienza della vita sociale. Ma la conflittualità rimane e
quindi bisogna impedire che il cittadino venga sedotto dall'idea di infrangere
la legge al fine di perseguire il proprio utile a tutti i costi, pertanto il
legislatore, da «abile architetto», deve predisporre sanzioni e premi in
funzione preventiva; è necessario tenere sotto controllo i «fluidi», inibendo
le pulsioni antisociali. Tuttavia Beccaria sostiene che la sanzione deve
essere sì idonea e sicura, a garantire la difesa sociale, ma al contempo
mitigata e rispettosa della persona umana. «Il fine delle pene non è di
tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già
commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione,
è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare
questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli
tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le
azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far
nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle
pene dunque e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la
proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli
uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.» «Parmi un assurdo che le
leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono
l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini
dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio» (Dei delitti e delle
pene, cap. XXVIII) Illustrazione allegorica da Dei delitti e delle pene:
la giustizia personificata respinge il boia, con in mano una testa, e una
spada. La pena di morte, “una guerra della nazione contro un cittadino”, è
inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla
volontà del singolo e dello Stato. Inoltre essa: non è un vero deterrente
non è assolutamente necessaria in tempo di pace Essa non svolge un'adeguata
azione intimidatoria poiché lo stesso criminale teme meno la morte di un
ergastolo perpetuo o di una miserabile schiavitù: si tratta di una sofferenza
definitiva contro una sofferenza ripetuta. Ai soggetti che assistono alla sua
esecuzione, inoltre, essa può apparire come uno spettacolo o suscitare
compassione. Nel primo caso, essa indurisce gli animi, rendendoli più inclini
al delitto; nel secondo, non rafforza il senso di obbligatorietà della legge e
il senso di fiducia nelle istituzioni. Questa condizione è assai più
potente dell'idea della morte e spaventa più chi la vede che chi la soffre; è
quindi efficace ed intimidatoria, benché tenue. In realtà così facendo viene
sostituita alla morte del corpo la morte dell'anima, il condannato viene
annichilito interiormente. Tuttavia non è la punizione fine a sé stessa
l'obiettivo di Beccaria, ma egli utilizza questo argomento dell'afflittività
penale per convincere i governanti e i giudici, in quanto il suo fine resta
eminentemente rieducativo e risarcitivo (il condannato non deve essere afflitto
o torturato, ma deve riparare il danno in maniera economico-politica, come
previsto da una concezione puramente utilitaristica e di giustizia anti-retributiva).
Beccaria ammette che il ricorso alla pena capitale sia necessario solo quando
l'eliminazione del singolo fosse il vero ed unico freno per distogliere gli
altri dal commettere delitti, come nel caso di chi fomenta tumulti e tensioni
sociali: ma questo caso non sarebbe applicabile se non verso un individuo molto
potente e solo in caso di una guerra civile. Tale motivazione fu usata, per
chiedere la condanna di Luigi XVI, da Maximilien de Robespierre, il quale era
inizialmente avverso alla pena capitale ma in seguito diede il via ad un uso
spropositato della pena di morte e poi al Terrore; comportamenti del tutto
inammissibili nel pensiero di Beccaria, che infatti prese le distanze, come
molti illuministi moderati, dalla Rivoluzione francese dopo il 1793. La
tortura, “l'infame crociuolo della verità”, viene confutata da Beccaria con
varie argomentazioni: essa viola la presunzione di innocenza, dato che
«un uomo non può chiamarsi reo fino alla sentenza del giudice». consiste in
un'afflizione e pertanto è inaccettabile; se il delitto è certo porta alla pena
stabilita dalle leggi, se è incerto non si deve tormentare un possibile
innocente. non è operativa in quanto induce a false confessioni, poiché l'uomo,
stremato dal dolore, arriverà ad affermare falsità al fine di porre termine
alla sofferenza. è da rifiutarsi anche per motivi di umanità: l'innocente è
posto in condizioni peggiori del colpevole. non porta all'emenda del soggetto,
né lo purifica agli occhi della collettività. Beccaria ammette razionalmente
l'afflizione della tortura nel caso di testimone reticente, cioè a chi durante
il processo si ostini a non rispondere alle domande; in questo caso la tortura
trova una sua giustificazione, ma egli preferisce comunque chiederne la totale
abolizione, in quanto l'argomento utilitario viene in questo caso sopraffatto
comunque da quello razionale (il fatto che è ingiusto applicare una pena
preventiva, sproporzionata e comunque violenta). Il carcere preventivo
Beccaria mostra dubbi e raccomanda cautela nella custodia cautelare in attesa
di processo, attuata negli ordinamenti penali solitamente in casi di pericolo
di fuga, reiterazione o inquinamento delle prove, e alla sua epoca
assolutamente discrezionale e ingiusta. «Un errore non meno comune che contrario
al fine sociale, che è l'opinione della propria sicurezza, è il lasciare
arbitro il magistrato esecutore delle leggi, d'imprigionare un cittadino, di
togliere la libertà ad un nemico per frivoli pretesti, e il lasciare impunito
un amico ad onta degl'indizi più forti di reità. La prigionia è una pena che
per necessità deve, a differenza di ogni altra, precedere la dichiarazione del
delitto; ma questo carattere distintivo non le toglie l'altro essenziale, cioè
che la sola legge determini i casi, nei quali un uomo è degno di pena. La legge
dunque accennerà gli indizi di un delitto che meritano la custodia del reo, che
lo assoggettano ad un esame e ad una pena.» Può essere necessaria, ma
essendo comunque una pena contro un presunto innocente, come la tortura
(concezione garantista della giustizia), non deve essere attuata tramite
arbitrio di un magistrato o di un ufficiale di polizia. La carcerazione dopo
cattura e prima del processo è ammessibile solo quando ci sia, oltre ogni
dubbio la prova della pericolosità dell'imputato: «pubblica fama, la fuga, la
stragiudiciale confessione, quella d'un compagno del delitto, le minacce e la
costante inimicizia con l'offeso, il corpo del delitto, e simili indizi, sono
prove bastanti per catturare un cittadino. Ma queste prove devono stabilirsi
dalla legge e non dai giudici, i decreti de' quali sono sempre opposti alla
libertà politica, quando non sieno proposizioni particolari di una massima
generale esistente nel pubblico codice». Le prove dovranno essere quanto
più solide quanto la prigionia rischi di essere lunga o pesante: «A misura che
le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri,
che la compassione e l'umanità penetreranno le porte ferrate e comanderanno
agli inesorabili ed induriti ministri della giustizia, le leggi potranno
contentarsi d'indizi sempre più deboli per catturare». Egli raccomanda
inoltre la piena riabilitazione per la carcerazione ingiusta: «Un uomo accusato
di un delitto, carcerato ed assoluto, non dovrebbe portar seco nota alcuna
d'infamia. Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti,
furono dal popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione è
così diverso ai tempi nostri l'esito di un innocente? perché sembra che nel
presente sistema criminale, secondo l'opinione degli uomini, prevalga l'idea
della forza e della prepotenza a quella della giustizia; si gettano confusi
nella stessa caverna gli accusati e i convinti; perché la prigione è piuttosto
un supplizio, che una custodia del reo, e perché la forza interna tutrice delle
leggi è separata dalla esterna difenditrice del trono e della nazione, quando
unite dovrebbono essere». Il carattere della sanzione Frontespizio
di Scritti e lettere inediti del 1910 Cesare Beccaria, incisione da Dei
delitti e delle pene Beccaria indica come la sanzione deve possedere alcuni
requisiti: la prontezza ovvero la vicinanza temporale della pena al
delitto l’infallibilità ovvero vi deve essere la certezza della risposta sanzionatoria
da parte delle autorità la proporzionalità con il reato (difficile da
realizzare ma auspicabile) la durata, che dev'essere adeguata la pubblica
esemplarità, infatti la destinataria della sanzione è la collettività, che
constata la non convenienza all'infrazione essere la «minima delle possibili
nelle date circostanze» Secondo Beccaria, per ottenere un'approssimativa
proporzionalità pena-delitto, bisogna tener conto: del danno subito dalla
collettività del vantaggio che comporta la commissione di tale reato della
tendenza dei cittadini a commettere tale reato Non dev'essere comunque una
violenza gratuita, ma dev'essere dettata dalle leggi, oltre a possedere tutti i
caratteri razionali citati, e sprovvista di personalismi e sentimenti
irrazionali di vendetta. La pena è oltretutto una extrema ratio, infatti
si dovrebbe evitare di ricorrere ad essa quando si hanno efficaci strumenti di
controllo sociale (non deve inoltre colpire le intenzioni in maniera analoga al
fatto compiuto: ad esempio, l'attentato fallito non è paragonabile a uno
riuscito). Per questi motivi è importante attuare degli espedienti di
“prevenzione indiretta”, come ad esempio: un sistema ordinato della
magistratura, la diffusione dell'istruzione nella società, il diritto premiale
(premiare la virtù del cittadino, anziché punire solo la colpa), una riforma
economico-sociale che migliori le condizioni di vita delle classi sociali
disagiate. Beccaria si dichiara inoltre sospettoso verso il sistema delatorio
(cosiddetta collaborazione di giustizia), da usare solo per prevenire delitti
importanti, in quanto incoraggia il tradimento e favorisce dei criminali rei
confessi dando loro l'impunità. Per quanto riguarda l'istituto premiale
nella pena già comminata, cioè le amnistie e la grazia, essi possono essere
usati ma con cautela: al condannato che si comporta in maniera esemplare
durante l'esecuzione della pena o in casi specifici, ma solo in caso di pene
pesanti, esse possono essere concesse; suggerisce però di limitare la
discrezionalità del governante e del giudice, poiché egli teme che lo strumento
della clemenza venga usato per favoritismi, come nell'Antico Regime, eliminando
anche pene lievi a persone che siano potenti o vicini politicamente o
umanamente al sovrano: «La clemenza è la virtú del legislatore e non
dell'esecutor delle leggi», scrive infatti. Pertanto il fine della
sanzione non è quello di affliggere, ma quello di impedire al reo di compiere
altri delitti e di intimidire gli altri dal compierne altri, fino a parlare di
"dolcezza della pena", in contrasto alla pena violenta: «Uno
dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l'infallibilità
di esse. La certezza di un castigo, benché moderato farà sempre una maggiore
impressione che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza
dell'impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre
gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di
tutto, ne allontana sempre l'idea dei maggiori, massimamente quando l'impunità,
che l'avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L'atrocità
stessa della pena fa sì che si ardisca tanto più per schivarla, quanto è grande
il male a cui si va incontro; fa sì che si commettano più delitti, per fuggir
la pena di uno solo. I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon
sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo
spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del
parricida e del sicario. (...) Perché una pena ottenga il suo effetto basta che
il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di
male deve essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che
il delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico.»
Il diritto all'autodifesa: sul porto di armi Il pensiero di Beccaria sul porto
di armi, che egli riteneva un utile strumento di deterrenza del crimine, si
riassume nelle seguenti citazioni: «Falsa idea di utilità è quella che
sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di troppa
conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l'acqua
perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che
proibiscono di portare armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i
non inclinati né determii delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter
violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come
rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili
ed impuni debbon essere le contravvenzioni, e l'esecuzione esatta delle quali
toglie la libertà personale, carissima all'uomo, carissima all'illuminato
legislatore, e sottopone gl'innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei?
Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli
assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la
confidenza nell'assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiamano leggi
non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa
impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione
degl'inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale» Influenza Anche
Ugo Foscolo rileverà nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis che "le pene
crescono coi supplizi". L'opera ed il pensiero di Beccaria, inoltre,
influenzarono la codificazione del Granducato di Toscana, concretizzata nella
Riforma della legislazione criminale toscana, promulgata da Pietro Leopoldo
d'Asburgo nel 1787, meglio conosciuta come "Codice leopoldino" col
quale la Toscana divenne il primo stato in Europa ad eliminare integralmente la
pena di morte e la tortura dal proprio sistema penale. Il filosofo
utilitarista Jeremy Bentham ne riprenderà alcune idee. Le idee del
Beccaria stimolarono un dibattito (si pensi alle critiche che Kant gli mosse
nella sua Metafisica dei costumi) ancora vivo e attuale oggi. Citazioni e
riferimenti Monumento a Cesare Beccaria, Milano Nel 1837 venne realizzato
un monumento a Cesare Beccaria, opera dello scultore Pompeo Marchesi, posto
sulla scalinata richiniana del palazzo di Brera. Venne inaugurato un secondo
monumento in marmo a Milano (oggi piazza Beccaria); a causa del deterioramento,
nel 1913 il monumento fu sostituito da una copia in bronzo. Gli è stato
dedicato un asteroide: 8935 Beccaria. Il carcere minorile di Milano è a lui
intitolato. A lui è intitolato un prestigioso Liceo Classico milanese, il
Ginnasio Liceo Statale Cesare Beccaria. A lui è dedicato uno dei 3 dipartimenti
della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano. Altre
opere: “Del disordine e de' rimedi delle monete a Milano”; “Del delitto e della
pena” (Livorno, Marco Cortellini). Giovanni
Claudio Molini); “Ricerche intorno alla natura dello stile”; “Elementi di
economia pubblica”; “Raccolte di articoli Gli articoli di Beccaria in «Il
Caffè» Collana «Pantheon», Bollati Boringhieri). Due volumi, Genealogia
Dati tratti da genealogia settecentesca della famiglia Beccaria con indicazione
della discendenza di Cesare Beccaria”; “Simone «attese a negozi con
prosperità”; Gerolamo «tesoriere di vari luoghi pii, uomo di molti
trafici” Sposa Isabella Busnata di Giovanni Stefano. Galeazzo
«I.C. causidico nel civile». Francesco “cassiere generale del Banco
Sant'Ambrogio sino a morte ed agente del luogo Pio della Carità». Sposa Anna
Cremasca.Filippo «Successe al padre nel posto di cassiere suddetto, che poscia
rinunciò e si fece sacerdote». Anastasia«Monaca in Vigevano»
Giovanni «Alla morte di suo padre ebbe un'entrata di scuti 5000 con
che la trattò alla cavalleresca». Sposò Maddalena Bonesana figlia di Francesco
(«rimaritata nel conte Isidoro del Careto»). Francesco «Fece
aquisto de sudetti feudi di Gualdrasco e Villareggio nel vicariato di Settimo
per istrumento 3 marzo 1705 rogato dal notaio Benag.a. Creato marchese nel 1711
per cesareo diploma». Sposò Francesca Paribelli di Nicolò «da Sondrio nella
Valtellina». Giovanni Saverio Secondo marchese di Gualdrasco e di
Villareggio. Ereditò il cognome Bonesana del prozio Cesare Bonesana. Con
decreto, entrò a far parte del patriziato milanese. Sposa Cecilia Baldironi Maria
Visconti di Saliceto Cesare Terzo marchese di Gualdrasco e di Villareggio.
Sposò Teresa de Blasco Anna Barbò Giulia Sposò Pietro Manzoni.
Anna Maria Aloisia Giovanni Annibale Margherita Teresa Giulio Quarto marchese di
Gualdrasco e di Villareggio. Sposò nel 1821 Antonietta Curioni de Civati
Francesca Cecilia Cesare Antonio Maddalena Sposò Giulio Cesare Isimbardi Tozzi.
Annibale Sposò nel 1776 Marianna Vaccani Francesco (1749-1856)Sposò
Rosa Conti (vedova Fè). Carlo Sposò
Rosa Tronconi Giacomo Filippo Mariaabate
Carlo Teresamonaca Chiaramonaca Nicola Francesco Laureato
in legge, membro del collegio dei giurisperiti, fu anche giudice a Milano e a
Pavia. Giuseppe Marianna
Ignazio Anna Maria Sposò un Cattaneo «fisico»
Gerolamo«Canonico ordinario del Duomo» AngiolaSposò Alberto
Priorino nel 1619. Tendente al deismo Il
nome di «marchese di Beccaria», usato talvolta nella corrispondenza, si trova
in molte fonti (tra cui l'Enciclopedia Britannica) ma è errato: il titolo
esatto era «marchese di Gualdrasco e di Villareggio» (cfr. Maria G. Vitali,
Cesare Beccaria. Progresso e discorsi di economia politica, Paris, Philippe
Audegean, Introduzione, in Lione, 20099. )
John Hostettler, Cesare Beccaria: The Genius of 'On Crimes and
Punishments', Hampshire, Waterside Press, Indicata come "Ortensia" in
Pompeo Litta, Visconti, in Famiglie celebri italiane. Renzo Zorzi, Cesare Beccaria. Dramma della
Giustizia, Milano, Pirrotta, art. cit C.
e M. Sambugar, D. Ermini, G. Salà, op, cit..
Emanuele Lugli, 'Cesare Beccaria e la riduzione delle misure lineari a
Milano,' Nuova Informazione Bibliografica non riposa sul Lario F.Venturi, Settecento riformatore, Einaudi,
Torino, Sambugar, Salà, Letteratura modulare,
I Dei delitti e delle pene,
capitolo XII Cesare Beccaria, la
scoperta della libertà, con Lucio Villari, Il tempo e la storia, Rai Tre
Dei delitti e delle pene, capitolo VI
Dei delitti e delle pene, Capitolo XLVII
Dei delitti e delle pene, Capitoli 38 e seguenti Dei delitti e delle pene, capitolo 46, Delle
grazie Dei delitti e delle pene, capitolo
27 I. Kant, La metafisica dei costumi,
traduzione e note di G. Vidari, revisione di N. Merker, 10ª ed., Roma-Bari,
Laterza, «Il marchese Beccaria, per un affettato sentimento umanitario,
sostiene [...] la illegalità di ogni pena di morte: essa infatti non potrebbe
essere contenuta nel contratto civile originario, perché allora ogni individuo
del popolo avrebbe dovuto acconsentire a perdere la vita nel caso ch'egli
avesse a uccidere un altro (nel popolo); ora questo consenso sarebbe
impossibile perché nessuno può disporre della propria vita. Tutto ciò però non
è che sofisma e snaturamento del diritto».
Teatro genealogico delle famiglie nobili milanesi, su Hispanic Digital
Library. Felice Calvi, Il patriziato
milanese, Milano, 1875, 52-53. Nella genealogia settecentesca è indicato un
Nicolò abbate. Pietro Verri, Scritti di
argomento familiare e autobiografico, G. Barbarisi, Roma, Franco Arese, Il
Collegio dei nobili Giureconsulti di Milano, in Archivio Storico Lombardo,
Cesare Beccaria, Ricerche intorno alla natura dello stile, Milano, Società
tipografica de' classici italiani, Cesare Beccaria, Scritti e lettere inediti,
Milano, Hoepli, Cesare Beccaria, Opere, I, Firenze, Sansoni, 1958. Cesare
Beccaria, Opere, II, Firenze, Sansoni, Introduzione a Beccaria, Enza Biagini,
Roma-Bari,Laterza, 1992 Antoine-Marie Graziani, Fortune de Beccaria,
Commentaire, Dei delitti e delle pene Diritti umani Ergastolo Tortura Pena
capitale Del disordine e de' rimedi delle monete nello stato di Milano. Treccani
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Cesare Beccaria, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Cesare Beccaria, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,. Cesare Beccaria, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Cesare Beccaria, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Cesare Beccaria, su Find a Grave. Opere
di Cesare Beccaria, su Liber Liber.
Opere di Cesare Beccaria / Cesare Beccaria (altra versione), su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Cesare Beccaria,. Audiolibri di
Cesare Beccaria, su LibriVox. Vita di
C.Beccaria, su zam. V D M Coterie holbachiana V D M Illuministi italiani Filosofia Letteratura Letteratura Categorie: Giuristi italiani del
XVIII secoloFilosofi italiani del XVIII secoloEconomisti italiani Milano
MilanoFilosofi del dirittoIlluministi UtilitaristiLetterati italiani Oppositori
della pena di morte Studiosi di diritto penale del XVIII secolo Criminologi
italiani Storia del diritto Nobili italiani del XVIII secoloStudenti
dell'Università degli Studi di Pavia. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e Beccaria," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Delle idee espresse, e delle idee
semplicemente suggerite. Un altra osservazione non meno importante che generale
sarà intorno al diverso effetto che le idee accessorie pos sono produrre quando
siano espresse coi termini loro corrispondenti, o quando siano semplicemente
suggerite o destate nell' animo di chi legge o di chi ascolta. Espresse
nuocerebbero al fascio intero del le sensazioni; destate solamente lo giovano,
non solo perchè la picciola fatica che facciamo, e l'applauso interno del
nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione sul restante, ma molto più perchè è
legge della nostra sensibilità che tutt'altra forza abbiano le idee espresse e
le taciute, e tutt'altra attenzione esigono da noi quel le che queste. Ora le
attenzioni saranno tanto più lunghe o più frequenti, tanto più si nuocono tra
di loro, e scemano l'attenzione al tutto; mentre per lo contrario quei lampi,
rapidi e passeggieri di attenzione che balenano, in noi per tutte le idee
espresse, e confusa per il tutto e debolissima sarà la percezione deile parti,
o solamente ad alcune noi faremo idee accessorie e non espresse, accrescono
delle sensazioni senza nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo
semplicemente il numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanea non
deve eccedere che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per tante e non più
la mente umana è capace di una simultanea attenzione: la vivacità degli oggetti
presenti non le concedono una maggior ampiezza ed u na maggiore
comprensibilità. Nelle cose lette o ascoltate, in luogo della vivacità e della
realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità
della parola visibile o auditiva se noi dunque volessimo tutte le accessorie,
che si tacciono, esprimere, veremmo ad offendere quella legge determina e
limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo della
mente si porterà su destate che le attenzione, cioè solamente di alcune
l'immagine corrispondente alla parola si risveglierà nella mente, ed allora le
altre parole rimanendo insignificanti. Se dunque una parola racchiude nel suo
concetto molte e varie sensazioni, come 'spada', 'esercito', 'nave', ec. cosic
chè la mente dalla parola medesima non sia determinata a considerar più l'una
che l'altra delle sensazioni componenti 1 e terruzione al senso, e
distruggeranno l'effetto delle altre in vece di aumentarlo., faranno i n 43
suc, ma sibbene sia piuttosto sforzata a co nsiderarle tutte in una volta,
accaderà che condensando due o tre di queste parole intorno ad un'idea
principale, vi saranno non due o tre accessorie soltanto unite e destinate ad
aggiunger forza al la principale, ma invece un molto maggior numero, quante
saranno le sensazioni egualmente comprese sotto i nomi di 'spada', 'esercito',
'nave', ec.: tutte queste varie e numerose sensazioni non essendo più
immediatamente le une che le altre suggerite, tutte concorrono
contemporaneamente ad associarsi colla principale; onde l'effetto reale che ne
cede si è, che la fantasia nostra resta distratta é confusa. Per lo contrario,
se invece de' nomi 'spada', 'esercito', 'nave', ec., si dicesse 'ferro',
'soldato', 'vele', e che questi nomi si condensassero attorno ad un'idea
principale per formarne un senso, si osservi che le tre sole nozioni e precise
sensazioni comprese nel proprio significato delle tres uddette parole si quelle
ogni sono che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia;
saranno quelle che immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di
onde associazione non tra lascerà la parola di 'ferro' di suggerire rapidamente
le altre sensazioni comprese sotto la parola 'spada'; quella di 'soldato',
quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo priamente
queste sensazioni suggerite pro associate colle parole 'ferro', 'soldato', e
'vele', ma con le idee che nuocere alla principale così facilmente. Ecco chiaramente
spiegato ciò st che io intendo per idee suggerite e per idee espresse, mentre
però tutta questa teoria sarà resa più evidente dopo che nel progresso io avrò
parlato de' nomi speciali ed appellativi, e de' traslati. sono. E de sta que
immediatamente risvegliano, non pos Le idee semplicemente suggerite non entrano
nella sintassi della proposizione, la quale regge senza di quelle: non sono non
SI. Accipite hanc animam, me que his exolvit e curis, quanta folla d'idee si
risveglia in chi legge quelle sole parole, in quella occasione dette, dulces
exuviae: la sintassi regge senza che si risveglino queste idee, onde la mente
non trovasi affaccendata a raccapezzare un senso complicato e in molte parti
diviso e coll'accennar sol tanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia,
cioè di una cosa da lui portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e
contrastanti sentimenti non ci sentiamo fremere interiormente! Egli è
evidente che una medesima serie d'idee per intervalli di tempo più lunghi occupa
la mente se siano espresse, di quello che se siano taciute, per chè un maggior
tempo si consuma nella percezione della parola, per la durata della quale si
continua la presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli
nella mente quanto le idee che eccitate sono dalle parole immediatamente,
quantunque come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con
minore dispendio ditempo e di forzesi ottiene un più grande effetto. Quando
Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant, a
rendere più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che
renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del tutto, oppure essunto
nella rapida ed affollata successio ne d'imagini che per forza di associa zione
si eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non sarà inutile il qui
osservare che molte espressioni non so no preferibili alle altre, se non
appunto perchè la sensazione auditiva o della parola è materialmente più dell'
altra. È più bella e più nobile pressione la parola cocchio della carrozza non
per es parola visibile breve l'azzardo capriccioso dell'esser meno comune ed
avilita pressione, giacchè tant'altre che nelle bocche di tutti sieno
continuamente; cio nonostante nè si rigettano, nè per meno belle son riputate,
ma soltanto p e r chè è parola più breve, e l'idea da un più rapido segno è
rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e
ditempo. Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verremmo mente
nostra dividerebbe in più tempi ciò che per l'unità dell'idea principale
dovrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo l'accessorio principale,
pro la durrebbe e confusione nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e
sproporzionate d'idee fatte nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo (che
altro nonè per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili) è una
quantità alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le
belle ti e la politica debbono aver considerazione; perchè tutte le più fine e
le più sottili ed interiori, egualmente che le più complicate e più grossolane
ed esteriori operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si
fanno e si manifestano. Fra la moltitudine delle idee accesso rie che si presentano,
quali sceglieremo per essere espresse, quali serberemo per essere semplicemente
destate? In primo luogo, tramolte accessorie analoghe e moltissimo simili fra
di loro, e che si risvegliano reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra,
una sola sarà l'espressa, le altre taciute; perchè se tutte fossero espresse,
ciascheduna espressione replicando le idee di tutte le altre, vi sarebbe
superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e stanchezza, e d i spendio
di tempo. La ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso. In
secondo luogo, tra la moltitudine delle idee accessorie vi saranno, oltre le
analoghe, quelle che sono più distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue
rispettive simili ed associate: di queste ognu na apre la mente ad una serie
d'impressioni, e sono direi quasi capi -idee e c a pi- pensieri; queste saranno
le espresse, perchè non si destano reciprocamente, ed effetto della
ripetizione delle idee principali; queste si rinfrancano come tali nella mente,
e divengono perciò come un centro di luce che il tutto riscalda e rischiara;
quelle ripetute annebbiano e dissipano l'attenzione dalle principali: per lo
contrario, se una sola sia 1 espressa, le altre analoghe semplicemente destate,
la quantità d'idee ed'impressione rinchiusa in una sola espressione diviene più
grande, e per conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida
sensazione dell'udito l'occhio, che abbiamo tempo considerabile esige le idee e
dell'immaginazione: così veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve
tempo; problema è solo l'oggetto de'meccanici,m a della morale e della
politica, anzi di tutta la filosofia e del visto che un a che non to spese
del necessa è necessaria l'espressione per eccitare, ossia
perchè la mente possa percorrere tutte queste differenti progressioni d'idee.
Sarà dunque eccellente la combinazione di quelle accessorie colla principale,
in cui tutte le accessorie espresse siano ca pi-pensieri, e non molto analoghi
ed associati tradi loro, e moltissimo colla principale per una delle tre
indicate sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione
soggiungo intorno al l'effetto delle idee espresse e taciute; cioè che tra una
espressione e l'altra, per i limiti e la debolezza de'sensi esterni, tanto per
mezzo dell'occhio quanto per mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di
tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo: se vi sono idee desta te e non
espresse, queste come lampi di mente riempiono questo vuoto senza stan chezza;
ma se tutte sono espresse, si moltiplicano i vuoti e non si riempiono; il che
porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata fatica delle
espressioni da leggersi o da ascoltarsi. Quanto più grandi epiù forti saranno
le idee accessorie espresse, tanto più numerose pos ono essere le idee taciute,
ma riamente destate da quelle, perchè l'efficacia delle prime tende e rinforza
l'attenzione che con più rapidi voli slancia si ad abbracciare le idee non
espresse senza pregiudicare all'interesse del tutto, e perchè espressioni più
grandi e più forti fermano l'immaginazione di chi legge o d'ascolta, essendo
manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbligata ad impiegar un tempo
maggiore nella considerazione delle idee a misura che sono più grandi e più
forti: onde per questo tempo necessario, per questa dimora, per così dire,
della mente su di un oggetto, quantunque egli medesimo per la forza é grandezza
sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione, cio nonostante la mente,
dall'impeto concepito a percorrere una serie d'idee quasi trattenuta, più
facilmente potrà ricevere altre idee rapidamente risvegliate all'occasione di
espressioni forti ed energiche. Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza
dell'animo suo, potrà facilmente scorgere che sempre che un grande ed
interessante o ggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l'
immaginazione, questa dopo considerato quell'oggetto, nell'atto che si riscuote
e si risveglia dall' inten sione nella quale trovavasi, per così dire, attuatae
raccolta, non si abbandona su bito all'ordinaria impressione delle cose che le
stanno d'attorno, ma sibbene de stasi in lei una moltitudine d'idee tutte
relative non solo a quella straordinaria impressione che l'ha percossa, ma
ancoraa se stessa, ed alle passioni dalle quali è dominata. È da ciò che i
boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le
solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la natura, che la vista
del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti
l'attonita immaginazione, som no ricercati da coloro che più amano di pascolare
i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza distrazioni dal la
considerazione di se medesimi; mentre coloro i quali odiano di rientrare in se
stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore
pensiero, si gettano nel minuto e sempre u niforme vortice della vita comune,
gli oggetti della quale sono atti bensi a spin 51 ľ 1 gertato l'animo
fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo
attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciole e più deboli saranno le
accessorie espresse; la scelta si farà su di quelle che ne risvegliano un minor
numero, perchè la differenza tra le une e le altre essendo minore, e sovente
più importanti e più forti potendo essere le destate che le espresse, si corre
rischio che le idee dell'autore siano perdute divista, e confuso ed interrotto
riesca l'effetto del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da
sufficientemente forti ed esterne sensibili manifestazioni. L e deboli
accessorie espresse, secondo abbiamo di mostrato, debbono essere molte, accioc
chè il numero compensi la debolezza; m a molte idee espresse occupano un tempo
ch' esclude molte idee taciute o sottinte se, altrimenti di troppo
allontaneremo il concepimento dell'idea principale. L e accessorie forti, per
una contraria ragio ne, debbono essere poche in ciascun m o mento
d'impressione; m a poche forti la scierebbero del vuoto negli intervalli n e
cessari dell'espressione,che da molte idee non espresse debb'essere supplito.
Delle idee espresse, e delle idee semplicemente suggerite. Un altra
osservazione non meno importante che generale è intorno al diverso
*effetto* che una idea *accessoria* puo produrre quando è *espressa* col
termino corrispondente, o quando è *semplicemente suggerita o *destata*
nell'animo di chi ascolta. Espressa nuocerebbero al fascio intero della
sensaziona; destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola fatica che
facciamo e l'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione
sul restante, ma molto più perchè è legge della nostra sensibilità che
tutt'altra forza ha la idea espressa e la idea taciuta, e tutt'altra attenzione
esigono da noi quella le che questa. Ora l'attenzione è tanto più
lunga o più frequente, tanto più si nuocono tra di se, e scema l'attenzione al
tutto. Mentre per lo contrario quei lampi, rapidi e passeggieri di attenzione
che balenano, in noi per la idea espressa, e confusa per il *tutto* e
debolissima è la percezione della *parte* o solamente ad alcune noi
faremo idea accessoria e non espressa, accrescono della sensazioni senza
nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo semplicemente il
numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanee non deve eccedere
che *tre o quattro* sensazioni ordinarie, perchè per tante e non più la mente
umana è capace di una simultanea attenzione. La vivacità dell'oggetto presenti
non le concede una maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità. Nella cosa
ascoltate, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è
presente, vi è la vivacità e la realità dell'*espressione* se noi dunque
volessimo l'accessoria, che si tacce, esprimere, veremmo ad offendere quella
legge determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale,
o lo sforzo del recipiente si porterà su destate che le attenzione, cioè
solamente di alcune l'immagine corrispondente all'espresione si risveglie nella
mente, ed allora le altre espressioni rimaneno insignificanti. Se dunque
un'espressione racchiude nel suo concetto o senso molte sensazioni -- come
'spada', 'esercito', o'nave' -- cosicchè la mente dall'espressione medesima non
sia determinata a considerar più l'una che l'altra delle sensazioni componenti
e l'interruzione al *senso* della profferenza, e distruggeranno l'effetto delle
altre espressione in vece di aumentarlo., faranno in suc, ma sibbene sia
piuttosto sforzata a considerarle tutte le sensazioni in una volta, accade che,
condensando l'espressione intorno ad un'idea *principale*,
vi è un'idea accessoria soltanto unita e destinata ad aggiunger forza
alla idea principale, ma invece un molto maggior numero, quante sono le
sensazioni egualmente comprese sotto l'espressione 'spada', o 'esercito'
o 'nave'. Le varie sensazioni, non essendo più immediatamente le une che
le altre suggerite, concorrono contemporaneamente ad associarsi coll'idea
principale. Onde l'effetto reale che ne cede si è, che la fantasia nostra resta
distratta é *confusa*. Per lo contrario, se invece dell'espressione 'spada', o
'esercito', o 'nave', si dicesse 'ferro', o 'soldato', o 'vele', e che questa
espressione si condensa attorno ad un'idea principale per formarne un senso, si
osserva che la sola nozione e precisa sensaziona compressa nel proprio
significato dell'espressione 'ferro', o 'soldato' o 'vele', si quelle ogni sono
che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia
-- è quella che immediatamente si une coll'idea principale. Ma per forza
di onde associazione non tra lascerà l'espressione 'ferro' di suggerire
rapidamente altre sensazioni comprese sotto l'espressione 'spada'; quella di
'soldato', quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo
priopiamente questa o quella sensazione *suggerita* propriamente, associata
coll'espressione 'ferro' o 'soldato' o 'vele', ma colla idea che nuocere
all'idea principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io
intendo per una *idea suggerita* e per una *idea espressa*, mentre però tutta
questa teoria è resa più evidente nel nome o espressione speciale,
l'appellativo, e nel traslato. E de sta que immediatamente risvegliano, non
pos. Un'*idea semplicemente suggerita* non entra nella sintassi o forma logica
della proposizione, la quale regge senza di quella. Non sono non. Quando
Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant, accipite
hanc animam, me que his exolvit e curis" -- quanta folla d'idee si
risveglia in chi ascolta quelle sole espressioni, in quella occasione dette,
'dulces exuviae'. La sintassi latina regge senza che si risveglino quest'idea
semplicemente suggerita, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare
un *senso complicato* e in molte parti diviso e coll'accennar sol tanto la
spada di Enea sotto l'espressione di una spoglia, cioè di una cosa da lui
portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non
ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente che una medesima idea
per intervalli di tempo più lunga occupa la mente se è espressa, di
quell'idea che se è taciuta, per chè un maggior tempo si consuma
nella percezione dell'espressione, per la durata della quale si continua la
presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli nella mente
quanto le idee che eccitate sono dall'espressione *immediatamente*, quantunque
come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con minore
dispendio di tempo e di forze si ottiene un più grande effetto. a rendere
più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che
renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del *tutto*, oppure
essunto nella rapida ed affollate imagini che per forza di associazione si
eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non è inutile il qui
osservare che un'espressione E1 non e preferibili ad altr'espressione E2, se
non appunto perchè la sensazione auditiva o dell'espressione è materialmente
più dell' altra. È più bella e più nobile pressione l'espressione 'cocchio' (o
'se p, q') dell'espressione 'carrozza' (o 'p o non q') non per l'azzardo
capriccioso dell'esser meno comune ed avilita epressione, giacchè tant'altra
che nella bocca di tutti è continuamente. Cio nonostante nè si
rigettano, nè per meno bella è riputata, ma soltanto perchè è
espressione più breve e l'idea da un più rapido segno è rappresentata. Onde si
ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di tempo. Ora se l'idee
taciuta divienne espressa, noi verremmo la mente nostra dividerebbe in più
tempi ciò che per l'unità dell'*idea principale* dovrebbe essere rinchiuso in
un solo; il che rendendo l'idea accessoria una idea principale, pro la durrebbe
e *confusione* nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e sproporzionate
dell'idea fatta nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo, che altro non è
per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili, è una quantità
alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle ti
e la politica debbono aver considerazione. Perchè la più fina e la più sottile
ed interiore, egualmente che la più complicata e più grossolana ed esteriore
operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si fanno e si
manifestano. Fra l'idea accessoria che si presenta, quali sceglieremo per
essere espressa, quali sceglieeremo per essere *semplicemente destata*? In
primo luogo, tra una accessoria analoga e moltissimo simile e che si risveglia
reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra, *una sola* sarà l'espressa
(l'acqua liquida), l'altra *semplicemente* taciuta. Perchè se
'liquida' è espressa, ciascheduna espressione replicando
l'idea è superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e
stanchezza, e di spendio di tempo. La ripetizione di una idea accessoria non
produce lo stesso. Tra l'*idea accessoria* è, oltre l'analoga, quelle
che è più distante (disparata), ciascheduna delle quali ha la sua
rispettiva simile ed associata (acqua liquida, bambino non-adulto). Di questa
ognuna apre la mente del co-conversatore ad una serie d'impressioni, e è direi
quasi capi-idea e capi-pensiero. Questa è l'idea accessoria
*espressa*, perchè non si desta reciprocamente, ed effetto della ripetizione
dell'idea principale ('bambino'). Questa si rinfranca come tale nella mente, e
divienne perciò come un centro di luce che il *tutto* ('il
bambino è un'adulto') riscalda e rischiara. Quella (non-adulto)
ripetuta annebbia e dissipa l'attenzione dall'idea principale ('bambino'). Per
lo contrario, se una sola sia l'idea espressa, le altr'analoga *semplicemente
destata*, la quantità dell'idea e dell'impressione rinchiusa in una *sola*
espressione ('bambino' = umano non adulto) diviene più grande, e per
conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida sensazione dell'udito,
che abbiamo tempo considerabile esige le idee e dell'immaginazione. Così
veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve tempo; Questo problema
non è solo l'oggetto de'meccanici, ma della morale e della politica, anzi di
tutta la filosofia! Abbaimo visto che un a che non to spese del
necessa è necessaria l'*espressione* per *eccitare* (o comunicare), ossia
perchè la mente possa percorrere la progressione dell'idea del discorso. Sarà
dunque eccellente la combinazione di quell'idea accessoria coll'idea
principale, in cui l' accessorie espresse siano capi-pensieri ('ha una
calligrafia bellissima') e *non* molto analoga ed associata e moltissimo
coll'idea principale ('è un pessimo filosofo') per una delle ndicate
sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione soggiungo
intorno al l'effetto dell'idea espresse e dell'idea taciuta. Tra una
espressione E1 e l'altra, E2, per i limiti e la debolezza de' sensi esterni,
tanto per mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di tempo e, per così
dire, di silenzio e di riposo. Se vi è idea semplicemente
destata e non espressa, questa come lampi di mente riempiono questo vuoto senza
stanchezza. Ma se l'idea è espressa, si moltiplicano i vuoti e non si
riempiono; il che porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata
fatica dalla quantita d'informazione dell'espressione totale (ill moto
conversazionale) da interpretare. Quanto più grande e più *forte* ('bella
calligrafia) è l'idea accessoria espressa, tanto più numerosa
puo essere l'idea semplicemente taciute, ma riamente destata da quelle, perchè
l'efficacia dell'idea espressa tende e rinforza l'attenzione che con più rapidi
voli slancia si ad abbracciare l'idea non espressa ('è un pessimo
filosofo') senza pregiudicare all'interesse dell'espressione totale, e
perchè l'espressione più grande e più forte ferma l'immaginazione del
co-discorsante, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi
obbligata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione di una idea
('è un pessimo filosofo?') a misura che è più grande
e più forte. Onde per questo tempo necessario, per questa dimora di
processamento, per così dire, della mente su di un oggetto, quantunque egli
medesimo per la forza e grandezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di
attenzione, cio nonostante la mente, dall'impeto concepito a percorrere un'idea
quasi trattenuta, più facilmente puo ricevere altr'idea rapidamente risvegliata
all'occasione di una espressione forte ed energica ('Ha bella calligrafia').
Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza dell'animo suo, puo facilmente
scorgere che sempre che un grande ed interessante oggetto fermi il pensiero, e
percuota improvvisamente l' immaginazione, questa dopo considerato
quell'oggetto, nell'atto che si riscuote e si risveglia dall' intensione nella
quale trovavasi, per così dire, attuata e raccolta, non si abbandona subito
all'ordinaria impressione delle cose che le stanno d'attorno, ma sibbene
destasa in lei un'idea relativa non solo a quella straordinaria impressione che
l'ha percossa, ma ancora a se stessa, ed alla passione dalla quale è dominata.
È da ciò che i boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il
pensiero, che le solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la
natura, che la vista del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi
e tanto occupanti l'attonita immaginazione, sono ricercati da coloro che più
amano di pascolare i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza
distrazioni dal la considerazione di se medesimi. Mentre chi odia di rientrare
in se stessi, e cerca fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo
accusatore pensiero, si getta nel minuto e sempre u niforme vortice della vita
comune, gli oggetti della quale sono atti bensi a spingertato l'animo fuori di
se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e
pensieroso. Per lo contrario, più picciola e più
debole è l'idea accessoria espressa. La scelta si farà su di
quelle che ne risvegliano un minor numero, perchè la differenza, essendo
minore, e sovente più importanti e più *forti* potendo essere l'idea destata
che l'idea espressa, si corre rischio che le idea, intenzione, significato
dell'autore è perduto (involontariamente) di vista, e confuso ed
interrotto riesca l'effetto del tutto o l'espressione totale sopra l'immaginazione
non legata da sufficientemente forte ed esterne sensibile manifestazione
('-- è un pessimo filosofo'). L'idea debola accessoria espressa
debbe essere molte, acciocchè il numero compensi la debolezza. Ma un'idea
espressa ('bambino) occupa un tempo ch'*esclude* un'idea taciuta o sottintesa
('non-adulto'), altrimenti di troppo allontaneremo il concepimento di un'idea
principale. L'idea accessoria forte, per una contraria ragione, debbe essere
minima in ciascun momento d'impressione. Ma poche forti la scierebbero del
vuoto negli intervalli n e cessari dell'espressione,che da molte idee non
espresse debb'essere supplito. Dello
espresso e dello semplicemente suggerito, un’osservazione non meno importante
che generale è intorno al diverso effetto che una proposizione, non
principale, ma *accessoria*, puo produrre quando *espressa* o
quando è semplicemente suggerita dal conversatore, o destata
nell'animo di chi con che conversa. Espressa nuocerebbero al fascio intero
della sensazione; destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola
fatica che facciamo e 1'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfrancano
l'attenzione sul restante, ma molto più perche è legge della nostra sensibilità
che tutt’altra forza ha una proposizione espressa e una proposizione taciuta o
semplicemente suggerita, e tutt’ altra attenzione esigono da noi conversatori
civile quella che questa. Ora l'attenzione è tanto più lunga o più
frequente, tanto più si nuoce tra di se, e scema l’attenzione al tutto
comunicato; mentre per lo contrario quei lampi rapidi e passaggeri
d'attenzione, che balenano bruci per la proposizione accessoria *semplicemente
suggerita* o destata e *non* espressa, accresce il numero di sensazione senza
nuocere all’attenzióne ed all'energia del tutto comunicato. La quantità
d’impressione momentanea non deve eccedere che tre o quattro sensazioni
ordinarie, perchè per tante, e non più, la mente umana è capace di una
simultanea attenzione. La vivacità di un oggett presente -- la spada di Enea --
non le concedono ima maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità.
Nell'espresso, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto
quando è presente, vi è la vivacità e la realità della *espressione* che
representa (di modo iconico o altro) la spada d'Enea. Se noi dunque volessimo
la proposizione accessoria che si taccie esprimere verressimo ad offendere
quella legge che determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre
la quale, o lo sforzo d'interpretazione si porterà su il tutto communicato
(espresso e semplicemente suggerito) e confusa per il tutto e debolissima sarà
la percezione delle due parti (l'espresso e lo semplicementee suggerito) o
solamente ad alcune, noi faremo attenzione cioè solamente di alcune 1'immagine
o concetto o segnato o significato o senso corrispondente all'espressione si
risveglie nella mente, ed allora un altr'espressione rimanendo *insignificanti*
o superflua, fa inter- ruzione al senso della proposizione comunicata, e
distrugge l'effetto delle altre in vece di aumentarlo. Se dunque una
proposizione espressa racchiude nel suo concetto molte e varie sensazioni, come
"Questa spada e bella", "L'esercito e bravo", "La nave
va," ec., cosicché la mente dalla proposizione espressa medesima noù sia
determinata a considerar più l'una che 1'altra delle sensazioni componenti ma
sibbene sia piuttosto sforzata a considerarle tutte in una volta accaderà che
condensando due o tre di queste proposizioni intorno ad un proposizione
*principale*, vi saranno non due o tre proposizioni accessorie soltanto unite e
destinate ad aggiunger forza alla proposizione principale, ma invece un molto
maggior numero quante saranno le sensazioni egualmente comprese sotto la
proposizione espressa, "La spada e bella", "L'esercito e
bravo," "La nave va", e tutte queste varie e uumerose
sensazioni, non essendo più immediatamente le uno che le altre suggerito, tutte
concorirono contemporaneamente ad associarsi colla proposizione principale;
onde l'effetto reale che ne succede è, che la fantasia di nostro conversatore
resta distratta e confusa. Per lo contrario, se invece della proposizione
"La spada e bela", "L'esercito e bravo", "La nave
ve", spa* da si dicesse "Il ferro e formidable", "Il
soldato e bravo", "Le vele va", e che questi proposizioni si
condensassero attorno ad una proposizione principale per formarne il senso
complesso, si osservi che le tre sole nozioni e precise sensazioni comprese nel
proprio significato o senso delle tre suddette proposizione espresse piu
specifica sono quelle che immediatamente e, prima d’ ogn’ altra si risvegliano
nella fantasia. Onde saranno quelle che immediatamente si uniranno colla
principale. Ma per forza di associazione non tralascerà la parola di fer- ro di
suggerire rapidamente le altre sensazioni comprese sotto la parola spada quella
di soldato quelle di;, esercito quella di vele quelle di navi.;, Ma non essendo
queste sensazioni sug- gerite propriamente associate colie parole ferro,
soldato e vele, ma Con le idee che queste immediatamen- te risvegliano non
possono nuocere, alla principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò
che io in- tendo per idee suggerite e per idee * espresse, mentre però tutta
questa teoria sarà resa più evidente dopo ‘ che nel progresso io avrò parlato
de’ nomi speciali ed appellativi, e de’ traslati. Ee idee semplicemente,
suggerite Digitj^ed by Google 3o non entrano nella sintassi della
pro- posizione la quale regge senza di, quelle: non sono durevoli nella mente
quanto le idee che eccitate sono dal- le parole immediatamente, quantun- que
come le altre alla occasione di quelle si risveglino; onde con mino- re
dispendio di tempo e di forze si ottiene uu più grande effetto. Quan- do
Virgilio fa dire a Didone: Dulces exuviae dum fata, Deusque sinebant, Accipite
hanc animam, meque his exolvite curi», quanta folla d’idee si risveglia in citi
legge quelle sole parole, in quella oc- casione dette, dulces exuviaes la sin-
tassi regge senza che si risveglino queste idee, onde la mente non tro- vasi
affacceudata a raccapezzare un senso complicato e in molte parti diviso; e
coll* accennar soltanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia, cioè di
una cosa da lui por- tata e da lui ricevuta in dono quan-, to teneri e
contrastanti sentimenti noa ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente
che una medesi- ma serie d’idee per intervalli di tem- po più lunghi occupa la
menta se siano espresse, di quello che se siane taciute perchè un maggior tempo,
$T si cotìsuma nella percezione della pa- rola per la durata della quale
si con- tinua la presenza deir idea corrispon- dente di quello che sia consunto,
nella rapida ed affollata successione d* immagini che per forza di associa-
zione si eccitano reciprocamente. Tan- to è ciò vero, che non sarà inutile il
qui osservare ohe molte espressioni non sono preferibili alle altre appunto
perchè la sensazione auditiva o visibile della parola è materialmen- te più
breve dell’ altra. E* più bella e più nobile espressione la parola cocchio
della parola carrozza non per l’azzardo capriccioso dell’ esser meno comune ed
invilita espressione, giac- ché tant’ altre che nelle bocche di tutti sieno
contiuuamente cionono-; stante nè si rigettano nè per meno belle son riputate,
ma soltanto perchè è parola più breve, e l’idea da un più rapido segno è
rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di
tempo Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verressimo a rendere
più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali il che rende-,
rebbe annojaote e faticoso il netto, se non. Sa concepimento del tutto, oppure
fa mente nostra dividerebbe in più tem- pi ciò che per 1’ unità dell’ idea
prin- cipale dorrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo 1*
accessorio principale, produrrebbe e confusione nella chiarezza, e noja nelle
unioni diseguali e sproporzionate d’ idee fatte nella mente nostra. Tanto è
vero che il tempo (che altro non è per noi che la successione delle idee degli
es- è una quantità alla qua- le non la scienza del moto solamente, ma le
scienze tutte e le belle arti e la politica debbono aver considera- zione
perchè tutte le più fine e le; più sottili ed interiori egualmente, che le più
complicate e più grossola- ne ed esteriori operazioni dell’ intel- letto, sotto
l’ inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano. Fra la moltitudine delle
idee accessorie che si presentano, quali sceglieremo per essere espresse, quali
serberemo per essere semplicemente destate? In primo luogo tra molte accessorie
analoghe e moltissimo simili fra di loro, e che si risvegliano reci- procamente
ed infallibilmeute l* una l’ altra uua sola sarà 1’ espressa > le y peri
sensibili ) Digitized by Google 33 altre taciute perchè se tutte fossero;
espresse, ciascheduna espressione re- plicando le idee di tutte le altre, vi
sarebbe superfluità e ridondanza che, fastidio produrrebbe e stanchezza e
dispendio di tempo. La ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso
effetto della ripetizione delle idee principali queste si rinfrancano; come
tali nella mente, e divengono perciò come un centro di luce che il tutto
riscalda e rischiara quelle ri-; petute annebbiano e dissipano 1’ atten- zione
dalle principali: per lo contra- rio se una sola sia 1* espressa le al-,, tre
analoghe semplicemente destate, la quantità d’ idea e d’ impressione rinchiusa
in una sola espressione di- viene più grande, e per* conseguenza più piacevole
restando picciola la, insipida sensazione dell’ udito e dell* occhio che
abbiamo visto che uu, tempo considerabile esige a spese delle idee e dell’
immaginazione: così ve- niamo ad ottenere un più grand’ effet- to in più breve
tempo problema che; nonè solo l’oggetto de’meccanici ma della morale e della
politica anzi, di tutta la filosofia. lu secondo luogo, tra la moltituaine
dell© idee accessorie vi saran- no, oltre le analoghe, quelle che sodo più
distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue rispettive simili ed asso- ciate;
di queste ognuna apre la meu- te ad una serie d’impressioni, e sono direi quasi
capi-idee e capi-pensieri; queste saranno l’ espresse perchè non, si destano
reciprocamente ed è ne-, cessaria F espressione per eccitare ossia perchè la
mente possa percorre- re tutte queste differenti progressioni d’ idee. Sarà
dunque eccellente la combinazione di quelle accessorie col- la principale in
cui tutte le accesso- rie espresse siano capi-pensieri, e non molto analoghi od
associati tra di loro, e moltissimo colla principale per una delle tre indicate
sorgenti per cui le idee vicendevolmente si legano. Una riflessione soggiungo
intorno all* effetto delle idee espresse e ta- ciute; cioè che tra una
espressione e F altra, per i limiti e la debolezza de’ sensi esterni, tanto per
mezzo del- F occhio quanto per mezzo del- F udito, corre un piccolo interval-
lo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo se vi sono idee;
35 queste come lampi di mente riempiono questo vo- to senza stanchezza;
ma se tutte sono espresse, moltiplioano i voti e non si riempiono il che porta
diminuzio- mentata fatica delle espressioni da leg- gersi o da ascoltarsi.
Quanto più gran* di e più forti saranno le idee acces- sorie espresse tanto più
numerose, destate e non espresse,; ne di piacere e stanchezza per 1* au.
possono essere le idee taciute, ma necessariamente destate da quelle, perchè l*
efficacia delle prime tende e rinforza 1* attenzione che con più rapidi voli
slanciasi ad abbracciare le idee non espresse senza pregiudica- re all* interesse
del tutto, e perchè espressioni più grandi e più forti fer- mano T
immaginazione di chi legge od ascolta, essendo manifesta legge della mente
nostra di trovarsi obbli- gata ad impiegar un tempo maggiore nella
considerazione delle idee a mi- sura che sono più grandi e più forti: onde per
questo tempo necessario, per questa dimora per così dire della,, mente su di un
oggetto quantunque, egli medesimo per la forza e gran- dezza sua esiga tutto
questo tempo maggiore di attenzione ciononostan-, Digitized by Google
36 te la mente, dall’impeto concepito * percorrere una serie d’ idee
quasi trat- tenuta più facilmente potrà ricevere, altre idee rapidamente
risvegliate al- P occasione di espressioni forti ed energiche: chi ben
considera torna sulla esperienza dell* animo suo» potrà facilmente scorgere che
sempro che un grande ed interessante oggetto fermi il pensiero, e percuota
improv- visamente P immaginazione, questa do- po considerato quell’oggetto,
nell’at- to che si riscuote e si risveglia dal- Pintensione nella quale
trovavasi, per così dire, attuata e raccolta non si, abbandona subito
all’ordinaria impres- sione delle cose che le stanno d’ at- torno ma sibbene
destasi in lei una, moltitudine d’idee tutte relative non solo a quella
straordinaria impressio- ne che P ha percossa ma ancora a,, ed alle passioui
dalle quali se stessa è dominata. E’ da ciò che i boschi nei cupi e varj
ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini an- tiche de’ monti
ove signoreggia illi- mitata la natura che la vista del, mare che si allarga
fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti P attonita immaginazione,
sono ricer-, e ricati da coloro che piu amano di pa- scolare i loro pensieri,
ed esercitar P animo liberamente e senza distra- - zioni dalla considerazione
di se me- desimi; mentre coloro i quali odiano di rientrare in se stessi, e
cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero
si, gettano nel minuto e sempre unifor- me vortice della vita comune, gli og-
getti della quale sono atti bensì a spioger l’animo fuori di se stesso in un
coutinuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e pen- sieroso. Per
lo contrario, più piccio- le e più deboli saranno le accessorie espresse, la
scelta si farà su di quel- le che ne risvegliano un minor nu- mero, perchè la
differenza tra le mie e le altre essendo minore, e sovente piu importanti e più
forti potendo essere le destate che P espresse si, corre rischio che le idee
dell’ autore siano perdute di vista e confuso ed, interrotto riesca l’effetto
del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da sufficientemente forti
ed esterno sensibili manifestazioni. Le deboli accessorie espresse, secondo ab-
biamo dimostrato debbono essere, molte, acciocché il numero compenti la
debolezza; ma molte idee espresse occupano un tempo eh* esclude molte idee
taciute o sottintese, altrimenti di troppo alloutaneressimo il concepimento
dell’ idea principale. Le ac- cessorie forti, per una contraria ra- gione
debbono essere poche in cia-, scun momento d’impressione; ma po- che forti
lascierebbero del voto ne- gl* intervalli necessarj dell* espressione che da
molte idee non espresse debb’essere supplito. Cesare
Beccaria. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Beccaria” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Becchi – l’incubo –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo Italiano. Grice: “Becchi is pretty
controversial; a good reason why he is not invited to the New World for
“Italian Studies”! – My favourite is his tract mocking Umberto Eco’s “Il
pnedolo di Foucault,” “L’incubo di Foucault”! – But Becchi is a jurisprudential
philosopher like Hart, and perhaps more than Hart did, knows what’s he’s doing!
-- Paolo Becchi -- Paolo Aureliano
Becchi (Genova), filosofo. Laureato in
filosofia, si è poi trasferito in Germania dove ha collaborato come assistente
alla cattedra di Filosofia e Sociologia del Diritto della Facoltà di
Giurisprudenza dell'Università del Saarland, e in seguito come borsista per il
Deutscher Akademischer Austauschdienst (DAAD). Attualmente è Professore di
Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Genova. Inoltre
fino al è stato professore presso
l'Lucerna. Ha prodotto circa 200 pubblicazioni su temi concernenti la filosofia
del diritto, la storia della cultura giuridica e la bioetica. Nel si
avvicina al Movimento 5 Stelle, venendo definito dalla stampa l’“ideologo del
movimento” ma a gennaio del lo abbandona
criticandolo duramente e scrivendo ad aprile il libro Cinquestelle &
Associati. Di recente ha focalizzato il discorso politico sulla categoria del
sovranismo ed in particolare sul concetto di sovranismo debole, detto
althusiano; coniugando così, istanze federaliste e sovraniste in linea con la
Lega di Matteo Salvini. I suoi
interventi di natura politica sono raccolti nel suo blog. Fino alla metà
del era noto al pubblico del piccolo
schermo per le interviste e i talk show in cui dibatteva. È attualmente editorialista di Libero e de Il
Sole 24 ORE, oltre ad avere un blog sul sito de Il Fatto Quotidiano. Altre
opere: “Morte cerebrale e trapianto di organi. Una questione di etica
giuridica” (Morcelliana); “Quando finisce la vita. La morale e il diritto di
fronte alla morte” (Aracne); “Giuristi e prìncipi. Alle origini del diritto
moderno” (Aracne); “Il principio dignità umana” (Morcelliana), “Nuovi scritti
corsari (Adagio Editore); “I figli delle stelle. L'Italia in moVimento”
(Adagio); “Colpo di Stato permanente” (Marsilio); “Apocalypse Euro” (Arianna);
“Oltre l'Euro” (Arianna); “Napolitano, re nella Repubblica. Per una messa in
stato d’accusa (Mimesis): “Cinquestelle & Associati. Il MoVimento dopo
Grillo (Kaos); “Referendum costituzionale. Sì o no. Le ragioni per il no e il
testo della «controriforma» (Arianna); “Come finisce una democrazia. I sistemi
elettorali dal dopoguerra ad oggi (Arianna); “Italia sovrana (Sperling &
Kupfer); “Democrazia in quarantena. Come un virus ha travolto il Paese”
(Historica) Note Biografia sul sito Genova Archiviato in.
M5S, Grillo scomunica (di nuovo) Becchi: “Non ci rappresenta”. Lui:
“Tolgo il disturbo”, ilfattoquotidiano, Perché dico addio al Movimento 5 Stelle. Parla
Paolo Becchi, formiche.net, 5 M5S, Becchi lascia il Movimento: “È diventato
partito stampella di Renzi. È finito il sogno”, ilfattoquotidiano, 5 gennaio. 9
gennaio. Per un’idea ‘federativa’ di
Stato nazionale, in "ParadoXa", Skytg24, Becchi: “Repubblica? Il
giornale dell’orfano”. Bellasio lascia lo studio. La redazione della tv si
scusa con Calabresi, ilfattoquotidiano, Paolo Becchi Blog ufficiale, su paolobecchi. wordpress.
Opere di Paolo Becchi,. Registrazioni di
Paolo Becchi, su RadioRadicale, Radio Radicale.
Filosofia Politica Politica Filosofo
del XXI secoloAccademici italiani del XXI secoloBlogger italiani GenovaProfessori
dell'LucernaProfessori dell'Università degli Studi di Genova. Paolo Aureliano
Becchi. Paolo Becchi. Keywords: l’incubo, filosofia politica, dignita,
soveranita, giurisprudenza, filosofia della giurisprudenza, repubblica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Becchi” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bedeschi – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Alphonsine). Filosofo italiano Grice: “You gotta love
Bedeschi – at Oxford Jurisprudence is not considered Philosophy, but in Italy,
‘filosofia politica’ is at the centre of it all – and Bedeschi knows it – this
is because Italians take Hegel seriously with his ‘dialectic;’ and while I did
speak profusely of the Athenian versus the Oxonian dialectic or dialexis, I
skipped the Hegelian dialectic! Bedeschi doesn’t – and Hegel leads to the reset
of it!” -- Giuseppe Bedeschi
(Alfonsine), filosofo. Docente di storia della filosofia all'Università La
Sapienza di Roma, ha insegnato all'Cagliari e all'Istituto Universitario
Orientale di Napoli. Studioso di Hegel e del marxismo, ha approfondito in
seguito la storia del pensiero liberale. Caporedattore dell'Enciclopedia del
Novecento, direttore dell'Enciclopedia delle scienze sociali e
dell'Enciclopedia dei Ragazzi, è membro del comitato scientifico della rivista
"Nuova storia contemporanea" e collabora al supplemento domenicale de
Il Sole 24 ORE. Altre opere: “Alienazione
e feticismo nel pensiero di Marx” (Bari, Laterza); “Introduzione a Lukacs”
(Bari, Laterza); “Politica e storia in Hegel” (Roma-Bari, Laterza); “Introduzione
a Marx” (Roma-Bari, Laterza); “La parabola del marxismo in Italia” (Roma-Bari,
Laterza); “Introduzione a La scuola di Francoforte (Roma-Bari, Laterza); “Storia
del pensiero liberale” (Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Hegel”
(Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Tocqueville” (Roma-Bari,
Laterza); “La fabbrica delle ideologie: il pensiero politico nell'Italia del
Novecento” (Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo vero e falso, Firenze, Le
lettere); “Il rifiuto della modernita: saggio su Jean-Jacques Rousseau”
(Firenze, Le lettere); “La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una
democrazia difficile” (Soveria Mannelli, Rubbettino, Opere di Giuseppe Bedeschi,. Giuseppe
Bedeschi, su Goodreads. Registrazioni di
Giuseppe Bedeschi, su RadioRadicale, Radio Radicale. Profilo su RAI Educational, su emsf.rai. 16
marzo 21 dicembre ). Giuseppe Bedeschi
sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Filosofi
italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1939d Alfonsine. Giuseppe
Bedeschi. Keywords: dialettica, la parabola del Marxism in Italia, liberalismo,
conservatorismo, italia, fabbrica di ideologie”, sulla parte conservatrice, I
conservatori in italia, Scruton, ‘conservatismo’, nel dizionario di politica
del partito, la dialettica hegeliana, dialettica, dialexis. The two references
‘Sulla parte conservatrice’ and ‘I conservatori’ given in that entry, studio
della ideologia nell’italia del Novecento, Giuliani, prima guerra, veintenna. Refs.:
Luigi Speranza, “Bedeschi e Grice” – The Swimming-Pool Library.
Belleo.
search – Bedoni. search – Belloni, Camillo
--
Grice
e Belluto – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love
Belluto; he shows that the philosopher is the master of grammar – his
explanation of modi of the different ‘perfect’ orations—is genial and exactly
what I tried to convey in my lectures on ‘mode’: vocativo, imperativo,
optativo, indicativo – That this belongs in dialettica is obvious – since all
modi share the same logic, and that’s Belluto’s point!” -- Bonaventura Belluto, o Belluti (n. Catania), filosofo. Nato da distinta e facoltosa famiglia, studiò
diritto civile all'Catania. Entrato nell'Ordine dei Frati Minori Conventuali
nel 1621, emise la professione religiosa l'anno successivo. A Roma studiò
teologia presso il Collegio sistino di San Bonaventura dove conobbe il
confratello Bartolomeo Mastri di Meldola del quale divenne compagno
indivisibile di studio e di lavoro come reggente degli studi prima al convento
di Cesena, quindi a Perugia e poi a Padova. Durante questo periodo, entrambi
operarono per il rinnovamento della tradizione e per una nuova interpretazione
della dottrina scotista tale da soddisfare la nuova cultura religiosa
dell'epoca. Pubblica a Roma con la
collaborazione di Bartolomeo Mastri il primo volume di filosofia scolastica,
dal titolo “Disputationes in Aristotelis libros physicorum, quibus ab
adversantibus... Scoti philosophia vindicator” che ha il fine di essere diffuso
nelle scuole francescane per far conoscere la filosofia di Scoto difendendola
dalle critiche d’Aquino i e dai travisamenti operati da altri interpreti tra i
quali i gesuiti. Successivamente
pubblica un piccolo trattato di logica, “Institutiones logicae, quae vulgo
Summulas, vel logicam parvam nuncuparunt” (Venezia). Ad opera dei due filosofi
fu pubblicato un “Cursus integer philosophiae ad mentem Scoti” che riune le “Disputationes”, le “Disputationes in libros de coelo et de
metheoris”, le “Disputationes in libros de generatione et corruptione” e le “Disputationes
in libros de anima”. Il “Cursus” e un'opera, con fini esclusivamente didattici
e divulgativi del pensiero scotista, dove manca ogni riferimento alla cultura
filosofica e scientifica contemporanea. Alla fine della comune reggenza a
Padova i due filosofi si separarono. Belluto torna a Catania dove fu ministro
provinciale di Sicilia e di Malta, distinguendosi per intelligenza e saggezza
di governo. In questo periodo esercita anche la carica di consultore e censore
per l'Inquisizione. Nell'ambito del piano di rinnovamento del pensiero di Scoto
oltre all'insegnamento della sua filosofia i due filosofi progettarono un corso
di teologia che Mastri sviluppa con il trattato D”e Deo in se” mentre Belluto
continua l'elaborazione dell'opera “De Deo homine” della quale fu pubblicata
solo la parte riguardante le “Disputationes de Incarnatione dominica ad mentem
Doctoris subtilis”. Tema specifico e quello della predestinazione di Maria:
argomento questo che non apparteneva alla dottrina di Scoto ma che cerca di
risolvere applicando i principi del maestro nel senso che applicò alla
predestinazione della Vergine Maria la dottrina scotista della predestinazione
assoluta di Cristo. Note F. Costa, IlBonaventura Belluto, (1603-1676).
Il religioso, lo scotista, lo scrittore, Roma 1976 La Sicilia e l'Immacolata: non solo 150 anni:
atti del convegno di studio, Palermo, Diego Ciccarelli, Marisa Dora Valenza,
Officina di Studi Medievali, 2006 p.172
Francesco Costa, Il primato assoluto di Cristo secondo Bonaventura
Belluto, OFMConv. (+1676), in "Miscellanea francescana", Cesare
Vasoli, Belluti, Bonaventura, in: Dizionario Biografico degli Italiani, Roberto
Osculati, Gli Opuscoli morali di Bonaventura Belluti. Duns Scoto Bartolomeo
Mastri V D M Francescanesimo. INSTITVTIONVM LOGICALIVM.
Nomina transcendentia infinitari possint verbum adiectiuum & substantiuum
de Secundo adiacente sint verba apud Log, de attinentibùs ad formam syllogiſmi,
De oratione, quid sit, quotuplex, oratio necesario debeat constare verbo, quid
sit propositio, seu Enunciatio, quotu De terminis, ac eorum affectionibus, Quanam
sit recta Enunciationis definitio.quotuplex sit terminus. Quomodo Enunciatio
vocalis dicatur vera, vel communi. falſa. Quæ dctiones fubeant rationem,
divisio in catheg. bypotb. sit generi sin termini. Species. An dentur termini
in cap. 4. Quid sit propositio cathegorica b quotuplex. propositione mentali, Determinorum
multiplicitate ratione fignifi Dub. 1, Qualis sit diuisio propusitionis in
veram, falsam, affirmativam, negativam, quid sit signum [segno], a quotuplex uniuersalem o particularem qui sint termini mixti
inter cathegoremati qualis sit diuisio propositionis in modalem cum syncathegorematicum
de inesse qui sit terminus complexus o incomplexys Capo, 5. Quid sit propositio
modalis, & quotuplex, Cap: 3. Determinorum multiplicitate in ratione modi
qualis sit divisio propositionis modalis significandi in compositam o diuitam. Quid fit terminus
connotatiuus. n.g Quid sit propositio bypothetica, oquotuplex, D emultiplicitate
terminorum in ordine ad res P.20 fignificatas. Dubi. An bypotbetica propositio
benèdefiniatur.n. De Uniuerfalibus, fue Prædicabilibus. Divisio bypothetice in
conditionalem. De Prædicamentis, primode absolutis. copulativam & disiunctiuam sit generis in species De
prædicamentis respectivis, De legibus eorum, quæ funt in Predicamento, De
oppositione cathegoricarum simplicium. De Terminorum collatione inter se, An
inter contradictoria detur medium, Varia terminorum supposition quod sint species oppositionis, An suppositio
competat adiectivis de æquipollentia, o conversione categorical. Quo pacto
differente suppositio determinata, rum simplicium & confusa, Quomodo equipolleant
ſubcontraria, De reliquis terminorum proprietatibus, propositio affirmativa
depredicato infins, Determinis componibilibus aquipolleat negative de predicato
finite explicantur quidam termini in fchalis fre è contra quentiffimi, De
oppositione, æquipollentia, &conuersione catbegoricarum, modalium, ac etiam
hypotheticarum propositionibus exponibilibus, insolubili de Propositione & eius
affectionibus, bus, propositiones exponibiless int catheg vel by Comez de nomine
o verba, pot. & quomodo contradicant solum nomen finitum rectum sit propositiones
insolubiles sint catheg, vel by nomen apud Logicum, pot.cies de Argumentatione,
& eius affectionibus de attinentibus ad materiain syllogiſmi. oquotuplex
fit Argumentatio formalis. De syllogismo Demonstrativo. De speciebus
argumentat. Quoi fint argumentationiss pecies, og mun ald. precognitionibus eo
perecognitis quod sint precognitiones, omnis consequentia sit argumentatio de
regulis communibus bona argumentatione. Quid depaſſionepre cognoscatur. nis. De
fcientia demonftrationis effectu liceat argumentariex fuppofitioneimpos Dub.V n.An
dentur scientia de novo. sibili, de neceffitate principiorum, ubi de modis de
inductione, ubi de ascensu, descensu, per feitatis Que predicentur in primo
modo dicendi per Dei. inductio fit bona, formalis consequentia, vel
argumentatio, modus intrinsecuspredicetur in primo modo De syllogifmo, &
eius principis constitutiuis, dicendi per se. n.is obi de figuris eiusdem quo patto
quartus modus dicendiper se disse unde dicantur maior, o minor in syllogism rat
a secundo. Propositio per se convertatur in propositio, conclusio sit de essentia
syllogismi nem per fe. detur quarta figura De demonstratione propter quid De
principis regulatiuis syllogismi Ancaufa virtualis pofit in seruire demonstra
dub us. quodnam sit principium precipuum regulationi siuum syllogismi quomodo
illud axioma propter quod, unum regule generales, especiales cuiuscunque si
quodque tale & illud magis. gure alignantur. De demonstratione quia
Alignantur modi cuiuscumque figura cum. De medio demonstrationis.corum
exemplis. De numero quaffionum modi syllogismorum sint sufficientere numerati.
figura dentur modi indirecte concludentes sicut in prima de syllogiſmo topico,
de inductione modorum imperfectorum ad perfectos. De varis speciebus syllogiſmi
cathegorici. De materia tum remota tum proxima syllogiſmi topici. detur syllogismus
constans ex propositinibus non significantibus de numero predicatorum de locis
topicis de Syllogismo hypothetico & alijs syllogismi, de locis intrinsecis
speciebus de locis extrinsecis un de finepetende divisions syllogifmi, De locis
medijs.fint eſentiales. Digifmus, ut fic, fit genus demonftratiui, opici, co
Sopbiſici.De arte inueniendí medium, ac bene disputan de syllogismo sophistico
de modis seu instrumentis sciendi fallacis in genere An detur diftin & tiomedia
interdiftin & tionem reslem,orationis, de Fallaciis extra dictionem. Impiegatura del
segnare. Ex variis capitibus solent termini multiplicari et variæ
eorum divisiones assignari, ex parte nimirum significationis, ex parte modi
significandi, et ex parte rei significatæ. Ex primo capite, quantum ad præsens
spectat, solet in primis dividi vocalis terminus in significativum et non
significativum. Ille est, qui aliquid significat, ut hæc vox homo, qui naturam
significat humanam, ille est, qui nihil qui nihil fignificat, ut "blittri",
"buf", "baf". Sed ut ista divisio sit recte tradita
intelligi debet de termino in prima acceptione assignata cap. præced. nam in
secunda acceptione omnes termini sunt significativi, cum esse possint subiectum
et prædicatum in propositione. Terminus igitur vocalis in tota sua latitudine
sumptus dividitur in significativum et non significativum. Quæ divisio ut bene
percipiatur, cum terminus vocalis constituatur in ratione significantis per
significationem, videnduın est quid sit significare & quid signum [segnante,
segnare, segnato] a quo verbum "significare" derivatum est. [A cloud
may sign but a cloud does not 'make' [fare] a sign -- you cannot order a cloud,
'make a sign!' 'Signify', "Fa un segno!"]. Signum (ex August. De
Doct. Christ. cap. i) est illud [x], quod præter sui cognitionem, quam ingerit
sensibus, facit nos venire in cognitionem alterius [y], v. g. hæc vox
"homo" præter speciem, quam imprimit in auditu, ut sonus est, facit
nos venire in cognitionem alterius scilicet naturæ humanæ, unde signum [segnante]
debet esse tale, utillo cognito per sensus, mediante illo deinde veniamus in
cognitionem rei, cum qua signut habet *connexionem* [any link will do]. Hinc
significare nil aliud erit, quam aliquid aliud a se distinctum *re-præsentare*
potentiæ cognoscenti. Ex quo patet signum dicere ordinem et ad potentiam
cognoscentem, cui *re-præsentat* et ad rem significatam [signata, segnata],
quam re-præsentat. Dividitur porro signum in formale et est illud, quod absque
sui prævia cognitione aliud nobis [dual scenario] re-præsentat & in eius
cognitionem ducit, quales sunt species impressa et expressa respectu proprii
objecti et in instrumentale, quod præ-supposita sui cognitione facit nos in
alterius cognitionem venire, ut imago respectu Cælaris, vestigium respectu feræ
transeuntis. Qua de causa Scotus 2. d. 3.quæst. 9. et quol.14, hoc secundum
signum appellat medium cognitum, quia ut ducat in cognitionem *signati*
[segnato], prius petit ipsum cognosci, illud vero primum vocat præcise rationem
cognoscendi, quatenus præcise est quo aliud cognoscitur et non quod
cognoscitur. Signum autem instrumentale est, de quo agimus in præsenti et quod
proprie dicitur signum et definitur ab August. citat, ea tamen definitio etiam
formali conveniet, si prima pars dematur & dicatur signum esse, quod facit
nos in alterius rei cognitionem venire. Hæc tamen signi descriptio, quamvis sit
ab August, tradita & ob tanti doctoris authoritatem ab omnibus passim
recepta, non recipitur a Poncio disput. 19. Log. quæst. i, eamque impugnat quo ad
veramque partem. Quo ad primam quidem cum ait signum [segnante] esse id, quod
præter sui cognitionem, quam ingerit sensibus, etc. redarguit, quia non
complectitur omne signum, quia possent dari *signa spiritualia*, quae
deducerent in cognitionem aliarum rerum, nec possent percipi a *sensibus
materialibus*. Quo ad aliam vero partem, in qua ait. Quod signum facit nos
venire in cognitionem alterius eam impugnat, tamquam ab Arriag. traditam, quia
obiectum facit nos in cognitionem sui venire et tanem *non* dicitur signum.
Rursus Deus ipse facit nos venire in cognitionem multarum rerum eas nobis
revelando, nec tamen ab illo vocatur signum illarum rerum. Præterea cognitio
est signum rei quae cognoscitur per ipsam & tamen non facit nos in
cognitionem venire. Sed nimis audacter insiciatur Poncius doctrinam D.
Augustini, quam omnes venerantur, ut communis Magistri, unde mirum esse non
debet, quod saepius hic auctor minimo rubore suffusus doctrinam Scoti
praeceptoris audeat impugnare. Optima enim est illa descriptio quo ad omnes
partes, si bene intelligatur, nam duae solent assignari conditiones alicuius,
ut alterius rei signum dicatur, una est, quod nos ducat in illius rei
cognitionem, altera est, quod ducat in eius cognitionem, quatenus cognita,
quarum conditionum utramque *optime* [cf. optimality] exprimit definitio signi
ab Augustino tradita. Nam per primam partem definitionis secundum exprimit
conditionem. Vulc enim rem, quæ inservire debet pro alterius signo, prius
nostris sensibus cognitionem sui ingerere debere, specificat autem signum esse
debere *sensibile*, quia ut notat doctor 4. d. 1. quæst. 2. & 3. *signa
sensibilia* sunt *maxime apta pro statu ipso excitare intellectum coniunctum a
sensuum ministerio dependentem, ut in alterius rei cognitionem veniat. Per
alteram vero partem definitionis altera quoque conditio exprimirur, contra quam
nil urgent instantiæ a Poncio adducta, quia obiectum facit venire in
cognitionem sui, non alterius, nec facit venire in cognitionem sui, quatenus
cognitum, ut facit signum, sed quarenus cognoscibile. Nec etiam *Deus* hoc modo
ad instar signi ducit nos in rerum cognitionem, quatenus cognitus, sed eas
revelando, quod adhuc facere posset, etiamsi prius a nobis non cognosceretur.
Cognitio denique esse signum rei cognitae per ipsam formale, ut dicebamus, non
autem instrumentale, quod solum *proprie* dicitur signum et ab Aug. definitur
& ideo cognitio proprie loquendo non dicitur facere nos venire in
cognitionem rei, quam re-præsentat, quia non ducit nos in cognitionem illius
rei, quatenus cognita, sed ut medium cognitum, sed ut racio cognoscendi. Solum
autem signum instrumentale est illud, quod hic definitur. Et hoc signum
instrumentale adhuc *duplex* [like vyse and vice?] est, aliud *naturale*, et
est quod *ex natura* sua independenter ab hominum voluntate [those spots mean
measles] aliquid [measles] re-praesentat, ut fumus ignem [where there is smoke,
there's fire], et universaliter omnis *effectus* [causa/effectus] suam causum,
qui præsertim si *sensibilis* [fumus] erit, dicetur signum causae juxta sensum
definitionis allatæ. An vero ita e contra *causa* dici posse signum sui
*effectus*, negat Hurtad. disput. 1. sect. 4. quia etsi causa cognitio ducat in
cognitionem *effectus*, tamen, non es ordinata ad illum re-præsentandum. Sed plane
non minus ordinata est cognitio *causæ* ad nos ducendum in cognitionem
*effectus* a priori, quam cognitio *effectus* sic *ordinata* ad notitiam
*cautiam* a posteriori, quare ratio Hurtad. parum valet. At inquirare alii,
quod licet ita res se habeat, sola tamen cognitio, quae per *effectum* habetur,
dicitur haberi per signum, unde sola demonstratio a posteriori, quae est *per
effectum*, dicitur *a signo* et ideo solum *effectus* dici potest signum
*causæ*, non e contra. Verum neque hoc viget, licet enim cognitio habita *per
effectum* veluti sensibiliorem *causa*, magis proprie dicatur *a signo*, nil
tamen impedit, quin et cognitio habita *per causam* possit dici *a signo*
absolute loquendo. Potest igitur etiam *causa* dici signum sui *effectus*, et
praesertim quando *sensibilis* est, unde a theologis sacramenta dicuntur
*signa* *gratia*, cuius sunt *causa*, ita clare colligitur ex Doctore 4. d. 1.
quaest. 2. De secundo principali et sequitur Casil. cit. & Arriaga
disputat. 3. sect. 2. Aliud vero est *signum artificiale* [not conventional!
ars/natura], seu *ad placitum* et est: quod ex hominum impositione aliud
re-præsentat, sic ramus est signum venditionis vini, sonus campanae est signum
lectionis [the bell means the bus is full], et vox illius rei, ad quam
*signi-ficandum* est imposita. Ubi tamen est advertendum etiam in vocibus ipsis
non tamtum significationem ad placitum reperiri posse, sed etiam naturalem, ut
patet de gemitu infirmorum et latratu canum et ideo terminus vocalis
*signi-ficativus subdividi solet in *significatiuum naturaliter et ad placitum
et hic ad dialecticum spectat non quidem secundum suam realem entitatem, ut vox
est, et sonus quidam in aere *causatus*, sed secundum quod impositus est ad res
ipsas *signi-ficandas* et conceptus mentis exprimendos, in hoc enim sensu voces
pertinere dicuntur ad institutum dialecticum, ut dicemus disp. de vocibus, ubi
etiam declarabimus, per quid constituatur ratio signi. Special section on ‘sign’ – two sections. General
definition of sign, following Augustine, but with objections by Ponzio. Second
section, the criterion between artificial (‘a piacere’) and mere natural signs.
Segno – segnare – segnante, segnatum. Bonaventura Belluti. Bonaventura Belluto.
Keywords: dialettica, “Institutiones logicae, quae vulgo Summulas, vel logicam
parvam nuncuparunt”, section on ‘segno’ – signum. The teacher ringing the bell
means that Strawson should go to the tutorial. The branch of grapes means that
Grice is selling wine from his orchard. Rather than ‘artificiale’ ‘a piacere’
is better, ‘ad placitum’. Scottism against Thomism in Italy – x means y in
terms of cause and effect. The problem of God, should sign be always
‘material’?—Etimologia di ‘segno’ – relazione con greco ‘semeion’ neutro. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Belluto” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bencivenga – il piacere – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio Calabria). Filosofo italiano. Grice: You’ve got to
love Bencivenga; my favourite is his little tract on ‘pleasure,’ but he has
philosophised on one of Austin’s favourite concepts – that of ‘game’ – gioco –
which he applies to communication and philosophy – he thinks that Austin took
philosophese too seriously – ‘implicatura,’ ‘perlocution,’ – when it was all
meant in fun – as a joke –“. Dopo la laurea in filosofia alla Statale di
Milano, Bencivenga ha lasciato presto l'Italia, trasferendosi prima in Canada
per gli studi di dottorato e poi negli Stati Uniti, dove ha intrapreso la sua
carriera accademica insegnando, dal 1979, all'Università della California a
Irvine. I suoi interessi di studio, nel
corso del tempo, hanno riguardato la logica formale (negli anni settanta), la
storia della filosofia (negli anni ottanta), l'etica, la filosofia politica. Ha
pubblicato numerosi testi sulla storia della filosofia e su specifici argomenti
filosofici, come logica, estetica, filosofia del linguaggio, in forma
dialogica, saggistica, trattatistica – “Teoria del linguaggio e della mente”
(Bollati Boringheri --, con scrittura aforistica – “Anime danzanti” (Aragno) --
o affrontando singole figure storiche (come Hegel e Kant). Ha scritto inoltre
diversi testi introduttivi alla filosofia e a sue tematiche, desti un pubblico
più vasto, e alcuni libri di poesie. “La filosofia in trentadue favole”
(Arnoldo Montadori) è un saggio ripubblicato
negli Oscar Mondadori. Pur potendo essere raccontato a un uditorio di bambini,
il saggio si pone l'obiettivo di rivolgersi al bambino presente in ogni essere
umano, che lo rende capace di stupirsi e incantarsi di fronte alle domande
della filosofia. Il saggio è stato riedito in edizioni aumentate (a
quarantadue, cinquantadue, sessantadue e ottantadue favole). “Giocare per
forza: critica della società del divertimento” (Arnoldo Mondatori) è dedicato
all'importanza del gioco e all'esame critico del sovvertimento di senso di cui
esso è stato fatto oggetto nella società contemporanea: trasformato in
industria, il divertimento ha perduto la sua naturale collocazione, quale
manifestazione della sfera fantastica, ricerca libera e volontaria. Trasposto
in una dimensione 'industrializzata' e organizzata, il gioco si qualifica come
attività passiva e ripetitiva, espressa all'insegna di rapporti psicologici
coattivi che snaturano completamente il senso dell’Homo Ludens di Johan
Huizinga: il gioco del lotto e l'intrattenersi con videogame o slot machine
diventano forme di subire passivo, una dimensione alla quale è precluso il
manifestarsi dell'agire ludico dell'uomo attraverso l'attività fantastica della
psiche umana. In un mondo in cui domina
la dimensione organizzata del divertimento, si apre all'uomo una prospettiva
impoverita dell'esistenza, in cui si realizza la perdita del senso profondo del
gioco, una prospettiva che l'autore considera esiziale perché, nelle sue stesse
parole, «se perdiamo il gioco perdiamo la stessa umanità». Pubblica il saggio “L'etica di Kant: la
razionalità del bene” (Bruno Mondatori), una riflessione sul concetto di Etica
in Kant e sul fondamento logico-razionale del Bene. L'Etica consiste nel negare la preminenza al
nostro punto di vista, aprendosi all'esperienza altrui, all'ascolto di tutte le
altre voci e presenze che hanno diritto a occupare un posto nella riflessione
comune. Di converso, la negazione dell'etica consiste esattamente nella
negazione di questo diritto, nell'impedire agli altri la partecipazione alla
riflessione collettiva, la possibilità di offrire all'esperienza comune il
contributo particolare della propria ragione. Questa partecipazione coinvolge
ciò che si chiama l'"uso pubblico della ragione", un'espansione della
dimensione privata della ragione, quest'ultima intesa come la sfera d'uso che
ci è concessa, ad esempio, nell'esercizio dei compiti derivanti da necessità e
ruoli della nostra vita e della nostra professione. L'Etica è come un "fuoco
immaginario", impossibile da attingere. Ma ciò che conta veramente è il
percorso attraverso cui ci si muove in direzione di questo "fuoco",
un cammino in grado di aprire l'uomo a nuove acquisizioni, schiudendone gli
orizzonti al di fuori di pregiudizi e preconcetti. Si pone poi il problema di come considerare
l'etica in un contesto dominato dalla corruzione: l'etica non lascia spazio
alla rinuncia e al cinismo, anche se spesso quest'ultimo può presentasi in
forma artefatta, dissimulato da "realismo", e per questo non
immediatamente riconoscibile. Riprendendo la celebre riflessione sulla
«banalità del male» di Arendt (per Bencivenga, la massima interprete kantiana
del XX secolo), il bene ha una logica e una ragione, un fondamento da cui non è
invece sorretto il male. Quest'ultimo, infatti, trae origine proprio dalla
rinuncia alle ragioni dell'etica, si insinua proprio nelle lacerazioni
dell'etica lasciate aperte da questa rinuncia. Diversi suoi contributi sono
apparsi negli anni su vari giornali italiani, come La Stampa, il Sole 24 Ore,
l'Unità, ecc. Altre opere: “Le logiche libere” (Bollati
Boringhieri); “Una logica nei termini singolari” (Bollati Boringhieri); “Il
primo libro di logica” (Bollati Boringhieri); “Tre dialoghi: un invito alla
pratica filosofica” (Bollati Boringhieri); “Giochiamo con la filosofia” (Arnoldo
Mondadori); “La filosofia in trentadue favole” (Arnoldo Mondadori); “La filosofia
in quarantadue favole”; “La filosofia in cinquantadue favole”; “La filosofia in
sessantadue favole”; “La filosofia in ottantadue favole”; “La libertà: un
dialogo. Il Saggiatore); “Oltre la tolleranza. Feltrinelli); “Il metodo della
follia. Il Saggiatore); “Filosofia: istruzioni per l'uso. Arnoldo Mondadori); “Platone
amico mio. Arnoldo Mondadori); “Manifesto per un mondo senza lavoro,
Feltrinelli); “Per gioco e per passione, Di Renzo); “La rivoluzione copernicana
di Kant. Bollati Boringhieri); “Filosofia: nuove istruzioni per l'uso. Arnoldo
Mondadori); “I passi falsi della scienza. Garzanti 2001, Premio Nazionale
Rhegium Julii); “Una rivoluzione senza futuro. Garzanti); “Parole che contano.
Da amicizia a volontà, piccolo dizionario filosofico-politico. Arnoldo
Mondadori); “Le due Americhe. Perché amiamo e perché detestiamo gli Usa”
(Arnoldo Mondadori); “Dio in gioco: logica e sovversione in Anselmo d'Aosta”
(Bollati Boringhieri); “Il pensiero come stile” (Bruno Mondadori); “La
dimostrazione di Dio. Come la filosofia ha cercato di capire la fede” (Arnoldo
Mondadori Editore); “La filosofia come
strumento di liberazione” (Raffaello Cortina); “Parole in gioco. Arnoldo
Mondadori); “La logica dialettica di Hegel. Bruno Mondadori); “Il piacere.
Indagine filosofica. Laterza); Filosofia in gioco. Laterza); “Filosofia chimica”
(Editori Riuniti); “Il bene e il bello. Etica dell'immagine” (Il
Saggiatore Prendiamola con filosofia.
Nel tempo del terrore: un'indagine su quanto le parole mettono in gioco); “Giunti La scomparsa del pensiero. Perché non
possiamo rinunciare a ragionare con la nostra testa. Feltrinelli); “Filosofo
anche tu. Siamo filosofi senza saperlo. Giunti); “La stupidità del male. Storie
di uomini molto cattivi” (Feltrinelli); “L'arte della guerra per cavarsela
nella vita” (Rizzoli Bur); “100 idee di cui non sapevi di aver bisogno”
(Rizzoli Bur); “Critica della ragione digitale. Feltrinelli); “Nel nome del
padre e del figlio. Hoepli; “I delitti della logica” (Arnoldo Mondadori); “Abramo,
tragedia in tre atti. Aragno Case.
Cairo Il giorno in cui non tornarono i
conti. MdS, “Annibale, tragedia in tre atti” (Aragno); Amori. MdS; “Alessandro,
tragedia in tre atti” (Aragno); Ada. Lettera a mia madre. Arsenio. Poesia Panni
sporchi. Garzanti); Un amore da quattro soldi. Aragno); Polvere e pioggia.
Aragno Poesia dei miei coglioni.
Galassia Arte); “Le parole della notte. Di Felice Amore per Milla. Di Felice. Interventi di
Ermanno Bencivenga Archiviato il 13 giugno
in. da SWIFTSito web italiano per la filosofia premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii.wordpress.com.
Blog ufficiale, su sites.uci.edu. Opere
di Ermanno Bencivenga, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Ermanno
Bencivenga,. Profilo dal sito dell'UCI
Department of Philosophy Testi di e su Ermanno Bencivenga dal sito dell'UCI
Department of Philosophy Biografia dal sito del Festivaletteratura di Mantova. Da
un quarto di secolo ormai parlo di gioco, e intorno a questo tema ho raccolto
tutte le attività che hanno per me il più profondo significato. Ho detto che il
linguaggio e la mente sono spazi ludici, che lo sono la soggettività e la
politica, che letteratura e filosofia sono giochi intellettuali. Ho scritto un
libro polemico nel quale criticavo varie attività che nel mondo contemporaneo
sono presentate e propagandate come forme di gioco e invece ne rappresentano
l’opposto: una violazione e repressione del gioco. Ma non ho mai spiegato con
cura che cosa intendo per gioco, non ho mai articolato i molteplici risvolti di
questo intricato concetto. Lo faccio qui, e forse è bene che lo faccia alla mia
età e dopo tante vicissitudini e traversie: forse un libro così, su un
argomento per me di tale importanza, poteva solo presentarsi come sommario di
un’esperienza di vita, come enunciazione della sua morale. Questo dunque
è il libro di tutti i miei libri e ogni mia forma espressiva è stata un suo
episodio. Che io mi sia dedicato alla logica o alla poesia, abbia esplorato
problemi metafisici o dialogato con i grandi della storia del pensiero, abbia
insegnato, parlato in pubblico o scritto articoli di giornale, non ho fatto che
pratica della sua composizione, non ho trovato che esempi delle sue tesi. Di
conseguenza, nel prepararlo, ho dovuto affrontare una difficoltà: quella di
mantenere una precisa misura. Il libro non poteva diventare un’enciclopedia:
doveva essere chiaro ed efficace, breve anzi, e gli stimoli che avrebbe offerto
alla lettura non dovevano causare distrazioni per un percorso che volevo
coerente e risolto in sé stesso. Se ho realizzato i miei scopi non sta a me
dire; aggiungerò solo una nota di commiato. In quella costellazione variegata
che è il mio lavoro di quarant’anni c’è un sole (un faro, l’aveva chiamato
l’amico Luciano Genta in un’intervista di molto tempo fa): Immanuel Kant. E c’è
un centro di forza, a lungo nascosto per quanto instancabilmente operoso e ora
infine venuto alla luce. Ringrazio Alessandro Giuliani, Ignazio Licata, Cinzio
Lombardi, Pasqualino Masciarelli, Daniela Mazzoli, Fabio Paglieri e Paolo
Zorzato per i loro commenti a una versione precedente del libro. Un ringraziamento
e un ricordo particolari vanno a Nuccia, antica compagna di giochi, che, fin
quando ha potuto, ha seguito queste pagine con l’intelligenza, il rigore e la
sensibilità di sempre. Roma, novembre 2012 Avvertenza Di regola, le citazioni
sono accompagnate dall’autore, dal titolo della fonte e dai numeri delle pagine
(le altre informazioni bibliografiche sono contenute nella Bibliografia in
fondo al volume), con le eccezioni seguenti: Quando mancano autore o titolo è
perché (a) sono menzionati nel testo che accompagna immediatamente la
citazione, (b) nel libro viene citata una sola opera di quell’autore e l’opera
è già stata menzionata, oppure (c) la citazione è tratta dalla stessa fonte
della citazione precedente. Quando mancano le pagine è perché sono le stesse
della citazione precedente. Infine, quando una citazione è inserita nel testo
(anziché presentata a parte, in corpo minore), la sua iniziale maiuscola o
minuscola è stata adattata alle esigenze del contesto. 1. Il gioco Una
bambina di due anni entra in una stanza per lei nuova, cosparsa di oggetti
ignoti. Si muove incerta dall’uno all’altro; li prende in mano, osservandoli
curiosa e perplessa da ogni punto di vista; li assaggia e li mordicchia con i
suoi piccoli denti; li scaglia per terra e per aria; li fa rotolare sul
pavimento, seguendone il percorso e le reazioni; ci infila dentro le mani
cercando di smontarli, di farli a pezzi; li picchia con forza per trarne un
suono e sorride quando rispondono. Poi si accovaccia in un angolo,
raccoglie intorno a sé tutti questi suoi tesori e li combina in forme sempre
nuove: un cerchio di libri e scarpe con un telefono in mezzo, una pila di
pentole e stoviglie, un orsacchiotto che guarda in cagnesco un altoparlante. Il
portiere ha appena raccolto una palla morta. Potrebbe rilanciare lungo, oltre
il centrocampo; ma preferisce l’appoggio al difensore di fascia, appena fuori
dall’area. Il terzino scatta veloce: gli avversari sono sbilanciati dall’altro
lato del campo, lui ha un’autostrada davanti e il centinaio di metri che lo
separa dalla linea di fondo è la distanza giusta per le sue doti di velocista
potente e armonioso. In affanno, sopraggiunge infine un marcatore, ma prima che
si stringa troppo il terzino si ferma di botto in un fazzoletto di terra. Ha
spazio, ancora per una frazione di secondo; lancia un cross morbido per la
testa del suo centravanti, chiaro punto di riferimento a dieci metri dal
portiere. L’attaccante ne ha due addosso, che lo spingono e lo strattonano
rischiando il rigore e gli bloccano la visuale della porta, così invece di
schiacciare direttamente a rete fa da torre e deposita la sfera sui piedi
dell’ala che si è appostata sul secondo palo. Non c’è che da spingere, il
pallone varca la linea bianca, lo stadio impazzisce. Tutto questo miracolo di
perfetti gesti atletici, di geometrie essenziali non è durato neanche un
minuto. Sono due esempi di un’attività che chiamiamo «gioco»; ma non è affatto
evidente che sia lecito usare per entrambi la stessa denominazione. Sembra anzi
un arbitrio, un capriccio; sembra non possano esserci modi più disparati di
occupare il tempo. La bambina agisce in assoluta libertà, guidata solo
dall’inclinazione del momento; non accetta alcuna barriera tra ciò che è
in gioco e ciò che non lo è, tra mosse consentite ed escluse; non
contempla un limite temporale per quel che sta facendo, e infatti si dovrà
sempre e comunque interromperla, e quando lo si farà lei manifesterà con vigore
il suo disappunto; non ha uno scopo, non vuole ottenere nulla – null’altro,
cioè, che continuare a giocare. I calciatori, invece, vivono un episodio che
dura esattamente novanta minuti (più recupero); sono soggetti a regole che è
compito dell’arbitro e dei suoi collaboratori far rispettare alla lettera (e
che domani provocheranno discussioni a non finire sui giornali e nei bar);
hanno l’obiettivo di vincere la partita, segnando un gol più degli avversari, e
per questa via conseguire fama imperitura e ingaggi stratosferici. Che cosa ci
può offrire l’uso di una stessa parola con significati tanto diversi se non una
penosa confusione? E non è finita, non per me almeno. Consideriamo infatti un
passo come il seguente, dalla Critica del giudizio: È un principio
trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a
priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra
conoscenza in generale. Invece, un principio si chiama metafisico quando esso
rappresenta la condizione a priori, sotto la quale soltanto oggetti, il cui
concetto deve esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente
determinati a priori. Così il principio della conoscenza dei corpi, come
sostanze e come sostanze mutevoli, è trascendentale, quando s’intenda che il
loro mutare debba avere una causa: è metafisico, invece, quando s’intenda che
quel mutamento debba avere una causa esterna; perché nel primo caso basta che
il corpo sia pensato solo mediante predicati ontologici (concetti puri
dell’intelletto) – per esempio, come sostanza – per conoscere a priori la
proposizione; laddove nel secondo deve essere messo a fondamento di questa
proposizione il concetto empirico di un corpo (come una cosa mobile nello
spazio), ed allora si può vedere interamente a priori che l’ultimo predicato
(del movimento prodotto solo da una causa esterna) conviene al corpo (p. 21).
Queste frasi compaiono in un libro che rappresenta uno dei massimi vertici
della filosofia occidentale, e io ho sostenuto a più riprese che la filosofia è
un gioco. Non solo la filosofia, perché l’ho detto pure dell’arte e della
letteratura, ma anche la filosofia. E che cosa giustifica l’accostamento di
espressioni così nobili dell’ingegno umano a una partita di calcio o alle
peripezie di una bimba da poco in grado di reggersi in piedi? In filosofia si
fa terribilmente sul serio, ci si concentra sui temi che più contano, che dànno
senso alla vita e all’esperienza del mondo, e si fa di tutto per sviscerarne la
struttura, per arrivare in proposito all’unica, esatta verità; non ci si sta
divertendo (sviando, cioè: andando a spasso) per godere della novità e della
sfida. In ballo non ci sono soldi o il plauso delle folle, e neppure il piacere
che deriva da qualche ora trascorsa spensieratamente. Tutt’altro: il pensiero
qui è acuto come uno spillo e profondo come l’oceano, diretto come un raggio laser
verso problemi per cui le folle non provano (ahimè) alcun interesse,
anche perché sono spesso trattati in termini (come quelli del passo citato) che
le folle troverebbero incomprensibili; e talvolta l’esito di tanto ossessivo
impegno, di tanta rigorosa dedizione, di tanta puntuale insistenza sull’uso di
formule corrette e ragionamenti apodittici è un infuso di cicuta propinato al
tramonto o il rogo in una piazza romana, fra i pellegrini convenuti per l’anno
santo. Anche questo è un gioco: quello che stiamo conducendo adesso, voglio
dire, quello suggerito dall’inizio del mio libro. Ed è importante capire che
gioco sia. Potrebbe essere come quando si mettono accanto due vignette che
raffigurano situazioni del tutto diverse – che so io?, il varo di una nave e un
compito in classe – e si chiede che cosa abbiano in comune. E, aguzzando bene
la vista e non lasciandosi distrarre dalle forme più prominenti, si finisce per
scoprire che la superficie di un banco coincide con la bandiera spiegata, o la
barra del timone con il righello. Un gioco così non è nuovo, per rispondere
alle domande che ho posto qui sopra. Si mettono accanto un ragazzo che
costruisce un castello di sabbia, un campione di scacchi alle prese con
un’apertura inconsueta, Guernica ed Essere e tempo e ci si interroga su quali
siano i dettagli che si ripresentano identici in ciascuna situazione.
Stabilendo, per esempio, che si ha sempre a che fare con un esercizio fine a sé
stesso o con un affrancamento dell’essere umano dalla servitù del bisogno. Identificando
il gioco, insomma (quel che lo rende tale), con una singola, astratta
caratteristica di ogni gioco particolare, tanto astratta da far scomparire ciò
che un gioco particolare ha di vivido e intenso, di suggestivo e appassionante.
Che cosa rimane dell’inventiva del trasformare un passeggino in un’automobile,
dell’eccitazione di tirare un rigore all’ultimo istante, della sconfinata
ingegnosità (e sublime impertinenza) della prova ontologica anselmiana quando
le dichiariamo ridotte a una qualsiasi concisa definizione che ci dia l’essenza
del gioco? Non è questo il gioco a cui voglio giocare. È invece un gioco
analogo a quello del labirinto. C’è un punto di partenza e noi siamo lì,
carichi di tutta la nostra individualità, di tutto ciò che ci rende irripetibili,
inconfondibili con chiunque altro. Davanti a noi ci sono bivi e ostacoli,
comodi varchi che potrebbero finire in un vicolo cieco e strettoie malsane per
cui potremmo trovare il passaggio agognato. E c’è una meta che ci aspetta al
termine di un tracciato arduo e sofferto; ma una meta da raggiungere interi,
non assottigliati in un’ombra priva di peso e di spessore, anzi avendo
acquisito maggior peso e spessore per le avventure vissute e i rischi corsi,
avendo visto maturare anziché spegnersi le nostre opinioni e i nostri
sentimenti. Nel linguaggio della filosofia, i due giochi che ho descritto
sarebbero ribattezzati con i nomi di Aristotele e di Hegel: il primo fautore di
una logica analitica che divide (analizza) oggetti ed esperienze nelle loro molteplici
caratteristiche e quindi astrae le caratteristiche comuni costituendo concetti
universali che diventano il luogo privilegiato della sua azione; il secondo,
invece, di una logica dialettica che unisce (lega) oggetti ed esperienze fra
loro, senza perdere nulla della loro complessità, mediante un tessuto
narrativo, una storia che gradualmente trascende l’uno nell’altro mantenendo
però l’uno presente e attivo nell’altro, un po’ come il monello dodicenne è
trasceso, ma ancora presente e attivo, nell’attempato capitano d’industria. Più
avanti potremo riprendere in mano questa terminologia filosofica e precisarla
meglio; ora è tempo di giocare, di trovare la via nel labirinto. Dovremo
spiegare il punto di partenza: il gioco della bimba di due anni – spiegarlo
come si spiega una vela, mostrando tutto quel che le pieghe nascondono. Dovremo
avere sempre chiaro in mente l’obiettivo: ritrovare quel gioco e quella bambina
nella Critica del giudizio, passando per il gioco del calcio e molte altre
tappe. E dovremo affrontare false piste e pericoli, cioè tutte le domande e
obiezioni che già ci siamo posti e quelle che dovremo ancora porci, e superarle
senza lasciare sul terreno alcun elemento significativo del punto di partenza:
senza smarrire l’incanto che affascina la bimba, il brivido con cui tenta un
nuovo gesto o una prospettiva strampalata, il piacere riflesso nel suo sorriso,
il paziente e prezioso sviluppo della sua personalità che si realizza
attraverso questi um ili, intimi passi. 2. Il punto di partenza
Cominciamo con la bimba, dunque; studiamone la situazione e (per quel che
possiamo capirlo) lo stato d’animo. La prima cosa da notare è che il suo
comportamento è trasgressivo: sovverte ogni abitudine sull’uso «corretto» degli
oggetti con cui ha a che fare e ogni aspettativa che chiunque si sia formato in
proposito. Parte di questa sua natura rivoluzionaria è dovuta al semplice fatto
che la bimba non sa quale sia l’uso corretto degli oggetti: non sa, per
esempio, che con una spillatrice si cuciono dei fogli e se ne serve invece come
di un grosso pesce nella cui bocca spalancata inserire l’«esca» di una pedina
della dama, e chi la vede sorride e osserva bonario quanto ingegnoso sia il suo
spirito, quanto la sua immaginazione sia in grado di sopperire ai difetti
dell’ignoranza. Magari il benevolo spettatore prenderà la spillatrice e ne
dimostrerà con sapiente manovra pedagogica il funzionamento: la userà per
realizzare in quattro e quattr’otto un bel quadernetto degli appunti che
porgerà alla sua pupilla, perché colga subito un elemento decisivo della sua
educazione formale prossima ventura – perché l’esperienza attuale non rimanga
«solo un gioco». E avvertirà una profonda frustrazione quando l’indisciplinata
(presunta) scolara in erba si guarderà bene dall’imitare il suo esempio e
realizzare altri dieci quadernetti, e cercherà piuttosto di infilare le dita
dentro la spillatrice e strapparle i punti, cioè i piccoli denti affilati di
questo pesce goloso, intenzionato a divorare tutte le pedine della dama.
Scuoterà la testa, il nostro insegnante per il momento mancato, e si consolerà
pensando che è solo questione di tempo: prima o poi la bimba imparerà il minimo
indispensabile per un comportamento «come si deve» e allora ci si potrà
costruire sopra e darle altre utili lezioni, senza questo continuo cambiare le
carte in tavola che sarà forse motivo d’allegria per lei ma è anche, per tutti
gli altri e per la sua stessa crescita, un’inutile distrazione. Il secondo
commento va in senso opposto al primo, indicando che con il suo procedere
caotico e informale la bimba impara un’enorme quantità di cose molto
importanti. Non quante siano state le guerre puniche o chi abbia malgovernato
l’Italia negli ultimi anni; questi contenuti li apprenderà a scuola,
quando ci andrà, o da altre autorevoli e comunque successive fonti
d’informazione. Ora invece impara a vivere nel suo corpo, a distenderlo e
ritrarlo; impara quali resistenze è in grado di superare e a quali altre deve
cedere; impara a valutare le distanze fra le pareti e fra gli oggetti sparsi
per la stanza; impara la struttura complessa di quegli oggetti, rigirandoli fra
le mani e guardandoli e toccandoli da ogni angolo. Vocalizzando reazioni
emotive alle sue vicende, impara a padroneggiare la sua voce, ad articolarla e
modularla: a trasformare suoni rozzi e primitivi in un flusso sonoro di grande
ricchezza e flessibilità, nel quale inscenare il dramma del linguaggio. Non è
un’esagerazione dire che tutto quel che facciamo sul serio lo abbiamo un giorno
imparato giocando, purché non si dia dell’imparare – cioè della conoscenza –
un’interpretazione puramente intellettuale, che lo legga come una relazione fra
un soggetto ed entità astratte quali idee o proposizioni (i «contenuti» cui
accennavo). Certo sarebbe possibile, e per me desiderabile, imparare il teorema
di Pitagora o le valenze chimiche giocando; ma sta di fatto che la maggior
parte di noi li impara in situazioni d’imbarazzante rigidità. Non potrebbe
impararli affatto, però, se non avesse acquisito abilità «elementari» che
tendiamo a prendere per scontate ma che, riflettendoci, ci riempiono di
ammirato stupore: nel caso specifico, l’abilità di comprendere quel che ci
viene detto, di coglierlo come uguale a sé stesso nelle mille differenze di
tono e pronuncia di parlanti diversi, di adattarlo al contesto nel quale è
inserito. Prima dei tre anni un bambino impara tutto ciò senza sforzo – alcuni
bambini in più lingue – mentre i cultori dell’intelligenza artificiale ancora
non sono riusciti a produrre un meccanismo di traduzione automatica decente. E
impara a riconoscere e categorizzare oggetti nello spazio, distinguendoli dallo
sfondo; a interagire ed empatizzare con altri esseri umani; a bilanciarsi sulle
gambe e muoversi disinvoltamente in ogni direzione. Se pensiamo alla fatica con
cui, in età posteriori, quello stesso bambino ormai cresciuto tenterà
d’impadronirsi di una lingua straniera, di una teoria scientifica o di uno
strumento musicale, non possiamo non rimpiangere la facilità con cui
l’apprendimento avveniva nell’infanzia, e il fatto che l’infanzia sia
terminata. Ho menzionato l’apparente contrasto fra il carattere sovversivo del
gioco e la sua sconfinata capacità di insegnare. Sembra esserci un contrasto,
qui, perché di solito concepiamo la conoscenza (oltre che in termini astratti)
come rispecchiamento di una realtà data, da acquisire senza modificarla. Io
vengo a sapere che piove osservando in modo neutrale lo spettacolo che mi si
porge attraverso i vetri della finestra, piegandomi con assoluta
deferenza all’indipendente oggettività della pioggia e facendo del mio meglio
perché i miei piani, le mie esigenze e la mia immaginazione non la turbino. Se
avvertissi troppo forte l’anelito per una bella giornata di sole e una fantasia
troppo vivida me ne rappresentasse una davanti, finirei forse per illudermi
(parola importante, sulla quale ritornerò) che non piova, per rimanere vittima
del gioco delle mie emozioni e delle mie facoltà mentali – e non saprei più che
tempo fa. Il che senz’altro è ragionevole, ma non va frainteso. Non c’è nulla
di sbagliato nel desiderio di una conoscenza che rispecchi la realtà; ma non ne
segue che il metodo migliore per soddisfare tale desiderio sia adagiarsi in una
supina e passiva registrazione di circostanze a noi aliene. La realtà va costantemente
sfidata, messa sotto pressione come farebbe uno scienziato con i suoi
esperimenti di laboratorio: il suo carattere oggettivo non è un dono che ci
viene generosamente elargito ma il residuo di un’attività ininterrotta da parte
nostra. Per essere conosciuta, la realtà va esplorata; e il gioco è il
paradigma di questa esplorazione. La tensione fra trasgressione e apprendimento
può così essere risolta. Senza arrivare agli estremi di Bacone, per il quale
dovremmo costringere la natura con le sevizie a rivelarci i suoi segreti,
l’apprendere è un fare, non un puro constatare, o meglio è un constatare che
risulta da un fare. Se ci fossimo limitati a guardare la luce che emana dal
sole e da altre fonti luminose, la concepiremmo ancora come un fluido che
pervade l’aria. Invece abbiamo proiettato un fascio di luce su uno schermo
attraverso due fessure, osservando fenomeni d’interferenza e concludendo che
eravamo in presenza di onde. Prove successive ci hanno convinto che la luce si
comporta anche come se fosse costituita da particelle, e ragionando su questo
paradosso siamo arrivati alla meccanica quantistica che, sebbene in certa
misura inintelligibile, dà previsioni più accurate di ogni altra teoria nella
storia della fisica. Possiamo dire di aver raggiunto una perfetta conoscenza
della realtà? No di certo; ma non credo ci siano dubbi che abbiamo imparato
sulla luce molto più di quanto ne sapessimo in passato, e che abbiamo fatto
grandi progressi perché non siamo rimasti con le mani in mano, perché in
analogia con i grandi viaggiatori e scopritori di continenti del Rinascimento
ci siamo inoltrati in un terreno ignoto e lo abbiamo percorso in lungo e in
largo come cavalieri erranti, scrutando qua e là e menando fendenti
all’impazzata e a volte commettendo veri e propri errori – scambiando mulini a
vento per giganti. Il primo cavaliere errante è il bambino; il terreno ignoto
che esplora è il suo ambiente; i continenti che scopre sono oggetti di
uso comune, il che potrà sembrare banale solo a chi non consideri quanto indispensabili,
irrinunciabili siano tali scoperte e non ricordi che non c’è altro modo di
scoprire alcunché. Si potrebbero seguire alla lettera delle istruzioni,
ovviamente, e se ne diventerebbe prigionieri. Pensate per esempio ai diversi
atteggiamenti che un ragazzo e un adulto hanno spesso nei confronti di un nuovo
dispositivo elettronico. Il secondo segue istruzioni; il primo invece schiaccia
tutti i tasti e tenta tutte le combinazioni operative; come risultato, quando
il secondo si trova in difficoltà deve chiedere aiuto al primo. Perché il primo
ha errato, in entrambi i sensi della parola, quindi ha imparato davvero: non
solo quel che gli era stato detto ma anche, forse, quel che nessuno gli avrebbe
potuto dire, quel che nessuno sapeva, quel che stava intorno a quel che ognuno
sapeva e che mai si sarebbe visto se non si fosse andati a zonzo, girovagato,
per divertirsi – per deviare cioè dalla strada battuta. Le parole
«divertimento» e affini sono usate sovente come sinonimi di «piacere» e affini;
«mi sono divertito molto» ha nella maggior parte dei casi lo stesso significato
di «è stata un’esperienza molto piacevole». Il legame che ho appena tracciato
fra divertirsi e imparare getta una luce provvidenziale su questa particolarità
semantica: provvidenziale come sa esserlo l’evoluzione. Ha fatto bene la
natura, operando per mutazione e selezione, ad associare un vivo piacere alla
nutrizione e al sesso, come incentivo ad attività essenziali per la
sopravvivenza dell’individuo e della specie, e altrettanto ragionevole si è
mostrata nel farci vivere il divertimento, la divagazione, come fonte di gioia,
se è vero che divagare è il modo migliore di apprendere. L’ampio spettro
d’intercambiabilità fra piacere e divertimento suggerisce addirittura che
esplorare ed errare abbiano un valore adattativo più alto, o almeno più
capillare, di mangiare e accoppiarsi: non esiste occupazione umana che non
provochi «divertimento» per qualcuno, ma non sempre le stesse occupazioni
sarebbero definite dalle stesse persone «erotiche» o «gustose». Ad ogni buon
conto, arriviamo così a identificare un’ulteriore caratteristica della scena
ludica primaria: la bimba prova un indubbio piacere, che sembra durare per
tutto il tempo in cui gioca. Lo tradiscono talvolta i suoi sorrisi e gridolini
di eccitazione, ma in modo più ovvio (perché più continuo) la sua assoluta
concentrazione e apparente instancabilità, le sue proteste quando viene
interrotta, il suo pronto ritornare a quel che tanto la avvince quando le
proteste hanno effetto. Ed è il piacere che prova a motivarla a giocare: non
c’è in questa attività nessun secondo fine; l’attività è fine a sé stessa,
perseguita in completa autonomia (in accordo con una delle possibili
definizioni analitiche di gioco). La bimba non si aspetta nessun risultato, non
intende conseguire nessun obiettivo, o quantomeno nessun risultato o obiettivo
esterni. Nonostante tutto quel che ho detto sulla funzione pedagogica del
gioco, non è per imparare che si gioca: quale che sia il vantaggio adattativo
che il gioco procura, ognuno di noi gioca all’unico scopo di giocare. Nelle
prime pagine del suo I giochi e gli uomini, Roger Caillois lascia
apparentemente la porta aperta a un’interpretazione strumentale delle attività
ludiche, nel senso di un loro contributo all’addestramento fisico:
Contrariamente a quanto si sostiene spesso, il gioco non è un apprendistato del
lavoro. Esso non anticipa che in apparenza le attività dell’adulto [...]. Il
gioco non prepara a un mestiere preciso, esso allena in generale alla vita aumentando
ogni capacità di superare gli ostacoli o di far fronte alle difficoltà. È
assurdo, e non serve a niente nella vita reale, lanciare il più lontano
possibile un martello o un disco di metallo, o riprendere e rilanciare
continuamente una palla con una racchetta. Ma è utilissimo avere dei muscoli
possenti e dei riflessi pronti (p. 12; corsivo aggiunto). Alla fine del libro,
però, la chiude con decisione: Il gioco non è esercizio, non è neanche gara o
prodezza, se non in sovrappiù. Le facoltà che esso sviluppa beneficiano
certamente di questo allenamento supplementare, che è per di più libero,
intenso, divertente, creativo e protetto. Ma funzione specifica del gioco non è
mai quella di sviluppare una capacità. Scopo del gioco è il gioco stesso (p.
195). A testimonianza del fatto che il gioco non è facile da capire, affiora in
queste ultime battute un nuovo elemento di tensione. È naturale infatti porre
in contrasto il gioco fine a sé stesso con quanto si fa «sul serio»; ma che
cosa c’è di più serio, per la bimba, dell’immersione totale, dell’assorta
partecipazione con cui vive le sue trasgressioni e i suoi esperimenti? È quando
le si vorrà imporre un comportamento giudicato desiderabile dai grandi che si
mostrerà svogliata e distratta come chi non prenda la cosa sul serio; lo farà
anche quando le si vorrà dare da mangiare, una volta soddisfatta la fame più
immediata, e si calmerà e riprenderà il suo sguardo intento e le sue mosse
accurate appena i grandi si saranno allontanati e le sarà possibile giocare con
il cibo. In Homo ludens, Johan Huizinga conferma l’esistenza di un problema
quando scrive: «l’opposizione gioco-serietà non pare né conclusiva né stabile»
(p. 23). E più avanti dichiara: «Bambini, calciatori, scacchisti giocano con la
massima serietà senza la minima tendenza a ridere» (p. 24). «L’autentica,
spontanea mentalità del gioco può essere quella della profonda serietà. Il
giocatore può arrendersi al gioco con tutto l’essere» (p. 45). Càpita spesso
che termini ritenuti descrittivi di come va il mondo abbiano un valore assai
più decisamente prescrittivo: fungano, cioè, da ricette implicite su come
il mondo dovrebbe andare. Una persona è spesso detta normale non perché
rappresenta una media statistica ma perché meglio si adatta alle norme di chi
così la descrive, e il senso comune è spesso comune solo a chi lo chiama in
causa per dar credito a una propria tesi. Qui siamo di fronte a una situazione
analoga. Le cose che si fanno sul serio sono quelle cui si dedica pazienza,
sforzo, attenzione costante, e per chi sia stato «appropriatamente»
socializzato pazienza, sforzo e attenzione dovrebbero essere profusi
nell’andare al lavoro, nel preparare la cena e nel lavare i piatti. Che nel
fare cose del genere si risulti svogliati e distratti, che non si riesca a
prestar loro la cura che meritano, è giudicato un’anormalità, per quanto
sovente succeda, per quanto oneroso sia adempiere alla norma che viene così
(implicitamente) assunta. La bimba che stiamo osservando ci rivela la vanità di
tali pretese: rivela nel modo più chiaro che per lei il gioco è l’attività più
seria, anzi perché qualcosa sia davvero preso sul serio (non si voglia soltanto
che lo sia) deve entrare a far parte di un gioco. Superata anche questa
difficoltà, sembriamo aver ottenuto un’immagine incondizionatamente positiva
del nostro oggetto di studio. Il gioco sovverte abitudini e aspettative, ma non
solo questa sua natura irrispettosa è compatibile con una sua funzione
educativa: sembra che non ci sia un modo migliore, forse non ci sia un altro modo,
di educare che sfidando lo status quo ed esaminandone minuziosamente tutte le
possibili alternative. Il gioco è piacevole ed è praticato per il piacere che
dà; eppure è l’attività più seria, forse l’unica attività che venga condotta
con autentica serietà. C’è però ancora un aspetto del gioco che occorre
discutere, ed è un aspetto stavolta inquietante. Il gioco è pericoloso;
violando abitudini e aspettative ci si può far male, ed è probabile che i
grandi lo sappiano – che, se la bimba è stata lasciata sola nella stanza a
giocare, gli spigoli più acuti siano stati tolti di mezzo, le prese di corrente
siano state coperte e le finestre siano ben chiuse (già il fatto che avesse a
disposizione una spillatrice avrà sollevato qualche perplessità). Abitudini e
aspettative richiamano alla mente un’atmosfera di inerzia, di tedio, di
mediocrità; e nell’immagine che ne abbiamo dato finora il gioco emerge, per
contrasto, come eroico e innovativo, fantasioso ed eccitante. Ma su abitudini e
aspettative si fondano contesti che ci rassicurano, che ci permettono di
guardare al futuro con fiducia, almeno finché il futuro somiglierà al passato –
a quel passato che ha gradualmente dato luogo al costituirsi di abitudini e
aspettative. Chi gioca, d’altra parte, non mette in crisi solo il suo ambiente
e magari le altre persone che lo popolano: mette in gioco, e in crisi, anche sé
stesso, e questo comportamento avventato implica inequivocabilmente dei
rischi. Di gioco si può morire. «Il gioco può sempre diventare un fatto
pauroso», afferma lo psicoanalista Donald Winnicott in Gioco e realtà. «I
giochi regolamentati [in inglese games, parola che in seguito dovrà essere
discussa] e la loro organizzazione debbono essere considerati come parte di un
tentativo inteso a tenere a bada l’aspetto pauroso del gioco» (p. 88;
traduzione modificata). Incontriamo così un ulteriore ostacolo sul nostro
cammino, un enigma da risolvere prima di poter raggiungere la prossima tappa.
Stabilito che il gioco ha tutte le caratteristiche positive che ho elencato,
urge però un’analisi di costi e benefici se vogliamo mantenerne una concezione
generalmente provvidenziale. Vale la pena di educarsi attraverso una piacevole
attività di trasgressione se tale attività minaccia la nostra integrità fisica
o psicologica? Non sarebbe stato meglio per l’evoluzione scegliere percorsi
meno arditi: associare un vivo piacere, per esempio, proprio a quell’ascolto e
a quell’applicazione degli insegnamenti di un esperto cui il gioco, irridente,
fa gli sberleffi? Sarà anche vero che giocando impariamo di più; ma non è
preferibile talvolta, o sempre, imparare meno, se l’imparare mette a
repentaglio la nostra esistenza e il nostro benessere – le ragioni, cioè, per
le quali vorremmo imparare qualsiasi cosa? In che senso un’attività che ci fa
spesso correre pericoli può essere funzionale alla nostra sopravvivenza?
3. Caos e ordine Nell’antica mitologia greca non esiste una creazione dal
nulla. Quel che dà origine al mondo così come abbiamo imparato a conoscerlo e
abitarlo è invece una variante globale delle pulizie primaverili: al caos
originario (quindi in particolare privo di inizio) si sostituisce un cosmo,
cioè una struttura ordinata che obbedisce a leggi definite. Noi da tempo non
crediamo più nella storia di Zeus e delle sue lotte sanguinose con Crono, i
Titani e svariate altre forze oscure e ancestrali (forse non ci credevano
davvero neanche i greci); in secoli di sviluppo scientifico abbiamo elaborato
un modello ben più articolato e plausibile dell’universo e delle sue origini. Solo
recentemente, però, tale sviluppo ha cominciato a incidere in modo critico su
quello che era rimasto un elemento fondamentale di accordo con le favole
antiche: risiediamo in un cosmo e di conseguenza basta (in linea di principio,
perché poi la cosa è difficile e magari impossibile da realizzare) scoprire le
leggi che lo regolano per poterne prevedere con assoluta certezza il
comportamento futuro. Se così fosse, non sarebbe una cattiva idea fidarsi delle
istruzioni di chi è più esperto di noi: le leggi del cosmo dovrebbero essere
sempre le stesse e chi le ha viste all’opera più a lungo di noi dovrebbe essere
in grado di darci in proposito indicazioni preziose. Non sembrerebbe economico
o vantaggioso che ciascuno di noi dovesse invece riscoprire – giocando,
esplorando e contestando – quel che è comunque già noto. Se pure traessimo un
grande piacere da queste pratiche, ci sarebbe da chiedersi – riformulando in
altri termini le domande con cui ho chiuso il capitolo precedente – perché la
biologia associ un piacere simile a un’attività che nella migliore delle
ipotesi è inutile e nella peggiore è controproducente. Certo è possibile che le
leggi «scoperte» da chi è vissuto e ha operato prima di noi siano sbagliate;
nella scienza non solo le teorie si sono spesso reciprocamente confutate e
avvicendate ma sembra addirittura all’opera una perversa induzione in base alla
quale ogni teoria un tempo ritenuta corretta si è poi rivelata fallace –
dunque, probabilmente, lo saranno anche le teorie che oggi riteniamo corrette.
Questa allarmante conclusione, però, varrebbe solo per quel che la
scienza offre di più profondo e sofisticato, non per quella sua solida
struttura intermedia che appare costituita di verità inoppugnabili. Nel saggio
Sulla libertà John Stuart Mill, paladino di una discussione pubblica il più
possibile aperta e coraggiosa, considera un problema il fatto che su un numero
crescente di tesi il progresso scientifico abbia pronunciato una sentenza
definitiva (quindi, in particolare, indiscutibile) e auspica che si ricorra a
espedienti fittizi – che so io? a sostenere accanitamente che la Terra sia
piatta – per ridar significato e vividezza a credenze che altrimenti rischiano
di trasformarsi in puri dogmi. In assenza di dibattito non vengono dimenticati
solamente i fondamenti di un’opinione, ma viene dimenticato sovente il
significato dell’opinione stessa. Le parole che la esprimono cessano di
suggerire idee, o suggeriscono solo una piccola parte di quelle idee che in
origine comunicavano. In luogo di un concetto vivido e di una convinzione viva,
rimangono soltanto alcune frasi ritenute meccanicamente; oppure, se rimane
qualcosa, è solo l’involucro o il guscio del significato, mentre la sua essenza
più pura è andata dissolta. Col progresso dell’umanità, il numero delle
dottrine che non vengono più messe in discussione o in dubbio sarà
costantemente in aumento, e il benessere del genere umano può essere quasi
misurato dal numero e dalla rilevanza delle verità che hanno raggiunto la
condizione di verità incontestate [...]. Il venire meno di un aiuto così
importante all’intelligente e viva comprensione di una verità – com’è quello
offerto dalla necessità di spiegarla o di difenderla dagli avversari –
rappresenta un inconveniente non di poco conto. Là dove questo vantaggio viene
a mancare, confesso che sarei contento di vedere i maestri del genere umano
sforzarsi per trovarne un sostituto, un espediente per far sì che le difficoltà
della questione siano presenti alla coscienza di colui che la affronta, allo
stesso modo in cui lo sarebbero se gli venissero imposte da un avversario
agguerrito, impegnato a convertirlo. Con tutto il rispetto per Mill, però,
siamo daccapo: sarà appassionante riscoprire il senso di opinioni generalmente
accettate sottoponendole a critiche fittizie ma, al di là dell’intensa emozione
che provoca, a che cosa serve questo esercizio? Non converrebbe invece
riservare le nostre risorse ludiche per le questioni che si collocano ai
margini della conoscenza, dove non si è ancora raggiunto un pacifico accordo e
quindi le opinioni attuali saranno verosimilmente contestate in futuro? Una
modesta replica alla sfida suggerita da queste domande emergerà nel quinto
capitolo: se non mantenessimo attiva in noi la pratica della contestazione, sia
pure senza vantaggi diretti, non potremmo risvegliarla quando lo giudichiamo
opportuno. Come suggerivo poc’anzi, però, la scienza contemporanea ha fatto di
meglio: ha mostrato che è vantaggioso contestare non solo quel che è in
discussione o in dubbio (esercitandosi magari prima con quel che non lo è) ma
anche tutto ciò che si ritiene ormai acquisito. Un primo passo in tal senso
viene dalla teoria del caos. A dispetto del suo nome, questa teoria non
dichiara che il mondo non sia mai uscito da una condizione di disordine e non
ci siano leggi che ne regolano il funzionamento. Le leggi ci sono, codificate
come sempre nella fisica moderna da equazioni matematiche, ma le equazioni sono
altamente non-lineari. Per esse, cioè, non vale la condizione seguente (tipica
delle equazioni lineari): a variazioni minime nell’input (diciamo, nell’istante
di tempo considerato) corrispondono variazioni minime nell’output (diciamo,
nella posizione spaziale di un certo corpo; quindi in istanti molto vicini fra
loro il corpo sarà in posizioni molto vicine fra loro). In un’equazione
non-lineare, una variazione impercettibile nell’input può causare conseguenze
catastrofiche nell’output, secondo la metafora suggerita dal famoso
effetto-farfalla: il battito d’ali di una farfalla in un punto della Terra può
causare, dopo un certo numero di passi, un uragano di spaventose dimensioni in
un altro punto. Nel linguaggio tecnico della filosofia, la teoria del caos non
cambia la sostanza metafisica dell’universo, e infatti il caos che essa evoca è
descritto come deterministico, fedele alla posizione tradizionale (per quanto
oggi un po’ in crisi) secondo cui il passato determina necessariamente il
futuro. Sconvolge però l’epistemologia del nostro rapporto cognitivo con il
mondo. In ogni situazione in cui ci troviamo, sapremo solo in misura
approssimativa come stanno le cose: i nostri strumenti di osservazione e di
controllo hanno una portata limitata e, se per caso non l’avessero, perderemmo
la testa davanti alla quantità infinita di dati (perlopiù irrilevanti) che ci
fornirebbero (un po’ come la perdiamo davanti all’incontrollabile quantità di
dati fornita da Internet). Il che non creerebbe problemi se una conoscenza
approssimativa delle cause ci desse una conoscenza approssimativa degli
effetti: se potessimo stabilire grosso modo che cosa seguirà da che cos’altro.
L’effetto-farfalla ci costringe ad accantonare questa ipotesi favorevole:
informazioni che al momento sono sotto la soglia osservabile dai nostri
strumenti o che, se osservabili, rimarrebbero alla stregua di un fastidioso
rumore di fondo, potrebbero in seguito acquisire un peso decisivo e confutare
drasticamente ogni nostra previsione – trasformarla in qualcosa che non è vero
approssimativamente, o fino a un certo punto, ma non è vero per nulla. In un
caos del genere, il fatto che esistano leggi (cioè equazioni matematiche che ne
descrivano il comportamento) o che le conosciamo ha scarso peso ai fini della
nostra capacità di adattarci al mondo. Le equazioni non-lineari, in generale,
non sono solubili con i metodi dell’analisi matematica; il meglio che si possa
fare, in generale, è simularle a un computer e osservarne il percorso –
senza peraltro mai sfuggire al problema che ho indicato: la nostra simulazione
sarà efficace nella misura in cui avremo dato i valori «giusti» ai parametri
significativi, ma spesso basterà un’alterazione infinitesima in uno di questi
valori per cambiare radicalmente la situazione. Che cosa ci converrà fare
allora? Le equazioni non-lineari attraversano fasi anche estese di linearità;
nel caos esistono nicchie anche cospicue di cosmo. In tali nicchie il futuro
somiglia al passato e, per chi ci vive, le previsioni degli esperti risultano
accurate e le loro istruzioni valide. Sarebbe una pessima idea, però,
estrapolare da un’accuratezza e validità locali una loro variante universale,
perché le cose possono cambiare enormemente e molto in fretta. È preferibile
procurarsi una polizza di assicurazione: rispettare previsioni e istruzioni
finché dànno buona prova di sé, ma continuare anche incessantemente a
sperimentare concezioni alternative del mondo e modalità alternative di azione.
Vale a dire: conviene incoraggiare la trasgressione dell’autorità
(intellettuale e operativa) costituita, l’esplorazione fine a sé stessa e il
rischio che vi si accompagna – perché il gioco, secondo il detto popolare, vale
la candela. E, siccome (già vi accennavo e ci ritornerò) non si può
improvvisare un atteggiamento trasgressivo da un momento all’altro, dopo aver
seguitato per anni a genuflettersi deferenti verso «chi ne sa più di noi»,
conviene (alla natura e anche a noi, in quanto capiamo che in questo caso è
meglio non ostacolarla) lasciare i cuccioli umani liberi di godersi il loro
gioco, precisamente nel senso delineato nel capitolo precedente. Fin qui la
teoria del caos, ma c’è di più. C’è la teoria della complessità, dove (in una
lettura, lo ammetto, un po’ radicale, che peraltro si accorda bene a mio parere
con importanti conclusioni kantiane) la sfida alla visione tradizionale è di
carattere metafisico, dove anzi si mette in discussione il concetto stesso di
metafisica. La conclusione raggiunta dalla teoria del caos è che il mondo sia
troppo complesso perché noi possiamo conoscerlo in modo certo ed esauriente, e
questa tesi (epistemologica) continua a essere vera nel nuovo scenario, ma come
conseguenza di una tesi assai più forte, in base alla quale non esiste «il
mondo», inteso come ente unico e onnicomprensivo, dotato di una sua propria
struttura, indipendente dal fatto che lo si conosca o meno. Esiste invece un
numero indefinito di descrizioni diverse, formulate in vocabolari fra loro
incommensurabili; quindi prima di poter accedere a domande su che cosa ci sia e
che natura abbia occorre scegliere un vocabolario e così determinare un
particolare ambito descrittivo, nel quale sarà possibile fornire una risposta a
quelle domande. Non si può dire come stiano le cose, insomma (ed eventualmente
fino a che punto siamo in grado di conoscerle), finché non si sia deciso
in che linguaggio dirlo. (E parole come «scegliere» e «deciso» vanno prese alla
lettera: la selezione di un linguaggio non è un evento a sua volta determinato;
è invece condizione necessaria perché possa darsi, nel suo ambito, una
qualsiasi determinazione.) Vediamo di capirci con un esempio. Davanti ai nostri
occhi allibiti si svolge una seduta del Senato italiano, con il solito contorno
di urla, parolacce, insulti e spintoni. Questa, verrebbe da dire, è la realtà
oggettiva, e non c’è che da diventarne consapevoli. Si potrà provare a
spiegarla, ma prima di lanciarsi in una siffatta operazione bisogna appurare
che cosa sia effettivamente successo – e debba essere spiegato. E su questo non
ci sono dubbi. Davvero? Certo per me è naturale, essendo io un essere umano,
leggere la situazione in termini di esseri come me e di oggetti di media
grandezza (scranni, sedie, microfoni) come quelli con cui sono abituato ad aver
a che fare. Ma la stessa identica scena potrebbe essere descritta in un
linguaggio, per esempio, di particelle elementari, e in quel linguaggio la
frase «X ha dato una bastonata a Y» (memore in ciò dell’infelice destino di
Tiberio Gracco, in un altro Senato di epoche remote ma di clima analogo) non
avrebbe corso: non potrebbe essere né direttamente formulata né tradotta in
un’altra frase di uso corrente (o insieme di tali frasi). Oppure, invece di
spostarci dalla media grandezza a uno sguardo microscopico, potremmo andare in
direzione inversa ed esprimere in un linguaggio ideale e astratto la nostra
accorata testimonianza di quanto sia caduta in basso la civiltà occidentale e
di come atti di ingiustizia, violenza e volgarità siano conseguenze inevitabili
di una perdita dei valori di riferimento, e in questo linguaggio non ci
sarebbero bastoni e nemmeno particolari individui ma solo, appunto, valori e
princìpi, contraddizioni logiche e (forse) loro risoluzioni dialettiche. Oppure
potremmo muoverci lateralmente, per così dire, e, rimanendo sempre al livello
degli oggetti di media grandezza, vedere la scena con gli occhi non di un
giornalista affascinato dai pettegolezzi della politica ma di un usciere che
appena il baccano sarà finito e gli onorevoli si saranno allontanati dovrà
pulire l’aula. (E si noti come l’ultima possibilità citata permetta di affinare
e approfondire quel che ho detto in precedenza: che io sia un essere umano
potrà influire in parte su come mi viene «naturale» leggere una situazione, ma
molto dipenderà anche, al riguardo, da che tipo di essere umano sono – fra
l’altro, da qual è la mia occupazione.) Secondo la teoria della complessità,
vale per molti dei linguaggi in cui «la stessa» situazione può essere descritta
che nessuno di essi sia riducibile a un altro: ciascuno rappresenta un punto di
vista autosufficiente che costituisce la sua realtà, e non c’è una realtà
neutrale e autonoma, «sottostante» a queste diverse costituzioni. Un
particolare linguaggio potrà essere o non essere deterministico, nel suo ambito
descrittivo il futuro potrà somigliare o non somigliare al passato; ma anche
chi avesse un controllo assoluto di un linguaggio deterministico e potesse
formulare in esso previsioni del tutto certe rimarrebbe in presenza di
un’infinita, irrimediabile apertura a linguaggi diversi e dovrebbe operare una
scelta fra tali linguaggi, sia pure implicitamente o inconsciamente, prima di
poter emettere qualsiasi frase dotata di senso. Una delle difficoltà più ardue
con cui si è costantemente confrontata l’intelligenza artificiale è il
cosiddetto frame problem: il problema della cornice. Un computer è uno
strumento di prodigiosa efficienza una volta che gli sia stato assegnato un
compito preciso: sa ricordare, calcolare e combinare dati a velocità e con
rigore sovrumani. Perché ciò accada, però, deve prima ricevere questi dati;
qualcuno glieli deve dare. Qualcuno, cioè, deve configurare per lui il compito
da eseguire e assegnarglielo: incorniciare un quadro ben definito della
situazione e chiedergli un intervento specifico entro quella cornice, alle
condizioni che essa pone. Sono esseri umani quelli che provvedono alle cornici
dei computer, e gli esseri umani non hanno bisogno che altri lo facciano per
loro: ovunque si trovino, sono in grado di decidere da soli quale sia il
compito prima di tentare di eseguirlo – e magari poi lo eseguiranno con
prontezza inferiore a un computer, ma è proprio per questo che sono stati gli
esseri umani a inventare dei computer che li assistessero e non viceversa. Che
cosa fa la differenza fra gli uni e gli altri? Una volta inquadrato, un
problema sarà risolto applicando istruzioni valide in quel quadro; ma non
possono esserci istruzioni su quali siano le istruzioni da applicare prima che
il problema sia inquadrato, perché ciò presupporrebbe che l’inquadramento fosse
già avvenuto; quindi un approccio che si serva solo di istruzioni (come è stato
finora quello disponibile a un computer) non può avere successo. Posto di
fronte a un quesito analogo, Kant invocava il giudizio, che, in contrasto con
le istruzioni, non può essere imparato a memoria e poi eseguito meccanicamente
ma solo essere stimolato e perfezionato mediante l’esercizio e l’esempio. Il
quesito però rimane: esercizio di quale pratica? esempio di quale
comportamento? La mia riformulazione del quesito ci riporta al tema principale
della nostra discussione. Quel che un essere umano impara (e a tutt’oggi un
computer non ha imparato) a fare è selezionare un punto di vista appropriato
dal quale vedere le sue circostanze, e nessuna selezione può avvenire nel
vuoto. L’esercizio che è opportuno per acquisire questa capacità deve
dunque consistere nel mettere in gioco i punti di vista più svariati e
adattarli alle circostanze, finché uno fra essi ci sembri (a torto o a ragione)
il più appropriato e facendolo nostro (almeno temporaneamente) noi procediamo a
interagire con le circostanze in quell’ottica, applicando le istruzioni, o
regole, che l’ottica determina (con modalità che studieremo nel prossimo
capitolo). L’esempio che può aiutarci in proposito avrà a che fare con altre
persone che fanno la stessa cosa. E la «cosa» di cui stiamo parlando ha un
nome, che non a caso ho già usato: gioco. Senza la continua, piacevole
trasgressione di abitudini e aspettative che abbiamo identificato con il gioco,
rimarremmo bloccati in un’unica prospettiva e forse qualcuno (dall’esterno)
dovrebbe premere un nostro tasto per farci scattare in una prospettiva diversa.
Violando l’uso appropriato di tutto ciò che ha intorno, il bambino sta
addestrandosi a sviluppare un suo senso di appropriatezza che gli permetta di
inquadrare un compito senza che altri lo facciano per lui. E, se volessimo
davvero che un computer acquistasse la stessa capacità, dovremmo avere il
coraggio di lasciar giocare anche lui – come suggerivo anni fa, un po’
preoccupato delle conseguenze del mio stesso suggerimento, in Giocare per
forza. Riassumendo, l’itinerario che stiamo percorrendo nel continente gioco ci
aveva posto davanti a un ostacolo: sembrava irragionevole che i nostri istinti
privilegiassero un’attività che avrà sì valore educativo ma comporta gravi
rischi. L’ostacolo è stato affrontato e superato, chiarendo che non ci sono
alternative plausibili al correre rischi di questo tipo. Indipendentemente dal
fatto che ogni ricetta di vita elaborata in passato potrebbe rivelarsi
sbagliata, è comunque vero che le ricette che fossero al momento «giuste» sono
state elaborate sulla base delle regolarità riscontrate finora e saranno prima
o poi contraddette dalla natura caotica del mondo; quindi è bene adottare un
atteggiamento sperimentale ed esplorativo che allarghi l’ambito delle nostre
possibilità di concezione e di azione ben al di là di quanto è utile adesso –
perché non possiamo sapere che cosa sarà utile in futuro, quando la nostra
nicchia diventerà inospitale. Inoltre, questo stesso sperimentare ed esplorare
è indispensabile se vogliamo essere più che semplici esecutori di compiti: se
vogliamo determinare quali siano i compiti da eseguire. C’è qualcosa di
eccessivo nel gioco; esso sembra richiedere qualcosa (o molto) di più del
necessario (ricordiamo la segnalazione da parte di Caillois del suo «sovrappiù»).
Stiamo cominciando a capire, però, che per ottenere il necessario si deve
spesso scommettere sull’eccessivo, su ciò che al momento non conta, che
al momento è solo possibile. 4. Regole Avendo così tutelato la natura
provvidenziale della sua attività, torniamo alla bimba che gioca e portiamone
alla luce un aspetto che era rimasto in ombra. Per quanto trasgressivo ed
esplorativo, impertinente e creativo, il gioco ha dei limiti. La bimba può
percorrere la stanza in lungo e in largo, ma si scontrerà infine con le pareti;
può rigirare per ogni verso gli oggetti disponibili e combinarli nei modi più
inaspettati, ma dovrà piegarsi al fatto che questi oggetti hanno una certa
forma, sono composti di un certo materiale, hanno un certo peso e certe
dimensioni, una superficie ruvida o levigata, sono rossi piuttosto che neri,
sonori piuttosto che ottusi, luccicanti piuttosto che opachi. E lo stesso
varrebbe per qualsiasi altra situazione e in qualsiasi altro ambiente: ci
sarebbero sempre dei parametri che determinano l’impossibilità di certe mosse e
l’irraggiungibilità di certi obiettivi. Quando gioca, la bimba può fare molto,
e molto di sorprendente, ma non può fare tutto. Per dirla altrimenti, la mia
descrizione del gioco ne ha sottolineato la tendenza a ribellarsi a ogni fonte
di autorità, sia essa la tradizione, il buonsenso, gli espliciti comandi o
divieti di un «superiore» o la soggezione che proviamo nei confronti di quanto
è utile o opportuno – e ci costringe a comportarci in un modo specifico per
conseguirlo. In contrasto con ogni attività asservita e deferente (a una
persona, a un compito, a un ruolo, a uno scopo esterno), il gioco si presenta
come spontaneo: pronto a seguire idiosincrasie e ghiribizzi, a cambiare
direzione, a ricominciare da capo senza sentirsi vincolati a quel che si è già
realizzato o raggiunto, per nessun altro motivo che il puro piacere di giocare.
Ha insomma tratti che normalmente associamo alla libertà, e Huizinga è
d’accordo: «Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco
comandato non è più gioco» (p. 26). Da qui a trovare nella libertà, quindi nel
gioco, l’essenza della nostra umanità e a lanciarsi in un peana celebrativo di
una specie biologica che sacrifica il proprio tornaconto alla pratica del
superfluo, del gratuito, dell’errabondo il passo sarebbe breve; ma non cederò
(per ora) a questa tentazione. Mi chiederò invece che cosa si debba intendere
per libertà e risponderò che di solito non s’intende un’infinita capacità
di arrivare dappertutto e ottenere qualsiasi risultato bensì la capacità di
operare una scelta entro un ambito più o meno ristretto di opzioni. La libertà
che noi conosciamo non è una condizione assoluta, sciolta cioè da ogni legame,
da ogni relazione; è sempre e solo un determinato grado di libertà, come quello
che mi è consentito dai miei arti, che certo mi dànno una notevole libertà di
movimento ma non mi rendono possibile ogni movimento. Nel primo capitolo ho
mostrato quanto ambigua appaia la parola «gioco» e mi sono proposto di
riscattare questa (apparente) ambiguità: di raccontare una storia in cui i suoi
vari significati siano connessi, nascano l’uno dall’altro per motivi
comprensibili. In lingue diverse dall’italiano l’ambiguità sembra ancora
maggiore: parole come «play», «spielen» e «jouer» possono anche significare che
si recita o si suona uno strumento – e anche questi significati dovranno essere
catturati dalla mia storia. Qui però voglio notare un’altra vicissitudine
semantica del gioco (Huizinga ci informa che essa «è comune al francese, all’italiano,
allo spagnolo, all’inglese, al tedesco, all’olandese e [...] al giapponese», p.
66), illustrativa della tesi che sto articolando adesso. Chiamiamo «gioco»,
infatti (o «play», o «Spielraum», o «jeu»), lo spazio libero che (per esempio)
una vite ha nel suo foro filettato, quando non aderisce a perfezione, quando
«balla». È anche in questo senso che la bimba gioca: le pareti, il pavimento e
i vari oggetti che vi giacciono sopra le permettono un certo gioco, un certo
(limitato) spazio di discrezione, che lei occupa ballandovi, riempiendolo con
le sue piroette e i suoi salti. Ed è questo il ruolo principale, ritengo, che
il gioco ha nella nostra vita, il fondamento ultimo di ogni suo contributo alla
nostra sopravvivenza e al nostro benessere. Quella che ho appena enunciato
è una tesi controversa e audace, una sfida a inoltrarsi per un ispido percorso
nel labirinto e una promessa che per tale via procederemo più spediti verso il
traguardo. Devo dunque giustificare la tesi, convincere i miei compagni di avventura
ad accettare la sfida. Per farlo, torniamo al valore adattativo del gioco. In
primo luogo, ho detto, esso funge da polizza di assicurazione: esplora
comportamenti alternativi cui rivolgersi quando le equazioni non-lineari che
controllano il mondo dovessero impazzire; risponde al caos esterno dando luogo
a un microcaos privato, cercando di anticipare le prossime sorprese che
l’ambiente ci offrirà con mosse a loro volta imprevedibili e destabilizzanti.
In secondo luogo, ci educa a slittare costantemente da una prospettiva
all’altra, a non rimanere inchiodati a un singolo modo di percepire la nostra
situazione, a «incorniciarla» dagli angoli più diversi, perché questo
slittamento diventi a sua volta un’abitudine e ci aiuti a scegliere in ogni occasione
la cornice adeguata in cui inquadrare i nostri problemi e le nostre esigenze.
Entrambe le funzioni implicano una medesima conseguenza: il gioco deve avere un
oggetto, ci deve essere qualcosa con cui si gioca, quindi qualcosa che
inevitabilmente offre resistenza al gioco. I comportamenti alternativi cui mi
rivolgerò quando quelli attuali facessero cilecca devono trovar posto in un
qualche ambiente specifico: per folle che sia diventato il mondo, devo comunque
sperare che ci sia ancora intorno a me un mondo oppure non varrebbe la pena di
indulgere in nessun comportamento. Lo stesso vale per le mutazioni
prospettiche: una prospettiva è sempre di, o su, qualcosa; una cornice
racchiude sempre un quadro. Il gioco dunque potrà (e dovrà) essere sovversivo
ma non uniformemente distruttivo; la libertà che in esso si esprime ci porterà
a varcare la soglia di quanto finora era stato considerato lecito o vantaggioso
ma non ad annullare la legittimità di ogni soglia e di ogni limite e ad
azzerare ogni possibile struttura in un’esplosione universale e universalmente
catartica. Al di là della soglia che varchiamo ne troveremo un’altra, che
definirà la nostra azione ludica; fatta a pezzi una struttura ne appronteremo
un’altra, che darà alla nostra azione concretezza e sostanza. La sostanza e la
concretezza di un sogno, forse; ma non del nulla. A rendere difficile lo studio
e la valutazione della nostra forma di vita è soprattutto il suo mantenersi in
precario equilibrio tra fattori e istanze contrastanti, il cui peso opposto va
tenuto in debito conto, evitando facili ma deleterie riduzioni a uno dei piatti
della bilancia. Questa considerazione cade a proposito con il termine che
stiamo esaminando, nella fase in cui siamo dell’esame: che il gioco
trasgredisca le aspettative è vero ma non va portato all’estremo, dando luogo a
una retorica della trasgressione in quanto tale, aprendo la strada a una
trasgressione così generalizzata e globale che alla fine non le rimanga più
niente da trasgredire. Sapete bene di che cosa sto parlando: di quegli
intellettuali (o artisti, o politici rivoluzionari) che il film C’eravamo tanto
amati rappresentava con sapiente ironia nel personaggio interpretato da Stefano
Satta Flores, sempre «oltre», sempre terrorizzato dall’eventualità di poter
andare d’accordo con qualcuno e infine schiacciato nella più banale e
televisiva delle ossessioni. Non è strano che questa retorica copra spesso
atteggiamenti conservatori, quando non biecamente reazionari: se la nostra
trasgressione equivale semplicemente a far saltare in aria tutte le polveriere,
allora nel vuoto che avremo creato (e sotto la protezione del fumo con
cui avremo oscurato la vista) si rifaranno avanti per inerzia le solite mosse e
i soliti valori. Negarli è un momento essenziale della costruzione di
un’alternativa, ma non può essere l’unico momento perché una negazione, in sé e
per sé, non costruisce nulla; e se nessuna nuova costruzione è disponibile ci
adatteremo, magari a malincuore (e con la coscienza un po’ sporca), nelle
baracche cui siamo abituati, per quanto danneggiate siano dalla nostra azione
trasgressiva. L’umile gioco della vite ci offre un antidoto a tanto mal riposto
entusiasmo. Ci invita a non trasformare il gioco in una condotta esorbitante,
cioè ex orbe, fuori dall’orbe terracqueo; ci ricorda che il gioco avviene
sempre in un contesto, ha sempre un orizzonte (vale per l’orizzonte, come per
la soglia, che varcatone uno se ne troverà un altro) e consiste nel modulare le
nostre reazioni al contesto, nel navigarne con perizia le correnti, nel
manipolare con gesti insospettati e inauditi quanto popola il contesto senza
però rifiutarlo in blocco, senza chiudere gli occhi davanti alla sua specifica
consistenza, alle sue particolari proprietà, che possono essere manipolate in
certi modi ma non in altri. È gioco (come quello della vite) approfittare del
grado di libertà che mi è lasciato dai miei impegni di lavoro per imparare il
russo o andare in palestra; non sarebbe gioco bruciare la casa e tutti i miei
averi e allontanarmi senza meta nella notte. Ci sono circostanze in cui può
essere giusta una scelta così radicale, ma solo come premessa per un gioco
ancora da inventare, in un ambiente ancora da scoprire, non come essenza di un
gioco già in atto. Chi risulterà convinto da queste mie argomentazioni sarà ora
disposto a seguirmi per la via che ho intrapreso e avrà nel contempo imparato,
vedendola all’opera in un caso paradigmatico, un’importante lezione: quanta
pazienza occorra per evitare prevaricazioni e assurde semplificazioni, quanta
saggezza sia necessario conservare nel mezzo delle pratiche più dissacratorie.
Incontreremo altri esempi con la stessa morale; per ora riaffermiamo la
conclusione raggiunta con una variazione sulla metafora dell’orizzonte. Il
gioco è sempre parzialmente trasgressivo; ci sono sempre per esso una figura
che il gioco mette in discussione e uno sfondo che rimane fuori portata. E si
badi che questa è una metafora, quindi lo sfondo può benissimo far parte della
figura quando «figura» sia presa in senso letterale (e viceversa). Per la bimba
che gioca (in un certo modo) con la spillatrice, il normale uso di tale
strumento fa parte della figura che viene contestata, ma la sua forma e
solidità fanno parte dello sfondo – oppure, tornando alla metafora precedente,
fanno parte del foro filettato nel quale balla la vite. A riprova della
pazienza che ho definito indispensabile, quest’ultimo sommario del risultato
acquisito ha già bisogno di una correzione, o almeno di una precisazione contro
possibili malintesi. Potrebbe sembrare infatti che la forma e la solidità della
spillatrice, o di qualunque altro elemento appartenga allo sfondo, vi
appartengano in senso oggettivo, siano presupposti del gioco della bimba
indipendentemente da come lei agisca; e questa apparenza è errata. Ma, come con
molti errori, discuterlo ci aiuterà a capire meglio l’intera faccenda. I
bambini non sono soltanto simpatici e allegri scavezzacollo, non passano tutto
il loro tempo giocando con fantasia e con profitto. Talvolta fanno i capricci,
urlano e strepitano, si divincolano e picchiano i pugni per terra, o su quello
che fino a un istante prima era l’oggetto del loro gioco. Quando si abbandonano
a simili sfoghi, spesso il motivo è che l’oggetto si rivela un ostacolo ai loro
piani, sordo alle loro richieste, impermeabile alle loro sollecitazioni. Il
cubo non vuole saperne di rotolare come una palla; la palla continua a
scivolare giù dal cubo sul quale si vuole che stia ferma, e neanche il cubo
riesce a stare sopra la palla. Allora il bambino, frustrato e irritato,
afferrerà cubo e palla e li getterà contro il muro, e manifesterà una
disperazione tanto insanabile quanto, per fortuna, solitamente di breve durata.
Non sta a me dire quanto durano in media i capricci di un bambino o come
risolverli il più in fretta possibile; non sono uno psicologo, dell’età dello
sviluppo o di altra età. So però come descrivere e spiegare quel che accade,
nella migliore delle ipotesi, quando i capricci si siano risolti; so fornire
un’impalcatura concettuale per comprenderlo e servirmene per articolare
ulteriormente l’impalcatura concettuale del gioco. Il bambino può perdere
interesse per un oggetto così recalcitrante, così poco collaborativo, e
rivolgere la sua attenzione altrove. Può farsi distrarre e consolare dalla
mamma. Ma può anche – e questa è per noi la migliore delle ipotesi, quella che
ci aiuta a proseguire nel nostro cammino – accettare quanto nell’oggetto si è
mostrato recalcitrante: accettare che l’oggetto non possa essere contestato in
quel modo, a quel livello. Un cubo può passare per mille peripezie, entrare in
mille storie, ma non rotola; ed è necessario prenderne atto se si vuole davvero
farci qualcosa – qualcosa di diverso dal gettarlo contro il muro. Quando il
bambino ne ha preso atto, questa proprietà del cubo recede sullo sfondo, ma ciò
non vuol dire che perda importanza. Tutt’altro: ognuna delle figure che il
gioco costruisce e sostituisce a quella originaria, a quella che viene violata
e trasgredita, è un elemento variabile del gioco, può esserci o non esserci, comparire
o sparire, senza che il gioco cambi, perché esso consiste proprio nel
generare figure così variabili. Lo sfondo, al contrario, definisce il gioco: ne
detta le condizioni. Accompagneremo il cubo per mille peripezie compatibili con
il fatto che non rotola. Chi pensasse che il cubo rotoli starebbe giocando
(senza troppo successo, presumo) un altro gioco. Appropriata soggettivamente
dal bambino, la resistenza esercitata da un oggetto diventa interna al gioco:
ne diventa una regola. «L’attributo essenziale nel gioco», dichiara Lev
Vygotskij in Il processo cognitivo, «è una regola che è diventata un desiderio»
(p. 146), e continua: è una regola interna, una regola di autorepressione e
autodeterminazione, come dice Piaget, e non una regola a cui il bambino
obbedisce come a una legge fisica. In breve, il gioco dà al bambino una nuova
forma di desideri. Gli insegna a desiderare mettendo in relazione i suoi
desideri con un «Io» fittizio, con il suo ruolo nel gioco e con le regole di
questo. Inoltre per Vygotskij, a differenza che per Jean Piaget, «si potrebbe
[...] proporre che non esiste gioco senza regole» (p. 138), e Huizinga è
d’accordo: «L’essenza del gioco [...] sta nel rispetto alle regole» (p. 86). Da
un po’ di tempo nel nostro paese si parla una strana lingua, soprattutto in
ambienti giovanili, aziendali e in generale «al passo» con la cultura popolare
più avanzata. A un italiano rozzo e approssimativo si mescolano termini
inglesi, insieme con strafalcioni che vorrebbero essere termini inglesi ma invece
non hanno corso (o senso) in nessuna lingua. Chi parli questo gergo (o se
preferite lingo) non sarà rimasto particolarmente colpito dal mio giustapporre,
nel primo capitolo, il gioco della bimba e il gioco del calcio; si tratta
chiaramente, avrà pensato, della differenza tra play e game, quindi non c’è
motivo di perplessità. Sarebbe facile obiettare che le due parole, in inglese,
sono assai più intimamente legate di quanto questa semplice distinzione faccia
supporre: che si dice «to play a game», i partecipanti a un game si dicono
players e l’italiano «giocoso» si può tradurre altrettanto bene con «playful» e
«gamesome». Io qui intendo, però, fare un altro discorso, che riprende la
chiusa di quello stesso primo capitolo: rilevare l’importanza della strategia
intellettuale sottesa alla distinzione e chiarire che, per motivi altrettanto
importanti, me ne dissocio. Ho detto che la logica aristotelica è analitica
perché fondata sull’analisi, sulla divisione; e ho aggiunto che adotterò invece
una logica dialettica, hegeliana. Aggiungo ora che le due logiche nascono da
due diversi atteggiamenti nei confronti della contraddizione, dell’incoerenza.
Nella logica analitica, la contraddizione è il più terribile spauracchio e,
ogniqualvolta se ne profili la minaccia, il rimedio universale è appunto il
divide et impera: il significato che sembrava contraddittorio consta in realtà
di due (o più) significati distinti, che sarebbe meglio, per evitare
confusioni, etichettare con due distinte parole – se è il caso, con termini
tecnici introdotti all’uopo. Non c’è vera contraddizione, per esempio, fra
l’educazione intesa come formazione di una personalità e come passaggio di
contenuti nozionistici (che non forma nessuno): è che la stessa parola è usata
in sensi diversi, quindi sarebbe meglio usare parole diverse, diciamo
«educazione» e «istruzione». La logica dialettica, invece, si nutre di
contraddizioni come se ne nutre una storia e, in generale, ogni struttura
vitale: è affrontando e superando il contrasto radicale fra il suo desiderio
d’indipendenza emotiva da un lato e quello di stabilire un legame affettivo
dall’altro che un adolescente arriva a ridefinirsi non più come membro della
sua famiglia di origine ma come partecipe della fondazione di una nuova
famiglia; e in questa ridefinizione i due elementi del contrasto che lo
lacerava non sono dimenticati – sono anzi la sostanza stessa della nuova fase
del suo sviluppo, che è ora quella di una persona tanto indipendente quanto
emotivamente legata. È bene per me reiterare qui la mia scelta logica di fondo
e specificarla meglio perché siamo arrivati a un punto nodale del nostro
percorso, in cui si apre chiaramente un bivio fra le due strategie. Tutto quel
che ho detto finora del gioco della bimba, del suo significato adattativo, dei
rischi che comporta e dell’opportunità di correre tali rischi può essere
considerato appartenente a un singolo significato (analiticamente inteso) della
parola «gioco». Un significato complesso e intricato, da svolgere con cura, ma
ciò nonostante un unico significato perché non infetto da alcuna
contraddizione. Ora però ci troviamo di fronte al fatto, apparentemente
innegabile, che il gioco del calcio è identificato da un insieme di regole e il
gioco della bimba no; quindi, da un punto di vista analitico, deve trattarsi di
«giochi» distinti. In questo spirito Caillois, per fare solo un esempio (ne
farò un altro più avanti), divide i giochi in categorie contrapposte,
affermando: «I giochi [...] non sono regolati e fittizi. Sono piuttosto o
regolati o fittizi» (p. 25). E poi precisa: «[la] classificazione proposta
[...] [che distingue giochi di competizione, di fortuna, di travestimento e di
vertigine] non avrebbe alcuna validità se non si vedesse con evidenza che le
suddivisioni che essa stabilisce corrispondono a degli impulsi essenziali e
irriducibili» (p. 30; corsivo aggiunto). Il lavoro svolto in questo capitolo mi
consente, nello spirito della logica dialettica, di gestire la contraddizione
in altro modo, perché mi consente di riconcettualizzare alcuni aspetti della
situazione della bimba come regole del suo gioco e di stabilire così la
parentela fra i due tipi di gioco, che in questa luce sarebbero meglio detti
due fasi del gioco – di un gioco che, nella sua evoluzione da una fase
all’altra, rimane sempre uguale a sé stesso. Ridefinizioni come quella che
incontriamo qui sono possibili solo a uno sguardo retrospettivo. Se le nostre
osservazioni e i nostri dati fossero limitati al gioco della bimba, sarebbe
peregrino parlare del fatto che la bimba rinuncia a far rotolare il cubo come
della sua assunzione di una regola. Per dirne una, questa è una «regola» che
nessuno ha formulato e di cui addirittura forse nessuno è cosciente. Ma dal
successivo punto di vista di giochi come il calcio, le cui regole sono sancite
da istituzioni ufficiali e applicate (si spera) alla lettera da tutti i
praticanti, è possibile cogliere l’analogia con quella primitiva forma di
adeguamento: vederla come il germe che sarebbe poi fiorito in regole
precisamente codificate e trasmesse, come una manifestazione ancora implicita
di una caratteristica che si sarebbe successivamente fatta largo con evidenza.
Tale è appunto la logica della vita. Il senso dell’essere un bambino subito
quietato da una ninna nanna, o affascinato da oggetti di forma semplice e pura,
si coglierà solo quando l’adulto che quel bambino sarà diventato si rivelerà un
critico musicale o un geometra di prima grandezza; solo allora sarà possibile
raccontare la storia che è quel senso. Così, almeno, si procede nella logica
dialettica che ho adottato; in logica analitica, si potrebbero solo smembrare
le situazioni ed esperienze infantili e definirle in base ad alcuni tratti
(essenziali) che risultassero dallo smembramento, e andrebbero nettamente
distinti dai tratti che definirebbero le situazioni ed esperienze dell’adulto.
Nel caso specifico del gioco, come già accennavo, Piaget nega che quelle del
bambino molto piccolo siano regole, e dichiara (aprendo un tema sul quale dovrò
ritornare): prima del gioco in comune non potrebbero esistere delle regole vere
e proprie: esistono già delle regolarità e degli schemi ritualizzati, ma simili
rituali, essendo l’opera di un individuo solo, non possono comportare quella
sottomissione a qualcosa di superiore all’io, sottomissione che caratterizza
l’apparire di ogni vera regola (Il giudizio morale nel bambino, pp. 29-30).
Vygotskij, invece, scopre le sue carte hegeliane (e quelle della sua fonte)
quando, nella stessa pagina in cui esprime il suo disaccordo con Piaget, cita
il detto di Marx secondo cui «l’anatomia dell’uomo è la chiave dell’anatomia
della scimmia» (p. 138). Decenni più tardi, e senza citare nessuno, Steve Jobs
avrebbe affermato che si può ricostruire il senso della propria vita – in
inglese, connect its dots – solo per il passato, non per il futuro. Ecco allora
come la ridefinizione del gioco della bimba si estende alle prossime fasi del
nostro itinerario: Se è vero che il gioco è trasgressivo, è anche vero però che
la sua trasgressione ha luogo in un ambito che non viene a sua volta
trasgredito. Questo ambito dà al gioco condizioni, cioè regole, precise e ne
definisce l’identità – determina che gioco sia: il gioco condotto a quelle
regole. Nell’ambito delle sue regole, un gioco rimarrà tale in quanto è
trasgressivo e anche esplorativo, piacevole e rischioso; ma, più complesse e
articolate sono le sue regole, più complesse e articolate dovranno essere la
sua trasgressione, esplorazione eccetera. Un buon giocatore di scacchi
conoscerà bene le regole e avrà studiato molte partite dei grandi maestri del
passato, ma sarà un buon giocatore non perché ricorda e saprebbe ripetere
fedelmente le une e le altre quanto piuttosto perché, sapendo tutto quel che
sa, è in grado di sorprendere il suo avversario con una variante inedita o un
misterioso sacrificio – anzi, tanto più sarà bravo quanto più saprà sorprendere
un avversario che abbia conoscenze pari alle sue, magari usando le conoscenze
stesse per elaborare tattiche ancora più originali e sorprese ancora più
intense. Nelle parole di Caillois: «Il gioco consiste nella necessità di
trovare, d’inventare immediatamente una risposta che è libera nei limiti delle
regole» (p. 24). Tutto bene, sembra. O forse no. L’unificazione dialettica che
abbiamo così realizzato fra giocare con palle e cubi e giocare a calcio o a
scacchi reagisce ora in modo inquietante con la giustificazione provvidenziale
che avevo dato del gioco. È straordinariamente utile, dicevo, per un cucciolo
umano imparare giocando a controllare il suo corpo e i suoi movimenti, a riconoscere
e manipolare oggetti nello spazio, a dialogare ed empatizzare con i suoi
simili. Quando però questi straordinari progressi siano già stati effettuati,
qual è il senso e il valore del correre dietro un pallone o dello scervellarsi
su un’apertura di cavallo? Se il mondo è caotico, sarà una buona idea
esercitarsi ad abitare scenari diversi da quello attuale; ma che idea è
concentrarsi su attività come quelle appena citate? Ci aspettiamo che il mondo
diventi un giorno un gigantesco stadio o una gigantesca scacchiera? O abbiamo
invece a che fare, in questi casi, con delle forme di tic, di dipendenza: con
circostanze in cui quel che una volta dava piacere per ottimi motivi adesso
continua a dare piacere senza nessun motivo, e noi non sappiamo farne a meno?
5. Microcosmi Che un’attività o un’inclinazione originariamente proficue si
cristallizzino in un vano manierismo, in un’assurda coazione a ripetere è certo
possibile, e nel caso del gioco accade di frequente. In Giocare per forza,
dicevo, ho esaminato varie patologie ludiche, varie sembianze posticce in cui
si presenta qualcosa che non è più se non lo spettro del gioco, un parassita
che ne ha invaso l’area vitale soffocandone l’energia, la scoperta e il
piacere; le patologie non insorgerebbero se non si desse la perversa
possibilità che ho appena riconosciuto – se il gioco non potesse andare alla
deriva, non ci andrebbe così spesso. Per quanto ampiamente diffuso, però,
questo esito negativo non ha portata universale per il gioco condotto,
soprattutto dagli adulti, in ambienti fittizi e addomesticati come un campo di
calcio o una scacchiera. Al contrario, rimane vero in tali casi che l’esito
negativo è una perversione e che esistono modi legittimi di abitare quegli
ambienti fittizi e ottime ragioni per cui debbano essere fittizi. O forse
«fittizi» non è il termine giusto; più oltre dovremo riprendere in esame la
questione, con risultati su cui al momento converrà soprassedere. Cominciando
con la ragione più semplice, chi non gioca mai finirà per atrofizzare
completamente la sua capacità ludica così come chi non si muove mai finisce per
atrofizzare i suoi muscoli; una certa quantità di gioia trasgressiva, di
istruttiva esplorazione deve trovar posto nella nostra esistenza se non
vogliamo trasformarci in automi, morti prima del tempo pur continuando a
respirare e a metabolizzare il cibo. Se occupazioni e pratiche quotidiane non
ci lasciano molto tempo per il gioco, non avremo alternativa a trovarlo in
spazi riservati, in microcosmi di libertà entro i quali sfuggire a obblighi e
impegni. (E sarà un destino tanto più atroce e beffardo vedere questi presunti
spazi serrarci in nuove forme di schiavitù: vedere la nostra presunta libertà
arenarsi nel tetro cerimoniale di una slot machine o del «gioco» del lotto.) L’agilità
non si conquista una volta per tutte ma va mantenuta con uno sforzo costante:
in ambito fisico, con le corse e le flessioni mattutine; in ambito mentale, con
il sudoku e le parole crociate; in ambito ludico, improvvisando una discesa
da centrocampo o un arrocco – se non si dànno altre circostanze in cui ci
sia lecito improvvisare. Per addentrarci più a fondo e nelle pieghe più
complesse del problema, riprendiamo in considerazione il carattere rischioso
del gioco. È necessario tollerarlo, dicevo nel terzo capitolo, perché senza
correre rischi non potremmo sostenere il delicato equilibrio, sempre temporaneo
e sempre da rinegoziare e reinventare, richiesto da un mondo caotico e
costituzionalmente imprevedibile. Elaborare nuove strategie e comportamenti inusuali
è a sua volta una strategia preziosa se nessuna strategia sarà efficace per
sempre, e il gioco assolve questa indispensabile funzione. C’è però una strada
intermedia fra l’arrivare impreparati alla prossima catastrofe (ecologica,
finanziaria, sociale) e l’affrontare ogni catastrofe possibile prima che
diventi reale: affrontare piccole catastrofi sostitutive e rappresentative di
quelle che potrebbero capitare, giocare non direttamente nel mondo, e con il
mondo, ma ancora una volta in un microcosmo, una palestra che ci permetta di
compiere qualche avventata manovra senza correre gravi pericoli. Non proprio le
avventate manovre di cui avremmo bisogno quando si prospettasse un’autentica
catastrofe, forse; ma manovre abbastanza simili a quelle da darci una speranza
di salvezza. In altra sede ho articolato questa tesi commentando un passo del
Principe di Machiavelli; qui riassumerò in breve l’aspetto che ci riguarda. Il
principe, dice il Nostro, deve ininterrottamente addestrarsi alla guerra; ma
come può farlo quando la guerra non c’è e manca l’opportunità di farne pratica?
Risposta: in periodi di pace l’esercizio bellico del principe dovrà essere
condotto andando a caccia. Si metteranno così in azione doti che in guerra
saranno di grande utilità: la resistenza alla fatica, il compatto e
disciplinato lavoro di gruppo, la disinvoltura nel gestire varie configurazioni
del terreno. E lo si farà in modo tanto più adeguato allo scopo finale quanto
più quello scopo sarà presente al principe e ai suoi compagni: quanto più essi
non si lasceranno assorbire inerti dai meccanismi della caccia ma se ne
serviranno attivamente come di una scusa per giocare alla guerra. Immaginando
nemici appostati su una collina o nascosti nella macchia; ragionando su come
sventarne la minaccia e ridurli in proprio potere. Certo sarebbe più
realistico, quindi più efficace, inscenare una vera guerra, con vero
spargimento di sangue; numerose narrative distopiche molto popolari di questi
tempi raccontano un futuro angoscioso in cui un’umanità perduta si diletta con
simili trastulli. Chi (come me) ritenga inviolabile il rispetto per l’integrità
fisica e psicologica di ogni persona rifuggirà con orrore da
manifestazioni di tale vividezza e preferirà «accontentarsi» della lezione di
Machiavelli. Una lezione che dobbiamo generalizzare e dalla quale dobbiamo
trarre importanti conseguenze. Prepararsi alle sorprese che il futuro ci
riserba esige che abbandoniamo la serena, un po’ soporifera certezza delle
abitudini consolidate e ci mettiamo in gioco. Non necessariamente in modo
estremo, però, se arrivare all’estremo significa far violenza a noi o ad altri.
Possiamo metterci in gioco per procura, compiendo mosse che in parte somigliano
a quelle che dovremmo compiere nei momenti effettivi di crisi, e sperare che
quando tali momenti verranno ciò che abbiamo imparato, per quanto
insoddisfacente rispetto all’originale (quel che in parte somiglia è anche in
parte diverso), ci aiuti a sopravvivere e a prosperare. È questo il ruolo del
calcio e degli scacchi (oltre al loro contributo, già menzionato, nel tenere il
corpo o la mente «in forma»): chi sa sfuggire con destrezza a un marcatore
riuscirà forse a farlo davanti a un attacco ben più insidioso; chi sa
anticipare dieci mosse del suo avversario saprà forse anticipare il percorso di
una meteora o di un tornado. Poco fa ho chiamato questi «giochi per procura»;
voglio ora insistere sul termine perché è indice di un cruciale slittamento
semantico. Ogni sportivo sa quanto valgano gli allenamenti per far bene in gara
o nella partita; e sa che, per quanto preso tremendamente sul serio, un
allenamento non è mai la stessa cosa di una gara o di una partita. Troppi
fattori emotivi entrano in circolo quando si è alle prese con i cento metri di
una finale olimpica o l’ultimo incontro di un torneo: fattori che, per quante
volte si siano ripetute le mosse che si eseguiranno allora, rendono quella
situazione totalmente diversa – diversa proprio perché in essa non si può
ripetere nulla, perché è unica e irripetibile. Propongo di concepire la
grandissima maggioranza di quelli che comunemente denominiamo giochi come
allenamenti in questo senso. In certi casi noi stessi, o qualcosa o qualcuno
che conta molto per noi, siamo letteralmente in gioco; e questo è il gioco che
ci definisce, che ci qualifica come animal ludens, come l’animale che non ha
una nicchia ecologica ma, forzando costantemente i limiti della sua
adattabilità e sopportazione, ha fatto del mondo intero (questo mondo, per ora,
e domani, chissà, anche altri) la sua nicchia. Quelli che denominiamo giochi
sono spesso forme di allenamento al gioco per antonomasia, in cui si corrono i
veri rischi e si ottengono i veri benefici: un gioco che è bene in generale
rimandare fino a quando non diventerà inevitabile. Ottenendo in tal modo il
doppio vantaggio di assaporare la stabilità degli angoli di cosmo che si
annidano in un universo caotico e coltivare al tempo stesso, senza farsi
troppo male, abilità e mosse che potrebbero servirci quando il caos reclamerà
il suo dominio. Con una (già menzionata) limitazione, frutto scomodo della
relativa comodità dei giochi per procura: un allenamento non è mai la stessa
cosa della partita. In quanto puramente rappresentativo della partita, è
vittima della logica della rappresentazione: qualcosa è sempre rappresentato da
qualcos’altro, da qualcosa di diverso. La mia immagine nello specchio mi
rappresenta, ma non posso accarezzarla; i deputati in Parlamento mi
rappresentano (o almeno dovrebbero farlo), ma solo in quanto accetto di ridurmi
a una particolare costellazione di interessi; la caccia rappresenta la guerra,
o il calcio rappresenta un’invasione del terreno avversario e una violazione
della sua porta, della sua intimità, o gli scacchi rappresentano una raffinata
combinazione di intrighi, trappole e agguati, ma da queste violazioni e da
questi agguati nessuno dovrebbe uscire menomato o deflorato. (E forse è questo
il motivo per cui eccellono in tali rappresentazioni coloro che ne
marginalizzano il più possibile il carattere rappresentativo e in un certo
senso lo dimenticano: riescono cioè a disattivare nella loro pratica la
consapevolezza che si tratta solo di un gioco – su questo tema di grande
importanza ritornerò alla fine del capitolo.) Ernst Gombrich, che citerò ancora
in seguito a proposito del rapporto fra gioco e arte, rileva in A cavallo di un
manico di scopa (p. 14) che per un bambino un manico di scopa rappresenta un
cavallo solo in quanto può essere cavalcato, non perché gli somiglia. E, in
Arte e illusione, conferma ed estende il rilievo: L’essenziale dell’immagine
non è la sua verosimiglianza, ma la sua efficacia in un certo contesto
operativo. Può essere anche verosimile, allorché si ritiene che questo possa
contribuire alla sua efficacia (p. 112). Ho detto che i giochi per procura si
svolgono in microcosmi: ambienti ristretti e fittizi che simulano condizioni
reali. Potrebbe sembrare un paradosso che la bimba da cui è iniziato il nostro
percorso giochi nel mondo e i membri di una squadra di calcio, invece, in una
copia in miniatura del mondo, considerando quanto è piccola la stanza in cui si
muove la bimba in confronto allo stadio affollato e urlante in cui ha luogo la
partita; e sarà bene allora sottolineare che la miniatura di cui stiamo
parlando si riferisce a dimensioni non spaziali ma esistenziali. Nel suo
piccolo spazio la bimba investe tutta sé stessa, e bisogna farle attenzione e
proteggerla per evitare che questa sua assoluta dedizione abbia effetti
distruttivi; davanti alle folle oceaniche degli stadi si compie invece un rito
dalla fisionomia precisa ed esclusiva, in cui solo alcuni movimenti e
atteggiamenti sono legittimi. Le barriere che separano questo microcosmo dal
mondo sono assai porose, certo; il gioco vero è sempre sul punto di prendere la
mano a quello finto, con effetti talvolta tragici; ma la possibilità che l’uno
si trasformi nell’altro non nega la loro distinzione. Fa solo notare che non si
tratta di una distinzione neutrale, definita una volta per tutte: come la
repressione freudiana, va mantenuta a ogni istante esercitando appropriate
resistenze, e nel momento in cui le resistenze vengono meno il microcosmo è
inghiottito dal gioco globale, in cui ci si fa male davvero. Quest’ultima
osservazione ci costringe a rivisitare le conclusioni del capitolo precedente.
(In un labirinto, oltre a girare a vuoto e percorrere sentieri tortuosi, si
deve talvolta fare qualche passo indietro.) Lo sfondo, cioè le regole, avevo
concluso, definiscono il gioco a cui stiamo giocando; le figure che tracciamo
sullo sfondo costituiscono la nostra attività ludica. Le regole determinano la
topologia del microcosmo in cui abbiamo deciso di risiedere e a quelle regole
noi vi risiederemo con maggiore o minore creatività e godimento, da buoni o
cattivi giocatori quali siamo. Occorre però evitare il malinteso che la
distinzione tra figura e sfondo, tra regole e creatività, sia, una volta
decisa, mai più contestabile, che non sia essa stessa in gioco. In una scena
esilarante di Butch Cassidy, Paul Newman viene sfidato a duello da un membro della
sua banda, un bruto gigantesco che dà l’impressione di poterlo sbudellare con
facilità. Senza scomporsi, Butch/Paul lo avvicina e gli dice che, prima di
lottare, devono mettersi d’accordo sulle regole. Il mostro lo guarda allibito;
in quell’attimo di sconcerto Butch gli assesta un poderoso calcio al basso
ventre e poi, quando si piega in avanti, una robusta mazzata in faccia con i
due pugni congiunti. Il duello è finito prima ancora di cominciare, prima
ancora di stabilire le regole alle quali doveva essere condotto. Siamo così
tornati per altra via alla complessità sancita dalla fisica e quel che
sembravamo aver capito quando ne abbiamo parlato la prima volta si trasforma
ora in un oscuro dilemma. (In un labirinto, càpita di ripassare per lo stesso
punto e di non riconoscerlo.) Il mondo è infinitamente ambiguo, avevamo
concluso: non obbedisce a regole univoche ma risulta invece da una
sovrapposizione di sistemi di regole fra loro incommensurabili, entro ciascuno
dei quali si potranno anche fare previsioni senza però poter prevedere, di
volta in volta, in che sistema sceglieremo di vivere. Non c’è, anzi, il mondo
ma ci sono questi sistemi molteplici, e nello slittare dall’uno all’altro ci
spostiamo da un mondo all’altro. Nel linguaggio che stiamo utilizzando adesso,
potremmo dire che ciascun sistema è un microcosmo, un particolare ambiente
ludico; ma qui abbiamo anche detto che ogni microcosmo corre sempre il
rischio che i suoi confini non tengano, che il mondo reale (il mondo del gioco
reale) che fa pressione su quei confini li sfondi e a un tratto ci si possa far
male davvero. Come la mettiamo, allora? Esiste un mondo reale che fa pressione
sui microcosmi, sui sistemi di regole, sui giochi; oppure vale quel che si è
detto nel terzo capitolo, che esiste un mondo solo dopo che si sia scelto un
sistema di regole? Una risposta semplice e lapidaria a questa domanda è:
valgono entrambe le cose. Non c’è nulla di semplice, tuttavia, nel significato
della risposta. Per cominciare, occorre intendersi: se un «mondo» dev’essere
una struttura definita, che contenga oggetti specifici con specifiche proprietà
e relazioni, allora non esiste un mondo senza la scelta del vocabolario che lo
fonda (in accordo con le spiegazioni date nel terzo capitolo). Possiamo anche
dire, però, che «così va il mondo», cioè che esso non va come si pensava un
tempo (e come ancora pensano in molti): non è indipendente da una scelta; le
cose non stanno in nessun modo finché non si sia deciso come descriverle – e
anche questo è, in senso lato, un modo in cui stanno le cose. Da questa banale
distinzione terminologica segue una conclusione tutto men che banale: se «al
mondo» non ci sono che microcosmi, allora quel che fa «realmente» pressione su
un microcosmo, «il mondo» che minaccia di sommergerlo, sono altri microcosmi.
Un gioco è sempre e soltanto minacciato da altri giochi (nel senso che è sempre
possibile slittare dall’uno agli altri). Giocare con le regole invece che alle
regole di un particolare gioco (come faceva Butch Cassidy) non significa situarsi
in una dimensione neutrale, fuori da ogni gioco, dalla quale il gioco e le sue
regole possano essere contestati; significa sempre e soltanto collocarsi in un
altro gioco. Nel percorso compiuto finora abbiamo già provato qualche
sconvolgimento prospettico; abbiamo già visto talvolta l’anatra tramutarsi
sotto i nostri occhi in un coniglio. Qui siamo arrivati a un nuovo episodio
dello stesso tipo. In partenza, sembrava ovvio che la bimba stesse giocando e i
suoi genitori no (quando, per esempio, si assicuravano che fossero coperte
tutte le prese e chiuse tutte le finestre prima di lasciarla giocare
indisturbata); che gli atleti su un campo di calcio giocassero ma gli operai
che montavano le porte no; che ci fosse differenza tra giocare alla guerra e
fare la guerra (davvero, invece che per finta). Ora questa ovvia differenza non
solo non è più ovvia; non è più nemmeno una differenza. O meglio, una
differenza c’è ma non è quella tra un gioco e un non-gioco, o tra un ambiente
fittizio e uno reale. Se per la bimba non c’è niente di più serio del suo
gioco, e se in generale i giocatori prendono il loro gioco molto sul serio, è
perché non c’è distinzione sostanziale fra gioco e attività serie: un’attività
seria è un gioco preso sul serio, un’attività definita da uno sfondo di regole
in cui una o più persone decidono di immergersi, un microcosmo entro i cui
confini una o più persone decidono di abitare. Prendere sul serio qualcosa vuol
dire assumere un atteggiamento di completa concentrazione e rifiutarsi di
ammettere qualsiasi distrazione, qualsiasi alternativa alla pratica corrente.
Succede ai bambini che giocano, agli adulti ossessionati dal poker o dalla
roulette e agli altri adulti, molto più maturi e responsabili, che si dedicano
anima e corpo al loro lavoro. L’analogia fra tutte queste situazioni è
evidente, o almeno dovrebbe esserlo, ma noi di solito riusciamo a non vederla
inforcando gli occhiali normativi (o prescrittivi) di cui ho parlato nel
secondo capitolo: chi si concentra sul proprio lavoro fa bene perché sul lavoro
ci si deve concentrare; chi si concentra sulle avventure di una bambola
dimostra il proprio carattere infantile; chi si concentra sul poker è
dipendente e malato. Mettiamo da parte queste norme introdotte di straforo,
senza valutazione e senza critica, e rimaniamo su un piano descrittivo, là dove
l’evidenza dell’analogia è innegabile. Ci apparirà allora con improvvisa
chiarezza una nuova prospettiva sull’intera faccenda: la realtà «seria» non è
che un gioco senza alternative riconosciute, su cui non si avverte la pressione
di altri giochi. Il lavoro è la realtà di chi non vive le sue regole come una
scelta; il poker è la realtà del giocatore ossessivo. (Il che non modifica il
fatto che alcuni giochi possono [a] essere più ampi e ramificati di altri, meno
disponibili alla ripetizione, a provare e riprovare le stesse mosse, e più
propensi a esiti dolorosi e devastanti o [b] rappresentarne altri, con tutte le
ambiguità connesse alla rappresentazione, quindi che [c] si possono limitare i
danni giocando «per procura» a giochi puramente rappresentativi di quelli più
rischiosi.) C’è un’importante precisazione da fare su quel che ho appena detto:
è necessario correggere subito la rotta per non andare fuori strada.
Sembrerebbe, a questo punto, che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato
nel prendere un’attività sul serio, il che non è vero. Torniamo ancora una
volta alla bimba: sbaglia forse, lei, a immergersi in modo assoluto, totale,
nelle figure che costruisce? Niente affatto: praticare un gioco con pazienza,
con dedizione, nell’oblio di ogni alternativa, è il modo migliore per
familiarizzarsi con il suo particolare microcosmo, per esplorare tutta la
creatività, tutto il «gioco» consentiti dalle sue regole. Ma domani la bimba
sarà in un’altra stanza, o in giardino, o sul sedile posteriore di
un’automobile, dove incontrerà altre resistenze che accetterà come regole
di un altro gioco; ed è questa flessibilità che la protegge dall’ossessione,
che anzi trasforma la sua momentanea ossessione in un punto di forza. Ogni
gioco, mentre è giocato, va preso sul serio; quel che ne conserva anche il
carattere di gioco (oltre a quello di serietà), per chi lo pratica, è il fatto
che gli siano presenti, magari implicitamente, altri giochi. Nell’Essere e il
nulla, Sartre parla di un cameriere che si è trasformato nello stereotipo di un
cameriere, e che cerca così di sfuggire alla coscienza di essere un cameriere.
Adattando il suo esempio al mio discorso, direi che al cameriere manca ogni
senso di alterità e che senza alterità non c’è vera identità: c’è solo un magma
indifferenziato nel quale siamo avvolti senza rimedio. Gli manca un lampo di
quell’ironia che segnala l’alterità e gli permetterebbe di vedere (da un altro
punto di vista) quel che sta facendo come uno dei tanti giochi possibili – come
qualcosa che non lo inchioda fatalmente a un ruolo e proprio per questo gli
permette di vivere il suo ruolo con serenità. Ho avuto la fortuna, talvolta, di
veder affiorare questo lampo d’ironia (che sarebbe come dire, per me,
d’intelligenza) in un bambino, di solito intorno ai due anni, e mi sono reso
conto allora che avevo davanti un essere umano. In Verso un’ecologia della
mente, Gregory Bateson arriva a una conclusione analoga, formulata nei termini
logico-matematici che gli sono abituali. Un gioco, dice, è generalmente vissuto
in un’atmosfera paradossale: nell’ambito della premessa «Questo è un gioco» e
quindi di indicazioni contrastanti a prendere sul serio quel che si fa e anche
a non prenderlo sul serio. «È nostra ipotesi che il messaggio “Questo è gioco”
stabilisca un quadro paradossale, paragonabile al paradosso di Epimenide [cioè:
quel che sto dicendo adesso è falso]» (pp. 225-226). Ma tali paradossi,
analoghi a quelli della teoria degli insiemi (come «l’insieme di tutti gli
insiemi che non si appartengono si appartiene e non si appartiene») non vanno
esorcizzati (come fa Bertrand Russell introducendo la sua teoria dei tipi
logici), perché nella loro assurda, irriducibile complicazione sono l’essenza
stessa dell’attività e della vita. La nostra tesi principale può essere
riassunta in un’affermazione della necessità dei paradossi dell’astrazione.
L’ipotesi che gli uomini potrebbero o dovrebbero obbedire alla teoria dei tipi
logici nelle loro comunicazioni non sarebbe solo cattiva storia naturale; se
non obbediscono alla teoria non è solo per negligenza o per ignoranza.
Riteniamo, viceversa, che i paradossi dell’astrazione debbano intervenire in
tutte le comunicazioni più complesse di quelle dei segnali di umore, e che senza
questi paradossi l’evoluzione della comunicazione si arresterebbe. La vita
sarebbe allora uno scambio senza fine di messaggi stilizzati, un gioco con
regole rigide e senza la consolazione del cambiamento o dell’umorismo (p.
235). Alla fine del capitolo precedente mi ero posto un problema: qual è
il senso di giochi dai quali non sembriamo imparare nulla d’importante, che
sembrano servire solo a passare (ad ammazzare?) il tempo? La «soluzione» del
problema ha finito per negarlo, ridisegnando l’intera cartografia che ne
tracciava il territorio. Non ci sono giochi utili per conoscere il mondo reale
e altri oziosi e gratuiti. Ci sono solo giochi, che rimangono tali finché
rimangono al plurale e smettono di esserlo (diventano reali) quando ne perdiamo
di vista la molteplicità. Anche in questo caso, la molteplicità non cesserà di
esistere e noi dovremo pur sempre difenderci dalla sua intrusione; la nostra
difesa però non sarà (per usare ancora una volta metafore freudiane) un
consapevole, versatile negoziato fra istanze ugualmente legittime e in grado di
scambiarsi le parti, di mescolarle e così rinnovarsi continuamente, ma una
rimozione di fissità nevrotica che con l’altro non dialoga e che proprio per
questo all’altro prima o poi si arrenderà. 6. Calma e gesso Nel gioco del
biliardo, che un mio compagno di liceo definiva «giusto e saggio», càpita di
trovarsi davanti a situazioni molto complicate. La palla che dobbiamo colpire è
coperta dal pallino o dal castello (sto parlando di un biliardo all’italiana, o
eventualmente alla goriziana, con due palle, un pallino e cinque birilli, o
eventualmente nove); possiamo prenderla solo di sponda, quindi invece di
sparare subito d’istinto conviene esaminare le nostre opzioni con calma, e
meglio ancora se nel frattempo ingessiamo la stecca per evitare che dopo tante
elucubrazioni scivoli malamente nel tiro (probabilmente a effetto) che
decideremo di tentare. Fuor di metafora, quando si percorre un itinerario
tortuoso e accidentato come quello attuale è buona idea fermarsi ogni tanto e
considerare la nostra posizione, che magari dopo numerose giravolte è cambiata
e va rivalutata nella nuova forma che ha assunto e nelle nuove condizioni e
opportunità che ci offre. È quanto mi propongo di fare in questo capitolo,
prima di riprendere il cammino. Nelle ultime pagine abbiamo compiuto, ho detto,
un rivolgimento prospettico. Naturalmente, mi sono affrettato a trarne le
conseguenze e a ridisegnare alla sua luce il nostro territorio. Ma qualche
minuto di pausa supplementare e qualche riflessione più articolata sono
opportuni, per apprezzare la radicale novità della mappa che sta emergendo.
Siamo partiti con una distinzione forse talvolta (in casi limite) vaga ma di
solito, apparentemente, piuttosto chiara. A nascondino e a pallacanestro si
gioca; quando si prende il tram per andare in ufficio o si prepara la cena non
si gioca – e chi lo facesse non starebbe davvero preparando la cena o andando
in ufficio; starebbe facendo chissà che cosa, con l’alibi di preparare la cena
o andare in ufficio. Ora però abbiamo detto che ci sono solo giochi. Vogliamo
dire che quella distinzione apparentemente chiara (ma, ho affermato, non
«sostanziale») va abbandonata? E che senso ha parlare di gioco, di attività
ludica, se non esiste nessun altro tipo di attività: se il fatto che
un’attività sia un gioco non la pone in contrasto con nient’altro di quel che
possiamo fare? Non abbiamo così inopinatamente perso per strada il concetto
stesso di cui volevamo rendere conto, alla cui comprensione abbiamo dedicato
tanti sforzi? Ho detto che un gioco è definito da uno sfondo su cui il gioco
elabora le sue figure; ho detto che c’è concorrenza, e lotta, sulla natura di
questo sfondo, che si gioca non solo alle regole ma anche con le regole. E ho
detto che quello che stiamo conducendo qui è un gioco, di carattere
trasformativo (o dialettico): che esso ci porta (per esempio) a vedere il gioco
di una bimba trasformarsi nel gioco del calcio. Stiamo ora arrivando a capire
meglio che gioco è. Parte di quel che questo gioco fa è trasformare il rapporto
tra figura e sfondo nell’essere umano (dove «essere» è inteso come verbo; alla
fine del viaggio suggerirò che la qualifica «umano» potremmo lasciarla cadere e
che la trasformazione riguarda tutto l’essere). Normalmente (e ricordiamo la
norma sempre implicita in simili espressioni) si pensa che il gioco sia una
figura un po’ strana e misteriosa tracciata sullo sfondo delle comuni, serie
occupazioni quotidiane. Il suo posto è marginale, letteralmente ai margini
della vita ordinaria: pertiene all’infanzia, ai giorni di festa, alla vita di
scioperati e nullafacenti («Chi ha fame non gioca», dice Caillois a p. 14). E
c’è da chiedersi se serva a qualcosa. Il rivolgimento prospettico che abbiamo
attuato ci mostra un quadro completamente diverso: una condizione umana in cui
lo sfondo, la normalità, la norma sono attività ludiche, condotte per il puro
gusto e il puro piacere che dànno, e le attività strumentali, tese a uno scopo
esterno a sé stesse, al conseguimento di un risultato, sono un mistero da
spiegare. Nell’Educazione estetica Friedrich Schiller arriva a una conclusione
analoga quando afferma: «l’uomo gioca soltanto quando è uomo nel senso pieno
del termine, ed è interamente uomo solo laddove gioca» (p. 56). E la spiega,
anche, in modo simile all’articolazione che ho fornito qui, come il risultato
di una costante tensione fra esigenze opposte: «deve esservi un elemento comune
tra impulso formale e impulso materiale, cioè un impulso al gioco, perché solo
l’unità della realtà con la forma, della contingenza con la necessità, della
passività con la libertà porta alla perfezione il concetto di umanità» (p. 54).
In una famosa scena di 2001: Odissea nello spazio un nostro antenato ominide
solleva da terra un lungo, robusto osso e lo agita senza senso e senza
intenzione di qua e di là. Per gioco, potremmo dire. Finché, casualmente,
l’osso urta un cranio che giace lì vicino e lo frantuma, e così lo scimmione
scopre (con enorme eccitazione) di avere in mano un’arma e nella prossima
scaramuccia con un gruppo di avversari la usa per commettere un omicidio.
Kubrick vuole raccontarci la storia di una specie (la nostra) feroce e
sanguinaria; ma storie simili e meno cruente si potrebbero raccontare su
un’altra scimmia che con la medesima casualità scopra come far cadere un
cespo di banane da un albero, o come adagiare un tronco per traverso su un
ruscello e usarlo da ponte. Jerome Bruner, in Natura e usi dell’immaturità,
riassume storie analoghe in questo modo: Sarei tentato di avanzare l’ipotesi
poco ortodossa secondo la quale nello sviluppo dell’uso degli strumenti è stato
necessario un lungo periodo di attività combinatoria opzionale e libera da
qualsiasi pressione. Per sua natura l’uso di strumenti (o l’incorporazione di
oggetti in attività qualificante) ha richiesto la preliminare possibilità di
un’ampia varietà di esperienze sulla quale potesse poi operare la selezione (p.
37). Una caratteristica fondamentale dell’uso di strumenti negli scimpanzé come
nell’uomo è la tendenza a sperimentare varianti del nuovo pattern di attività
in differenti contesti [...]. Probabilmente è proprio questa «spinta alla
variazione» (piuttosto che la fissazione per rinforzo positivo) che rende tanto
efficace la manipolazione nello scimpanzé (p. 41). Il gioco, data la sua
concomitante libertà da rinforzi e il suo collocarsi in un ambiente
relativamente libero da pressioni, può produrre la flessibilità che rende
possibile l’uso di strumenti (p. 43). La libertà espressa nel gioco sarebbe
dunque il serbatoio inesauribile da cui sfociano tutte le attività serie:
cristallizzazioni perlopiù temporanee e locali cui ci affezioniamo e che
ripetiamo con fedeltà perché si sono rivelate inaspettatamente preziose, mentre
il gioco continua. (Ritroviamo così, come cifra del gioco, l’investimento
nell’eccessivo e nel puramente possibile, da cui viene distillato con pazienza
ciò che finisce per apparire utile o anche necessario.) L’immagine che stiamo
disegnando è quella di uno spettro di comportamenti (analogo allo spettro dei
colori), a un’estremità del quale c’è pura libertà (comportamenti del tutto
caotici e imprevedibili) e all’altra pura costrizione (comportamenti del tutto
fissi e stereotipi). In modo analogo, Caillois sovrappone alla sua già citata
categorizzazione analitica di vari tipi di gioco un’ulteriore tassonomia
organizzata in modo graduale: [Si possono] ordinare [i giochi] fra due poli
antagonisti. A un’estremità regna, quasi incondizionatamente, un principio
comune di divertimento, di turbolenza, di libera improvvisazione e spensierata
pienezza vitale, attraverso cui si manifesta una fantasia di tipo incontrollato
che si può designare con il nome di paidia. All’estremità opposta, questa
esuberanza irrequieta e spontanea è quasi totalmente assorbita, e comunque
disciplinata, da una tendenza complementare, opposta sotto certi aspetti, ma
non tutti, alla sua natura anarchica e capricciosa: un’esigenza crescente di
piegarla a delle convenzioni arbitrarie, imperative e di proposito ostacolanti,
di contrastarla sempre di più drizzandole davanti ostacoli via via più
ingombranti allo scopo di renderle più arduo il pervenire al risultato ambìto
[...]. A questa seconda componente do il nome di ludus (p. 29). E anche Piaget
parla di polarità: il gioco non costituisce una condotta a parte o un tipo
particolare di attività tra le altre: esso si definisce soltanto mediante un
certo orientamento della condotta o in virtù di un «polo» generale verso
cui converge quest’attività nel suo complesso restando caratterizzata
così ogni azione particolare dall’essere più o meno vicina a questo polo e dal
tipo di equilibrio che c’è tra le tendenze polarizzate (La formazione del
simbolo nel bambino, pp. 213-214). il gioco si riconosce da una modificazione,
variabile di grado, dei rapporti di equilibrio tra il reale e l’io. Si può
sostenere dunque che, se l’attività ed il pensiero adattati costituiscono un
equilibrio tra l’assimilazione [del reale all’io] e l’accomodamento [dell’io al
reale], il gioco comincia quando la prima predomina sul secondo [...]. Ora, per
il fatto stesso che l’assimilazione interviene in ogni pensiero e che
l’assimilazione ludica ha per solo segno distintivo il fatto di subordinarsi
l’accomodamento invece di realizzare un equilibrio con esso, il gioco si deve
considerare collegato al pensiero adattato da una gamma di stati intermedi, e
solidale con tutto il pensiero, di cui esso non costituisce che un polo più o
meno differenziato (pp. 218-219). Io però intendo proporre qui un’operazione
più radicale. Invece di trovare il gioco in una parte dello spettro e il
non-gioco in un’altra (o, come fa Caillois, giochi diversi da una parte e
dall’altra), intendo rivoluzionare il senso della parola «gioco», decidendo che
il gioco sia non un’attività specifica («questo è un gioco e quello non lo è»)
ma un aspetto di ogni attività, un suo parametro: il parametro che misura
quanta libertà l’attività esprima. Che ci siano solo giochi vorrà dire allora
che tutte le attività possono essere misurate relativamente a questo parametro,
anche se per alcune la misurazione darà un valore assai vicino allo zero. In
modo inversamente proporzionale alla libertà di un comportamento cresce, nello
spettro, la presenza e l’importanza delle regole; quindi, se ammettiamo che gli
estremi dello spettro (il grado zero di libertà e il grado zero di regole)
siano astrazioni puramente ideali, confermeremo quanto si è detto nel quarto
capitolo, che cioè ogni gioco si svolge a determinate regole – intendendo la
frase nel nuovo senso che ha ora acquisito: ogni attività ha insieme un aspetto
regolamentato e uno ludico. Mentre varchiamo una soglia per affrancarci dalle
strettoie che al suo interno ci opprimono, troveremo un’altra soglia; e sarà
nell’interazione tra il nostro desiderio di affrancamento e i limiti con cui
quel desiderio si deve confrontare che la nostra libertà guadagnerà contenuto e
sostanza, e realizzerà strutture sempre più articolate, complesse e funzionali.
Quando siamo d’accordo che così stanno (così vediamo) le cose, nulla ci
impedisce di ammettere un uso informale e colloquiale della parola «gioco» in
riferimento a specifiche attività. Un gioco, potremmo dire, è un’attività il
cui parametro ludico è elevato, o almeno significativo; un non-gioco è
un’attività il cui parametro ludico è trascurabile. In modo analogo, gli esseri
umani potrebbero essere disposti su uno spettro in base alla loro altezza, e da
un certo punto in avanti (impossibile da determinare con esattezza) le persone
con un’altezza elevata, o almeno significativa, verrebberro dette,
semplicemente, alte. Rimarrebbe vero, con questa convenzione, che in
generale (il senso della precisazione sarà chiaro tra breve) il nascondino e la
pallacanestro sono giochi ma il preparare la cena e l’andare in ufficio no; e
sarebbe anche vero che le slot machines e il «gioco» del lotto, avendo un
parametro ludico praticamente nullo, non sono giochi ma imposture. Che
all’indomani del rivolgimento prospettico si possano dire le stesse cose di
prima non equivale però ad averne moderato l’impatto, ad avergli spuntato le unghie.
Categorizzare le attività umane in termini di uno spettro come quello che ho
descritto non è un’operazione innocente, perché implica che ogni attività, per
quanto scontata e ripetitiva, abbia almeno implicito, almeno potenziale, un
certo grado di libertà, e che dunque in essa ci sia spazio (ci sia gioco, come
quello della vite) per esplorare e apprendere, per rischiare e trasgredire.
(Così come ogni attività ludica può venir soffocata da un eccesso di regole.)
Nel mondo ordinato degli antichi greci, ogni cosa aveva il suo posto e lo stato
naturale era la quiete – lo stato, cioè, in cui era ogni cosa quando aveva
raggiunto il suo posto. (Questo valeva sulla Terra. Nei cieli, i corpi si
muovevano con il moto più simile alla quiete: il moto circolare uniforme, che
ritorna sempre su sé stesso.) E capire quel mondo voleva dire «tagliarlo
seguendone le nervature»: riflettere nelle nostre classificazioni concettuali
la precisa e definitiva articolazione delle sue differenze. In base a questa
logica, fra gioco e non-gioco esisterebbe uno scarto qualitativo: si
tratterebbe di qualità diverse, anzi opposte, e nulla potrebbe essere l’uno e
l’altro insieme. Che il nostro mondo sia caotico implica che in esso sia
naturale non la quiete ma un movimento costante e irregolare, e non solo il
movimento di una cosa da un posto all’altro ma anche un movimento che riguarda
l’essere di quella cosa, che costantemente e irregolarmente ne cambia la
definizione e le caratteristiche più intime. La nostra nuova prospettiva sul
gioco s’inquadra in un mondo siffatto, in cui l’essere gioco non è un destino
degli scacchi o del tennis e l’essere non-gioco un destino dell’avvitare un
bullone o dello spolverare il mobilio. Gioco e non-gioco sono invece
opportunità sempre aperte; e può essere sufficiente, a volte, il battito d’ali
di una farfalla perché la più ottusa delle routine si accenda d’improvvisa
follia (manifestando il pizzico di follia che già conteneva) o perché la più
audace delle avventure s’incagli su un binario morto. 7. Illusioni Nel
quarto capitolo ho detto che quella di figura e sfondo è una metafora: che le
«figure» non hanno necessariamente nulla di visivo. Una metafora estende l’uso
di una parola al di là dei suoi contesti abituali, dandole un senso traslato,
inappropriato e incongruo ma spesso suggestivo (in quanto suggerisce
associazioni, emozioni, ricordi). È anch’essa un gioco, di parole appunto; e
come tale ce ne dovremo occupare a tempo debito. Per ora mi limito a osservare
che se una metafora può traslare, trasferire il senso di una parola allora quel
senso, si presume, ha un’origine da cui essere trasferito: che si diano sensi
metaforici presuppone che ne esista uno letterale. Giulietta non è,
letteralmente, il sole; ma quel che ci permette di capire che cosa il poeta
intenda con questa frase è la nostra familiarità quotidiana con un astro che è
il sole nel senso più proprio del termine. Anche questa distinzione verrà in
seguito contestata; ma qui prendiamola per buona perché ha molto da insegnarci.
Un cambiamento di prospettiva, di punto di vista, può essere un evento di
natura astratta, che ci coinvolge solo a livello concettuale. Abbiamo sempre
pensato a noi stessi come a fedeli esecutori di istruzioni ricevute
dall’esterno, da una guida o un capo più o meno benevoli, e tutt’a un tratto
comprendiamo («ci salta agli occhi», metaforicamente parlando) di quante
microdecisioni sia intessuta la nostra esecuzione di un compito, e quanto siano
quelle decisioni, quelle scelte forse inconsapevoli ma importanti, a determinarne
il successo, invece della pedestre acquiescenza a modelli alieni. Se pure
adoperiamo un vocabolario percettivo per descriverla (dicendo per esempio che
abbiamo imparato a «vederci» in modo diverso), questa trasformazione è di
carattere intellettuale, logico; riguarda una «prospettiva» che è
un’interpretazione, non una direzione nello spazio. Esistono però anche casi
come il seguente (ne parla fra gli altri Jacques Lacan). Il famoso quadro Gli
ambasciatori di Hans Holbein, se guardato di fronte, presenta una strana forma
in basso (Lacan la paragona a uova fritte); ma se, mentre ce ne allontaniamo,
ci giriamo ancora una volta a guardarlo (forse perché quella forma misteriosa
ci ha inquietato) ecco che da quel punto, letteralmente, di vista scorgiamo
infine l’immagine che il pittore voleva mostrarci (e capiamo il messaggio
che voleva lanciarci – ogni trasformazione percettiva ha una ricaduta
intellettuale, ma non vale l’inverso). Le uova fritte sono diventate un
teschio. Nell’universo infantile, cambiamenti letterali di prospettiva (su un
corpo, un oggetto, una situazione) sono tra le fonti più intense di gioia. È un
mondo popolato di smorfie, guizzi, voltafaccia, nel quale nulla diverte di più
del vedere personaggi di dimensioni gigantesche, che normalmente costringono a
guardarli dal basso in alto, rotolarsi per terra, camminare a quattro zampe,
magari con un bambino in groppa per fargli vedere dall’alto spettacoli di
solito inaccessibili: una nuca, del cuoio capelluto, delle stanghette di
occhiali. Nella vita adulta, occasioni del genere sono più rare, limitate come
sempre accade con il gioco a ricorrenze catartiche (il carnevale, le vacanze,
il sesso) e occupazioni specifiche (l’attore, il clown). Quel che conserva una
frequenza più costante sono non tanto occasioni quanto particolari oggetti
multiformi, insieme artistici e illusori, anzi artistici perché illusori (come
ben aveva capito Gombrich, che al tema dedicò il suo capolavoro Arte e
illusione). A questi loro aspetti mi rivolgerò adesso, cominciando dal secondo.
Abbiamo già incontrato il paradosso della rappresentazione: di una cosa, cioè,
che ne rappresenta un’altra, diversa da sé stessa. Una rappresentazione,
aggiungo ora, è in certa misura un’illusione; in particolare, una
rappresentazione percettiva come quelle su cui mi concentrerò qui è (in certa
misura) un’illusione percettiva. Nel linguaggio ordinario, «illusione» non è un
termine neutrale: accenna a qualcosa di falso, di ingannevole; è legato a
giudizi di valore negativi, usato con intento critico. Dobbiamo evitare di
rimanere vittime di illusioni; dobbiamo conoscere la realtà che le illusioni ci
nascondono. Voglio prendere le distanze da tali giudizi e dalle norme che essi
sottintendono: norme che favoriscono stabilità e conformismo nella visione del
mondo. Osservo invece che dentro «illusione» c’è la radice del gioco e il
prefisso «in» annuncia (se solo stessimo a sentire quel che diciamo) che
un’illusione (ci) mette in gioco. Questo è il senso in cui voglio usare la
parola, respingendo ogni ipotesi di inganno o di frode e sostituendola con un
richiamo positivo alla sfera ludica. È in questo senso, per esempio, che nubi
di una certa forma possono illuderci che un destriero stia galoppando per il
cielo: rimettendo in discussione il fatto che quelle siano nubi, che il cielo
abbia una sua determinata, fissa configurazione, che certe cose (certi animali)
non vi abbiano corso. L’epigrafe del capitolo L’immagine nelle nubi, in Arte e
illusione, è tratta da Antonio e Cleopatra di Shakespeare, e recita: Talvolta
noi vediamo una nuvola prendere forma di drago; talvolta un cirro la forma di
leone o d’orso o di turrita cittadella o d’un aereo picco; di forcuta montagna,
di azzurri promontori vestiti d’alberi, che fanno cenno colle chiome al mondo
giù e ci illudono gli occhi con un gioco d’aria (p. 172). A mente fredda diremo
poi, forse, che le nubi hanno rappresentato un cavallo, sigillando il gioco in
un’espressione paradossale che lo esorcizza invece di spiegarlo (e, se viene
ripetuta abbastanza spesso, darà probabilmente l’illusione di aver capito –
metterà in gioco che cosa voglia dire «capire»); quando invece il gioco ci
catturerà, ci accoglierà in sé, vedremo davvero – e nessuno potrà dirci che non
lo vediamo – il cocchio di Fetonte scalpitare a precipizio verso il suo
infelice destino. L’«in» di «illusione» è una particella, una preposizione,
ambigua (ha un significato che è a sua volta in gioco). Può introdurre un
complemento di moto a luogo («vado in piazza») e allora indicherà oggetti che
ci attirano, ci seducono a entrare in un gioco; ma il complemento può anche
essere di stato in luogo e allora s’insinuerà che il gioco ci ha avvolto, che
abitiamo al suo interno. L’ambiguità, e la tensione che l’accompagna,
traspaiono nel nostro rapporto con le nubi, se oscilliamo fra il notarne
(dall’esterno) una semplice ma affascinante analogia con la criniera di Pegaso
e l’abbandonarci all’altalena cui l’analogia allude, senza riposare nell’una o
nell’altra condizione. Sono anche attivate da oggetti creati proprio a tale
scopo, creati ad arte; e così slittiamo da una delle nostre parole all’altra.
«Artificiale» si oppone a «naturale», ed è un contrasto da prendere con
beneficio d’inventario. Molto ci sarebbe da dire su quanto sia naturale per gli
esseri umani costruire oggetti diversi da quelli che trovano già fatti. Ma non
è il discorso che m’interessa qui; accetterò l’idea che un albero è un oggetto
naturale e la casetta che gli è stata costruita sopra è artificiale, e dirò
quindi che gli oggetti che ci imprigionano in un gioco perpetuo, o almeno di
una certa durata (ci imprigionano in un comportamento libero? poco fa ho detto
che il gioco può catturarci; c’è una guerra condotta su queste parole, su che
cosa vogliano dire «libertà» e «schiavitù», ed espressioni del genere fanno
ampie concessioni all’avversario), sono in gran parte artificiali e, quando
acquisiscono una buona reputazione sociale, vengono qualificati come artistici.
L’anatra/coniglio cui ho fatto riferimento in precedenza appartiene a questa
classe di oggetti: basta continuare a guardarlo, senza fare altro, per veder
apparire alternativamente l’una e l’altra figura. E si noti a che livello
l’oggetto agisce: quel che stiamo guardando non sono nubi che diventano un
cavallo, stelle che diventano un leone e nemmeno un’anatra che diventa un
coniglio – è un disegno di un’anatra che diventa il disegno di un
coniglio. L’anatra/coniglio è un giocattolo: non una parte dell’ambiente che
noi sottoponiamo a pressioni e rivoluzioni ludiche, ma un oggetto deputato
precisamente a consentirci e facilitarci tali pressioni e rivoluzioni – un
oggetto nato per essere elemento di un gioco. E per questa via siamo arrivati
una prima volta a dama; abbiamo raggiunto nel nostro percorso una prima sublime
manifestazione dell’ingegno e della perizia umani. Abbiamo raggiunto l’arte,
che possiamo ora definire come la costruzione di oggetti che consentano e
facilitino il gioco percettivo, il sovrapporsi e lo scambiarsi di immagini
multiple, l’illusione percettiva. Torniamo al quadro di Holbein e trascuriamo
la sorpresa con cui saprà accomiatarci. Rimane il fatto che questo oggetto
artificiale ci dà l’impressione di essere al cospetto di due distinti
gentiluomini, riccamente vestiti e circondati da svariati simboli di potere,
cultura e intrattenimento; ma, anche mantenendo la nostra posizione frontale
rispetto alla scena, scorrendo gli occhi è facile vedere al loro posto una
tavola bidimensionale ricoperta di colori a olio, e poi tornare a vedere i
gentiluomini, e poi ancora la tavola, e magari, se il gioco ci appassiona,
sforzarci di svelare il segreto di tale sortilegio – avvicinarci e allontanarci
dal dipinto per cogliere il punto esatto in cui un’immagine dà luogo all’altra,
in cui i gentiluomini si fanno avanti, robusti e vitali, dal legno e dal
pigmento che ne evocano la presenza. Lo stesso vale per i sobri tratti che in
uno schizzo o in un fumetto dànno vita a un personaggio e al suo umore, per le
trombe e i timpani che nella Sesta di Beethoven ci immergono in un temporale,
per le volte e le vetrate che da una cattedrale gotica ci trasportano in una
selva oscura, attraversata da lampi di luce divina. Ogni oggetto artistico sa
illuderci, invitarci a un gioco aperto fra le sue molteplici incarnazioni,
ispirarci a un’oscillazione gestaltica che ne costituisce, in quanto appartiene
all’arte, la ragion d’essere. Lo stimolo [...] è infinitamente ambiguo, e
l’ambiguità in sé [...] non può esser vista: può solo essere indotta dal
confronto di diverse letture che tutte si adattano a una stessa configurazione.
Credo [...] che il dono dell’artista sia di questo genere. Egli è un uomo che
ha imparato a guardare criticamente, a saggiare le sue percezioni provando
interpretazioni diverse o opposte, sia per gioco che seriamente (p. 282). Il
piacere che proviamo davanti a un quadro, affermava il grande critico
neoclassico Quatremère de Quincy citato da Gombrich, dipende esattamente dallo
sforzo che la mente fa per creare un ponte tra arte e realtà. È proprio questo
piacere che viene distrutto allorché l’illusione è troppo completa. «Allorché
un pittore costringe una grande estensione in uno spazio ristretto, quando mi
porta attraverso gli abissi dell’infinito su una superficie piatta e fa
sì che l’aria circoli [...] mi piace abbandonarmi alle sue illusioni; ma voglio
che ci sia la cornice, voglio essere certo che ciò che vedo in realtà non è
altro che una tela o un semplice piano» (p. 254). Se questo gioco viene a
mancare, se l’illusione diventa inganno, allora in modo solo apparentemente
paradossale per chi abbia seguito la parola nella deriva semantica che ho
proposto, l’illusione scompare: «la perfezione dell’illusione ne ha segnato
anche la fine» (p. 253; traduzione modificata). E talvolta l’artista gioca
anche con l’illusione (gioca con il gioco stesso) e con le aspettative
culturali che le sono associate: l’orinatoio di Duchamp ci riporta indietro, al
bambino per cui i migliori oggetti con cui giocare sono quelli d’uso comune, e
insieme ci ricorda che un oggetto non è mai solo, è sempre vissuto in un ambiente
che ne determina il ruolo; quindi un orinatoio in un museo è qualcosa di più (e
di meno) di un orinatoio in un bagno e ci racconta qualcosa non solo di sé ma
anche di noi stessi. Siamo noi a illuderci (a giocare con il fatto) che
visitare un museo sia un’operazione equivalente a guardare dal buco della
serratura, lasciando tutto – tutta l’arte – com’è; mentre invece è proprio
quella nostra visita a costituire l’arte. In molti punti del labirinto in cui
ci siamo inoltrati si aprono altri labirinti: la struttura tortuosa
dell’insieme si riflette nella struttura di molte delle sue parti (simile in
ciò agli strani attrattori della teoria del caos, in cui ogni dettaglio ha
complessità tanto infinita quanto il tutto). Qui siamo arrivati a un punto
siffatto: sull’arte si potrebbe scrivere un altro libro, o una biblioteca. Ma
resisterò anche a questa tentazione e mi rimetterò in marcia, dopo aver fatto
tre precisazioni. In primo luogo, devo insistere che non ho collegato gioco e
arte in modo analitico, scoprendo delle loro caratteristiche comuni. L’attività
artistica è attività ludica, più precisamente un gioco percettivo che ci porta
a vedere oggetti in prospettive e con risultati diversi da quelli abituali;
dunque è la stessa attività praticata da un bambino che rigira un cubo fra le
mani per vederlo da ogni lato. Se il cubo è una scatola che ha trovato in
cucina, il caso è identico a quello delle immagini nelle nubi; se invece è un
oggetto (un giocattolo) che gli è stato comprato apposta perché lui esegua tali
rotazioni, corrisponde al quadro di Holbein (e chi ha costruito il giocattolo
corrisponde al pittore). Gli oggetti ufficialmente giudicati artistici sono più
raffinati di quelli con cui si diletta un bambino (anche se ciò non vale sempre
per l’arte contemporanea, da Duchamp in poi); ma ciò vuol dire solo che
un’attività (ludica, in questo caso) può essere praticata con maggiore o minore
maestria, non che si tratta di attività diverse. Chiunque abbia
partecipato a una settimana bianca ha sciato, pur non danzando sulla neve con
la grazia di Ingemar Stenmark. E non lasciamoci turbare, nell’enunciare questa
tesi, dalle inevitabili proteste di chi sostiene che l’arte ha valore solo per
sé stessa (l’art pour l’art) e non va assoggettata alla funzione quasi-evolutiva
che le ho conferito. Nessuno meno di un appassionato giocatore, totalmente
immerso nella sua partita, è in grado di apprezzarne il contributo a un più
vasto ambito d’interessi. Al limite, questo genere di passione acceca, come
osserva Gombrich in A cavallo di un manico di scopa: gli scrittori di estetica
ci dicono da tempo che cosa l’arte non è, e si sono tanto preoccupati di
liberare l’arte da valori eteronomi, che hanno finito con il creare al centro
di essa un vuoto, alquanto impressionante (p. 25). In secondo luogo, l’arte è
solitamente concepita come prodotta da certe persone (gli artisti) e fruita da
altre (il pubblico); le prime sono considerate attive e le seconde ricettive,
passive. Nel modello freudiano del motto di spirito, nucleo di una generale
teoria estetica, il piacere provato da chi ascolta una barzelletta e il riso
che ne segue sono causati proprio dal suo essere inerte e trovarsi a un tratto
libere energie psichiche che prima servivano a reprimere dei contenuti
inaccettabili, in seguito all’azione di un altro (chi racconta la barzelletta,
usando a tale scopo le stesse energie e quindi provando meno piacere e non
ridendo affatto). È un modello che potrà andar bene per le oscene vicissitudini
dell’industria artistica contemporanea: per opere teatrali e liriche davanti
alle quali beatamente assopirsi dopo una lauta cena o per croste e
installazioni rifilate da furbi mercanti a ricchi e incolti borghesi. È anche
un modello, però, che viola e stravolge la comunità d’intenti e d’impegno che esiste
fra un pittore, un architetto, un musicista e il suo pubblico. Chi guarda un
quadro, ammira un edificio o ascolta una sonata non saprebbe, perlopiù,
dipingere, progettare o comporre con la stessa abilità, ma può godere
dell’esperienza solo in quanto è coinvolto nelle stesse scoperte e sorprese
dell’artista: solo in quanto l’artista (come l’animatore di un gioco di
società) sa coinvolgerlo in quelle attive scoperte e sorprese. Si può essere
autentici spettatori di un’opera d’arte solo nella misura in cui si è a propria
volta artisti: solo in quanto si è in grado di far riecheggiare in sé la stessa
esplosione gestaltica che l’autore ha provato. Ancora Arte e illusione di
Gombrich e ancora una sua citazione, questa volta da Filostrato, biografo del
filosofo pitagorico (contemporaneo di Cristo) Apollonio di Tiana: «Ma
questo non significa forse – propone Apollonio – che l’arte dell’imitazione ha
un duplice aspetto? Uno è quello che porta ad usare le mani e la mente per
realizzare imitazioni, l’altro quello che realizza la somiglianza unicamente
con la mente?». Anche la mente dell’osservatore ha la sua parte
nell’imitazione. Anche una pittura a monocromo, o un rilievo in bronzo ci
colpiscono come qualcosa di somigliante: li vediamo come forma ed espressione. «Perfino
se disegnassimo uno di questi indiani con del gesso bianco, – conclude
Apollonio, – apparirebbe nero perché ci sarebbero sempre il suo naso
schiacciato, i suoi spessi capelli ricciuti e la sua mascella sporgente [...] a
rendere nera l’immagine per chi sa usare gli occhi. Per questo dico che coloro
che osservano opere di pittura e disegno devono possedere la facoltà imitativa»
(p. 173). In terzo luogo, chi propone una «naturalizzazione» di un aspetto
della nostra vita caratterizzato da pesanti risvolti normativi è spesso
accusato di farne evaporare ogni norma e lasciarci privi di ogni criterio o
giudizio di valore. Tale è il caso, per esempio, dell’etica, disciplina
normativa per eccellenza, quando la si riduca alla teoria della scelta
«razionale»: d’accordo che mi converrà accettare e rispettare certi patti, ma
che cosa resta allora dell’intuizione che, indipendentemente dalla convenienza,
sia giusto accettarli e rispettarli? La mia posizione complessiva non ha simili
conseguenze; l’etica (normativa) ha in essa un ruolo sostanziale, anche se
diverso dalla ricognizione e dal chiarimento concettuale che competono alla
metafisica. In questo libro, destinato alla ricognizione del territorio ludico
e al chiarimento dei concetti che lo popolano, di etica non mi occuperò; ma non
voglio congedarmi dall’argomento che stiamo trattando senza notare che definire
l’arte un gioco percettivo ci offre un coerente e plausibile sistema di valori
interno per oggetti artistici. C’è chi gioca a scacchi e chi a filetto; chi a
bridge e chi a briscola. Tutti quanti possono divertirsi; ma è indubbio che, in
quanto giochi, gli scacchi siano meglio del filetto e il bridge meglio della
briscola. Il filetto è decidibile: esiste una strategia sicura per chiudere in
parità ogni partita. A briscola (quella comune, tralasciando le sue infinite e
complicate varianti) di solito vince chi pesca i carichi (soprattutto quelli di
briscola). Dopo un po’, ci si annoia. Gli scacchi e il bridge, invece, non
stancano mai: con un repertorio limitato a trentadue pezzi o cinquantadue carte
sanno proporci una messe inesauribile di combinazioni diverse e richiedere usi
sempre nuovi del nostro talento e della nostra ingegnosità. Si può capire come
per molti diventino un’ossessione; è difficile immaginare persone altrettanto
ossessionate dal filetto o dalla briscola. Con l’arte è lo stesso. Ogni oggetto
artistico ci mette in gioco, ma talvolta il gioco è esile e di scarso respiro.
L’orinatoio di Duchamp ha rivoluzionato la nostra prospettiva su pratiche sociali
consolidate (e ne ha irrimediabilmente scosso la solidità); ma dubito che
l’ennesimo esempio di arte «trovata» solleciti più di una scrollata di
spalle o di uno sbadiglio (in chiunque non sia un critico che su queste cose ci
vive o uno sciocco in cerca di «investimenti»). Guardiamo invece al viso della
Gioconda: le labbra atteggiate a un sorriso, gli occhi tristi e pensosi, e il
conflitto fra questi due poli della condizione umana proposto (ma non risolto)
in un’espressione di incomprensibile, miracoloso, fragile equilibrio. Se anche
avessimo un tempo infinito, potremmo non smettere mai di oscillare dall’uno
all’altro «suggerimento» e di stupirci di un ossimoro presentato con tanto
candore e tanta armonia. Il capolavoro di Leonardo è un perfetto oggetto
artistico perché in esso potremmo a lungo e ripetutamente perderci (illuderci)
e da ogni siffatta avventura emergeremmo con uno sguardo nuovo sul mondo.
8. Il fattore in gioco Una cosa che ho appena detto può dare adito a
perplessità, quindi devo affrontarla e risolvere il relativo problema prima di
proseguire. Ho detto che chi gioca a filetto o a briscola può divertirsi.
Questo magari succede perché non ha grandi doti intellettuali e il filetto e la
briscola sono alla sua altezza. Ma che dire di quanti si dilettano di giochi
semplici proprio nella loro semplicità, pur cogliendone perfettamente i limiti?
Di quanti godono della tombola natalizia con un piacere forse regressivo ma non
per questo meno intenso? Una volta a Parma, durante una presentazione di
Giocare per forza, uno spettatore mi rivolse una domanda analoga. «Quando ero
ragazzo» disse «i miei compagni e io “giocavamo” a guardar le macchine passare
per strada, e ci eccitava molto vedere una macchina inconsueta. In che senso un
gioco così è innovativo, esplorativo, istruttivo o trasgressivo? È di una
banalità assoluta; eppure noi ci divertivamo un sacco». L’osservazione è acuta
e pertinente: un buon esempio di quanto ci sia da imparare se, in un’occasione
pubblica in cui si parla del proprio lavoro e si dovrebbe avere completo
controllo della situazione, invece di reiterare una predica risaputa e inutile
si accetta di mettersi in gioco e di raccogliere gli stimoli straordinari che
ci vengono dispensati da chi dialoga con noi. Ma veniamo al punto. Supponiamo
dunque che una famiglia (allargata) costituita da persone di notevole spessore
intellettuale si ritrovi durante le vacanze di Natale per giocare a tombola.
Tutti sono consapevoli dell’estrema semplicità del rito; eppure le ore
trascorse in questa operazione d’imbarazzante infantilismo sono serene ed
eccitanti, gradevoli e ilari. Come spiegarlo? Se interrogati, i protagonisti
potrebbero giudicarla una forma di abbrutimento: una provvida parentesi fra
occupazioni di rigore e profondità encomiabili ma anche, a lungo andare,
insostenibili. Dobbiamo crederci? Dobbiamo ammettere che, in qualche caso, il
gioco e il suo piacere vadano cercati proprio nel carattere brutale ed
elementare di certi comportamenti? Nel puro sfogo che essi esprimono? Non necessariamente.
Basta osservare che, se stiamo giocando e se il presunto oggetto del
nostro agire è un’attività socialmente considerata ludica, non ne segue che
questa attività sia il gioco cui stiamo giocando. Forse stiamo giocando ad
altro, con la scusa di giocare a quel gioco socialmente riconosciuto. Che cosa
succede quando una famiglia (allargata) si ritrova per le vacanze di Natale?
Che persone con scarsa dimestichezza reciproca oppure (peggio ancora) con
ricordi di una dimestichezza ormai tramontata, alla luce del modo in cui sono
cresciute e maturate, si costringono a condividere spazi ristretti per qualche
giorno, con l’obbligo supplementare di manifestare ripetutamente reazioni
estatiche a tale improvvisa, temporanea, spesso faticosa vicinanza. Non devo
dilungarmi in dettagli: drammi di notevole veridicità (e crudeltà) sono stati
scritti in proposito. La tombola o la briscola possono allora costituire
un’area neutra nella quale sperimentare senza troppi rischi mosse e
atteggiamenti che in altri contesti potrebbero far male ma qui, nell’atmosfera
lieve di un gioco, hanno «corso legale» e consentono preziosi passi avanti nel
difficile compito di trasformare quella che di nome è una famiglia nel senso di
una concreta familiarità. Stiamo dunque assistendo a una scena in cui si
sovvertono e si rinnovano le proprie competenze e i propri ruoli, si esplorano
i propri rapporti con altri che, nonostante il disagio e l’occasionale
ostilità, sono pur sempre cari e s’imparano strategie per distillare l’affetto
dal disagio, e tutto questo accade mentre si gioca a tombola, ma non riguarda
la tombola. La delicatezza e la sottigliezza dei tentativi che vengono condotti
in quest’area protetta e la ricchezza di insegnamenti che se ne derivano (senza
rifletterci, senza neppure esserne consapevoli, ma in modo estremamente utile
per il prosieguo e il successo dell’effimera convivenza) sono lontane toto
coelo dall’insulsaggine degli ambi e delle cinquine. Considerazioni analoghe
valgono per i ragazzi che «giocano» a veder passare le macchine, o a chi
scorreggia più forte o dice più parolacce. Se pensiamo che il fattore in gioco,
in casi del genere, siano le scorregge o le parolacce, dovremo modificare
radicalmente la nozione di gioco che abbiamo elaborato. Ma non bisogna pensarla
così; e per capirne le ragioni dobbiamo distanziarci dalle etichette correnti e
anche da quelle che gli stessi giocatori (si) attribuiscono. Le competizioni di
cui sopra sono giochi, ma non è detto che chi gioca partecipando a tali
competizioni stia giocando a scorreggiare, e si stia divertendo perché
scorreggia. Forse sta giocando, esattamente nel senso in cui ho definito il
gioco, a qualcos’altro di ben più complesso (a socializzare con dei coetanei, a
mettere sotto pressione la sua fisicità ed emotività), mentre tutti i presenti
(e lui stesso) sono distratti dalle scorregge; ed è anzi importante che
ne siano distratti, perché altrimenti il gioco cui stanno davvero giocando non
sarebbe altrettanto trasgressivo e innovativo, esplorativo e istruttivo, e
piacevole. Questa osservazione mi consente di precisare il punto con cui ho
chiuso il capitolo precedente e di prendere posizione rispetto a un tema che
per molti autori ha grande importanza nel definire il gioco ma nella mia
trattazione, finora, è stato oggetto di commenti piuttosto negativi. Cominciamo
con la precisazione. Ho detto che la Gioconda è un oggetto artistico di sublime
efficacia e ho liquidato quanti salutano con entusiasmo un po’ di sassi
dispersi «ad arte» in un museo come stupidi o conniventi. Devo ammettere che
non è sempre così (per quanto riguarda i sassi). Talvolta l’entusiasmo è
genuino, e genuinamente ludico. Se è vero che la fruizione di un’opera d’arte è
un gioco che coinvolge insieme i sapienti indizi lasciati dall’autore e
l’attivo contributo dello spettatore nel trasformare quegli indizi in un gioco
percettivo, è anche vero che i due elementi coinvolti in questa interazione
possono esserlo in misura molto diversa: esiste anche qui uno spettro di
opzioni, che va da uno spettatore inerte, sedotto suo malgrado, a uno invece
iperdisponibile a raccogliere ogni più remoto, implicito invito – perfino ciò
che non potrebbe essere vissuto come un invito senza tale sua immensa
disponibilità. Socialmente, molte delle persone che si collocano all’estremità
benevola dello spettro sono vittime di una posa, di una moda, di chiacchiere
senza sostanza e senza costrutto. Per noi però, qui, non importa: non stiamo
facendo sociologia ma disegnando uno spazio logico, una struttura concettuale,
quindi è sufficiente che sia possibile un’alternativa meno funesta per doverne
rendere conto. E il conto è presto reso: così come si può giocare con passione
e con gioia, da bambini, con gli oggetti più banali, e impararne fondamentali
lezioni di vita, lo si può fare da grandi con le molte banalità che popolano i
musei d’arte contemporanea. In entrambi i casi, gli oggetti con cui si gioca
sono solo minimamente responsabili dell’emozione e del piacere provati e
dell’apprendimento che ne segue. Non sono essi il principale fattore in gioco:
è lo spettatore (o il bambino) a sobbarcarsi la maggior parte del lavoro.
All’estremo opposto dello spettro, oggetti come la Gioconda hanno un valore
universale in quanto sanno parlare anche a chi non è disposto a impegnarsi
personalmente per dar vita a un dialogo – sanno parlargli anche se resiste,
anche se fa di tutto per convincersi che non gli si stia dicendo nulla. Il tema
che finora è stato trascurato (o peggio) e su cui è bene spendere qualche
parola è il gioco d’azzardo. Un autore che gli attribuisce sovrana
importanza è Caillois, che se ne serve per porre un’ulteriore radicale
distinzione in campo ludico – tra il gioco infantile (e animale) e quello
adulto: I giochi d’azzardo appaiono giochi umani per antonomasia. Gli animali
conoscono i giochi di competizione, d’immaginazione e di vertigine [...]. In
cambio, gli animali, esclusivamente immersi nell’immediato e troppo schiavi dei
loro impulsi, non sono in grado di immaginare una potenza astratta e
insensibile al cui verdetto sottomettersi anticipatamente per gioco e senza
reagire. Attendere passivamente e deliberatamente un pronunciamento del fato,
rischiare su questo una somma per moltiplicarla proporzionalmente al rischio di
perderla, è atteggiamento che esige una possibilità di previsione, di
rappresentazione e di speculazione, di cui può essere capace solo un pensiero
oggettivo e calcolatore. Ed è forse nella misura in cui il bambino è vicino
all’animale che i giochi d’azzardo non hanno per lui l’importanza che ricoprono
per l’adulto. Per il bambino, giocare è agire (p. 35). Buona parte dei giochi
comunemente detti d’azzardo può già essere inclusa nella rete concettuale che
ho esposto. Nel poker, per esempio, sia le carte che mi vengono di volta in
volta offerte dal caso sia gli avversari che affronto (e su cui amplieremo il
discorso nel prossimo capitolo) possono essere visti come condizioni oggettive
del gioco, sue regole né più né meno della particolare natura geometrica di un
cubo o di una palla; e a queste condizioni io esprimerò la mia capacità e
creatività né più né meno che se giocassi a scacchi o a calcio. Sembra rimanere
totalmente esclusa da questo ambito, però, una classe di giochi in cui non si
può manifestare nessuna capacità o creatività, in cui non si può mai migliorare,
mai diventare buoni giocatori, in cui si può solo assistere imbelli al modo in
cui la sorte gioca con noi: il lotto, la roulette, le slots... Nella maggior
parte dei casi chi «partecipa» a tali giochi, ho sostenuto in Giocare per forza
e ripetuto qui, è vittima di un imbroglio, di un asservimento truffaldino delle
sue legittime aspirazioni liberatorie a rituali il cui unico scopo è
l’estorsione di (suo) denaro; il che contrasta con l’esaltazione prometeica,
nobile, perfino mistica dell’azzardo in Caillois e altri. Hanno semplicemente
torto, questi autori? Sarebbe un errore affermarlo, e l’osservazione fatta
sopra ci permette di capire perché. Il gioco del lotto, ho detto nel sesto
capitolo, è molto vicino al grado zero di ludicità; se mantenuto a livelli moderati,
ha l’unico effetto (e senso) di causare una periodica emorragia pecuniaria e
magari saldare alcuni debiti psicologici che una persona ha con sé stessa (o
con altri). Può anche essere praticato, però, a livelli eccessivi, e allora il
suo senso cambia. Allora, su basi del tutto inconsistenti ma con esiti non per
questo meno fatali, una persona può trovarsi alle prese con un gioco che non
accetta di farsi rinchiudere entro limiti precisi, il cui ambito invade tutti i
microcosmi limitrofi e attenta a quella che è considerata la sua vita vera – la
sua sopravvivenza e il suo benessere. Depurato di ogni altro aspetto, qui
il gioco compare nella pura forma di rischio; ed è innegabile che in esistenze
ordinate e ripetitive, consuetudinarie e noiose l’affiorare del rischio sia
vissuto come il richiamo a una vocazione dimenticata, a un impegno tradito con
sé stessi. Chi sperpera le proprie risorse puntando sui numeri del lotto, o
della roulette, o sulle combinazioni di una slot, sta dunque talvolta giocando
– o meglio, direi, formulando una solenne promessa di un gioco a venire. Ma
tutto ciò non riguarda il lotto: il lotto, in quanto tale, non ha un parametro
ludico di valore abbastanza cospicuo da poter essere considerato un gioco, così
come non si può considerare alto un nano. Con la scusa del lotto, il giocatore
sta mettendosi alla prova, rinunciando alla sua sicurezza economica, emotiva e
anche familiare e personale, chiamando in causa tutto quanto per lui appariva
già deciso, già stabilito, in attesa di un rispettoso necrologio. Siccome
questo mettersi alla prova è l’essenza stessa della vita, il fascino di un
simile azzardo è comprensibile; purtuttavia voglio insistere che, senza negare
il fascino, non siamo in presenza di un vero gioco ma (ripeto) della promessa
di un gioco. Ho detto nel quarto capitolo che la semplice trasgressione non
costruisce nulla e che far saltare in aria la propria dimora e incamminarsi
nella notte può essere il preambolo di un nuovo gioco ma non ne costituisce lo
svolgimento. Il puro azzardo va spiegato allo stesso modo: è il ripido crinale
su un precipizio che minaccia di inghiottire tutto quel che siamo e suggerisce
che potremmo essere altro, radicalmente altro. Ma non sarebbe gioco buttarsi
giù per il precipizio e non lo sarebbe rimanere immobili e attoniti sul
crinale, nonostante l’intenso brivido che entrambe le esperienze ci darebbero.
Sarebbe gioco, invece, familiarizzarsi con il crinale o il precipizio e
realizzarvi un inaspettato insediamento, o percorrere con destrezza crescente
il crinale fino alla prossima valle. Non compiacersi del brivido e del rischio,
insomma, o lasciarsene sopraffare, ma integrarli in quell’equilibrio con atti
educativi e costruttivi che Schiller giudicava manifestazione del vero impulso
ludico e della vera umanità. (Un discorso analogo, ma che poco ha a che vedere
con l’azzardo, si potrebbe fare per molti di quanti giocano al lotto con
moderazione; anche loro non giocano al lotto, ma facendo finta di giocare al
lotto partecipano a un gioco sociale costituito da messaggi onirici,
numerologia superstiziosa e magia metropolitana. Un gioco che diventa un
linguaggio per una comunità, e talvolta una sfida per quella comunità
«ufficiale» che è basata su rigorose procedure scientifiche, leggi comprovate e
soprattutto «autorità competenti» sentite come estranee e predatrici. Un
ulteriore esempio, questo, di come sia necessario chiedersi, per ogni caso di
esperienza [presunta] ludica, «A che gioco giochiamo?».) Il fascino e
l’esaltazione mistica dell’azzardo sono spesso legati, in autori quali Caillois
e Huizinga, all’attribuzione al gioco di una natura sacrale; è opportuno quindi
chiarire la mia posizione al riguardo. Sono d’accordo che esista un’analogia
formale tra il gioco e il sacro, in quanto entrambi sono definiti da precise
barriere (regole): «Formalmente la nozione di delimitazione è assolutamente una
e identica per un fine sacro o per un puro gioco» (Homo ludens). E sono
d’accordo che ci sia un’altra analogia fra la presenza dell’azzardo (del
rischio) nel gioco e nel sacro: L’esito del gioco d’azzardo è di natura una
sacra decisione. Lo è ancora laddove un regolamento dice: a parità di voti
decide la sorte. Solo in una fase progredita dell’espressione religiosa, sorge
la nozione che verità e giustizia si manifestano perché un dio guida la caduta
dei dadi o la vittoria nella lotta. Giurisdizione e ordalìe sono radicate
insieme in una pratica di decisione propriamente agonale, ottenuta sia con un
sorteggio sia con una lotta. La lotta per vittoria o perdita è sacra per se
stessa. Quando è animata da concetti formulati di giustizia e di ingiustizia,
allora si eleva nella sfera giuridica, e quando è dominata da concetti positivi
d’una forza divina, allora si eleva nella sfera della fede. Qualità primaria di
tutto questo è però la forma ludica (p. 125). La mia coscienza laica si rifiuta
di andare oltre. Uomini e donne giocano in ogni sfera della loro esistenza; in
particolare, esistono sacerdoti scherzosi e autori come Gilbert Chesterton che
parlano della religione come di una forma suprema di umorismo. Ma esiste anche
un sacro che è oppressione e nevrosi, gerarchia e cieca obbedienza, nel quale
vedo ben poco di ludico; e c’è un gioco che è sberleffo fatto a Dio (pensate
alla morte del Perozzi/Philippe Noiret in Amici miei) e violazione della
barriera o del recinto che ci rinchiudono – sacri o meno che siano. Perché
il legame fra gioco e sacro possa apparire convincente bisogna appunto
insistere sull’azzardo come elemento più autentico del gioco e quindi spingerlo
all’estremo, finché diventi l’Azzardo con la A maiuscola di Abramo o di Pascal.
E l’azzardo così concepito e vissuto ha un effetto paralizzante, che può essere
riscattato solo da un intervento esterno: da un’entità trascendente che ci
conferisca arbitrariamente una grazia. Non voglio negare che la grazia e
l’abbandono a essa ci salvino (anche se, per me laico, è la grazia che l’un
l’altro ci facciamo); ma in questa rarefatta atmosfera oracolare non trovo più
nulla della serena intraprendenza, dello sforzo ingegnoso, del piacere
insolente e, sì, del brivido presto dominato e a sua volta goduto che tessono
per me la trama del gioco. 9. Compagni di gioco Torniamo ancora una volta
alla bimba che gioca in una stanza. Il suo gioco incontra resistenze, ho detto,
che ne definiscono lo sfondo e ne articolano le regole. Nel modo in cui ho
descritto la situazione finora, le resistenze sono offerte da quelli che
comunemente denominiamo oggetti: le pareti, la palla, la spillatrice.
Immaginiamo però ora di introdurvi un altro essere umano: affianchiamo alla
bimba Sara un coetaneo di nome Tommaso e osserviamoli mentre giocano insieme.
In un certo senso, Tommaso e la palla presentano gli stessi problemi. Anche di
Tommaso bisogna tener conto, come della palla. La palla non vuol saperne di
rimanere in equilibrio sul cubo e Tommaso non vuol saperne di dare la palla a
Sara, quando l’ha afferrata dopo l’ennesimo scivolone dal cubo. In entrambi i
casi, questi inconvenienti possono causare violente frustrazioni (nel caso
della palla, come abbiamo visto, Sara potrebbe fare i capricci; con Tommaso
potrebbe litigare) oppure con entrambi si può arrivare (magari dopo una
successione di capricci e litigi) a una pacifica convivenza. Se e quando ci si
arriverà, Tommaso incarnerà un ulteriore insieme di regole cui il gioco deve
adeguarsi, un ulteriore insieme di spigoli esistenziali da scansare con
abilità, manipolandoli come si fa con gli spigoli fisici di una scatola o con
la rotondità della palla. Il comportamento di Tommaso diventerà parte della
struttura che Sara imparerà a riconoscere e sulla quale il suo gioco eserciterà
pressione, traendone lezioni di grande influsso su giochi futuri. (I maschi
sono prepotenti, concluderà per esempio Sara, ma facilmente distratti. Tommaso
stringe tanto forte la palla proprio perché io mostro di volerla per me. Basta
non farci caso, dedicarmi interamente a qualcos’altro, e la lascerà andare.)
Nel quarto capitolo ho citato un passo in cui Piaget giudica impossibile che un
bambino si dia regole da solo. Per il tramite di Émile Durkheim, secondo cui la
religione nasce dalla pressione del gruppo sull’individuo («Il gruppo [...] non
potrebbe imporsi all’individuo senza rivestire l’aureola del sacro e senza
provocare il sentimento dell’obbligo morale», Il giudizio morale nel bambino,
p. 98), questo giudizio lo porta a collegare una volta di più il gioco e il
sacro: La regola collettiva è dapprima qualche cosa di esterno
all’individuo e per conseguenza di sacro, poi a poco a poco si interiorizza ed
appare come il libero prodotto del consenso reciproco e della coscienza
autonoma. Ora, per ciò che riguarda la pratica, è naturale che al rispetto
mistico della legge corrisponda una conoscenza ed un’applicazione ancora
rudimentali del loro contenuto, mentre al rispetto razionale e motivato
corrisponda una conoscenza ed una pratica dettagliate di ogni regola (pp.
22-23). Una volta di più, non sono d’accordo: il bambino, come ho spiegato, può
darsi regole da solo purché queste siano viste come regole con il senno di poi
di chi ricostruisce retrospettivamente il suo sviluppo. Eppure, per una via che
Piaget non approverebbe, anch’io arriverò a concepire una forma di comunità
come condizione, se non proprio necessaria, almeno predominante di ogni gioco,
che per me è quanto dire di ogni gioco regolamentato: non tanto la comunità di
cui parla lui, costituita spesso da figure autoritarie che decretano le regole
(«Dal momento in cui un rituale viene imposto ad un bambino da adulti o da
ragazzi maggiori per i quali egli ha del rispetto [...] oppure [...] da quando
un rituale risulta dalla collaborazione di due bambini, esso acquista per la
coscienza del soggetto un carattere nuovo, che è precisamente quello della
regola», pp. 27-28), quanto piuttosto la comunità del suo teatro interiore.
L’itinerario cui ho appena accennato includerà questo capitolo e il successivo,
e il suo primo passo consiste nel notare che le situazioni descritte finora non
equivalgono a un giocare insieme. L’espressione «Sara gioca con Tommaso», e in
generale «X gioca con Y», può infatti essere intesa in due sensi piuttosto
diversi. Quello che ho descritto è il senso in cui Sara gioca con Tommaso come
gioca con la palla, o un adulto che disponesse di grande potere (e si
compiacesse di averlo, e di darne prova) potrebbe giocare con i suoi simili
come se fossero pedine della dama o birilli del bowling: il «con» in tali casi
introduce un complemento di mezzo. È anche possibile, e auspicabile (vedremo
perché), che il «con» introduca un complemento di compagnia: che Sara giochi
con Tommaso, o un adulto meno squallido di quello immaginato prima giochi con i
suoi simili, nel senso che Tommaso o gli altri adulti siano non elementi o
pezzi ma compagni del gioco. Che cosa succede quando si manifesta questa
seconda possibilità? Per capirlo, stabiliamo che un gioco sia costituito da una
serie di sfide rivolte all’ambiente (inteso sempre come ambiente esistenziale,
non soltanto fisico, quindi inclusivo di abitudini e aspettative), ciascuna
produttrice di una figura possibile ma di solito non realizzata in
quell’ambiente. Il letto è fatto per dormirci sopra e io (con grande fatica) mi
ci infilo sotto; l’interruttore è fatto per tenere la luce accesa o spenta e io
lo manovro in continuazione causando un costante lampeggiare (e, a lungo
andare, fulminando la lampadina); il tavolinetto è fatto per appoggiarci
bicchieri e tazzine e io lo uso come scalino per arrampicarmi sulla credenza.
Quando un gioco è praticato insieme da due o più compagni, quando cioè due o
più persone presenti al gioco vi sono presenti come giocatori, non come pezzi
del gioco (o come spettatori), ciascuno contribuisce ad accrescere il
repertorio di sfide di cui il gioco è costituito. Le sfide anzi si accavallano
le une sulle altre: se Tommaso usa il tavolinetto per arrampicarsi sulla
credenza, Sara ci metterà sopra un paio di grossi libri perché si riesca a
salire più in alto; se Sara s’infila sotto il letto, Tommaso vi trascinerà
anche palle e cubi, e tenterà di replicarvi tutte le evoluzioni che riuscivano
più facili all’aperto. Con tanta inventiva a disposizione, capiterà che qualche
sfida sconvolga le resistenze accettate come regole dai giocatori e cambi la
natura del gioco. D’accordo che la porta è chiusa e le pareti non retrocedono;
ma, guarda un po’, se spingi questa levetta la finestra si apre e tuffandosi
oltre il davanzale si esce in giardino! Ho detto che «costruire figure» è
un’espressione metaforica; talvolta però il gioco costruisce in senso
letterale. Seguiamo uno di questi episodi per un attimo, perché si tratta di un
tipo di costruzione che in seguito acquisterà notevole importanza. Spostiamo
Sara e Tommaso (più grandicelli) su una spiaggia e osserviamoli mentre
edificano un castello di sabbia. L’idea generale è semplice: si scava, con le
mani o con la paletta, e si usa il secchiello pieno di sabbia umida per
innalzare torri o il rastrello per raccogliere sabbia a forma di mura. Se un
solo bambino fosse responsabile dell’operazione, lavorerebbe eccitato per un
po’ e quindi forse rimarrebbe a corto di idee e si fermerebbe, contento di
rimirare il risultato; in due, invece... Uno pensa che con il secchiello si può
raccogliere acqua dal mare e circondare il castello con un fossato; l’altra
s’industria immediatamente a metterci sopra un rametto a mo’ di ponte, e il
primo allora va in cerca di una corda perché il ponte diventi levatoio. Una si
serve di una pietra per rappresentare il portone e l’altro ricopre il palazzo e
le mura di finestre e feritoie, e allora la prima fa sporgere armi dalle
feritoie, puntandole contro il nemico. Ogni nuova idea che l’uno offre cambia
il contesto in cui il gioco si muove, e nel contesto così mutato «viene
naturale» all’altra un’altra idea, che a sua volta cambia il contesto aprendosi
a ulteriori avventure, in una rincorsa ininterrotta di coraggio e creatività.
Un gioco coinvolge un certo numero di oggetti (talvolta puramente mentali, o
ideali), che il gioco usa entro limiti accettati come sue regole, e ha almeno
un soggetto che conduce la manipolazione: ha almeno un giocatore. Gli oggetti
possono essere inanimati, animati o anche umani; il soggetto sembra dover
essere animato (cani e gatti giocano, con gomitoli di filo, con topi o con i
loro padroni; al termine del libro suggerirò – già vi avevo accennato – che la
restrizione a soggetti animati, e forse la distinzione stessa fra enti animati
e non, sia da mettere in discussione). Un gioco che abbia un solo soggetto
sarebbe un solitario, e nel prossimo capitolo mostrerò come gli autentici
solitari siano rarissime eccezioni; ora m’interessa elaborare un altro punto,
illustrato dalla discussione condotta qui sopra. Un gioco che non sia un
solitario risponde infinitamente meglio alla sua natura di gioco, così come due
specchi paralleli dànno luogo a infinite riflessioni, perché moltiplica le
opportunità di trasgressione ed esplorazione, di apprendimento e relativo
piacere, permettendo a ognuno dei partecipanti di trarre spunto dal contributo
degli altri per mosse più libere e devianti di quanto lui mai sarebbe riuscito
a scoprire da solo. C’è però un risvolto meno edificante della faccenda: se è
vero che un gioco giocato insieme è più un gioco di uno giocato in solitudine
allora è anche vero che un gioco giocato insieme è più pericoloso di un
solitario. Quando prima ho parlato dei due bimbi che, riunendo le loro forze,
riescono a spalancare la finestra, molti avranno rabbrividito e io mi sono
affrettato a rassicurarli facendo capire che si trattava di una finestra al
pianterreno. Ma il problema era solo rimandato, non risolto, perché è chiaro
che i bambini di un altro esempio (come alcuni bambini reali, diciamo il figlio
di Eric Clapton) potrebbero fare la stessa scoperta ai piani alti di un
grattacielo, con esiti disastrosi. Il rischio continua, e anzi si accentua, fra
gli adulti, soprattutto fra i giovani adulti, che sovente si trovano spronati
dall’essere in gruppo a mosse devianti che ne mettono a repentaglio
l’incolumità (o la salute altrui) – e che non compirebbero isolati. Ogni
genitore avrà considerato eventualità del genere e molti, purtroppo, hanno
dovuto affrontare non il timore di un’astratta considerazione ma il dolore di
una concreta tragedia, non potendo capacitarsi di come il loro «bravo ragazzo»
(o brava ragazza) avesse potuto lasciarsi trascinare dalle «cattive compagnie»
a comportamenti distruttivi o criminali, e per lui (o lei) del tutto anomali,
addirittura irriconoscibili come suoi. Non intendo certo negare l’intensità o
la validità di tali preoccupazioni e sofferenze (sono un genitore anch’io), ma
insisto sulle tre tesi seguenti: (a) Le varie caratteristiche del gioco ne sono
componenti organiche e vitali, quindi il gioco va preso (o rifiutato) in
blocco, tutto insieme. Esplorazione e apprendimento non possono essere
disgiunti da violazione e rischio (per quanto il rischio possa essere ridotto
giocando «per procura»). (b) Il gioco è prezioso per la nostra forma di vita
(direi anzi per la vita in quanto tale), ne è una componente irrinunciabile:
meno gioco vuol dire meno umanità. (c) Il gioco è tanto più gioco se giocato
insieme, quindi (in ossequio alla formula aristotelica che fa dell’uomo un
animale sociale) siamo tanto più umani quanto più giochiamo con altri (dove il
«con» introduce un complemento di compagnia). Come gestire allora i pericoli e
i timori di cui ho detto? La mia risposta si applica in generale a tutti i
rischi in cui il gioco (anche solitario) incorre e a tutti i mali che può
causare: per proteggersene è opportuno non meno ma più gioco, e non meno ma più
gioco fatto insieme. Un ragazzo che sia stato troppo a lungo «bravo» e poco
avvezzo alla compagnia e all’esempio di altri sarà facilmente travolto dalla
prima circostanza in cui si ritrovi in un gruppo che agisca in modo
trasgressivo ed eccitante: per prepararlo a vivere questa circostanza con un minimo
di ragionevolezza nulla funziona meglio di una socializzazione ludica precoce e
continua, che lo metta in grado di riconoscere gli straordinari vantaggi ma
anche le trappole di una reazione a catena che può tanto riscaldare le nostre
emozioni e il nostro ingegno quanto bruciarli. L’unica cosa che mi ha dato
fiducia, quando ho pensato ai miei figli in tali circostanze (e in mia assenza)
è stato il fatto di sapere che in circostanze analoghe (pur se meno estreme)
c’erano già stati, in tempi in cui potevo ancora evitarne le conseguenze più
gravi. Il gioco dunque, e in particolare il gioco in compagnia, è, direbbe
Huizinga, «innegabile» (p. 20). Stabilita questa tesi, è il momento di
affrontare un aspetto del gioco che finora ho tralasciato e che per molti ne è
invece (come per altri l’azzardo) caratteristica essenziale: il fatto che esso
si presenti come competizione, come scontro, come lotta. In Giocare per forza
ho parlato di teoria dei giochi, come uno dei vari modi in cui il gioco è
violato e la sua natura distorta. La teoria dei giochi ha avuto origine
definendo «gioco» un’attività competitiva in cui si affrontano avversari con
l’obiettivo di batterli – di vincere quel che loro perdono (la teoria lo chiama
un «gioco a somma zero») – e su questa base ha conosciuto fortunate (e
sciagurate) applicazioni in politica e in economia. (Solo più recentemente ha
cominciato a studiare anche i giochi cooperativi, in cui i giocatori vincono
insieme.) In modo analogo, Piaget afferma che i giochi regolamentati (i quali,
come abbiamo visto, non esauriscono per lui tutti i giochi) sono
necessariamente competitivi e hanno necessariamente come obiettivo la sconfitta
di uno o più avversari: i giochi di regole sono giochi di combinazioni
sensorio-motrici [...] o intellettuali [...] con competizione degli individui
(senza di che la regola sarebbe inutile) e regolati sia da un codice trasmesso
di generazione in generazione sia da accordi momentanei (La formazione del
simbolo nel bambino, p. 209; corsivo aggiunto). il gioco di regole [...] è
ancora soddisfazione sensorio-motrice o intellettuale e, inoltre, tende alla
vittoria dell’individuo sugli altri (p. 247). È un sintomo rivelatore del
diverso atteggiamento espresso dalla mia teoria che le nozioni di avversario,
di competizione (o combattimento) e di vittoria non vi abbiano una dignità
autonoma o un senso unitario: in esse s’incontra ambiguamente una pluralità di
esperienze distinte, fra cui è bene non fare confusione. Per capirci,
supponiamo che io giochi a tennis con qualcuno. Posso giocarci come con uno
spigolo o una parete: dopo un certo numero di tentativi ed errori, capirò come
avere la meglio e ripeterò religiosamente (a proposito del sacro, e di quanto
spesso non sia ludico) le stesse mosse – quelle che hanno dimostrato di
«funzionare». Smetterò di esplorare, di trasgredire, di correre rischi e quindi
di imparare; il mio non sarà più un gioco. Posso anche, però, entrare in un
dialogo con l’altro giocatore in cui ciascuno inciti l’altro a mosse ignote e
avventate, per vedere che cosa càpita, e prima o poi l’ignoto diventerà
familiare e ciò che era avventato verrà eseguito con maestria; starò allora
giocando con un compagno e traendone tutta la ricchezza di stimoli, l’inventiva
e la soddisfazione che sempre derivano dal giocare insieme. Oppure posso fare
l’una o l’altra cosa per ottenere poi (c’è di solito uno scarto temporale, in
tal caso: il gioco è stato piegato alla logica di una prudente e oculata
gestione delle proprie risorse) un premio in denaro o una fama di ottimo
tennista; di conseguenza, se pure esploro e mi metto alla prova, corro rischi e
imparo, quello non è un gioco perché ha un fine strumentale ed esterno (oppure
è un gioco solo in quanto riesce ad affrancarsi da questo fine esterno e a
liberarsi, magari inconsapevolmente, dalla logica della prudenza). La
percezione del mio «avversario», in questi diversi casi, sarà molto diversa, e
sarà molto diverso che cosa voglia dire «combattere» o «vincere». Nel primo
caso si combatterà e si vincerà letteralmente: si affronterà un altro e lo si
ridurrà in proprio potere, perpetuando i sinistri riti della violenza (più o
meno simbolica). Nel secondo caso si combatterà per fare un passo avanti nel
gioco e si vincerà se si riuscirà a farlo; potrei dire che si combatterà con (e
si vincerà su) sé stessi, salvo che, come appunto spiegherò nel prossimo
capitolo, si è raramente soli quando si gioca, quindi preferisco dire che i due
giocatori combatteranno e vinceranno insieme superando lo stadio che il gioco
aveva prima raggiunto per ciascuno di loro. Nel terzo caso questa opportunità
di crescita, e il contributo che le dànno la presenza e l’azione del compagno,
saranno a loro volta asserviti alla volgarità e alla miseria dell’esercizio del
potere sull’altro – che può non essere il compagno stesso, il quale può
fungere invece da complice (da allenatore, per esempio). Non c’è nulla di
oggettivo o di neutrale, in conclusione, nel chiedersi chi sia il mio
avversario in un gioco o chi alla fine abbia vinto. Se queste domande sono
intese nel modo più comune, e sancito dalla più tradizionale teoria dei giochi,
ciò che ne traspare è un’istanza maligna che nega al gioco la sua libertà, il
suo abbandono e anche il suo specifico piacere (che non è quello di abbattere e
umiliare un altro giocatore). Dobbiamo cogliere l’ambiguità e – qui davvero, e
nel senso più ovvio – combattere perché il gioco non ne esca con le ossa
rotte. 10. Azione! Il gioco che più appassiona i bambini è quello di
impersonare chi li circonda, soprattutto chi li incuriosisce o li attrae (in
senso positivo o negativo). Talvolta mimano attività in cui hanno visto
occupati i protagonisti del loro universo familiare – genitori, zii, fratelli
maggiori. Li vediamo allora affaccendarsi intorno a finti fornelli, sgridare una
bambola che fa le bizze, distendersi su una sedia abbandonati alle cure di un
«parrucchiere»; la mia figlia più piccola, quando aveva da poco imparato a
parlare, riempiva quaderni di geroglifici incomprensibili e, a chi le chiedesse
che cosa stava facendo, rispondeva con sussiego «Faccio i compiti». Talaltra
ricalcano con imbarazzante fedeltà gli atteggiamenti, le espressioni, i
manierismi di un altro: li vedi corrugare la fronte, spingere avanti il petto,
usare parole e frasi idiosincratiche in un modo così sfacciato ed estremo
(proprio per la sua innocenza) che non può non sembrare caricaturale e invitare
al sorriso (ma vedi più avanti). Il tutto culmina in manifestazioni molto
appariscenti: le mascherate con lenzuola e tovaglie davanti allo specchio, le
facce dipinte con colori di guerra, le vite alternative vissute con amici,
parenti e spesso figli immaginari. Le feste commerciali rivolte a pratiche
analoghe e destinate a rinvigorire periodi di stanca del mercato – il vecchio
carnevale, il più recente Halloween – non sono che citazioni esauste di tanta
passione, sensibilità e allegria. Gli adulti non sono da meno. L’umanità, ho
sostenuto altrove, non è che una forma superiore (cioè più raffinata, più
articolata) di scimmiottamento: tutti riceviamo frammenti di personalità da
amici del cuore, sconosciuti intravisti una volta sul tram, artisti di successo
o anche individui odiosi e ributtanti ma tali da imporsi alla nostra
attenzione, sia pure per un minuto. E niente ci dà più piacere dell’inscenarli
in una pantomima: complici una buona bevuta o una situazione di alto tenore
emotivo, imitiamo con gusto, con abilità, con estrema attenzione ai dettagli.
Il momento migliore di Novak Djokovic, secondo me, non è stato uno dei suoi
servizi fulminanti o dei suoi incredibili recuperi difensivi, e neppure uno dei
tanti trionfi nello Slam o nella Coppa Davis: si è verificato in uno dei primi
turni di Flushing Meadows, qualche anno fa, quando ancora aveva vinto
poco e a un tratto, prima di una partita, dilettò il pubblico copiando con
sorprendente precisione i tic in fase di battuta di Rafael Nadal e Maria
Sharapova. Il piacere che ne provarono gli spettatori era analogo a quello di
cui ho parlato nel settimo capitolo, esaminando il rapporto fra un artista e il
suo pubblico: l’artista crea e noi ne riconosciamo l’azione perché abbiamo in
noi la capacità (magari latente) di vedere o ascoltare quel che lui vede o
ascolta (e quindi mostra); l’attore «entra» in un personaggio e noi ne godiamo
perché comprendiamo che cosa voglia dire entrarci. Nell’antica Atene la
naturale teatralità dell’essere umano era non solo praticata e apprezzata: in
un mondo privo di scritture sacre in cui sentenze e parabole erano raccolte dai
testi poetici, drammaturghi e commediografi dominavano la vita culturale. Da
ciò Platone si dissocia con severità nella Repubblica, bandendo ogni
rappresentazione teatrale dal suo Stato perfetto. Anzi, non proprio ogni
rappresentazione: il filosofo ha una sua teoria in proposito, e ragionarne ci
aiuterà a proseguire nel nostro cammino. La teoria si compone di due tesi
principali, una descrittiva e una normativa. In primo luogo, Platone sostiene
che ogni recita ha delle conseguenze sul carattere di un individuo: assumere un
ruolo significa identificarsi, per quanto parzialmente e temporaneamente, con
quel ruolo, e l’identificazione lascerà tracce nella nostra identità – la
contaminerà con le caratteristiche del personaggio di cui ci siamo presi
carico. Da allora in avanti, volenti o nolenti, non saremo più soltanto noi stessi:
avremo incorporato un estraneo che continuerà ad abitarci, anche se forse in
sordina e in disparte. Questo estraneo potrebbe essere un criminale o un
mostro: pensiamo a Bruno Ganz che recita la parte di Adolf Hitler nel film La
caduta, oppure a Medea o Riccardo III. Ma potrebbe essere Gandhi interpretato
da Ben Kingsley, o Atticus Finch interpretato da Gregory Peck, o semplicemente
una brava persona come il Mr. Smith di James Stewart che va a Washington a dire
la sua. Qualcuno vorrebbe fare delle differenze fra questi casi: può essere
pericoloso imitare un malvagio, direbbe, ma non c’è nulla di preoccupante nel
farlo con individui normali, o addirittura encomiabili. Qui interviene la
seconda tesi di Platone, quella normativa, che stigmatizza non solo la
cattiveria ma ogni forma di diversità: ciascuno dei cittadini della repubblica
è «tagliato» per uno specifico compito, cui deve assolvere con la pazienza di
una formichina, e qualunque attività possa distrarlo da tanta devozione va
rifuggita come la peste. Bando a ogni passione estranea, dunque; bando a ogni
musica ritmata e suggestiva; e bando soprattutto all’infezione che il contatto
con ogni altra indole, con ogni altro repertorio di mosse e di abitudini
potrebbe causare in un individuo così letteralmente «tutto d’un pezzo». Se pure
si trovasse su un palco, davanti a un pubblico, il nostro eroe non dovrebbe che
recitare monologicamente, monodicamente e (diciamolo!) monotonamente sé stesso,
per confermare e rafforzare quella coerenza inesorabile del suo io che sarebbe
invece attenuata e imbastardita dall’affiorare di impulsi e gesti alieni (e
queste sono le uniche rappresentazioni teatrali ammesse da Platone nella sua
repubblica). Ho già detto che in questo libro eviterò perlopiù i discorsi
normativi. Sono in totale disaccordo con i valori enunciati da Platone, ma
caliamoci sopra un velo e limitiamoci a una considerazione. La repubblica
ideale sarà forse di casa nel mondo della realtà più autentica, quella
illuminata dal sole che i prigionieri della caverna non vedono; nella caverna,
però (dove i prigionieri, varrà la pena di notare, sono continuamente testimoni
di uno spettacolo, anzi di uno spettacolo fatto di ombre, un vero e proprio
antesignano del cinema), domina non quella realtà, con tanto di noiosa
conformità alle proprie tendenze e funzioni e «sano» orrore per ogni tentazione
ad allargarne l’ambito, ma invece l’«apparenza» difettosa e biasimevole di cui
Platone ci ha appena dato una brillante descrizione. Ciascuno di noi (nel mondo
terreno) non fa che scimmiottare e scopiazzare il suo prossimo, e l’operazione
(Platone insegna) non è innocua: nel compierla, ciascuno di noi diventa un po’
il suo prossimo, lo incarna, fa del suo corpo un palcoscenico su cui l’altro
può giocare il suo ruolo. È una delicata questione metafisica se, quando un
attore recita un personaggio, faccia appello a qualcosa che gli appartiene o si
adegui a un modello esterno; anche a tale riguardo ho le mie idee e le passerò
qui sotto silenzio. Perché in ogni caso la pratica di un attore e di tutti noi
in quanto attori, in quanto osservatori e imitatori della molteplicità, umana e
non, che abbiamo intorno, è sempre la stessa: che il germe di un personaggio ci
ingravidi a sorpresa con una sua forma che possiamo solo accogliere passivamente,
come avrebbe detto Pirandello, o giaccia invece sepolto negli abissi della
nostra psiche, come avrebbe detto Stanislavskij, l’unico modo per far crescere
tale germe, per attualizzarne la possibilità, per farlo venire al mondo,
consiste nel prestare attenzione a come si è sviluppato ed è maturato in altri,
nell’emulare questi altri passo passo, nel rifletterne movenze ed espressioni –
forse inconsapevolmente ma efficacemente. E magari facendo loro violenza,
perché riduciamo la loro complessità a un ritratto in filigrana, a una singola
voce che arricchisce il nostro coro, o perché perdiamo di vista il loro
significato schiacciandolo su uno schema puramente motorio. Come farebbe un
bambino: il bambino che rimane dentro di noi e lì non cessa di godere del suo
gioco più intenso e appassionante. (Un gioco che, sia detto fra parentesi,
spesso finisce per indispettire quel che c’è di più platonico negli adulti:
quando un bambino fa il verso a qualcuno, è facile passare dal divertimento e
dalla tenerezza all’irritazione e al rimprovero.) La recente scoperta dei
neuroni specchio ha dato dignità scientifica a questa intuizione: gli esseri
umani si riflettono l’uno nell’altro e si capiscono perché vivono sia pur
vicariamente, sia pure in modo traslato le medesime esperienze. Io so quel che
fai perché mentre lo fai in certa misura (come preparazione all’atto, non come
atto vero e proprio, e comunque in senso appunto solo motorio) lo faccio
anch’io: mi atteggio e mi dispongo come vedo fare a te, e con tali atteggiamenti
e disposizioni sono in grado di seguirti nel tuo percorso. La prossima volta
forse, in tua assenza, saprò inoltrarmici da solo. Incontriamo così di nuovo la
biologia e di nuovo stupiamo dell’avvedutezza con cui un piacere tanto vivo è
associato a una qualità di grande importanza evolutiva. L’essere umano (ci
ricorda ancora Aristotele) è un animale sociale: non si realizza, non diventa
quel che dovrebbe essere se non in comunità con altri esseri umani, traendone
esempio e stimolo per foggiare il suo comportamento. La microfisica
dell’umanità, dunque, l’atto elementare che, costantemente ripetuto e
ricombinato in mille forme con sé stesso, ci rende umani, è il modesto miracolo
dell’imitazione di un esempio. Di alcuni di questi atti saremo intimamente consapevoli:
guarderemo ai loro archetipi con venerazione e sentiremo un profondo impegno
nei loro confronti; ne riceveremo ispirazione e indimenticabili modelli di vita
e di saggezza. Ma casi tanto sublimi non avrebbero luogo (né lo avrebbero le
mode che con stanca regolarità uniformano un’intera generazione a uno
stereotipo) senza l’umile sottobosco del rispecchiamento quotidiano: di quegli
impercettibili aggrottamenti di sopracciglia, torsioni del naso, accenti
peregrini con cui ci riscopriamo bambini impertinenti. Quel nostro aspetto così
serio e edificante ci è possibile perché da piccoli abbiamo giocato e da grandi
abbiamo continuato, spesso nostro malgrado, a giocare, a impersonarci l’un
l’altro. A impersonare anche i malvagi, perché anche da loro c’è da apprendere,
fosse solo per rimanerne alla larga: nel dramma della vita, insegna Plotino,
servono anche i cattivi caratteri, per dare la massima completezza all’insieme.
C’è di più. Quello dell’imitazione non è solo uno dei tanti giochi che,
inaugurati con aspetto dimesso nell’infanzia, sanno crescere con l’età fino
a raggiungere splendide vette. È la base che sottende tutti i giochi, il
materiale di cui ogni altro gioco si nutre. Per capirlo, torniamo sui nostri
passi e riprendiamo in esame un contrasto che avevo segnalato nel capitolo
precedente (suggerendo che potesse risultare poco significativo): quello tra
giochi solitari e giochi fatti in compagnia. Chiediamoci: esistono davvero, i
solitari? Tanto per cominciare, un bambino non giocherebbe affatto se non fosse
coinvolto in un ambiente emotivo in cui si sente (comunque stiano concretamente
le cose) in compagnia di qualcuno, sotto gli occhi (benevoli) di qualcuno. «Il
“bambino in carenza”» dice Winnicott «è notoriamente irrequieto ed incapace di
giocare» (p. 162). Questo perché «il gioco implica fiducia e appartiene allo
spazio potenziale tra (quelli che erano in origine) il bambino e la figura
materna, con il bambino in uno stato di dipendenza quasi assoluta e la funzione
adattativa della figura materna presa dal bambino per scontata» (p. 90;
traduzione modificata). In termini epigrammatici, «il bambino è solo soltanto
in presenza di qualcuno» (p. 154). Che dire allora dell’adulto? Osserviamo una
situazione in cui io stesso sono occupato in un gioco senza altri partecipanti
o testimoni, magari in uno di quei giochi di carte che si chiamano proprio
«solitari», e poniamoci riguardo a questo particolare episodio la stessa
domanda formulata sopra: sono davvero solo, mentre gioco? Posso immaginare
circostanze in cui la risposta sia «Sì», ma si tratta di circostanze aberranti,
eccezionali. Se giocassi automaticamente, pensando ad altro, potrebbe capitarmi
di fare una mossa a caso e poi, ritornato improvvisamente in me stesso,
rendermi conto che la mossa è vantaggiosa e acquisirla come strategia
consapevole, perfino abituale. Oppure la casualità potrebbe essere frutto di
disperazione: le ho provate tutte e niente funziona, quindi provo una mossa
assurda, che assurdamente funziona. Circostanze del genere non sono da escludere:
anche un comportamento individuale obbedisce alle leggi dell’evoluzione, dunque
non è escluso che in esso si verifichino mutazioni stocastiche. Ma non è così
che il mio comportamento si evolve nella maggior parte dei casi. Quasi sempre
mentre gioco «da solo», prima di fare una mossa, io esploro più o meno
sistematicamente e consciamente una serie di alternative, e ne traccio almeno
per un po’ le conseguenze, cioè mi colloco, colloco svariati «me stesso», in un
certo numero di mondi possibili – ciascuno contraddistinto da una particolare
mossa – e confrontando fra loro queste diverse eventualità decido infine quale
sia la mossa da fare, o il mondo possibile da abitare davvero. I vari me stesso
coinvolti nel processo di deliberazione appena descritto avranno caratteri
diversi: qualcuno sarà più audace e qualcun altro più cauto, ci sarà chi
ama le carte rosse e chi le nere, chi non si dà pace se non saltano fuori
presto i re e chi è disposto a lasciarli nel mazzo fino all’ultimo; e a loro
volta tutti questi diversi caratteri li avrò mutuati, in generale, da persone
che ho incontrato, da cui ho tratto lezioni e le cui lezioni adatto alla
situazione in cui mi trovo, selezionando quelle che mi sembrano più opportune.
Insomma, se conduco il gioco in quel modo specifico è perché altri, le cui
mosse e strategie ho incorporato, stanno giocando con me (complemento di
compagnia) e aiutandomi a vedere la situazione in tanti modi diversi – a
metterla appunto in gioco. La morale di questo discorso è che gli autentici
solitari sono, come già accennavo, rarissimi. Succede assai raramente che
quello spostamento di prospettiva, quell’esplorazione di terreni non altrimenti
battuti, quella violazione di quanto è noto e consueto che costituiscono il
gioco mi arrivino dal nulla, non abbiano a fondamento che un mio cieco
arbitrio. Quel che succede più di frequente, invece, è che gli apparenti
solitari (e le apparenti «idee originali» con cui dò un contributo «creativo» a
un gioco fatto con altri) siano giochi fatti in compagnia di persone
fisicamente assenti ma ben presenti nella mia pratica. E come ottengono la loro
presenza tali persone assenti? Ho usato la parola «incorporato» poco fa,
applicando la stessa metafora di quando prima ho parlato del fare del nostro
«corpo un palcoscenico su cui l’altro può giocare il suo ruolo» (e prima ancora
ho espresso il rifiuto platonico di questa forma di metabolizzazione del nostro
prossimo): la presenza degli assenti si ottiene imitandoli – scimmiottandoli
oppure atteggiandosi e disponendosi come loro secondo il modello dei neuroni
specchio. Fatta salva la sporadica occorrenza di mosse devianti e ludiche che
emergano dal puro caso, l’imitazione è la madre di tutti i giochi: ogni altro
gioco si svolge su una scena che il gioco dell’imitazione ha popolato di
personaggi e storie. Ho sempre trovato affascinante il fatto che la battuta che
dà inizio a ogni ripresa cinematografica sia «Azione!». A prima vista, la
battuta non ha senso: quel che la segue non è un’azione; al massimo la rappresenta;
coloro che vi «agiscono» non stanno facendo quel che pretendono di fare, e
tutti lo sanno – loro stessi, il regista, il pubblico. Perché «Azione!»,
allora? Ci saranno senz’altro motivi contingenti che hanno dato origine alla
battuta, ma non m’interessano; m’interessa invece che sia rimasta, perché se è
rimasta il motivo è, ritengo, che c’è in essa una profonda, illuminante
giustizia. Nella rivoluzione concettuale proposta nel quinto e sesto capitolo
la vita umana era intesa come un insieme di giochi più o meno regolamentati,
più o meno vincolati a parametri fissi, e per converso più o meno
espressione di libertà; il gioco era la norma e le attività solitamente
giudicate serie erano giochi ristretti e limitati. Qui possiamo arrivare alla
medesima radicale costellazione di idee per una strada diversa (in un
labirinto, strade diverse ci portano spesso a un’identica meta). Che cos’è
un’azione? È corsa sul posto, routine, acquiescenza a ogni abitudine e
aspettativa? È ripetizione del già agito? Forse, ma solo nel senso della
straordinaria intuizione kierkegaardiana per cui l’unica vera ripetizione
sarebbe una novità, e le stesse cose non sono mai le stesse cose. Nel comune
senso della parola, invece, nella comune ideologia che informa il senso della
parola, una ripetizione non è un’azione. Il mio computer non agisce quando
applica alla lettera (ripetutamente) le istruzioni che gli ho dato: tutto quel
che c’era da fare l’hanno fatto le istruzioni, il computer non «fa» che
confermarle. Solo una mossa che cambia qualcosa, che stupisce, che scombina le
carte è un’azione, solo allora siamo attivi. Quindi solo il parametro ludico
del nostro comportamento lo costituisce come azione, nella misura in cui si
manifesta. Solo il gioco è azione. Ma è nella teatralità, ho detto, che il
gioco trova il suo humus, il terreno fertile sul quale crescere, e una
produzione cinematografica ha il pregio di mostrarci questa teatralità ridotta
a scene elementari, a quella che ho chiamato la microfisica dell’umanità, il
modesto miracolo dell’imitazione di un esempio. Niente più di tale costante e
ripetuto (!) miracolo merita di essere annunciato con «Azione!». 11.
Giochi di parole A questo punto del nostro percorso ci troviamo davanti a un
abisso, non meno impervio e minaccioso di quello che nel canto XVII
dell’Inferno separa Dante da Malebolge, e che il poeta e la sua guida riescono
a superare solo aggrappandosi a Gerione, mostruosa e malevola bestia. Abbiamo
compiuto un’accurata perlustrazione di tutta l’ampia e variegata area dei giochi
fisici, quelli che coinvolgono i nostri organi e sensi corporei e ci permettono
di percepire altri oggetti nello spazio e di interagire con essi. Abbiamo
scoperto nel gioco di una bimba elementi con un ruolo identico a quello delle
regole del calcio; abbiamo esplorato il gioco fatto insieme, nello stesso modo,
da bambini e da adulti; abbiamo perfino catturato nella nostra rete le arti
figurative, plastiche e musicali come giochi sensoriali. Rimane però il fatto,
sembra, che il nostro corpo non esaurisce il nostro essere: che quest’ultimo
contiene anche, molti direbbero, componenti spirituali che non occupano spazio,
che palesano anzi una radicale alterità nei confronti di tutto ciò che occupa
spazio. A una di tali componenti ho accennato nel secondo capitolo, quando ho
paragonato il modo in cui la bimba apprende qualcosa dal suo gioco al procedere
della scienza. Chiaramente quello della scienza è un procedere metaforico, un
metaforico «inoltrarsi in un terreno ignoto»: la scienza non si muove (per
quanto gli scienziati lo facciano) e non può letteralmente procedere o
inoltrarsi. Lo stesso vale per la poesia, la filosofia e tutte le altre
discipline di natura verbale o mentale; se pure riuscissimo a dimostrare che
queste discipline hanno un carattere ludico, come potrebbe esserci più di
un’analogia fra il loro carattere ludico e quello, diciamo, del tennis? Come
potrei continuare a insistere che il tennis e il «gioco» dell’Etica spinoziana
sono (sia pur dialetticamente) la stessa cosa? Qui sono in ballo (in gioco) due
cose diverse, ci ha insegnato Cartesio: la nostra anima è una cosa distinta dal
nostro corpo, dunque gioca ad altri giochi. Il meglio che io possa fare, si
concluderà, è trascurare questa differenza ed evidenziare alcuni tratti che
tali diversi giochi hanno in comune: tornare cioè precipitosamente a una
visione analitica del gioco che lo riduca a un’essenza astratta e abbandoni al
suo destino tutta la zavorra – in particolare la zavorra fisica – che
finora mi sono trascinato dietro. Non sono d’accordo. Ai giochi verbali e
mentali voglio arrivare come Dante arriva in Malebolge, con tutto il mio corpo
e ancora vivo (cioè giocoso), non facendomi sostituire da un ectoplasma. E, se
ciò cui intendo aggrapparmi per eseguire questo salto mortale non è una bestia
mostruosa, è però un’inversione che qualcuno giudicherà altrettanto mostruosa
nell’ordine logico in cui solitamente (e ingannevolmente) vengono disposti i
termini della questione. Qui sopra ho accennato un po’ di corsa a «discipline
di natura verbale o mentale»; ora però è bene rendersi conto che verbale non è
lo stesso che mentale – uno si riferisce a parole e l’altro a idee o concetti –
quindi se verbale viene associato a mentale si tratta d’intendersi su come
funziona l’associazione. Più precisamente, si tratta di decidere se verbale
vada spiegato partendo da mentale, cioè mentale sia la base, il fondamento e
verbale quel che gli si associa, che su tale fondamento si regge, o se invece
valga l’inverso. Chi accetti la radicale distinzione fra anima e corpo
sceglierà il primo corno del dilemma. Per esempio, un filosofo del linguaggio
come Geach (che, non a caso, ha scritto anche su Cartesio) ci dirà che, se pure
una scimmia o il vento nel deserto emettessero un suono del tutto
indistinguibile dalla parola «albero», quella non sarebbe un’occorrenza della
parola «albero» perché ciò che rende «albero» una parola non è il suo suono ma
il suo significato, e solo una mente (che, presumibilmente, né la scimmia né il
vento hanno) ha accesso a quelle cose astratte, ideali, non spaziali,
spirituali insomma, che sono i significati. Quasi un secolo prima di Geach, il
fondatore della linguistica contemporanea Ferdinand de Saussure aveva
addirittura stabilito che il rapporto di significazione valesse fra due oggetti
mentali – la rappresentazione mentale del suono «albero» (non il suono stesso)
e la rappresentazione mentale di un albero – trasformando di fatto la
linguistica in una branca della psicologia e il linguaggio in qualcosa che
compete solo a enti che abbiano una psiche (un’anima, appunto) e solo in quanto
tali enti esercitino le loro funzioni psichiche (non in quanto abbiano un
corpo). La drastica scissione che cartesianamente attraversa ciascuno di noi
viene così esaltata a livello cosmico: tutto l’essere, non solo il mio, è
radicalmente diviso fra uno spirito che parla perché è consapevole del
significato di quel che dice e una natura che è irreparabilmente muta – anche
se emette suoni, e quale che sia la ricchezza e complessità di tali suoni, non
vuole dire nulla. Se in principio era il Verbo, non si trattava del Verbo in
quanto lo sentono le mie orecchie, ma in quanto lo capisce la mia mente. Io
scelgo la direzione inversa: è la mente a reggersi sul linguaggio e non c’è
differenza sostanziale, sebbene certo ci siano molte differenze specifiche, tra
il linguaggio di un essere umano e quello di una scimmia o del vento. Ci vorrà
una buona dose di testardaggine per rimanere attaccati a questa mostruosità, ma
confido che facendolo sarò in grado di superare il baratro che incombe e
traghettare il gioco verso sublimi creazioni spirituali senza perderne per
strada la fisicità. Nel resto di questo capitolo mi occuperò dunque di giochi
verbali e nel prossimo di quelli mentali. Cominciamo definendo con esattezza il
problema. La teoria tradizionale del linguaggio, cui io mi oppongo e di cui
Geach e de Saussure sono autorevoli rappresentanti, afferma quanto segue: Il
linguaggio è un mezzo di comunicazione fra menti. Quando io parlo con un
interlocutore A, ho un certo contenuto B (un’idea, un desiderio, un giudizio)
nella mia mente, lo codifico in un linguaggio che suppongo A conosca ed emetto
dei suoni che in quel linguaggio significano B; A recepisce i suoni, li
decodifica e acquisisce il contenuto B, che d’ora in poi avremo in comune. La
comunicazione ha avuto successo e il linguaggio ne è stato prezioso ma in fondo
inessenziale strumento. Se io so che sono le cinque meno un quarto e ti dico
«Sono le cinque meno un quarto», anche tu verrai a sapere che sono le cinque
meno un quarto; ma è un peccato che per informarti di che ora sia io debba
scegliere un percorso così tortuoso. Sarebbe tanto più semplice se tu potessi
leggere nella mia mente, se la comunicazione potesse avvenire per via
telepatica. C’è da stupirsi che per una volta l’evoluzione si sia impegolata in
un rituale maldestro e aperto a ogni sorta di inconvenienti (cattiva pronuncia
da parte mia, cattiva ricezione da parte tua, insufficiente competenza
linguistica, rumori di fondo...). Come combatterò questa teoria? Dimostrandola
sbagliata? Solo un ingenuo si porrebbe un simile obiettivo: introducendo
opportune complicazioni, una teoria può essere protetta da dati empirici
«recalcitranti» o sue inerenti assurdità. Il modello geocentrico afferma che
Mercurio e Venere girano intorno alla Terra ma noi li vediamo sempre molto
vicini al Sole? Niente paura: basta aggiungere un certo numero di epicicli e i
conti tornano. Il mondo è sovrappopolato e io rifiuto categoricamente ogni
forma di controllo delle nascite? Perché dovrei preoccuparmi? Forse che un Dio
onnipotente, dopo averci detto «Crescete e moltiplicatevi», non saprà salvare
capra e cavoli? Una teoria avversa non si affronta cercando di confutarla ma
costruendole accanto un’altra teoria più plausibile, più potente, più elegante
e lasciando che sia il pubblico a decidere. Nella peggiore delle ipotesi, se il
pubblico rimanesse fedele alla concorrenza, avremmo almeno ampliato il numero
delle opzioni disponibili: avremmo allargato il gioco. Albert Mehrabian,
professore di psicologia alla Ucla, afferma che, quando una persona ci comunica
i suoi sentimenti o stati d’animo, solo il 7% della fiducia che ci ispira,
quindi dell’efficacia della comunicazione, dipende dalle parole che usa, mentre
il 38% dipende dal suo tono e il 55% dal suo comportamento non verbale, o body
language – il che spiegherebbe fra l’altro perché veicoli eterei e immateriali
come la posta elettronica diano origine a tanti malintesi e corti circuiti
emotivi. A riprova della capacità di resistenza delle teorie, un fautore della
posizione tradizionale non si lascerebbe turbare da fatti del genere.
Categorizzerebbe malintesi e corti circuiti come incidenti di percorso
(privilegiando così la norma sui dati, per quanto frequenti) e aggiungerebbe al
modello un epiciclo: la mente non codifica il suo significato in un messaggio
soltanto verbale ma in una performance inclusiva di gesti, atteggiamenti del
viso e del corpo, ritmi e inflessioni di voce. (Già il fatto che il relativo
comportamento venga qualificato come body language segnala il tentativo di
asservire il corpo a ulteriore elemento di trasmissione di un contenuto che non
gli appartiene.) Io invece prendo questi fatti molto sul serio e ne traggo la
morale opposta: noi comunichiamo, cioè ci capiamo reciprocamente e mettiamo in
comune non solo sentimenti e stati d’animo ma anche idee e opinioni, perché
siamo innanzitutto corpi e una lunga consuetudine a vivere in mezzo ad altri
corpi (e a rispecchiarne le mosse) ci ha educato a coglierne ogni variazione,
ogni indugio, ogni forzatura come significativi, né più né meno di quanto un
esperto marinaio sappia trarre le conseguenze di ogni minimo trasalimento della
massa d’acqua al cospetto della quale vive e opera (o una scimmia sappia fare
con un’altra scimmia, con il mare o con i visitatori dello zoo – per il vento
occorrerà attendere la fine del libro) Una piccola parte delle mosse fisiche
che comprendiamo e mediante le quali comunichiamo è costituita dall’emissione
di suoni, e anche qui capiremo di più e comunicheremo meglio quanta più
familiarità avremo con il corpo che ci funge da interlocutore – con il tipo di
suoni che ce ne possiamo aspettare. Con uno sconosciuto adotteremo
comportamenti guardinghi e stilizzati, sintomo dell’incertezza e apprensione
che proviamo; chiederemo per esempio nel tono più neutro possibile che ore
siano, ed è paradossale che la tradizione che qui sto contestando assuma casi
di natura così marginale e deviante come modelli ideali di comunicazione. Per
me l’ideale sono invece i casi in cui varie persone sono immerse in un progetto
o in un impegno comune, e le parole che si scambiano sono perlopiù ridondanti,
echi di quel che si è già comunicato in modo non verbale: un’asserzione
diffonde e ufficializza quanto tutti hanno già riconosciuto, un’espressione
d’incoraggiamento conferma il sostegno emotivo che tutti già avvertono. (E,
invece di suggerire parlando di body language che il comportamento sia una
specie del genere linguaggio, preferisco suggerire che il linguaggio sia una
specie del genere comportamento usando termini come linguistic behavior.) Ma,
si dirà, il linguaggio non è usato solo in situazioni come quelle che ho
descritto, in cui l’ascoltatore è in presenza di quel che gli viene comunicato:
in cui un sentimento, un’intenzione o un’idea sono espressi da un parlante che
gli è direttamente accessibile, con tutto il suo essere, e quel che il parlante
dice è in buona parte superfluo, considerando in quanti altri modi «dice» la
stessa cosa. Il linguaggio è un prezioso mezzo di comunicazione perché ci
permette di comunicare anche significati che ci sono assenti. Il parlante può
raccontarci che cosa gli è capitato ieri in ufficio, o che disastro ferroviario
sia avvenuto in India, e non solo: può essere lui stesso assente e raccontarci
queste cose al telefono, o scrivercene in una lettera o per posta elettronica;
e noi acquisiremo comunque tali informazioni, ne sapremo di più alla fine dello
scambio di quanto ne sapessimo all’inizio. Non è comunicazione, questa? E non è
suo strumento un linguaggio distaccato dal corpo? Non intendo negare simili
ovvietà. Teorie alternative devono spiegare gli stessi fatti, non scegliersi i
fatti più convenienti, ma li spiegheranno stabilendo diverse relazioni di
dipendenza, collocando diversamente gli accenti; dunque mi prenderò la libertà
di rimandare a più tardi la spiegazione del linguaggio come racconto e
formulerò invece una domanda che sembrerà, a chi sostenga la priorità del
mentale, mettere il carro davanti ai buoi. Mi chiederò: se la funzione
fondamentale del linguaggio non è quella comunicativa, quale potrebbe essere?
Ai miei avversari sembrerà che io possa porre tale domanda solo dopo aver
fornito un’interpretazione convincente, dal mio punto di vista, del carattere
narrativo del linguaggio; ma cambiare teoria (ripeto) vuol dire anche cambiare
priorità, e in particolare ritengo che il racconto linguistico diventi
perfettamente comprensibile se prima rispondo alla mia domanda. Nel quinto
capitolo ho detto che un gioco come il calcio o gli scacchi è un microcosmo
nel quale rappresentare mosse ludiche che sarebbe in generale troppo rischioso
praticare «dal vivo» e ho discusso la logica della rappresentazione: qualcosa è
sempre rappresentato da qualcos’altro, quindi gli è simile per certi aspetti ma
se ne differenzia per altri. Se mai si verificasse una situazione in cui il
gioco vicario che abbiamo condotto dovesse rivelare la sua utilità (in cui
l’elaborazione di piani intricati per guadagnare un alfiere dovesse aiutarci in
una manovra di aggiramento diretta a conseguire una promozione), c’è da sperare
che a risultare decisivi siano gli aspetti in cui i due contesti sono simili,
non l’infinità di aspetti in cui non lo sono. Stando così le cose, una
rappresentazione che somigli di più all’originale sarà più utile di una che gli
somigli di meno: più riuscirà a seguirlo nei suoi dettagli, nelle sue
modulazioni, nella sua incalcolabile architettura frattale, più sarà probabile
che, quando si abbia a che fare con l’originale, si sappia come muoversi con i
dettagli che allora risulteranno pertinenti. Nessun mezzo rappresentativo
disponibile agli esseri umani può rivaleggiare su questo terreno con il
linguaggio (sebbene il computer, affermavo in Giocare per forza, stia emergendo
come un pericoloso candidato): l’eccezionale quantità e qualità di suoni che
riusciamo a produrre ci permette di costruire rappresentazioni estremamente
particolareggiate di oggetti, situazioni ed eventi, e di esplorare ludicamente
queste rappresentazioni con vantaggi potenziali molto maggiori di quelli
consentiti da un gioco sportivo o da un gioco di carte. Il linguaggio è, in
primo luogo, uno spazio di gioco.nGuardate al modo in cui un bambino vive il
linguaggio. Spezza le parole, le stiracchia, le unisce in aggregati inconsueti
e scorretti, è attratto dalle loro risonanze, dal rumore che fanno, e spesso
combina quei rumori con altri che noi giudicheremmo «inarticolati»; per lui le
parole sono oggetti da manipolare, mettere sotto pressione e violare tanto
quanto palle e cubi. Questa, per me, è la scena primaria del linguaggio, il
prototipo che ne chiarisce il ruolo e il senso. In età adulta, a rimanere più
vicini all’intimità e al calore della scena primaria sono i poeti; sono loro
più di chiunque altro a giocare con le parole e a trattarle, giocandovi, come
cose. Ancora una volta reinterpretando il passato alla luce del suo futuro,
dunque, vedendo il bambino alla luce del poeta che promette di diventare,
potremmo dire che l’uso primario del linguaggio è quello poetico. Il che
equivarrebbe a riascoltare bene questa parola: poieo è fare, in greco, quindi
il poeta è creatore, e lo è proprio in quanto gioca, perché solo chi gioca
inventa, supera l’esistente nel nome di un processo innovativo che solo il
gioco consente di realizzare. Se le parole sono (trattate come) cose le si
potrà associare ad altre cose, e mediante tali associazioni costituire quelle
corrispondenze fra parole e cose che sono alla base del significato delle
parole. Quando ero piccolo a casa dei miei nonni, d’estate, raccoglievo tappi di
bottiglia (di birra, di Coca-Cola) e poi li usavo per rappresentare eserciti e
battaglie. Ogni tappo era un soldato, e quando il tappo era rovesciato il
soldato era morto. Detta altrimenti: ogni tappo significava un soldato, e che
il tappo fosse rovesciato significava che il soldato era morto. Nel linguaggio,
invece di tappi, pedine o gettoni, e invece delle configurazioni in cui possono
comparire tappi e pedine, usiamo nomi e verbi e loro configurazioni, di cui
abbiamo imparato il significato (le associazioni) osservando e scimmiottando
padri e madri, cugini e amici di famiglia, e acquistando attraverso i nostri
errori una dimestichezza sempre più sottile con le mille sfumature, cadenze e
intonazioni che organizzano quei significati, in modi mille volte più complessi
di tappi e pedine, mille volte più disponibili a scatenare la fantasia ludica.
Ogni gioco ha delle regole, abbiamo visto: va a sbattere contro spigoli e
pareti. Nel caso di un gioco linguistico, del linguaggio in quanto gioco, le
regole non sono ostacoli o limiti fisici ma sociali. Ho usato il termine
«scorretto» per spiegare come un bambino opera con le parole; un atto è
scorretto (o corretto) in relazione a una norma, ed è la società a imporre le
norme linguistiche e a designare quello del bambino come un comportamento
linguistico scorretto. Lasciato a sé stesso, il linguaggio non fa che seguire
un’inarrestabile deriva metaforica e metonimica, trasformato costantemente dai
poeti che lo abitano (cioè da tutti coloro che lo parlano) e che tendono a
volgerlo in un gergo familiare o di gruppo e infine in un idioletto,
comprensibile solo a chi lo parla. Ma la libertà – lo sappiamo – è rischiosa;
bisogna limitarne l’ambito e il potere. Intervengono allora discipline
(ascoltiamo anche questa parola: anche le sue associazioni ci dicono qualcosa)
normative: grammatica, logica, semantica, retorica, stilistica, che sanciscono
quali combinazioni di parole siano accettabili, quali associazioni fra parole e
(altre) cose siano significanti, a quali fra le molteplici tappe della deriva
linguistica si possa attribuire l’etichetta di un significato letterale
(cercando così di fermare la deriva: un significato letterale è una metafora o
metonimia su cui ci siamo arenati), quali ritmi e cadenze abbiano valore estetico.
L’uso comune del linguaggio si colloca su uno spettro analogo a quello discusso
nel sesto capitolo (anzi, è proprio lo stesso spettro). A un estremo c’è
l’assoluta licenza di una vocalizzazione esasperata; all’altro gli anodini
enunciati della filosofia del linguaggio anglosassone – «The fat cat sat on the
mat; he saw a big rat», «Il gatto è sulla stuoia»: perfettamente grammaticali,
costruiti con termini assolutamente privi di ambiguità, ciascuno
indissolubilmente legato a una singola associazione, e proprio per questo,
direi, incapaci di esprimere un qualsiasi significato o dar vita ad alcuna
comunicazione. Né l’uno né l’altro degli estremi (per quanto citato nei testi
di filosofia del linguaggio) è mai effettivamente realizzato; quel che incontriamo
nelle nostre quotidiane vicissitudini è un universo multiforme di mediazioni
fra gli estremi. Incontriamo parole e frasi che in certa misura fanno ossequio
alle norme (tanto maggior ossequio quanto minor fiducia abbiamo nell’ambiente)
e in certa misura le trascendono colorandole di esperienze personali,
immettendovi il gusto saporito, talvolta un po’ nauseante, di una sceneggiata
che coinvolge tutto il corpo, non solo le labbra e la lingua. Come in ogni
altro caso, regole rigorose diventano l’occasione per una creatività più
raffinata, per un gioco più sagace anche se indubbiamente più difficile, come
il bridge è più difficile della briscola. Pensate a quanto è costrittiva la
forma di un sonetto: quattordici endecasillabi divisi in due quartine e due
terzine, rimati secondo pochi e precisi schemi. Come ci sarebbe da aspettarsi,
la grandissima maggioranza dei sonetti è mediocre e noiosa – adiacente
all’estremo regolamentato dello spettro linguistico. Quando però recitiamo (la
poesia va recitata ad alta voce, per motivi che ora dovrebbero essere ovvi!) un
capolavoro di Dante, Petrarca o Foscolo, ci rendiamo conto che senza quelle
costrizioni non avremmo potuto scoprire tanta ingegnosa libertà, e goderne. E
la medesima libertà è espressa, non sempre a questi livelli, da ogni
parlante/poeta in ogni linguaggio: quando inventa una battuta, adatta a nuovo
uso una parola, raccoglie e concentra le sue emozioni in una frase a effetto,
improvvisa una cantilena per un figlio che non vuol saperne di dormire. In
ciascuna di queste occasioni la vocazione ludica del linguaggio si riattiva: le
regole diventano un trampolino per un tuffo ancor più avvitato e carpiato,
invece che una camicia di forza. È arrivato il momento di affrontare il
linguaggio dell’assenza e, nel farlo, di distinguerne con cura le due modalità
che prima avevo indicato. Il linguaggio, dicevo, può essere usato da un
parlante per descrivere qualcosa di cui il suo interlocutore non è e non è
stato testimone; in tal caso, è il significato del linguaggio a essere assente
(a chi ascolta). Ma, aggiungevo, anche il parlante può essere assente:
l’interlocutore può essere fisicamente solo e il linguaggio apparirgli come
testo scritto. Questa seconda modalità sembra ora la più inquietante, per la
mia posizione. Che cosa ne è in essa della corporeità della comunicazione,
delle parole trattate come cose, della libertà di giocarvi e di creare? Quando
leggo un resoconto scritto di una seduta parlamentare o di una sparatoria, di
solito non ne conosco l’autore (il suo è per me «un mero nome»): capisco quel
che c’è scritto perché le parole hanno il loro significato abituale e le frasi
sono composte in modo grammaticalmente corretto. Sarà vero che molti testi di
filosofia del linguaggio mi restituiscono un’immagine stantia e retriva del
loro argomento; ma anche questi testi sono scritti in un linguaggio, e io li
leggo e li capisco. Capisco «The cat is on the mat» e capisco il senso di
questo esempio. Non è vero dunque che i testi scritti suggeriscono una visione
del linguaggio del tutto opposta alla mia, e affine a quella tradizionale?
Andiamo per gradi. Consideriamo prima il caso in cui il contenuto di un
racconto ci sia assente (non ne siamo stati testimoni) ma la persona che lo
racconta ci sia presente, e immaginiamo che più persone ci facciano un racconto
con lo stesso contenuto, descrivano per esempio lo stesso disastro ferroviario
in India. Ne segue che tutti ci comunicano la stessa cosa? Che, pur assumendo
che controllino al massimo i loro movimenti e mantengano un volto impassibile,
ne riceviamo le medesime informazioni? Forse sì, se intendiamo «informazione»
nel senso più comune, e profondamente legato al modello mentalistico del
linguaggio: un pacchetto di enti immateriali (chissà come faranno degli enti
immateriali a entrare in un pacchetto!) che va trasferito da una mente
all’altra. No, invece, se ascoltiamo quel che «informazione» ci sta dicendo: se
a contare per noi è quanto una comunicazione ci forma, ci cambia, ha un
influsso temporaneo o permanente su di noi. Se prendiamo il termine in questa
seconda accezione (che io preferisco), dovremo ammettere che le parole scelte
da ciascuno dei narratori fanno un’enorme differenza per l’efficacia del suo
discorso: che il loro suono, il tono e il ritmo con il quale sono pronunciate,
le loro associazioni, le risonanze o dissonanze che hanno con altre parole
dello stesso discorso, la forza con cui tutte queste parole sono concatenate
l’una con l’altra suggerendo un’immagine unitaria e l’inventiva con cui questa
immagine si rinnova senza sosta, illuminando angoli oscuri e chiamando in causa
prospettive balzane, possono coinvolgerci in un gioco vivido ed eccitante, in
cui costantemente elaboriamo aspettative sul prossimo passo e le vediamo
confermate o contraddette, e proviamo sorpresa e frustrazione e incanto e
disgusto, e alla fine sentiamo di aver percorso noi stessi quel territorio e di
conoscerlo bene anche se ciò non è vero – anche se il territorio non somiglia
affatto a quel che ci è stato comunicato e ci ha informato. Oppure le parole
possono essere spente e banali, sfilacciate e risapute, e dovremo fare un
grosso sforzo per mantenere desta l’attenzione su quel che vogliono dire perché
sembra che non vogliano dire niente, e alla fine ci sarà difficile ricordarle e
capire che cosa è successo, in India. Un logico sentenzierebbe che entrambi i
discorsi esprimono lo stesso pensiero e hanno lo stesso valore di verità, e
magari sarà così, quando «pensiero» e «valore di verità» siano stati definiti
in modo opportuno; ma allora si dovrà concludere che pensieri e valori di
verità hanno poco a che fare con quel che succede quando ci raccontiamo
qualcosa. Il linguaggio non è mai dell’assenza. L’assenza esiste, non ci sono
dubbi: cose e persone ci mancano, spesso per sempre. Ma il racconto non ha
altra funzione che evocare queste cose o persone: la parola è innanzitutto
magica. Con le sue limitate risorse – qualche nota, qualche alterazione di
timbro o volume – richiama quel che non c’è e lo fa essere, anzi fa essere
qualcosa che s’ispira a quel che non c’è, e che forse ne è molto diverso ma
adesso con questa scusa ci è diventato presente. E la magia del linguaggio non
è mai disgiunta dal suo carattere ludico: la seconda volta che ascoltassi lo
stesso racconto, formulato con le stesse parole, non evocherebbe più nulla e io
mi troverei a pensare ad altro. Solo un linguaggio che esplora e sovverte,
inquieta e soddisfa, solo un linguaggio giocoso, può raccontare. Anzi, meglio:
solo un linguaggio in quanto giocoso, in quanto esplora e sovverte, inquieta e
soddisfa, perché come al solito i nostri racconti quotidiani sono compromessi
fra trasgressione e conformismo, scoperta e stereotipo, quindi sono racconti
fino a un certo punto. Al limite, se il linguaggio fosse usato in modo
puramente rituale e prefissato, non lo staremmo nemmeno a sentire. Veniamo ora
alla scrittura. Anche qui c’è uno spettro di possibilità, e anche qui la mia
posizione e quella avversa assumono come paradigmatici i due diversi estremi
dello spettro. Per i miei avversari il modello di comunicazione scritta, cui
ogni altra si deve uniformare, è il dispaccio d’agenzia: «Ieri alle ore 18.05
la Corea del Nord ha lanciato un missile verso Seoul». Io parto dall’estremo
opposto: così come l’archetipo del linguaggio è per me la poesia, l’archetipo
del linguaggio scritto è la prosa letteraria. In un dispaccio d’agenzia – anzi,
per la precisione, secondo il modo ideologico in cui la posizione avversa
interpreta un dispaccio d’agenzia – le parole non contano: basta esprimere il
significato giusto, inteso come entità astratta e mentale. In un testo
letterario, invece, è chiaro che le parole contano, e noi le sentiamo anche se
leggiamo «a mente»; e sono parole scelte con creatività e maestria (con la
maestria di un grande giocatore) a far nascere per noi dalla pagina dei
personaggi, delle avventure, delle passioni, un mondo. Parole diverse, se pure
dicessero «la stessa cosa» (quella che la posizione avversa concepirebbe come
la stessa cosa) non avrebbero lo stesso effetto, o non avrebbero alcun effetto.
E, se un dispaccio d’agenzia mi colpisce, se entra davvero in circolo nella mia
persona, se non si perde fra i rumori di fondo, è perché sa trasmettermi
tutt’altro che un resoconto neutrale e oggettivo di un semplice fatto (come
vorrebbe l’ideologia cui mi oppongo): perché il suo linguaggio economico ed
essenziale conferisce invece maggiore urgenza ai timori e alle ansie che si
sono immediatamente scatenati in me appena ho visto queste parole insieme –
«Corea del Nord», «missile», «Seoul», «ieri». A suo modo, questo dispaccio
(fittizio) è un riuscito aforisma. Riassumiamo. Ho forse dimostrato che non
esistono i significati come entità astratte e accessibili solo a delle menti, e
che non è il rapporto con significati astratti a qualificare il linguaggio come
tale? a fare di un suono o di uno scarabocchio una parola o una frase? No di
certo. Dopo tutto quel che ho detto, anche chi volesse accettarlo potrebbe
credere che, in aggiunta a tutto quel che ho detto, ci sono i significati
astratti ed è la loro presenza a conferire dignità linguistica a suoni e
scarabocchi. Ma non era mia intenzione dimostrare niente del genere. Quel che
ho cercato di fare è stato difendere una tesi più debole ma per me d’importanza
cruciale: dei suddetti significati non abbiamo bisogno, possiamo farne a meno.
Il nostro linguaggio, anzi il nostro comportamento linguistico, è parte del
flusso continuo di tutto il nostro comportamento, che noi siamo in grado di
interpretare nei nostri simili o in noi stessi (perché ho detto quel che ho detto?)
così come interpretiamo l’annuvolarsi del cielo o il latrato di un cane. Come
con ogni altro aspetto del nostro comportamento, anche con il linguaggio
possiamo giocare; ed è qui che esso rivela la sua unicità, perché nessun altro
mezzo a nostra disposizione è tanto duttile, tanto articolato, ricco di tanti
dettagli e aperto a tante variazioni, quindi tanto generoso nell’offrirci
giochi d’insondabile profondità e complessità – microcosmi infinitamente
interessanti e istruttivi. Questa essenziale natura ludica del linguaggio si
combina con le sue altre caratteristiche dando luogo a ogni sorta di
mediazioni. Capiamo un altro che parla come capiamo un altro che cammina; ma,
parlando, quell’altro può esplorare e trasgredire e farci piacere e farci paura
molto meglio che camminando, e possiamo capire anche questo, e lasciarci
coinvolgere in questo gioco, e farcene trasportare in posti dove non siamo mai
stati, in compagnia di persone che non abbiamo mai visto. E possiamo creare lo
stesso miraggio senza nemmeno parlare, scrivendo parole in un libro come
questo; e le parole scritte evocheranno un significato se sono scelte con cura,
la stessa cura con cui uno scacchista prepara la sua prossima mossa – cura di
rassicurare e stupire al tempo stesso, di confermare e destabilizzare. Ho
chiarito come si possa arrivare, partendo da questa visione, a spiegare l’uso
del linguaggio per chiedere che ora sia, ma sono convinto che, se questo fosse
l’uso principale del linguaggio, esso sarebbe da tempo diventato non meno vestigiale
dei denti del giudizio. Temo che possa diventarlo, ho detto, che all’orizzonte
si profili minaccioso un terribile concorrente. Ma so che se non lo è ancora
diventato è perché nel linguaggio, più e meglio che altrove, si gioca.
All’inizio di questo capitolo mi ero assegnato il compito di «traghettare il
gioco verso sublimi creazioni spirituali senza perderne per strada la
fisicità». Che il lettore sia o meno d’accordo con le idee che sono venuto
sviluppando, avrà capito in che senso io intenda riconoscere un importante
elemento di fisicità in sublimi creazioni come sono spesso quelle poetiche o
letterarie. È ancora lecito, però, potrebbe chiedere, che io qualifichi tali
creazioni come spirituali? Non ho lasciato cadere lo spirito, o anima o mente che
dir si voglia, rifiutando la dualità cartesiana? Non sono rimasto, quindi, in
un universo che non ha più nulla di spirituale – un universo fatto solo di
corpi, eventualmente poetici o letterari? Non è, lo stesso obiettivo che mi
sono posto, prova evidente di una mia confusione, come se volessi ammettere
oggetti, o attività, che appartengono contemporaneamente all’ambito fisico e
spirituale? In realtà sono queste domande a provare qualcosa: quanto sia
difficile liberarsi di un pregiudizio. Per loro tramite il cartesianesimo,
scacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Detta nel modo più semplice e
chiaro possibile, lo spirito (o la mente, o l’anima) può solo essere un modo di
vivere il corpo: non esiste uno spirito indipendente dal corpo. Un corpo si anima
quando i suoi atteggiamenti e le sue mosse si colorano di spirito ludico: è
spirito (o mente, o anima) in quanto gioca. (Potrei dire «in quanto danza»,
purché per danza s’intenda una pratica creativa, non puramente rituale e aperta
ai movimenti della parola e del pensiero: una danza nello spazio esistenziale.)
La visione cartesiana ci fornisce uno spirito a buon mercato: anche se giaccio
del tutto inerte, o la mia vita è inchiodata senza speranza di salvezza alla
routine più inflessibile, sono comunque una mente, una sostanza pensante;
all’ottusità del mio corpo è comunque offerto questo riscatto. Per me invece lo
spirito compare quando il corpo si accende di vitalità; il suo fiato è quello
che avverto quando qualcosa mi stimola, mi provoca e mi risveglia; e occuparsi
di libri o concetti non dà nessuna garanzia che lo spirito sia presente – basta
guardare al mondo accademico per rendersene conto. Siccome anche gli estremi di
questo spettro sono astrazioni teoriche e ogni nostra vicenda ha luogo come mediazione
fra di essi, tutti noi siamo in ogni momento corpi/spiriti, in parte animati e
in parte inerti. Lo siamo, però, non come convivenza di due entità radicalmente
distinte ma come coesistenza di due distinte modalità di comportamento di una
medesima entità. E, in conclusione, posso approvare Huizinga quando dice che
«il gioco, qualunque sia l’essenza sua, non è materia» (p. 21) ma non perché si
riveli in esso un carattere soprannaturale. Il gioco non è materia perché è
spirito, cioè materia che si reinventa incessantemente, così come il non-gioco
(cioè la materia) è spirito in coma. I Pensieri stupendi dell'Aosta sono
stupendi. L’aspetto fondamentale della tradizione cartesiana è stato denominato
in tempi recenti (posteriori a Cartesio) «accesso privilegiato». Consiste nella
tesi seguente: la mia vita mentale, privata, mi è del tutto trasparente; io ne
colgo con assoluta limpidezza ogni particolare; in proposito non posso
sbagliarmi. Posso sbagliarmi sul fatto che ci sia un elefante in questa stanza,
ma non sul fatto che io lo veda e sia sicuro di vederlo. E sono l’unico
detentore di tale certezza: chiunque voglia sapere che cosa provo, penso o
voglio, non può far altro che chiederlo a me – io sono l’unica autorità al
riguardo.Ci sono voci molto accreditate che si oppongono a questa tesi. La
psicoanalisi stabilisce quali siano le mie intenzioni o i miei desideri in base
a un’osservazione del mio comportamento ed eventualmente in contrasto con le
intenzioni e i desideri che io mi attribuisco. La neurofisiologia ritiene di
poter determinare se ho un’emozione consultando immagini del mio cervello. Ma,
per quanto in difficoltà fra gli specialisti, l’idea cartesiana che io sia
padrone a casa mia (cioè nella mia mente) continua ad aver fortuna nella
cultura popolare, sostenuta da potenti alleati: la responsabilità religiosa che
ognuno deve assumersi per i suoi peccati, la responsabilità legale che deve
assumersi per i suoi crimini, la responsabilità politica che deve assumersi per
il suo voto. In tutti questi casi, il fattore decisivo è quel che l’individuo
ha voluto fare, e solo lui (e magari il suo Dio) sa che cosa sia. Gli altri, al
massimo, potranno fare congetture sulle sue intime motivazioni ed emettere un
verdetto al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò che è comunque al di là di
ogni dubbio, ragionevole o irragionevole, è il cogito: il rapporto che il
soggetto ha con sé stesso come sostanza pensante. A giustificare questa
convinzione c’è il modo in cui viene concepito il rapporto: lo amministrerebbe
la funzione nota come coscienza, un flusso continuo di attenzione rivolto alla
nostra vita interiore, incapace di errore, custode della verità del nostro
essere. Io so che cosa provo, penso e voglio perché la mia coscienza me ne dà
un responso infallibile; nessun altro ha la mia coscienza, dunque nessun altro
ha diretto accesso ai miei dati. Ho affermato altrove che la coscienza così
concepita è un mito: non esiste un flusso continuo di attenzione a sé stessi
che abbia il compito di farci appurare tutto quel che accade in noi, ma una
serie di episodi indipendenti e frammentari in ciascuno dei quali dalla
molteplicità che noi siamo (che ciascuno di noi è) emerge un giudizio negativo,
un’obiezione, verso l’istanza che in quel momento occupa il proscenio e sta
dirigendo i lavori. La coscienza come flusso continuo e coerente è il risultato
di un’azione politica (reazionaria): di uno stravolgimento di tale episodico
esercizio critico che ha come scopo la conservazione dell’ordine sociale –
ritenendoci costantemente osservati, si spera che ci comporteremo bene. Qui non
intendo sviluppare ulteriormente l’argomento, se non per notare un punto in cui
questo discorso interseca i nostri temi attuali. La visione mentalistica del
significato sostiene che siano le mie esperienze mentali, le stesse che
Cartesio giudicava infallibili, a determinare la dignità linguistica delle
parole e frasi che pronuncio o scrivo, dicevo nel capitolo precedente, e io
sostengo l’inverso (e sostengo che quelle esperienze siano tutt’altro che
infallibili). La mia posizione richiede così che si contesti il presunto
carattere originario del mentale, caratterizzandolo invece come dipendente dal
non-mentale, e per raggiungere questo obiettivo comincerò ascoltando ancora una
volta una parola. «Privato», che nella tradizione cui mi oppongo è sinonimo di
«mentale», è un termine negativo, perché ciò che è privato lo è in quanto
privato di qualcosa, come un bimbo è privato d’affetto o un operaio del suo
lavoro. Qual è dunque la privazione che costituisce il dominio privato del
soggetto e della sua mente? Il gioco è rischioso, e abbiamo visto quante
barriere si erigano per evitare che faccia troppo male. Un adulto proteggerà lo
spazio in cui giocano i bambini: chiuderà porte e finestre, toglierà di mezzo
gli oggetti che possano essere ingoiati, nasconderà i fiammiferi. Quando sarà
lui stesso a giocare, troverà più conveniente scagliarsi contro un avversario
su un campo di calcio o tessere trame su una scacchiera piuttosto che nel
quartiere o in fabbrica. E spesso parlerà soltanto di quel che potrebbe fare
invece di farlo: si accontenterà di esplorare microcosmi linguistici in cui
ogni mossa è lecita invece di coinvolgere in analoghi movimenti il (resto del)
suo corpo. Ma non si è mai abbastanza cauti: una parola avventata, detta con
sovversivo spirito ludico, può ferire l’interlocutore, suscitare i sospetti del
principale, essere presa troppo sul serio da una «testa calda». Allora la
nostra specie (e forse non solo, ma è arduo decidere la questione) ha
introdotto un’ulteriore misura cautelare: molte parole sovversive, molte
associazioni inappropriate, molti racconti fantastici che attentano alle norme
del vivere civile li enunciamo solo a noi stessi, li vocalizziamo senza
emettere alcun suono, senza neanche muovere le labbra – li priviamo di ogni
contatto con l’esterno. Ecco in che senso il mentale dipende dal verbale: i
pensieri sono parole non dette – immagini mnestiche di tali parole, secondo
l’espressione freudiana – perché l’interlocutore giusto, che potrebbe capirle e
apprezzarle, non c’è o forse non c’è mai stato, e noi abbiamo imparato, dopo
molti sforzi e qualche delusione, a farle risuonare in un pubblico silenzio,
unici testimoni della loro presenza. Lo spazio abitato dai pensieri è l’esatto
opposto di quello cartesiano. Quello era popolato di infinite idee, acuto e
perspicace nel cogliere quanto sfuggisse ai sensi del corpo, solidamente
risolto in sé stesso e pronto a sollevare dubbi su tutto ciò che non gli
appartenesse. Questo è parassitario, anaclitico, povero di contenuto e di
struttura, in costante pericolo di venire assorbito nel pubblico
chiacchiericcio. Non voglio negare che esistano persone con straordinarie
capacità di concentrazione; la realtà di noi comuni mortali, però, è che ci
risulta estremamente difficile seguire un’idea senza perdere il filo, o
cogliere il rapporto che questa idea ha con quell’altra che abbiamo avuto ieri;
e intanto il mondo incombe e disturba il fragile equilibrio che siamo
penosamente riusciti a costruire, e dopo un attimo tutto crolla e non
ricordiamo più nemmeno che cosa stavamo pensando, o perché ci sembrava così
importante. Se uno di noi comuni mortali vuole far chiaro «dentro sé stesso» e
capire che cosa sta pensando, deve fare un passo indietro in questo percorso e
abbozzare un testo, un diagramma, un disegno su un pezzo di carta. Si chiama
«pensare attraverso la scrittura» ed è un luogo comune per chiunque si occupi
di processi creativi; ma l’ipoteca cartesiana ci impedisce di comprendere la
lezione che ci sta impartendo. Il pensiero è fondato sul linguaggio; i singoli
pensieri non sono che parole o frasi private dell’audio; la mente non è altro
che la capacità di parlare un linguaggio silenzioso (e si noti che sto parlando
della mente, non del cervello, cioè dell’organo di enorme complessità ed
efficienza che presiede, perlopiù inconsciamente, a tutte le nostre funzioni).
Quando questa capacità mostra i suoi limiti, si ritorna alla base: talvolta ci
si racconta ad alta voce quel che si stava cercando di seguire nel pensiero, più
spesso lo si scrive. Con buona pace di Cartesio, non è proprio vero che la
mente ci fornisca idee più chiare e distinte di quanto faccia il corpo: nella
mente regna di solito una grande oscurità e confusione, che si può dissipare
solo eseguendo movimenti fisici – scrivendo, per esempio. Fra le cose che
potremo scrivere ci sono novelle e romanzi, e ho già suggerito come sia da
intendere questo gioco; qui aggiungerò solo qualche dettaglio. Buona parte
dell’esperienza ludica dei bambini consiste nel raccontarsi storie; se sono
fortunati, incontreranno anche degli adulti che ne racconteranno a loro,
trascinandoli fra misteri e sorprese, spaventi e salvataggi, facendo loro
saltare il cuore in gola e tirare sospiri di sollievo. Uno scrittore compie la
stessa benefica azione con i suoi lettori: si sceglie un bambino ideale (i
critici letterari direbbero: un lettore ideale) di cui conosce gusti e
passioni, sogni e desideri, e lo asseconda e lo scoraggia e lo deprime e lo
esalta evocando con parole incisive e frasi seducenti un mondo fittizio che
starà al bambino (al lettore) completare a suo modo, partendo dalle tracce che
le parole e le frasi dello scrittore avranno sparso, come molliche di pane, per
le pagine del libro. L’azione è benefica perché il bambino ne trae godimento:
non sono molti i giochi che offrano tanto piacere quanto una simile altalena di
vicende, scenari e affetti. Ed è benefica anche perché il bambino per suo
tramite impara a conoscere i personaggi e gli eventi del mondo fittizio, come
s’impara qualsiasi cosa – partecipandone attivamente: anticipando la prossima
mossa e verificando le sue ipotesi, piangendo insieme con le vittime e
delirando insieme con gli amanti, immaginandosi a sua volta martire o
raddrizzatorti – e così amplia il repertorio di atteggiamenti e strategie a sua
disposizione correndo rischi minimi: il rischio di una crisi emotiva o di un
estraniamento dalle urgenze quotidiane, il rischio di cercare invano un’Anna
Karenina, il rischio di scambiare per Anna Karenina una persona molto diversa;
certo non il rischio di finire sotto un treno. Anche la filosofia nasce come
racconto, ma con un accento diverso, più insolente. Nel testo che la inaugura,
i dialoghi di Platone, si comincia narrando aneddoti su un discolo che si
rifiuta di crescere, di trovarsi un lavoro, di badare alla sua famiglia,
perfino di cambiarsi d’abito, perché è troppo impegnato a contestare ogni forma
di autorità, a prenderla in giro, a insistere con i suoi infantili «Perché?», a
giocare con le parole degli esperti in modo che, qualunque definizione
propongano, «ci gira sempre dattorno e non c’è verso che voglia star ferma nel
punto dove la mettiamo» (Eutifrone, p. 21). Sembra di leggere Pinocchio, solo
che qui non c’è nessuna fata turchina che salvi il discolo dall’esecuzione. Più
avanti il racconto si complica: il discolo prende ancora la parola, ma non solo
per far esplodere l’arroganza e la presunzione dei grandi. Ora, invece di
distruggere i castelli in aria degli altri, ne costruisce di propri, con acume,
scrupolo e pazienza (gli stessi con cui si costruiscono bei castelli di
sabbia), e li presenta con atteggiamento di sfida a quanti ritengono di vivere
in un castello e invece abitano in una stamberga, convinto che questa sia la
forma più efficace di critica: invece di perder tempo rivelando le stamberghe
per quel che sono, edifichiamo loro accanto una reggia e tutti vorranno
abbandonarle. (Così infatti ho trattato la posizione cartesiana in questo
capitolo e nel precedente; ho avuto buoni compagni di gioco.) Alcuni elementi
della repubblica platonica provocano la nostra indignazione: che si debba
mentire al popolo per il suo bene; che le unioni fra uomini e donne debbano
essere decise dal governo per motivi eugenetici. Altri ci sembrano di grande
ragionevolezza: che i governanti debbano essere educati con cura e il loro
carattere messo alla prova prima di affidar loro lo Stato; che le donne non
meno degli uomini possano governare, perché la loro differenza biologica non
implica una differenza di abilità. Quel che è comune a entrambi è il coraggio,
la sfacciataggine quasi, con cui vengono proposti, la risolutezza con cui
s’insiste sulla loro inevitabilità, sulla loro consequenzialità logica, la
noncuranza con cui vengono trattate le proteste del «senso comune», l’ambizione
e la genialità con cui tutti gli elementi vengono combinati in un colossale
affresco, nell’immagine di un mondo, di esseri umani, di una società totalmente
nuovi. Se un bambino vero (sotto i dieci anni d’età) mai avesse le risorse
intellettuali per compiere un’opera del genere, certo non gli mancherebbero
queste altre doti; certo non avrebbe ancora imparato il conformismo, la
soggezione, la viltà. Platone come Socrate è un bambino che si rifiuta di
crescere, che a risorse intellettuali mature accompagna le qualità innocenti e
sfrontate dell’infanzia: il maestro a settant’anni scherza con i suoi
accusatori e con la giuria; il discepolo a quasi ottanta non smette di
aggiungere dettagli al suo racconto. All’inizio del nostro itinerario ho citato
un passo della Critica del giudizio; ora, vicini al termine del viaggio,
occorre riprenderlo in esame e renderne conto. Che cosa sta facendo Kant? Sta
esponendo uno degli elementi del suo castello, da lui opposto a una tradizione
che considera derelitta. La stamberga da cui vuole che gli altri fuggano è la
concezione realista della conoscenza: Da una parte ci sono io (anzi, la mia
mente) e dall’altra c’è un tavolo. Nella mia mente si forma un’idea del tavolo
che gli corrisponde fedelmente; quindi io conosco bene il tavolo, al punto di
poter prevedere con certezza le sue risposte a varie sollecitazioni. Come sia
possibile che fra due oggetti distinti e tanto diversi fra loro (la mia mente e
il tavolo) si stabilisca una così perfetta corrispondenza, la tradizione non sa
spiegare; Leibniz in proposito invocava il miracolo divino di un’armonia
prestabilita. Kant non si occupa di questa scalcinata tradizione; la liquida
con una battuta pesante (essa dà «il comico spettacolo [...] di uno che munge
il becco [cioè il montone] mentre l’altro tiene lo staccio [cioè il setaccio]»,
Critica della ragion pura, p. 96) e suggerisce invece di fare un nuovo
«tentativo» (p. 10), un «rivolgimento» di prospettiva analogo a quello di
Copernico. Supponiamo, dice, che un oggetto sia proprio ciò di cui possiamo
prevedere il comportamento, per cui se quello che sembra un tavolo avesse un
comportamento imprevedibile non sarebbe un oggetto (ma, diciamo,
un’allucinazione); allora non sembrerà più strano che riusciamo a prevedere il
comportamento degli oggetti. Il principio di cui ci serviamo per siffatte
previsioni, che cioè a ogni causa seguano precisi effetti, non è da noi imposto
dall’esterno alla natura; è ciò che costituisce internamente la natura – non
sarebbe una natura, ma un sogno, se non esibisse tale regolarità. Perseguendo
il suo tentativo Kant, come Platone, costruisce un mondo nel quale non solo la
conoscenza ma anche i valori morali, l’apprezzamento estetico, Dio e
l’immortalità assumono ruoli diversi che nella tradizione. E, nel farlo, come
tanti altri giocatori alle prese con le loro costruzioni originali e bizzarre,
usa parole magiche: termini antiquati, imponenti ed enigmatici che colloca in
contesti e in reti associative devianti rispetto a quelli già noti, talvolta
devianti fra loro, gettando i lettori nello sbalordimento e nello scompiglio –
lo stato d’animo giusto per chi voglia aprirli a un punto di vista radicalmente
nuovo. Qui, per esempio, compaiono due di queste parole formidabili: il
principio in base al quale il tavolo non sarebbe un oggetto se il suo
comportamento non fosse regolare e prevedibile viene detto «trascendentale» e
l’altro principio per cui niente sarebbe un oggetto se non fosse nello spazio
viene detto «metafisico», violando gli usi comuni di entrambi i termini e
quelli cui lo stesso Kant li adatta in altri passi. Mentre gioca con la nostra
visione dell’universo, il filosofo sta giocando anche con il linguaggio.
Giocando s’impara, quindi il gioco della filosofia può essere istruttivo, nello
stesso modo caotico e imponderabile di ogni altro gioco. Per caso, una delle
elaborate, ambiziose costruzioni filosofiche di mondi, esseri umani o Stati
alternativi a quelli esistenti entra in contatto, talvolta, con la realtà
quotidiana (con il gioco che è diventato abitudine) e la cambia in modi che
vengono giudicati vantaggiosi; può anche capitare che in una di queste
costruzioni decidiamo di traslocare e quella diventi, per un po’, la nostra
realtà quotidiana (il nuovo gioco diventi una nuova abitudine). Quando ciò
càpita, riteniamo di aver imparato qualcosa e pensiamo che la costruzione
filosofica abbia dato un contributo alla nostra conoscenza – un contributo che
viene detto scientifico. Giocando abilmente con le lenti, Galileo riuscì a
trasformare il nostro senso di che cosa significhi osservare: ora, se vogliamo
osservare un pianeta, guardiamo uno schermo invece di sollevare la testa e
aguzzare la vista. Ma il mondo fisico di Galileo non esiste più, come non
esiste più quello di Aristotele (noi non ci viviamo più); altre costruzioni
filosofiche ne hanno preso il posto e sono oggi al cutting edge della scienza.
Nel frattempo, i nostri giorni continuano a essere popolati di pratiche e
oggetti che sono il lascito di giochi «scientifici» a lungo accantonati – di
ciò che quei giochi sono stati in grado d’insegnarci. La macchina a vapore fu
inventata in base alla teoria del flogisto, l’esempio più tipico di teoria
screditata; molte persone colpite da tubercolosi sono state curate dallo
pneumotorace, anche se la teoria «meccanica» su cui lo pneumotorace aveva
basato il suo successo, avanzata da Carlo Forlanini, si è volta presto in una
simpatica curiosità. Nel prossimo (e ultimo) capitolo tirerò le fila dei nostri
sforzi. Qui voglio chiudere con una storia: un esempio di come funzioni il
gioco filosofico/scientifico, di come possa cambiare – forse in meglio, forse
orribilmente in peggio – le nostre condizioni di vita. (I fatti che riferisco
sono tratti da un articolo di Michael Specter intitolato The Mosquito Solution
e pubblicato sul «New Yorker» del 9 e 16 luglio 2012.) Le zanzare sono state
responsabili del 50% delle morti umane nella storia. La malaria, la febbre
gialla, varie forme di encefalite e numerose altre piaghe le vedono come
protagoniste. Fra le zanzare più letali c’è Aedes aegypti, che fa strage in
Africa e in Brasile ed è da poco rientrata negli Stati Uniti (vi aveva già
prosperato fino agli anni Sessanta del secolo scorso). Uno dei metodi con cui
si cercava di combattere Aedes era sterilizzando milioni di insetti con dosi
massicce di radiazioni e impedendo così loro di riprodursi. Ma, per quanto
efficaci con altri agenti patogeni, le radiazioni funzionavano male con animali
piccoli come le zanzare. Intorno al 1990, un genetista di nome Luke Alphey
incontrò per caso un collega che gli parlò della tecnica di sterilizzazione e
delle sue difficoltà. Immediatamente, vista la sua formazione professionale,
pensò che, invece di sterilizzare le zanzare, si potesse cambiarne il codice
genetico in modo che si autodistruggessero. C’erano due problemi, però. In
primo luogo, bisognava intervenire solo sui maschi, perché le femmine mordono
gli esseri umani e avrebbero potuto infettarli con chissà quale variazione
genetica. In secondo luogo, bisognava che i maschi rimanessero in vita abbastanza
a lungo, e fossero abbastanza vigorosi, per trasmettere i geni mortiferi ai
loro discendenti. Vuole il caso che, nella specie Aedes aegypti, le femmine
siano molto più grandi dei maschi, quindi facilmente identificabili; il primo
problema poteva essere risolto. E presto anche il secondo lo fu, ugualmente per
caso. Alphey infatti capitò in un seminario in cui si parlava di come la
tetraciclina funga da antidoto contro l’azione di un gene. Il piano era pronto:
si sarebbero creati milioni, miliardi di maschi Aedes con il gene
autodistruttivo proteggendoli in laboratorio con la tetraciclina; una volta
immessi nell’ambiente, avrebbero avuto il tempo e la forza di accoppiarsi prima
di soccombere (ormai privi dell’antidoto) insieme con tutta la loro progenie.
Detto fatto, il piano è già in fase di realizzazione in Brasile e in altri
paesi. Negli Stati Uniti, però, vari gruppi ambientalisti sono insorti
protestando: Possiamo prevedere tutto ciò che accadrà quando avremo scatenato
questo nuovo Frankenstein? Certo allora non potremo più rimettere il genio
nella bottiglia. Per esempio, che cosa succederà se anche solo poche femmine
sopravviveranno dopo il contatto con il gene e morderanno un essere umano?
Oppure, che conseguenze avrà la scomparsa di Aedes aegypti per la nicchia
ecologica che adesso occupa e per l’intera ecologia del sistema? Sullo sfondo,
intanto, si agitano domande filosofiche di grande profondità (cioè domande
globali sul tipo di vita che vogliamo vivere): È meglio sbarazzarsi di un
pericolo o imparare a conviverci? Può essere desiderabile un mondo in cui una
specie sia stata distrutta? È lecito considerare il bene degli esseri umani
come decisivo? È lecito per gli esseri umani giocare il ruolo di Dio? È un
esempio paradigmatico della natura ludica della ricerca più avanzata e
prestigiosa. Si procede (quando si procede e non si corre sul posto) non con un
disciplinato esame della questione e un lavoro certosino teso a scoprire che
cosa sia necessario per dirimerla (come vorrebbe la più comune ideologia) ma
invece ascoltando discorsi che non c’entrano, combinando contributi eterogenei,
mutando radicalmente prospettiva e contando molto sulla fortuna (se volete
giocare bene a briscola, o anche a bridge, fatevi venire delle carte). E, una
volta che, in questo modo macchinoso e fortuito, abbiamo eventualmente trovato
qualcosa che sembra risolvere la questione, dobbiamo confrontarci con il fatto
che ci sono rischi forse tragici nello scegliere una strada così inedita.
Potremmo illuminare la stanza o bruciare la casa, e, per quanto a lungo abbiamo
giocato per procura con una rappresentazione verbale o mentale delle
conseguenze della nostra scelta, girare l’interruttore è un’altra cosa. Prima
che ci si decidesse a esplodere una bomba atomica, c’erano fisici nucleari che,
sulla base della stessa teoria dei loro colleghi «interventisti», prevedevano
che l’atmosfera ne sarebbe stata consumata e la vita sulla Terra si sarebbe
estinta. È facile dire che avessero torto, dopo aver girato l’interruttore. E
dobbiamo confrontarci con il fatto che una questione non è mai davvero risolta:
che ogni risposta suscita nuove domande, che il gioco che ha prodotto quella
soluzione la supererà, come supererà ogni altra soluzione, perché il gioco non
ha mai fine. Sono i Labirinti dell’essere. Abbiamo compiuto il viaggio
promesso. Partendo dal gioco di una bimba di due anni abbiamo raggiunto giochi
fisici come il calcio e il tennis, intellettuali come gli scacchi e il bridge,
giochi in compagnia e solitari; abbiamo catturato nella nostra rete ludica
l’arte, la letteratura e la filosofia. E lo abbiamo fatto, converrà ripetere,
non riducendo il gioco a un’eterea silhouette, non facendo del «gioco»
filosofico o letterario una metafora che mostra presto la corda – perché se è
vero che ci sono analogie fra l’etica e il tressette, si sarebbe pronti a
obiettare, è anche vero che ci sono molte differenze. La bimba che ha
inaugurato la nostra avventura non ci ha mai lasciato; ha acquisito per strada
competenze e capacità che nessuno può avere a due anni, ma il suo universo
ludico è rimasto lo stesso, una versione adulta del medesimo gioco infantile.
Ha incorporato le pareti contro cui andava a sbattere come regole; collabora
con maggiore efficacia con i suoi compagni o li manipola con maggiore destrezza;
le sue vocalizzazioni hanno preso la forma di un linguaggio articolato; ha
imparato, quando è il caso, a parlare senza farsi sentire. Ma l’acqua che
scorre fra questi meandri (creati, è importante notarlo e ci ritornerò fra
breve, dall’acqua stessa) è ancora quella della sorgente: a dispetto delle
complicazioni, per la bimba cresciuta giocare (a calcio, a scacchi, all’arte,
alla filosofia, alla letteratura...) è pur sempre immergersi senza alcun fine
esterno in un’attività trasgressiva ed esplorativa, piacevole e istruttiva,
appassionata e rischiosa. Ogniqualvolta entro le regole che si è imposta o le
hanno imposto, o contro le regole, una persona riesce a ritrovare lo spirito
che l’animava a due anni, la bimba ritorna e riprende il controllo delle
operazioni: seria, intenta, un po’ inquieta, audace, intimamente soddisfatta.
Ancora Huizinga: «Il gioco del bambino possiede la qualità ludica qua talis e
nella sua forma più pura» (p. 40). La peculiarità di questo atteggiamento
risulta più chiara quando se ne considerino le conseguenze sul piano dei
valori. Se la filosofia avesse una sua definizione indipendente, diciamo di
essere tesa alla scoperta della realtà o della verità o della saggezza, e fosse
un gioco solo in senso metaforico, perché praticata con creatività e passione,
ne seguirebbe che una buona filosofia è quella che meglio approssima la
scoperta della realtà o della verità o della saggezza, senza riguardo alla
creatività o passione con cui è condotta. Chi eventualmente potesse pervenire
alle stesse scoperte senza creatività o passione avrebbe, in ambito filosofico,
gli stessi meriti (e dimostrerebbe che la metafora ha fatto il suo corso:
Giulietta non brilla più come il sole). Se invece la filosofia è definita come
un gioco, sia pure il gioco di cercare la realtà, la verità o la saggezza, non
ci può essere buona filosofia senza creatività e passione – e trasgressione, e
apprendimento, e rischio. Quali che siano le sue pretese di verità e saggezza,
una filosofia è degna della nostra attenzione e partecipazione se ci spiazza e
ci avvince, ci irrita e ci lusinga, ci fa vivere ripetute Ah-ha experiences e
ci suscita obiezioni e disaccordo a non finire. Nello stesso modo, se il
linguaggio è innanzitutto uno spazio di gioco, avremo scritto una bella
lettera, un bel racconto o una bella comunicazione d’ufficio se le nostre
parole sapranno riscuotere il lettore e implicarlo in un progetto comune, il
che tanto meglio faranno quanto più porteranno le tracce del respiro e della
saliva in cui sono nate, dell’eco che ci hanno fatto risuonare dentro,
dell’entusiasmo o dello sconforto, delle lacrime di gioia o di dolore che ne
hanno accompagnato l’accesso alla pagina. Ciò corrisponde esattamente,
peraltro, ai nostri giudizi empirici ordinari su testi filosofici e
comunicazioni d’ufficio, salvo che le nostre concezioni di tali oggetti non
fanno giustizia alle nostre intuizioni, e così rimaniamo perplessi davanti a un
testo filosofico o una comunicazione d’ufficio «che non hanno niente di
sbagliato» perché dicono quel che devono dire e contengono solo enunciati veri,
eppure ci sembrano, chissà perché, da buttare. Il discorso sarebbe terminato,
dunque: avremmo percorso il labirinto e saremmo arrivati nella stanza dove si
ritirano i premi. Ma mi piace pensare che la stanza non sia chiusa e che anzi
il premio consista in una porta aperta su un altro sentiero tortuoso da
percorrere, in un bosco stavolta anziché in una claustrofobica caverna. Non mi
lancerò qui nel nuovo viaggio cui il sentiero invita, ma getterò lo sguardo in
quella direzione per stimolare la mia e forse l’altrui curiosità. In questo
libro ho parlato del gioco come di un’attività esclusivamente animale, e
perlopiù umana. L’ambiente inanimato è stato visto come strumento del gioco
(palle, cubi, carta e penna) o come suo ostacolo (pareti, spigoli), non come
suo soggetto. La cosa sembra ragionevole: se il gioco, come ho detto, è vita,
allora è riservato agli organismi viventi; se consiste in una serie di mosse –
devianti, istruttive, pericolose, ma pur sempre mosse – allora per praticarlo
occorre potersi muovere, il che fra gli organismi viventi sembrerebbe escludere
le piante. Ma è poi tanto certo che così stiano le cose? Proviamo a giocare con
le apparenti tautologie che ho enunciato. Se la vita richiede funzioni che noi
siamo in grado di riconoscere come respiratorie, metaboliche e riproduttive,
allora è chiaro che un orso, un pappagallo e una quercia sono vivi ma una
pietra no; se il movimento richiede che un ente con una sua precisa struttura
si stacchi (almeno in parte) dalla sua posizione spaziale e ne assuma un’altra,
allora formiche ed elefanti si muovono ma un geranio o un cipresso no.
Supponiamo però di invertire l’equazione che ho appena citato: se il gioco è
vita, la vita è gioco. E ricordiamo che il movimento che conta per il
gioco/vita si svolge in uno spazio esistenziale, non sempre fisico. Con tali
premesse, non è forse gioco/vita quello di un cielo che non appare mai due
volte nella stessa configurazione, di un corso d’acqua che costruisce i suoi
meandri o della sabbia che costruisce un lido, di cristalli di neve di forme
delicate e idiosincratiche (ciascuno, sembra, un esperimento a sé stante), di
una foresta che alterna grovigli e radure, tronchi giganteschi e canne
flessuose? E non è forse vero allora che al mondo non esiste nulla di
inanimato? Nel nono capitolo ho parlato dei diversi modi in cui possiamo
giocare con un altro: trattandolo da strumento o da compagno. Vorrei aggiungere
ora che trattare un altro da strumento significa trattarlo come un oggetto
inanimato: anche se l’altro è un essere umano, il mio rapporto con lui (o lei)
sarà basato sul controllo che esercito, schiacciando i suoi tasti per ottenere
l’effetto voluto. Il limite di questo controllo sarà percepito come un’oscura
minaccia e sarà causa di disagio o di terrore; sentimenti così penosi hanno
però un ruolo significativo – segnalano la possibilità ancora indistinta di
passare da un’utilizzazione a un incontro, quando si riescano a dominare
l’ansia e la paura. La medesima pluralità di atteggiamenti ci è disponibile nei
confronti di tutto l’essere. Possiamo giocare con la natura come con una
risorsa, e oscillare dalla boria sprezzante di averla ridotta al nostro
servizio all’inquietudine che quando meno ce lo aspettiamo ci si apra la terra
sotto i piedi (dal bruciare allegramente carbone e petrolio al preoccuparci per
il buco d’ozono e il riscaldamento globale), oppure come con un compagno,
raccogliendone i suggerimenti, facendole delle proposte, cercando di costruire
insieme un bel castello. Chi vive il rapporto in questo secondo modo (molti lo
fanno, pur se spesso non hanno parole per dirlo) sente che una montagna lo
sfida ma anche lo assiste premurosa nel trovare una via per scalarla, che il
mare ti avverte quando vuole lottare con te, che la macchina ha piacere a
distendersi veloce fra curve e dislivelli con sapienti cambi di marcia, che il
caffè mattutino parla di energia, di fiducia, di piani ambiziosi per la
giornata. Sarà bene che la smetta, prima che qualcuno pensi che il gioco mi ha
preso la mano – che poi sarebbe il suo, e il nostro, destino. Ma non posso che
congedarmi con una provocazione. Ho percorso un labirinto per dipanare il senso
di un’attività che è a sua volta labirintica, ferocemente intricata. A quello
che sembrava il termine del labirinto ho trovato un’indicazione, ancora in
buona parte misteriosa: che non si tratti di un labirinto qualsiasi, che la sua
natura labirintica sia la natura dell’essere in quanto tale. Perché solo chi
gioca, nelle mille disparate manifestazioni in cui il gioco si realizza, è: è
vivo, esiste. I labirinti ludici dell’essere sono l’essere; il resto è uno
zombie, un fantasma, uno spettro. Basta una risata divertita per farlo
scomparire.Ermanno Bencivenga. Keywords: il
piacere, teoria del linguaggio, logica libre, metodo della logica, calcolo di
predicati di primo ordine, logica di termini singolari, piacere, bello, logica
dialettica, implicatura, Hegel, Kant, gioco. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Bencivenga” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bene – Tancredi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Maruggio). Filosofo italiano. Grice: “Molto bene”. Figlio
da Lupo e da Perna Longo, entra nell'ordine dei Teatini e fu professore. Lascia
importanti opere come l'Apologia del Tancredi e la Summa Theologica. A
Maruggio, in sua memoria è stato intitolato l'istituto comprensivo e una via
cittadina. Opere: “Apologia del
Tancredi”, “Summa Theologica” “De officio S. inquisitionis circa haeresim” “De
immunitate, et iurisdictione ecclesiastica”, “Theologiae moralis Tractatus”. Tommaso
del Bene. Nacque in Maruggio -- luogo nella diocesì, non già della
diocesì di Taranto, come li è scritto da molti; perchè è nullius come Tuoi
dirli, ed è Commenda della Religione di Malta -- e dopo di aver apprese le
latine lettere, e le greche, la matematica, e l’astronomia, entra fra’ Teatini,
e ne professa l’instituto in SS. Apolidi di Napoli. Sostenne l’ impiego di
lettore di filosofia. Ma avendo poi pubblicato il "De comitiis" per
cui ebbe in Napoli qualche disgusto, gli convenne di trasferii in Roma. Quivi
pensando e scrivendo in modo da piacere a quella corte, incontra miglior sorte,
e fu predo decorato delle cariche di esaminator del clero, di qualificator del
S. Uffìzio, e di confaitore di più congregazioni (a). Fu incaricato inficine
co’Tea- tini Vincenzio Riccardi, ed Aeoftino de Bellis della revifione ed y
emendazione dell’ Eucologio de Greci: e da Papa Alessandro VII. fu messo nella
congregazione indituita per l'esame delle proposizioni di Gianfenio. In premio
de’ fuoi fermisi furongli offerti alcuni Vcfcovadi ch’egli Rimò meglio di
modedamente rifiutare. On-? de terminò di vivere da semplice religioso in Roma.
(b). Le sue opere sono molte. Brieve Apologia del Tancredi, Poema di Ascanio
Grande. Si trova dietro l'Apologia dell’ iftefio poema fatta dall'arcidiacono
Palma, e Rampata in Lecce i Ò35. in 8. Niuno ha fatta menzione di
quell'opuscolo del P. Del Bene, dell’ Ab. de Angelis in fuori, il quale ne ha
parlato con lode nc’ Letterati Salentini Par. z. nella Vita del Grande pag.
i$z. a. De Comitiis yfeu Parlamenti! •, ac inciijfnter (T corollarie de aliis
moralibas marerii!, precipue de ecclefinQica immunitate, Dubitationes morale!.
Lugduni fttmpt. Nemejìi Trichet i6\g in 4. con dedicatoria dell’autore a Papa
Urbano Vili, e poi, da lui deffo ri- veduto ed ampliato, Avemonefumpt. Guill.
Halli inf. cor. dedicatoria al Card. Francesco Albizi. Quedo su il libro, per
cui dovette partir di Napoli il P. Del Bene. Prese in elfo a trattare della
morale, che nfguarda i tribunali regi, e gli delfi sovrani. Materia assai
di!icata,e che vuole altri lumi di quelli, che aver fuole il volgo de’ moralidi
3. De immunitate jurifdittione eccleftajlìca Opus abfolutìjfimum in z. parte!
di/lributttm. Ivi Jumpt. Phil. Borie, Laur. Arnaud, <5* Claud. Rigaud 1650.
in f. (c) 4. Summa theologica. Ivi fumpt. Jo. Ant. Huguetan, O* Mar. Ant.
Ravaud in f. 5. Trattarui morale!: videlicet de Conscientia; de radice re/litu-
rioni1 aliarumque obligationum <2Tpcenarum,ut eucommunicatio- nii &
irregularitatt! eu delitto de Comieiii seu Parlamenti!, ubi etiam da alagiti
(5“ contrattibus; de donativi! tributis (T fubjìdio Caritativo. Avtnione Guill.
Halli ió%8. in f. (d) ó.De (a) Di tatti cotefli titoli fi fregia in virj suoi
libri. (b) Cosi il Vezzoli Senti. Titt. che cita i reijitlri di S.Ao'* ea della
Val- le; e perciò debboao correggerli il SavanaroU Gtrarth. Eccl. Tttt. p. 6j. e
fegg. il Mazzucch. Striti, $ lui. ed altri (c) E poi Avtniont Jo. Fiat. T.z. in
f. Il MazzuecheHi s’è inganna- to r eli attribuire a quell’ Opera le aggiunte
fatte dall’Autore al libro dt Offi. ti Y. Inquisitionit. (d) Il Vezzofi
lot. tit, p.i 15. annoi, z. cenfura il Mazzucchelii d’aver det-. t». Digjtized
by Google BENE BENEDETTI.,99 • 6. De Officio S. Inquisitionis circa
h<trejim cum Bulli* tam voteti- bus quam recentioribus etc. Lugd. Jumpt. ]
A. Huguetan, T. 2. in f. L’ autore poi compose, e vi uni le seguenti:
Additiones de loci theologicis ad tomo de Officio S. Inquisitionrs perneceffa•
ria in f. Opuscolo di pag. sa il quale fi riftampò in 8. fenz’ alcu- na data,
coi titolo di Trattanti in vece di Additiones. 7. De Juramento, in quo de ejus
0" voti rclaxationibus &c. cui Dectftonet S- Rotte Romana accedunt
&C- Lugd. fumpt. guetan, 0" G. Barbier. in f, CXI. da Capoa, ha
rime nel Sello libro delle Rime di diverfi eccell. Autori nuovamente raccolte
ec. da G. Rufcelli. Vene*. G.M- Bottelli 1553. in 8. (a), CXII. e Canonico
Aquilano, diede alla luce: L' Imprefe della Mae/là Cattolica di D. Filippi di
Auflria II. Re di Spttgna rapprefentate nel tumolo ptr la Jua, morte eretto
dalla fedèlifs. citta de.’f Aquila ec. Aquila Lepido Faci 1599. in 4. Toppi
Bibl. Nap. CXIII. BENEDETTI (Giuf. dilettò di Poefia volgare, ed era Paftor
A/cade della Colonia Ater- nino, di cui fu Vicecuftode, e vi fi denominò
Alcidalgo Spai da- te (b) Nell’ Accademia de’ Velati di fua patria egli era
Principe (r). Fu anche accademico Infenfato
di Perugia (d). Di lui fi ha alle {lampe la vita di Biagio Aleffandrò
dall’Aquila nel- le Notiss. Iftor. degli Arcadi morti BENEDETTO, Arciv. di
Milano. V. Crifpo (Benedetto ), BE-. to, edere (lato il libro de Comìtiis unito
dal P. del Bene in un corpo, o to- mo il Trattanti moralts: elfendo quello un
libro didimo, comechè in alcuni efemplari fi trovi a quello unito. Ora in primo
luogo il Mazzucchelli non dice nè punto nè poco di tutto ciò; e foltanto
riferifee 1’ edizione de’ Tra- ttatus moralts, come io pure ho fatto, unendovi
deCom'niis etc. La qual co- fa è ben diverta, come ognun vede. Ma poi non fo,
fé il Vezzofi nella co- fa (Iella abbiali ragione. Io non’ ho il libro, ma lo
trovo riferito nel Cara!. Cafanattenfe alla voce Detiene (sbaglio prefo pure
dal Toppi B'bl. Nap. } infieme eoa quello de Comìtiis; e ciò, eh' è più, il
Nicodemo Addìi. al Toppi p.i]4. chiaramente dice:,, Io oltre l’ultima edizione
del libro de Co-,, mitiis etc. fi regillri nel modo, che fiegue: Tbeologia
moralis trattetus fextut. „ I. de Comìtiis etc. II. de Alagiis etc. Un trattato
fello ne fuppone cin- que, a’ quali dee unirli. (a) Quadrio, Crefcimbeai,
Tafuri. Tommaso Del Bene. Keywords:
Tancredi, Monteverdi, Tasso. Moralia, mos, morale, cavalleria. Il santo
cavaliere, mendacio, mentire, iuramento, morale, moralia, abiuratio,
conscienza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bene” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Benedetto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crema). Flosofo italiano. Insegna a Padova, di cui divenne
in seguito rettore. È ritratto in un dipinto di Giovanni Busi detto il Cariani,
allievo del Giorgione. Giovanni Benedetto da Caravaggio. Benedetto. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benedetto” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Benincasa – il nudo maschile nell statuaria italiana all’aperto – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Eboli).
Filosofo italiano. Grice: “Benincasa is a good one; my fvaourite is his ‘la
svolta dell’interpretatzione,’ for that is what Boezio knew ‘hermeneias’ was! a
turning point!” – Studia a Roma. Dopo aver completato tutti i suoi studi iniziò
a lavorare come traduttore di testi letterari (tra altri, Hans Urs von
Balthasar) per poi organizzare e curare mostre d'arte. Membro della Commissione Consultiva Arti
Visive della Biennale di Venezia e consigliere del Ministro per i Beni
Culturali e Ambientali. Insegna a Macerata,
Firenze e Roma. Scrisse saggi storico-critici su vari artisti. Opere: “Chiesa e
storia di Suhard e il Concilio Vaticano II, Paoline; “L'interpretazione tra
futuro e utopia” (Magma, Roma); “Poetica della negazione e della differenza” Il
Giudizio Universale (Magma, Roma); “Sul manierismo: come dentro uno specchio” (La
Nuova Foglio); “Babilonia in fiamme: saggi sull'arte contemporanea” (Electa,
Milano); “Architettura come dis-identità” (Dedalo, Bari); “L'altra scena: saggi
sul pensiero antico, medioevale e contro-rinascimentale” (Dedalo); “Anabasi Architettura
e arte” (Dedalo, Bari); “Alle soglie del sapere” Ed. del Tornese” Joan Miró 2C,
Roma); Oskar Kokoschka La mia vita” (Marsilio, Venezia); Oriente allo specchio 2C,
Roma); Georges Braque” (Marsilio, Venezia); Jackson Pollock: opere” (mostra,
Bari, Castello Svevo) Marsilio, Venezia); “Verso l'altrove: Fogli eretici
sull'arte contemporanea” Electa, Milano); Alvar Aalto” Leader); Umberto
Mastroianni Monumenti” (Ed. Electa, Milano); Il colore e la luce L'arte
contemporanea” (Ed. Spirali, Milano); “André Masson “L'universo della pittura” Mondatori,
Milano; Spirali/Vel, "Alfio
Mongelli: infinito futuro", Joyce & Company, Il tutto in frammenti:
arte Professore: una nuova interpretazione storica” (Giancarlo Politi, Milano).
La citta disalerno ricerca repubblica repubblica archivio repubblica biennale-il-
psi-fa-incetta-di-poltrone. html1http://ricerca.repubblica. it
repubblica/archivio/ repubblica artisti-rasputin-nel- mondo- dei- telefoni.
html2 lacittadisalerno/ cronaca
/benincasa-fece-amare-l-arte-all-italia-~:text=È%20morto %20ieri%20a%20 Roma, autore
importanti%20opere letterarie Dal Benincasa 20 Beni Culturali%20e%20
Ambientali. La Repubblica_1, su ricerca.repubblica. Errori giudiziari, su
errorigiudiziari.com Carmine Benincasa.
Keywords: il nudo maschile nella statuaria italiana all’aperto, implicatura
plastica, la svoglia dell’interpretazione, umberto mastroianni, nudo maschile,
statuaria, il segno del teatro: rito, mascara, anabasi, arte come dis-identita,
futurismo, arte futurista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benincasa”– The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Benvenuti – filosofia italina – Luigi Speranza (Montodine). Filosofo italiano. Grice: “A good thing about
Benvenuti’s discussion of Agostino’s semiotics is that Benvenuti has a strictly
philosophical background, rather than in grammar or linguistics or belles
lettres, or even ‘theory of communication.’ Therefore, he INTERPRETS Augustine as
*I* do!” -- Grice: “You gotta love
Benvenutti. He dedicated his life to the semiotics of Agostino (who never knew
he was a saint), the first Griceian. Benvenutti divides his discussion of
Agostino’s semiotics in three: the semiotic triangle, the taxonomy of signs,
and inferenza – For Agostino, ‘segno’ contrasts with ‘cosa.’ And a sign can
signify ‘naturaliter’ (fumo, orma, volta). Or non-naturaliter – daglia animali
including homo – prodotto dall’uomo – a ‘gesture’ that has to be perceived by
one of the five senses – or by the senses – auditum (parola detta) – visum (segno
scritto).” --. Cesare Benvenuti Cesare
Donato Benvenuti Don Cesare Donato Benvenuti (Montodine) filosofo. A partire
dal 1708 ricoprì la carica di Abate Generale Lateranense. Fece stampare
un'opera sulla vita di Sant'Agostino e una traduzione in italiano della Città
di Dio Biografia Cesare Benvenuti nacque
dal conte Girolamo Benvenuti e dalla contessa Domitilla Scotti di Piacenza. La
prima istruzione fu nella casa paterna di Crema, successivamente nelle scuole
tenute dai Barnabiti. All'età di 16 anni volle seguire l'esempio dei suoi due
fratelli entrando nella vita ecclesiastica prendendo l'abito della
Congregazione lateranense a San Leonardo di Verona. Dopo sette anni di studi di
filosofia e teologia venne nominato lettore e come tale risiedette in varie
città. Nel 1708 a Roma venne dichiarato abate perpetuo privilegiato con
l'incarico di presiedere alla Congregazione dei casi di coscienza e di emanare
i giudizi relativi. Per questo suo incarico che esercitò per otto anni crebbe
la sua fama di teologo tanto che dal cardinale Barberini lo volle accanto a sé
come teologo ed esaminatore sinodale. Benvenuti fu anche postulatore della
cause dei santi e si adoperò in particolare per la beatificazione del
venerabile Pietro Fererio che fu beatificato da papa Benedetto XIII. Cesare Benvenuti era anche dotato di
particolari capacità diplomatiche tanto da ricevere incarichi in tal senso in
Germania e a Vienna. Assieme a questi ufficii curiali Benvenuti esercitò anche
le pratiche caritative della sua ordinazione sacerdotale visitando e
prendendosi cura dei poveri e degli ammalati. Trasferitosi da Roma a Napoli fu
colpito da apoplessia e quivi morì. Altre
opere: “Vita del gloriosissimo padre santo Agostino, vescovo e dottore di
S.Chiesa” (Stamperia Barberina); “Discorso Storico-Cronologico-Critico della
vita comune dei chierici de' primi sei secoli della Chiesa” (Stamperia di
Antonio de Rossi); “La città di Dio, opera del gran padre s. Agostino vescovo
d'Ippona, tradotta nell'Idioma italiano, Stamperia di Antonio de Rossi). stone
lo Stato di Grazia. I. Sono sua eredità, Vita comune deg'apostoli &the sono
i primi Sacerdoti di Gesù-Cristo.V.S. Lucanonne parla: la rispondechica vedere
la poca forza dell'argomento negativo. Vita comune de primi fedeli. Uti. Vita
comune e votiva de Santi Apostoli e de primi Fedeli Passò succesivamen s e la
Vita comune ne Ministri dell'A l r a r e. De' terapeuti, che se ne dice.
Persecuzione della Chiesa. Comunità di Vergini Sagre nelle decadenze di questo
primo secolo, è fa nell'incominciare del secondo Sentimenti d'Origene. Della
Comunità Apostolica come parli Cipriano. Del i modo di vivere degli
Ecclesiastici Jocto Dionigi. Paolino. SE G10LO 1L Comunità de' beni nello stato
dell'innocenza. Sacerdoti istituiti daGesù-Cria Vita comune votiva del clero di
Gerusalemme secondo la decretale afsritta a Clemente. Della comunità del clero
ďAntiochia. Della Vita, de Fedeli e reSpettivamente degli Eclesiastici cosa
scrissero: Giustino martire, Policarpo, Ireneo, Dionigi di Corinta ed
Apollonia. Della Vita comin g ne del Clero di Mans SECOLO III. Clemente
Alessandrino come parla della Continenza. Della vita comune votiva, triferita
da Urbano Papal. relativamente a quella descritra da Clemente PapaI. III.
praticoinse la Povertà Apostolica. Del celebre Pierio Prete della Chiesa
diAlessandria. Genulfo Uomo Apostolico promove la Vita Comunono Fedelida lui
convertitieconfa. gratialculeo del Signore on la Cornunità
de'Cherici ly Vira Comune nel Clero di Vercelli. Come de Cherici iparla Ilario
Pittavienfe. Esortazione del SantoDiaconoEfrem Siro agli Ecclessastici.
Comunità de'Cherici della Chiesa Rinocorurese. Basilio come parla a'
CanoniciedaleCanonicbese. Basilio che scrise di Ermogene e di Zenon
neilPelusota, ed i molti Vescovie Preri Se Epifanig. Che racconta Severo
Sulpizio della Povertà d'u n Prece, Tofimonio Postumiano. Del Clero vivente in
commune nela Chiesa di Salaming in Cipre. De Clero di Ambrogio di Milano. De
Cherici d'Aquileja. Della Chiesa Cartaginesi. Della Comunità di Agostino nelle
vicinanze di Tagasta. Sentimenti di Girolamo sopra lot Staro di Chorici.
Comunità di Agostino Prete in Ippona. Della Comu nità d'Agostino nel
PalazzoVescovile–Ippona. Ii Concilio Cartaginese ci porta la Comunità di
Vescovi coloro Cherici. SEGOLO V. La Comunità Chericale Sparsa perl'Africa. Di
Mario Arelatenfee del suovina vere Chericale. Del Clero Africano corso à Roma à
cagione de'Vandali forto il Papa LeoIne. Cheg indižio possa
farlidelaperforiadit. Prospero e delsuo vivere Chericale, Della Vita comunend
Clero d'Ibernią foto,S.Rørrizio Vescovo.VI. Della Vita Regolare degli
Ecclesiastici della Chiesa di Calcedonia. Che dice Giuliano Pomerio de
Chericie, de Cherici del suo tempo. Del Pontefice Gelafio Primiera mente
tratasi delMonte Celio. De Laterani e loro Palazzo, che fù convertito nela
Basilica Lateranense, Del vivere comune de ChericiLao "teranefo,
Che's.Gelafio è Africano, Dell' antica puncupazione di Canoni, Dell'invasione
di Longobardi nel Monte Cassino e venutdai que' Monacià Roma, e loro dimora; e
dell'oratorio di Pancrazio, De Priori della Chiesa 1 Lateranense Canonici
Regolari SECOLO VI, m. Della Vita Chericale comune secondo quella d'Ippona
indicata negl'tti di Lorenzo detta! Illuminatore. Che cosa prescrive il
Concilio Ilerdense. Che il Concilio di Toledo, Che i Padri del Concilio
d'Orlans. Che ferive di Baudino Gregorio SICOLO:Ivi. Povertà Evangelica
sandria. Ill.Zin Canone del Concilio Romano, atribuito à Silvestro vien
intejaper Buplio Diacono. Comunità Chericalen e laChiesa d Ales O o. DI 1 1
Turonense. Che fece Leobina Vescovo nella Chiesa Carnotenje. Dalle proibizioni
del Concilio Arelaten fededucesi il metodo del vivere Chericale di que'
tempi.Vita Regolare ne' Cherici espressa nel Concilio di Tours. De vivere in
comune de Chericj in Romaforzo il Pontificato di Gregorio Magno. Note Fonte: Francesco
Sforza Benvenuti, Storia di Crema, p.37Filosofia Filosofo del XVII
secoloTeologi italiani 1669 1746 Montodine NapoliTraduttori dal latino. Don
Cesare Donato Benvenuti. Cesare Donato Benvenuti. Cesare Benvenuti. Keywords:
paganismo, religione romana antica, paganesimo ario in Italia, i romani, i
ostrogoti, i longobardi, religione romana, religione ostrogota, religione
longobarda, mitologia romana, mitologia ostrogota, mitologia longobarda,
cultura romana, cultura ostrogota, cultura longobarda, le fonte pagane della
teoria del segno in Agostino – semeion, signum, segno, segnare, segnante,
segnato. Antecedenti di una teoria unitaria del segno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuti” –
The Swimming-Pool Library.
Grice
e Benvenuto – il grido – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “Benvenuto is a good
one; my fiavoruite is his ‘stupore e grido,’ the functionalist idea that after
some sensorial input (stupor) you get the manifestation in behaviour alla
Witters – the ‘grido’ – and then there’s one which is J. L. Austin’s favourite:
his “a man of words and not of deeds is like a garden full of weeds,” –
difficult to translate, but Benvenuto offers, ‘dicieria,’ and ‘dicitura,’ which
aptly combines with ‘empiegatura, or in my more Latinate (or learned)
terminology, ‘in-plicatura’!” Già Primo Ricercatore presso l'Istituto di
Scienze e Tecnologie della Cognizione (ISTC) del CNR a Roma. Professor Emeritus
di Psicoanalisi presso l'Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di
Kiev (gemellata all'Nizza). Ha fondato (nel 1995) e diretto l'European Journal
of Psychoanalysis. Ha compiuto gli studi universitari all'Università Paris
VIIDenis-Diderot dal 1967 al 1973, dove ha ottenuto la Maîtrise in Psicologia.
Nel frattempo, ha seguito i seminari di Roland Barthes e di Jacques Lacan. In
seguito ha preparato un dottorato in Psicoanalisi con Jean Laplanche
all'Università Parigi 7. A Milano si è formato in psicoanalisi attraverso gli
psicoanalisti della S.P.I. Elvio Fachinelli e Diego Napolitani, fondatore della
Società Gruppo-Analitica Italiana.
Trasferitosi in seguito a Roma, si divide tra la ricerca in psicologia
sociale al CNR, l'attività privata come psicoanalista, e il lavoro di
pubblicista. È stato cofondatore e caporedattore della rivista Lettera
Internazionale (fondata nel 1984) ed è tuttora assiduo collaboratore del
trimestrale Lettre Internationale di Berlino, e Magyar Lettre di Budapest. Nel
1995 ha fondato a New York il semestrale Journal of European Psychoanalysis,
divenuto poi EJPsy, European Journal of Psychoanalysis, che tuttora dirige.
Dal insegna psicoanalisi all'Istituto
Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev e all'Istituto di
Psicoanalisi Moderna di Mosca. Pensiero
Benché Benvenuto si sia occupato di campi in apparenza alquanto diversi tra
loropsicologia sociale, filosofia del linguaggio e della politica,
psicoanalisi, teoria della politicaa partire dagli anni 90 ha articolato un
progetto predominante che tocca i vari campi: sostituire al primato della
riflessione sulla Verità (tipico della cultura occidentale) una riflessione che
punti al Reale. In questo modo egli cerca una terza via tra le due culture
predominanti e in opposizione in Occidente: l'epistemologia positivista
(interessata alle condizioni di verità degli enunciati) da una parte, la
fenomenologia e l'ermeneutica dall'altra (interessata al disvelamento di una
Verità che si dipana nella storia umana).
Egli mutua il concetto di Reale dal pensiero di Jacques Lacan, ma ne
allarga il senso, includendovi tutto ciò che resta esterno (origine e resto) a
ogni assetto di senso, sia esso scientifico, estetico, o etico-politico. Il
Reale è quel fondo attorno a cui gira ogni teoria scientifica, ogni produzione
artistica, la psicoanalisi di ciascun soggetto, ogni assetto etico, e che resta
sempre in eccesso rispetto a tutti questi “discorsi”. Così, il Reale di ogni
teoria scientifica è il Caos che si pone come limite e sfondo di ogni processo
causale. Il Reale in psicoanalisi è il fondo pulsionale, corporeo,
irriducibilmente individuale, di fronte a cui ogni interpretazione si
arresta. In Dicerie e pettegolezzi (dove
articola una teoria delle leggende metropolitane) mostra come quasi tutto il
nostro sapere di fatto sia costituito da leggende metropolitane, oltre le quali
fa capolino la realtà dell'evento che ogni discorso sociale aggira. In Un
cannibale alla nostra mensa affronta la questione del relativismo moderno, a
cui oppone un “relativismo relativo”, facendo notare come ogni impostazione
relativista rimanda necessariamente a qualcosa di assoluto che resta non
tematizzato, presupposto e schivato. Accidia è una storia della malinconia dal
Medio Evo fino a oggi: il senso e la natura che ogni epoca dà alla
“depressione” rimanda a un vissuto opaco che nella storia viene interpretato
diversamente. In “Sono uno spettro, ma
non lo so” analizza la cultura degli spettri e il nostro rapporto con i morti,
notando come la morte “viva” tra noi proprio come istanza di Reale
inassimilabile a ogni progetto di vita, ma che avvolge la costituzione di
questi progetti. In particolare (ad esempio in La strategia freudiana e in
Perversioni) si è dedicato a una rilettura originale della teoria di Freud, e
della psicoanalisi in generale, come fondata su una metafisica precisa della
“carne significante”. Il tessuto interpretativo ed esplicativo di Freud rimanda
però a sua volta a qualcosa di non interpretabile né spiegabile: la pulsione
come sorgente opaca e non-significante della soggettività. Altre opere: “La strategia freudiana, Napoli,
Liguori); "Traduzione /
Tradizione" in Moderno Postmoderno, Feltrinelli, Milano); La bottega dell'
anima, Milano, Franco Angeli); Capire l'America, Genova, Costa & Nolan);
Dicerie e pettegolezzi, Bologna, Il Mulino); Un cannibale alla nostra mensa.
Gli argomenti del relativismo nell'epoca della globalizzazione, Bari, Dedalo);
Perversioni. Sessualità, etica e psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri);
“Accidia. La passione dell'indifferenza, Bologna, Il Mulino); “Lo jettatore,
Milano, Mimesis); “La gelosia, Bologna, Il Mulino); “Alle origini del
relativismo moderno”, Dei cannibali, Mimesis, Milano); “Confini
dell'interpretazione. Freud Feyerabend Foucault, Milano, IPOC); “Sono uno
spettro, ma non lo so, Milano, Mimesis); “Wittgenstein. Lo stupore e il grido,
Milano, meditare; Sette conversazioni per capire Lacan, Milano, MIMESIS, La
psicoanalisi e il reale. 'La negazione' di Freud, Orthotes, Napoli-Salerno.
Godere senza limiti. Un italiano nel maggio '68 a Parigi, Milano, Mimesis, Leggere Freud. Dall'isteria alla fine
dell'analisi, Orthotes, Napoli-Salerno. Il significante, tra Saussure e Lacan,
su journal-psychoanalysis.eu. su psychomedia. Il progetto della psichiatria
fenomenologica, su mondodomani.org. Sergio Benvenuto. Keywords: il grido, segnante,
segno, segnato, arbitrario, naturale, convenzionale, established, recognised,
stabile, stabilito, sistema di communicazione, iconico, non-iconico,
convenzionale, assoziativo, artificiale, non-naturale, non-artificiale,
procedimento, repertorio di procedimento, idio-lecto, idio-sincrasia,
popolazione, interprete, interpretante, mittente, recipiente, nozione di
consequenza come nozione comune a segno naturale e segno no naturale, Hobbes
sulla consequenza del segno convenzionale, segno naturale, segnare
naturalmente, segnare non naturalmente, l’adverbio ‘naturaliter’, ‘ad
placitum’, a piacere, natura, convenzione, posizione, natura, phusei, thesei,
positio, positione (ablativo di positio) – thesei – ‘natura’ (ablativo di
natura), imago Acustica, naturalita dell’imago, segno come imago, Benvenuto su
Plato sulla aribtrarieta del segno, Benvenuto su Heidegger sulla arbitrarieta
del segno, l’impiegatura della dicitura, segnante, meaner, one-off
communication, communicatum, segnaturm, one-off segnatum, iconico, non-iconico,
confine dell’interpretazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuto” – The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Berardi – telepatica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love
Berardi, but I wonder if his background is in the classics – he has written on
‘il futuro della comunicazione,’ and coined some nice neologisms, like
‘psiconautica,’ – which is like my telementationalism, only different – and
dialogued with Guattari -- While Berardi
is into ‘il futuro della comunicazione,’ we at Oxford, them with a lit.hum. are
usually into the PAST of communication!” -- Franco Berardi (n. Bologna),
filosofo. Detto “Bifo” -- Agitatore culturale italiano. All'età di quattordici
anni si iscrive alla FGCI, ma ne viene espulso tre anni più tardi per
"frazionismo". Partecipa al movimento del '68 nella facoltà di
lettere dell'Bologna, ove nel '67 conosce Toni Negri. Si laurea in Estetica con
Luciano Anceschi e aderisce a Potere Operaio, gruppo della sinistra
extraparlamentare di cui diviene figura di spicco a livello nazionale. Nel 1970
pubblica il suo primo libro, Contro il lavoro (edito da Feltrinelli). Nel 1975
fonda la rivista A/traverso, un foglio che era espressione dell'ala
"creativa" del movimento bolognese del 1977; nei suoi scritti mette
al centro della propria analisi il rapporto tra movimenti sociali e tecnologie
comunicative. Nel 1976 partecipa alla
fondazione dell'emittente libera Radio Alice e subisce l'arresto per l'accusa
di partecipazione alle Brigate Rosse, da cui viene assolto un mese dopo. Per
richiederne la scarcerazione, Radio Alice organizza una festa in Piazza
Maggiore, a cui partecipano oltre diecimila persone. Berardi viene scarcerato
poco dopo, e diviene il leader dell'"ala creativa" della protesta
studentesca bolognese del 1977. Dopo la chiusura della radio da parte della
polizia, contro Berardi viene spiccato un mandato per "istigazione di odio
di classe a mezzo radio", per sottrarsi all'arresto fugge da Bologna. Si
rifugia a Parigi dove frequenta Félix Guattari e Michel Foucault e pubblica il
libro Le Ciel est enfin tombé sur la terre (Éditions du Seuil). Negli anni ottanta rientra brevemente in
Italia e poi si trasferisce a New York dove collabora alle riviste
Semiotext(e), Almanacco musica e Musica 80. Viaggia a lungo in Messico, India,
Cina e Nepal. In quel periodo inizia ad occuparsi della crescita delle reti
telematiche e preconizza la futura esplosione della rete quale vasto fenomeno
sociale e culturale[senza fonte]. Alla fine degli anni ottanta si trasferisce
in California dove pubblica alcuni saggi sul cyberpunk. Ritorna a Bologna e, in
veste di protagonista, partecipa al documentario Il trasloco di Renato De
Maria, prodotto dalla RAI nel 1991, incentrato sulla storia del suo
appartamento. Collabora poi con varie riviste culturali fra cui Virus
mutations, Cyberzone, Millepiani e varie case editrici fra cui la Castelvecchi
e DeriveApprodi. Collabora, inoltre, alla stesura di testi per MediaMente, la
trasmissione televisiva prodotta da RAI Educational e condotta da Carlo
Massarini dedicata al mondo di Internet e delle nuove tecnologie di
comunicazione. Collabora alla rivista
DeriveApprodi insieme a Sergio Bianchi e altri. Cura con Pasquinelli l'ambiente
di rete Rekombinant. Nel 2002 fonda Orfeo Tv, la prima televisione di strada
italiana. Nel 2005 un suo pamphlet che si scaglia contro le politiche sociali
del nuovo sindaco di Bologna Sergio Cofferati viene ripreso con enfasi dalle
testate giornalistiche nazionali. Lavora come insegnante presso l'istituto
tecnico industriale Aldini Valeriani di Bologna. Pubblica regolarmente sul
quotidiano Liberazione, sulla rivista alfabeta2 e sul sito Through Europe.
Collabora alla rivista canadese Adbusters. Anima la mailing-list Rekombinant
con Pasquinelli. Altre opere: “Contro il
lavoro”; “Scrittura e movimento” (Marsilio); “Teoria del valore e rimozione del
soggetto: critica dei fondamenti teorici del riformismo” (Verona, Bertani);
“Primavera” (Roma, Stampa Alternativa); “Chi ha ucciso Majakovskij” (Milano,
Squi/libri); “L'ideologia francese: contro i "nouveaux philosophes"”
(Milano, Squi/libri); “Finalmente il cielo è caduto sulla terra. Milano,
Squi/libri); “La barca dell'amore s'è spezzata. Milano, SugarCo); “Dell'innocenza”
(Bologna, Agalev); “Presagi. L'arte e l'immaginazione visionaria” (Bologna,
Agalev); “Terzo dopo guerra” (Bologna, A/traverso); “La pantera e il rizoma” (Bologna,
A/traverso); “Una poetica Ariosa” (Milano, ProgettoArio); “Più cyber che punk.
Bologna, A/traverso); “Politiche della mutazione. Milano-Bologna, Synergon), “Dalla
psichedelia alla telepatica” (Milano-Bologna, Synergon); “Hip Hop rap graph
gangs sullo sfondo di Los Angeles che brucia. Milano-Bologna, Synergon); “Cancel
& Più cyber che punk. Milano-Bologna, Synergon); “Come si cura il nazi.
Castelvecchi); “Mitologie Felici. Milano, Mudima); “Mutazione e cyberpunk.
Immaginario e tecnologia negli scenari di fine millennio. Costa & Nolan); “Lavoro
zero. Castelvecchi); “Neuromagma. Lavoro cognitivo e infoproduzione. Castelvecchi);
“Ciberfilosofia”; “Dell'innocenza”, “Premonizione. Verona, Ombre Corte); “Exit.
il nostro contributo all'estinzione della civiltà. Costa & Nolan); “La
nefasta utopia di Potere operaio. Castelvecchi); “Alice è il diavolo. storia di
una radio sovversiva”; “Shake edizioni. La fabbrica dell'infelicità: new
economy e movimento del cognitariato. Roma, DeriveApprodi); “Felix. Narrazione
del mio incontro con il pensiero di Guattari, cartografia visionaria del tempo
che viene. Luca Sossella Editore), “Quando il futuro incominciò. Fandango Libri);
“Un'estate all'inferno”; “Telestreet. Macchina immaginativa non omologata.
Baldini Castoldi Dalai); “Il sapiente, il mercante, il guerriero. Dal rifiuto
del lavoro all'emergere del cognitariato” (Roma, DeriveApprodi); “Da Bologna
(serie A) a Bologna (serie B). DeriveApprodi); “Skizomedia. mediattivismo.
Roma, DeriveApprodi); “Europa 2.0 Prospettive ed evoluzioni del sogno europeo,
edito da ombre corte, Un'utopia senile per l'Europa. Run. Forma, vita,
ricombinazione, Mimesis); L'eclissi. Dialogo precario sulla crisi della civiltà
capitalistica, Manni Editori); “La Sollevazione. Collasso europeo e prospettive
del movimento. Manni Editori); “L'anima al lavoro, DeriveApprodi); “After the
future AKPress, Oakland); “Dopo il futuro. Dal futurismo al cyberpunk.
L'esaurimento della modernità, DeriveApprodi); “La nonna di Schäuble. Come il
colonialismo finanziario ha distrutto il progetto europeo, Ombre corte, Heroes Suicidio e omicidi di massa, Baldini
& Castoldi, Asma, C&P Adver
Effigi); “Contro il lavoro, DeriveApprodi); “Il secondo avvento. Astrazione
apocalisse comunismo, DeriveApprodi); “Futurabilità, Produzioni Nero); “Respirare.
Caos e poesia, Sossella), “Il trasloco”, “Io non sono un moderato”. Note
Filmato audio Alexandra Weitz, Andreas Pichler, L'eterna rivolta, su
YouTube, 2006, a 0 min 47 s. 6 agosto.
Cronologia di Radio Alice, radiomarconi.com. 6 agosto. E-text s.r.l. (http://e-text/), MediaMente:
Franco Berardi, su mediamente.rai.).
Bifo: "Con la Gelmini non insegno" Sospeso dall'insegnamento |
Bologna la Repubblica Cominciamo a
parlare del collasso europeo, alfabeta2
rekombinant@liste.rekombinant.org, su
rekombinant.liste.rekombinant.narkive.com. 6 aprile. A/traverso | Casa Editrice Etichetta
Discografica | AlterAlter Erebus press & label, su Alter Erebus. Félix
Guattari Gilles Deleuze Movimento del '77 Radio Alice Telestreet Internet Movie
Database, IMDb.com. //th-rough.eu/Pagina personale di Bifo sul Through Europe Interregno[collegamento
interrotto]Hacer lo imprevisible… después del 68: Entrevista con Franco Berardi
Bifo(Español) Rekombinant"Listblog" animato da Franco Berardi e
Matteo Pasquinelli radioalice.orgsito web su Radio Alice Il Trasloco
(scaricabile) su New Global Vision, su ngvision.org.
podcast.fmlatribu.comPodcast en castellanoEntrevista con Bifo en FM La Tribu,
Buenos Aires Articoli su arte e sensibilità, European School of Social
Imagination San Marino; scepsi.eu. 13 agosto
27 novembre ). Interviste a Franco Beradi di Christian Brogi, su ltmd.
Franco Berardi su Bookogs. Biografie
Biografie Letteratura Letteratura
Politica Politica Categorie: Saggisti
italiani del XX secoloFilosofi italiani Professore BolognaMilitanti di Potere
OperaioMovimento del '77Studenti dell'BolognaFondatori di riviste
italianeAttivisti italiani. Franco Berardi. Keywords: telepatica, implicatura
del presagio, poetica ariosa, progetto ario, telepatia, pre-sagio, sagio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berardi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Bernardi – il duello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mirandola). Filosofo italiano. Grice: “We discussed
Bernardi with Sir Peter – when we were tutoring on ‘Categoriae’ – “Surely this
is not propedeutic logic! This is pure metaphysics, and even pure physics!”
Bernardi held the same view! On top, I love Bernardi because he does not use ‘logica,’
which he thinks for ‘kids,’ but ‘dialettica,’ which is real philosophy!” Aristotelico,
nominato vescovo di Caserta. Duomo di Mirandola. Compiuto gli studi presso Bologna
avendo come maestri Boccadiferro (l’autore di un trattato sui luoghi comuni
d’Aristotele) e Pomponazzi. Si trasferì poi a Roma presso la corte di Farnese,
dove frequenta Bembo, Casa e Giovio, e si conquista una fama di filosofo
aristotelico e letterato. Consacrato
vescovo di Caserta. Poi a Parma nel
monastero di San Giovanni dei Cassinesi. Fu tumulato nel Duomo di Mirandola. In occasione del 5º centenario della sua
nascita, il Centro Internazionale Giovanni Pico della Mirandola gli dedicò un
convegno. Lo scrittore Antonio Saltini
ha utilizzato la figura di Antonio Bernardi come personaggio del suo romanzo
storico L'assedio della Mirandola. Atre
opere: “La Monomachia” -- dove si sostiene che il duello è legittimo secondo la
ragione e la filosofia morale ma illecito sotto il punto di vista religioso.
Note Vedi Google Libri. Duello cavalleresco. , Antonio Bernardi della
Mirandola (1502-1565). Un aristotelico umanista alla corte dei Farnese. Atti
del convegno "Antonio Bernardi nel V centenario della nascita"
(Mirandola, 30 novembre 2002), M. Forlivesi, Firenze, Olschki, Aristotelismo
Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Antonio Bernardi
Paola Zambelli, «BERNARDI, Antonio», in Dizionario Biografico degli
Italiani, Volume 9, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1967. Filosofia
Categorie: Vescovi cattolici italiani del XVI secoloFilosofi italiani Professore
Mirandola Bologna. EVERSIONIS
SINGVLARIS CERTAMINIS. PROPOSITVM NOBIS EST, SINGVLARE certamen, quantum
quidem poterimus, fundamentis ſanctiſsimæ religionisnoſtræinnitentes, euertere,
ac pe nitus ex animis hominum extirpare, (utpote quod ab homine qui Chriſti
ſeruatoris noftri religionem & pie tatem profitetur, abhorreat.) Sed quia
edituseſtliber quidam, infcriptus Contra uſum duelli,in quo multa e tiam
diſputanturcontra libros noſtrosDehonore,ubi agitur de ſingulari certamine: qui
libri ſub nomine loan nis Baptiſtæ Poſleuinifallò in lucem prodierunt:etlino
lateat nos illud Ariſtotelis, to gasto TutóvG-gvarſíce tas Sofaes espolwaulio
agorti{ eup vxbés oszy: tamen faciendum nobis primùm uidetur,ut ea refellere
conemur, quæ contra libros noſtros De honore fcripta ſunt: ut,qui tantű. modò
uerborum faciem intuentes, interius autem non expendentes reconditam rerum
ueritatem, putauerunt eius libri quem diximus, auctorem, Ariſtotelis ſenten
tiam, ueritatem ipſam omnino affequutum effe, facileintelligant,non folùm no.
ftra quæ is refellit Peripateticorum doctrinæ prorſus conſentire, fed etiam
tantum abeſleut ille (quiquidem magnum ſeadiumentum fuo hoclibro generi humano
at tuliſſe putauit) ex doctrina Ariſtotelis, & ex
philoſophiamoralilingulare certamē euerterit,ut id etiam ex ipfiuſmet uerbis
dari ac permitti in omnibus fere cauſis per, ſpicuè appareat.At ita plane
intelligetur,fierinon poſſe utſingulare certamene, uertatur,niſiex fundamentis
ſanctiſsimæ religionis noftræ. Quæ quidem res potiſ fimùm nos impulit,ut ad
hæcſcribenda aggrederemur. Hocigitur (niſi fallimur) cum ita futurum ſit contra
id quod ſibi iſte propoſuerat,magis probandữmihiqui dem uidetur eius conſilium,
uoluntas, quàm eo ipfe laudandus, quòd quæ uel let præſtiterit. Sed primùm
loquamur generaliter, ponentes id quod ipfe fatetur totius ſuæ cau fæ
fundamétum efle,uidelicet ipſius ſingularis certaminis plura eſſe genera. Verùm
antequam ueniamus adipfius uerba, uideamus quam facilè hoc eius fundamentum
peruertamus:accipientes ex eis quæ ipfe conceſsit &dixit, arma, quibus eius
impe, tus aduerſusnoftrum librum labefactetur atą frangatur. Sed quia nos, qui
deopi nione Ariſtotelis diſſerimus, hujus controuerſiæ iudicem Ariſtotelem
conſtitui mus: afferemus in omnibus uerba ipſius Ariſtotelis, ponentes ea ante
oculos, ucho mines qui non certis quibuſdam, deſtinatis ſententijs addicti
confecratiga funt, fed ueritatem amplecti deſiderant, facile intelligant quam
iniuſtè, quàm etiam con. tra hominum utilitatem, iſte in me quali grauiſsimum
aliquod facinus admiſillem, inuaferit. Sed iam ad rem ueniamus. Omnia
ſingularia certamina, quæ ex fundamentis naturæ, non ex fancta noftra religione
permitti poffunt, ſuntunius generis,uel fpeciei(utiſte loquitur:)ergo fun
damentum eius à ueritate abhorret, quod ſcilicet fint plura genera: & quòd
ob hanc caufam unum genus fuerit permiſſum, &aliud nõ permiſſum. Ex quo
poftmodum emanat, me in libro Dehonore non eſſe lapſum, quia ignorauerim nomen
&no. tionem, uim; & originem fingularis certaminis,cum dixerim eius
nomen apud GræcosfuiffeMonomachiam,apud Romanos Singulare certamen: quia non
fue runt generalia nomina(ut ipſe dicit )fed folùm nomina unius fpeciei uel
generis. Conſequentia perſpicua eft: id uero quod antecedit, probemus in hunc
modum. Illa certamina quorum eft idem finis, effe etiam eiuſdem generis uel
ſpeciei neceſſe eſt.hoc enim loco pro eodem ſumuntur genus & ſpecies.
Propofitio ifta conceſſa eſt ab ipſo, etenim a diltinctione finium ſumpſit
diſtin, a ctioncm EVERS. SING CERTA M. ctionem illorum certaminum:ut ex
fine,qui erat honor,concluſit unum genus cer, 2. Deanima. taminis. Sed probemus
ipfam ex Ariſtotele. etenim ipſe inquit: Quoniam autem à text.49.
fineappellariomnia iuſtum eſt. Item inquit: Determinatur enim & definitur
u. 3.Ethic.o. numquodą fine. Siquidem &ſuperabundantia ut nominetur ad
finem, &excellen " tia uirtutum oporter. Si ergo unumquodq;
determinatur &definitur fine: ſingu laria ergo certamina decerminabuntur
& definientur fine. Ergo ſi finis erit unus, una erit ſpeciesſingularis
certaminis:ſi plures,ergo plures ſpecies. De cælo Item Ariſtoteleshæcſcripta
reliquit:Cuius enim cauſa unumquod eſt, &factű mundo,tex.116 eſt ipſum eſt
illius ſubſtātia. Quæ ergo certamina habent eundē finē, ut fint etiam 1.Oeconom.
eiuſdem ſpeciei neceffe eft: etenim ſunt eiufdé fubftantiæ &
formæ,necefTech eſt ut materia tantùm differant. Sed omnia illa ſingularia
certamina quæ ipſe conceſsit ex fundamentis naturæ, & illud etiam genus
quod nos conceſsimus in libris Deho. nore, ſunt certamina ſingularia, quorum
eſt idem finis:ut igitur ſint eiuſdem gene. ris uel ſpeciei,neceſſe eſt. Minor
probaturſic:llla quorum honeſtum eſt finis, ſunt eiuſdem finis. Propofi tio
iſta perſpicua eſt. Sed omnium illorum quæ ipfe conceſsit (utpugnare pro pa
tria,pro coniuge,pro regnis, honeſtum eſt finis:ergo habent eundem finem. Sed
oftendanus pofterioris huiusſyllogiſmiminorem. Sienim honeſtum non effet eo.
rum finis, non eſſent concedenda a Republica bene inſtituta: quandoquidem Rer
publica bene inſtituta nunquã concedicinhoneſta, alioquin nõ eſec bene
inſtituta. 1. Rhet... Item inquit Ariſtoteles:Ėc fimpliciter bona ſunt honeſta,
& quæcunq pro patria facit,perdens fua. Qui ergo facit pro patria, facit
propter honeltatem. " Item, Viri fortis finis eſt honeſtum. Qui pugnant
pro patria, pro coniugibus, pro filijs, prore. gno,ſuntuirifortes:ergo eorum
quipugnant pro patria, pro coniugibus,pro filijs, pro regnis,eſt finis
honeſtum. Maior etli perſpicua ex ſe eſt, declaraturtamen ab Ariſtotele his
uerbis, quæ ſư 3. Ethic.io. prà etiam citauimus ad aliud probandum: Finis enim,
inquit, omnis actionis eft fe., cundum habitum: &uiro forti fortitudo eft
honeſta, &talis eſt finis: determinatur, ' & definitur unumquodq;
fine.Honeſtienim gratia fortis ſuſtinet &agit ea quę funt, ' ſecundum
fortitudinem Ergo uiri fortis eſt finis honeſtum. Deinde paulo pòſt inquit:
Oportet autem non propter neceſsitatem fortem el so ſe,ſed quia honeſtum eſt.
Item paulo poſt inquit:Fortes enim agunt propter honeſtā ira
aūtadiuuatipſos." 1. Rhet... Item inquit:Quæcunq; funt opera fortitudinis,
funt honeſta & iufta: & opera iu. ftè facta,ſupple ſunt honeſta. Bernardi
(Ant., Mirandulani, Episcopi Casertani ). - ANTONII BERNAR / di Mirandulani,
epiſcopi Caſertani, Eversionis / Singvlaris Certaminis Libri XL. / In quibvs
cvm omnes inivriæ ſpecies declarantur: tum uerò offenſionum, & côtentionum,
quæ ex illis nafcuntur, honeſtė atque ex uirtute tol- / lendarum ratio traditur:
& præter multos, ac propè in- ! finitos locos Ariſtotelis, qui ſunt
difficilimi, obiter explicatos. Animi etiā immor talitas ex ipfius ſententia
oſten- / ditur: Aſtrologiæ quoq; diuinatio omni pene autoritate fpoliatur,
atque libertas humana ſtabilitur. Ad amplißimum uirum Alexandrrm Farnesium
Cardinalem, S. R. E. Vicecancellarium. Acceſsit locuples rerum & uerborum
toto Opere memorabilium, Index. --- Basilea, Per llenricum Petri. [ W - 1 '] In
folio, al princ. Di queste: 3 per la dedica e 13 pel Rerum atqve verborum
locuple tibimus Index. Nel testo alcune iniziali con vignette. La stessa opera
di questo autore, detto da alcuni il Mi randola, dalla patria, e da altri il Caserta
dalla dignità, è stata pure pubblicata sotto l'altro titolo: - Mirandulani,
epiſco- i pi Caſertani, 1 Dispvtatio / nes. I – In qvibvs primvm ex professo /
Monomachia (quam Singulare certamen Latini, recentio- res Duellum uocant) philoſophicis
ra tionibus aſtruitur, & mox. diuina
authoritate labefactata penitùs euertitur: omnes quoq: iniuriarum ſpecies
declarantur, easq'; conciliandi / & è medio tollendi certiſsimæ rationes
traduntur. Deinde uerò omnes utriuſque Phi lofophiæ, tam contemplatiuæ quàm
actiuæ, Loci obfcuriores, & ambiguæ Quæſtiones, / (præſertim de Animæ
immortalitate, & Aſtrologiæ iudi- / ciariae diuinationibus) Ariſtotelica
methodo / luculentiſsimè examinantur & / expli cantur. Ad amplißimum uirum
Alexandrem Farnesirm / Cardinalem, S. R. E. Vicecancellarium. Acceſsit locuples
rerum & uerborum toto Opere / memorabilium, Basileae, Per Henriccm / Petri,
et Nicolarm SCIENZA CAVALLERESCA ANTICA Bryling. | - (In fine:) Finis Qvadragesimi et vltimi i
libri Euerfionis fingularis certaminis. / [ Fer] In folio p. 694 con iniziali
con vignette. Al princ. 18 p. 1. n. pel titolo, pella dedica al Cardinale Far
nese (nella quale accusa di plagio G. B. Possevino, uditore suo, per essersi
appropriata un'opera sull'Onore da esso scritta ) e pell' Index. Il Tiraboschi
nel t. 1.o della Bibliot. Modenese a p. 241 erroneamente sem brasa credere, che
questa seconda edizione losse la stessa cosa della 1.a edizione, della quale
essố aveva trovato il titolo nel Mazzuchelli. – Di quest'opera voluminosa del
Bernardi, divisa in 40 libri e scritta col preteso assunto di abbattere il
duello, stampa il Maffei (op. cit., 1.a ed., a p. 252), che è stata stesa; «
con metodo sco « lastico e coll'argomentazione usata in quegli scrittori, che
si chiamano di Filosofia; ma procedendo sempre con « equiroci, e confusion di
vocaboli e con perpetui sofismi talvolta intrigatissimi e difficili e talvolta
manifesti e palesi » Eppure, narra lo stesso Maffei (a p. 264 ), che dell'opera
del Bernardi quattro doppie si stimava modesto prezzo. In quell'epoca i libri
di scienza cavalleresca erano tanto ricercati, che, scrive lo stesso Maffei,
quattro doppie è pur stata valutata un'edizione dell'Ariosto, quella di Venezia
per il Valvassori, « sol per poche righe, che in alcuni luoghi vi si trovano
con titolo di Pareri in Ducllo ». - In quanto all'accusa di plagio dita
apertamente dal Bernardi a G. B. Possevino, essa è abbastanza giustificata. Il
G. B. Posse vino era scolaro del Bernardi e questi ebbe dal maestro il suo
lavoro sul duello per copiarlo, ma il Pos sevino non si fece alcuno scrupolo di
rafazzonarlo alquanto per poterlo far passare come proprio. È vero peró, che la
pubblicazione dello scritto non avvenne per opera del Possevino, ma di suo
fratello Antonio, che appartenne alla Compagnia di Gesù, ed anzi vuolsi, che G.
B. Possevino morendo raccomandasse al fratello di non pubblicare quell'opera
sul duello da esso lasciata, ma Antonio Possevino non avrebbe però tenuto conto
di questa raccomandazione, tanto più, che al dire del Tiraboschi, a vincer i
suoi scrupoli gli era oppor tanamente giunta all'orecchio la falsa notizia
della morte avvenuta a Ferrara del Bernardi, vero autore del trattato sul
duello, ed egli a tale notizia aveva prestato fede. Il Tiraboschi, che dapprima
aveva difeso G. B. Possevino dall'accusa di plagio doveva finire per
persuadersi, che tale accusa era ben fondata. Antonio Bernardi. Keywords: il duello, L’assedio della
Mirandola. i duellisti, la legittimita del duello, i duellisti, mono machia,
duo machia. Il duello nell’antichita romana, roma antica, il duello, statua di
due duellisti antichi, armi bianchi, Boccadiferro, Pomponazzi, aristotelismo
Bolognese. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernardi” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Bernardo – la tradizione
iniziatica italica -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Benne). Filosofo
italiano. Grice: “I like Bernardo: he is a philosophical mason – but then most
Italian philosophers are, as a way of NOT being Roman!” Massone. Gran maestro
del Grande Oriente d'Italia dal 1990 al 1993, ha poi fondato la Gran Loggia Regolare
d'Italia. Diplomato in ragioneria e poi impiegato in banca, si laureò in
Sociologia presso l'Università degli Studi di Trento. Nello stesso ateneo seguì
la carriera accademica, divenendo docente ordinario di Filosofia della scienza
e di Logica, nonché pro-rettore. È inoltre autore di nmerosi saggi e
pubblicazioni sul tema della filosofia delle scienze sociali e della logica
delle norme. Fu iniziato alla massoneria
nella loggia bolognese "Risorgimento-VIII agosto" divenendo Maestro
venerabile della loggia "Zamboni-De Rolandis". Nello stesso anno
chiese e ottenne di venire inserito tra i massoni coperti per ragioni di
riservatezza legata alla sua professione di docente. Stessi requisiti di
riservatezza ebbe la sua appartenenza al Capitolo Nazionale del rito scozzese
antico e accettato. Eletto Gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Negli anni
della sua maestranza tenne posizioni di aperto contrasto con la Chiesa
cattolica, dichiarò espressamente il proprio sostegno al Partito Socialista
Italiano, e dovette confrontarsi con la cosiddetta "inchiesta
Cordova" (dal nome del pubblico ministero di Palmi Agostino Cordova). Al
centro di polemiche anche con i vertici del GOI, Di Bernardo decise di
dimettersi dalla carica di Gran maestro al termine della Gran Loggia annuale a
Roma alla quale si era presentato dopo aver redatto atto costitutivo e statuto
di una nuova Obbedienza, la Gran Loggia Regolare d'Italia. Al vertice del GOI
gli succedette il reggente Eraldo Ghinoi.
La neonata Obbedienza si regge su uno sparuto gruppo di Logge
fuoriuscite dal GOI, caratterizzandosi per l'uso esclusivo del rito inglese
Emulation. Otto anni dopo la fondazione, viene espulso dalla GLRI; gli succede
alla guida dell'Obbedienza Venzi. Quindi avvia un nuovo progetto di un ordine
paramassonico, denominato Dignity Order, che tuttavia non è un'Obbedienza
regolare. Pur dichiarando di essere fuoriuscito dalla Massoneria, Di Bernardo
da anni si presta a rilasciare interviste e dichiarazioni sull'argomento sia a
giornalisti che ad organi inquirenti. Nel
ha polemizzato con il GOI dopo aver reso una dichiarazione alla
Commissione Antimafia relativa a presunte rivelazioni di Loizzo (vedi ). Il GOI
ha annunciato l'intenzione di denunciare Di Bernardo per diffamazione e
calunnia. Il lo stesso Di Bernardo annuncia di voler a sua volta querelare il
Gran Maestro del GOI Stefano Bisi per diffamazione. La querela di Di Bernardo a
carico di Bisi viene archiviata per insussistenza. Aldo Alessandro Mola, Gelli e la P2: fra
cronaca e storia, Bastogi Editrice Italiana, Giuliano Di Bernardo, unitn. Il Gran Maestro: chi è Giuliano Di Bernardo.
Aldo A. Mola. Pubblicazioni di Giuliano
Di Bernardo, unitn. Fra tradizione e rinnovamento: la lunga traversata del
deserto, GOI. Aldo A. Mola, 801 e ss.
Aldo A. Mola, Di Bernardo fonda la nuova Grande loggia, in Corriere
della Sera. Sito ufficiale del Dignity Order, dignityorder.com. Aldo Alessandro
Mola, Storia della massoneria italiana, Bompiani, Gran loggia regolare d'Italia
Massoneria in Italia Massoneria Citazionio su Giuliano Di Bernardo Intervista a Giuliano Di Bernardo del, Predecessore
Gran maestro del Grande Oriente d'Italia Successore Square compasses.svg
Armando Corona. Eraldo Ghinoi (reggente) Predecessore Gran maestro della Gran
Loggia Regolare d'Italia SuccessoreSquare compasses.svg Carica inesistente Fabio
VenziB Filosofia Università Università Filosofo
del XX secolo Filosofi italiani Professore Penne Gran maestri del Grande
Oriente d'Italia. Giuliano Di Bernardo. Keywords. la tradizione iniziatica
italica, logica dei sistemi normativi, normativa sociale, l’implicatura del
massone, psicologia filosofica, Homo sapiens sapiens. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Bernardo” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Berneri – filosofia italiana nel ventennio fascista – filosofia italiana (Lodi). Filosofo italiano. Grice: ‘I like Berneri; of course
we need to know more about his philosophical background and education – he
represents the epitome of what Italian philosophers call ‘filosofia militante,’
but then I fought the Hun – so I was militante, too!” – Figlio di padre
originario di Ronco, frazione di Corteno Golgi (nella Val Camonica, in
provincia di Brescia) e da madre emiliana, ben presto, si trasferì con la
famiglia dapprima a Milano, poi a Palermo, e Forlìdove, a Varallo Sesia (in
provincia di Vercelli) e, infine, a Reggio nell'Emilia. Qui, da una testimonianza di Angelo Tasca
risulta che Camillo Berneri militava nella Federazione Giovanile Socialista di
Reggio Emilia già dal 1912 (da "Mussolini-Psicologia di un
dittatore", Camillo Berneri, Pier Carlo Masini, Milano, 1966, pag 109).
Dopo essere stato membro del Comitato Centrale della Federazione Giovanile
Socialista reggiana, e dopo aver collaborato all'Avanguardia (organo nazionale
della FGS), nel 1915 rassegna le dimissioni dalla FGS, attraverso una lettera
ai compagni, avendo maturato convinzioni anarchiche. Sarà colpito dal gesto dei
compagni che, nonostante le dimissioni, vorranno che presieda un'ultima
riunione della FGS a Reggio, e dal gesto del mentore Camillo Prampolini, che lo
convocherà per conoscere le ragioni del suo dissenso. Berneri ricorderà sempre
"i dolci ricordi del mio catecumenato socialista". Nel 1916 si
trasferisce ad Arezzo dove frequenta il liceo. Chiamato alle armi ed escluso dall'Accademia
Militare di Modena per le sue idee, fu inviato al fronte nel 1918; quindi,
ancora in servizio, venne confinato nell'isola di Pianosa in occasione dello
sciopero generale del luglio 1919. Iniziava intanto con lo pseudonimo Camillo
da Lodi la sua copiosa attività pubblicistica collaborando per anni a vari
periodici libertari: da Umanità Nova a Pensiero e Volontà, da L'avvenire
anarchico di Pisa a La Rivolta di Firenze e a Volontà di Ancona. Laureatosi in filosofia, insegnò tale materia
per qualche tempo a Camerino. Pronta e decisa si manifestava la sua avversione
al fascismo e, dall'Umbria in particolare, egli manteneva i contatti con gli
antifascisti fiorentini diffondendo il battagliero giornaletto Non mollare.
Molto intensa fu in quegli anni l'attività nell'Unione anarchica italiana.
Inaspritasi la dittatura fascista, dovette espatriare clandestinamente in
Francia e lo raggiunse poco dopo la moglie con le figlie; sua moglie era
Giovanna Caleffi anche lei militante anarchica così come poi le figlie Marie
Louise Berneri e Giliana Berneri. Scoppiata la guerra civile spagnola, fu tra i
primi ad accorrere in Catalogna, centro dell'attività di massa libertaria
esprimentesi nella Confederación Nacional del Trabajo: qui si trovò a fianco di
Carlo Rosselli con tanta parte dell'antifascismo italiano e internazionale. Al
di là della solidarietà militante, a Carlo Rosselli lo legava anche
l'atteggiamento critico, e l'apertura mentale verso le prospettive del
socialism. Collabora con l'organo clandestino del movimento socialista-liberale
"Giustizia e Libertà", argomentando con Rosselli sull'alternativa
secca tra socialismo libertario e socialismo dispotico ("Gli anarchici e
G.L.", Camillo Berneri e Carlo Rosselli, Giustizia e Libertà). Furono gli
ultimi mesi febbrili della sua vita: inadatto alle fatiche del fronte, si
dedicò con entusiasmo all'opera formativa, al dibattito ideale e alle
incombenze politiche pubblicando un proprio periodico dal titolo “Guerra di
classe” che sintetizza la sua precisa interpretazione del conflitto in corso.
In esso infatti Berneri, preoccupato per il crescente isolamento non tanto del
legittimo governo repubblicano quanto delle più tipiche realizzazioni
rivoluzionarie e libertarie conseguite in Catalogna, Aragona e altre regioni,
si batté vigorosamente per la stretta connessione di guerra e rivoluzione
ponendo agli antifascisti e ai suoi stessi compagni anarchici il dilemma:
vittoria su Franco, grazie alla guerra rivoluzionaria, o disfatta. Tale la sostanza
di numerosi suoi articoli e discorsi come della famosa Lettera aperta alla
ministra anarchica della Sanità Federica Montseny che con altri tre anarchici
era nel governo di Largo Caballero.
Molteplici, seppure inascoltati, furono anche i suoi suggerimenti
politici per colpire le basi operative del fascismo proclamando l'indipendenza
del Marocco, coordinare gli sforzi militari, potenziare gradualmente la
socializzazione. Fu dunque quella di Berneri una funzione singolarmente
impegnata che lo espose ben presto alle feroci repressioni condotte dai
comunisti ormai prevalsi dopo l'avvento del governo di Juan Negrín: scomparvero
così tragicamente, vittime dei massacri di massa, migliaia di combattenti
antifascisti non comunisti, anarchici ma anche comunisti non stalinisti, come i
miliziani del POUM. L'assassinio di Camillo Berneri, sulle cui esatte
circostanze esistono diverse versioni, si colloca precisamente nella sanguinosa
resa dei conti tra stalinisti e loro avversari antifascisti conosciuta come le
giornate di Maggio. Berneri fu prelevato insieme con l'amico anarchico
Francesco Barbieri dall'appartamento che i due condividevano con le rispettive
compagne. I cadaveri dei due anarchici italiani furono ritrovati crivellati di
proiettili. La moglie allevò i figli di Antonio Cieri, anche lui caduto in
Spagna. In morte di Berneri, il leader socialista Pietro Nenni scrisse:
"Se l'anarchico Berneri fosse caduto su una barricata di Barcellona,
combattendo contro il governo popolare, noi non avremmo niente da dire, e nella
severità del suo destino ritroveremmo la severa legge della rivoluzione. Ma
Berneri è stato assassinato, e noi dobbiamo dirlo" (Pietro Nenni, Nuovo
Avanti, Parigi). Altre opere: “Lettera
aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico” (Orvieto); “I problemi
della produzione comunista” (Firenze); “Le tre città” (Firenze); “Un
federalista russo. Pietro Kropotkin, Roma); “Mussolini normalizzatore, Zurigo);
“Lo spionaggio fascista all'estero, Marsiglia);
“Nozioni di chimica antifascista”; “L'operaiolatria, Brest); “ll lavoro
attraente, Ginevra); “Ed ancora:
Mussolini normalizzatore La donna e la garçonne”; “Pensieri e battaglie
Il cristianesimo e il lavoro” – “Il Leonardo di Freud”. da
"Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo Berneri, Edizioni
Azione Comune, Pier Carlo Masini, Milano, Mirella Serri, I profeti disarmati.
1945-1948, la guerra fra le due sinistre, Milano, Corbaccio, Cfr. Nicola Fedel,
Introduzione e criteri di edizione in Camillo Berneri, Lo spionaggio fascista
all'estero, Nicola Fedel (prefazione di Mimmo Franzinelli), Fondazione
Comandante Libero, Milano,, XVII-XIX ,
Enciclopedia POMBA. Camillo Berneri, Anarchia e società aperta, Pietro Adamo,
M&B Publishing, Milano 2006. Stefano D'Errico, Anarchismo e politica. Nel
problemismo e nella critica all'anarchismo del Ventesimo Secolo, il
"programma minimo" dei libertari del Terzo Millennio. Rilettura
antologica e biografica di Camillo Berneri, Mimesis, Milano 2007. Roberto
Gremmo, Bombe, soldi e anarchia: l'affare Berneri e la tragedia dei libertari
italiani in Spagna, Storia Ribelle, Biella 2008. Mirella Serri, I profeti
disarmati. La guerra tra le due sinistre, Milano, Corbaccio, 2008. Flavio
Guidi, "Nostra patria è il mondo intero". Camillo Berneri e "Guerra
di Classe" a Barcellona (1936-37), pubblicato dall'autore, Milano.
Giampietro Berti, Giorgio Sacchetti, Un libertario in Europa. Camillo Berneri:
fra totalitarismi e democrazia. Atti del convegno di studi storici, Arezzo,
Archivio famiglia Berneri A. Chessa, Reggio Emilia. Camillo Berneri, Lo
spionaggio fascista all'estero, Nicola Fedel (e prefazione di Mimmo
Franzinelli), Fondazione Comandante Libero, Milano,, Antifascismo Archivio Famiglia Berneri Guerra
civile spagnola Giornate di maggio Altri progetti Collabora a Wikisource
Wikisource contiene una pagina dedicata a Camillo Berneri.TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Camillo Berneri, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Camillo Berneri, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Camillo Berneri, su Liber
Liber. Opere di Camillo Berneri, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Camillo Berneri,. Camillo Berneri,
su Goodreads. Altri particolari sul sito
dell'ANPI di Roma, su romacivica.net. ). Carlo De MariaUn convegno e una nuova
stagione di studi su Camillo Berneri, su storiaefuturo). Socialismo
LibertarioProfili biobibliografici libertari, su socialismolibertario.
Abolizione ed estinzione dello stato, Anarchismo e federalismo di Camillo
Berneri, su magozine. V D M Antifascismo. Anarchia Anarchia Biografie Biografie Politica Politica Storia Storia Filosofo del XX secoloScrittori
italiani del XX secoloAnarchici italiani
Lodi BarcellonaAntifascisti italianiAssassinati con arma da fuocoVittime
di dittature comuniste. Camillo Berneri. Keywords: normalizazzione, delirio
racista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berneri” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Berti – la morte di Cicerone – filosofia italiana – Luigi Speranza (Valeggio sul Mincio). Filosofo italiano. Grice: “I like
Berti; of course he has philosophised on the only two philosophers worth
philosophising about Plato and Aristotle – his interest is in the ‘number idea’
in Plato, the unity in Aristotle, and various other things – notably Socratic
dialectic as the basis for both!” -- Grice: “I also love his courtesy: cf. Sir
Peter, “Introduction to logical theory,” versus the gentle “Un invite alla
filosofia,” – for philosophy needs to be invited to, rather than intro- and
extro-ducted to and fro’!” Professore
emerito di storia della filosofia, presidente onorario dell'Istituto
internazionale di filosofia. Laureatosi
in filosofia all'Padova, è stato allievo di Marino Gentile. Assistente presso l'Padova. Nel diventa
professore di storia della filosofia antica all'Perugia e di storia della
filosofia nella stessa Università. Si
trasferisce all'Padova, dove insegna storia della filosofia. È poi docente
anche nelle Ginevra, di Bruxelles, di Santa Fé (Argentina) e alla Facoltà di
Teologia di Lugano. Presiede la Società
Filosofica Italiana. Vince il premio dell'Associazione internazionale
"Federico Nietzsche" per la filosofia, il premio Iannone per la
filosofia antica, nel 2007 il premio Santa Marinella e il premio
Castiglioncello per la filosofia, il premio "Athene Noctua" e
nel il premio giornalistico Lucio
Colletti. Nel è nominato "doctor honoris causa"
dell'Università nazionale capodistriana di Atene e nel Honorary Fellow dell'"Interdisciplinary
Centre for Aristotle Studies" dell'Salonicco. Pensiero Interessato particolarmente alla
filosofia di Aristotele, Enrico Berti ne ha intravisto le tracce nella
metafisica, nell'etica e nella politica contemporanea in particolar modo per il
problema della contraddizione e della dialettica. Berti si è poi inserito nella dibattuta
questione del rapporto tra filosofia e scienza, cercando di definire la
specificità della filosofia, che si fonda su una razionalità non rapportabile a
quella scientifica, ma piuttosto alla dialettica e alla retorica. Su un piano
più propriamente teoretico si è interessato alla possibilità di riproporre oggi
una filosofia di tipo metafisico, formulando una concezione «umile« o «povera»
della metafisica come consapevolezza della problematicità, e quindi
dell'insufficienza, del mondo dell'esperienza, considerato nella sua totalità
(comprendente scienza, storia, individuo e società). Altre opere: “L'interpretazione neo-umanistica
della filosofia presocratica” (scuola di Crotone, la porta di Velia); “La filosofia del primo
Aristotele” (Padova, Milani); Il "De republica" di Cicerone e il pensiero
politico classico”; “L'unità del sapere in Aristotele”; “La contraddizione” (la
porta di Velia, la dialettica della struttura originaria, Bontadini); “Studi
sulla struttura logica del discorso scientifico”; “Studi aristotelici”;
“Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima” (Padova, Milani); “Ragione
scientifica e ragione filosofica” (Roma, La Goliardica); “Profilo di
Aristotele, Roma, Studium); “Il bene” (Brescia, La Scuola); “Le vie della ragione” (Bologna, Il Mulino);
“Contraddizione e dialettica negli antichi” (Palermo, L'Epos);:Le ragioni di
Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Storia della filosofia” (Roma-Bari, Laterza);
“Aristotele nel Novecento, Roma-Bari, Laterza); “Introduzione alla metafisica,
Torino, POMBA); “Il pensiero politico di Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Aristotele
e altri autori, Divisioni, con testo greco a fronte, coll. Il pensiero
occidentale); “In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia
antica, Laterza, Roma-Bari); “Il libro primo della «Metafisica» (Laterza,
Roma-Bari); Sumphilosophein. La vita
nell'Accademia di Platone, Roma-Bari, Laterza); “Nuovi studi aristotelici”
(Morcelliana); “Invito alla filosofia, Brescia, La Scuola); “La ricerca della
verità in filosofia, Roma, Studium. Ha scritto un dialogo satirico, un
"falso d'autore" attribuito ad Aristotele, Eubulo o della ricchezza:
dialogo perduto contro i governanti ricchi.
Traduzioni Aristotele, Metafisica, traduzione, introduzione e note di E.
Berti, Collana Biblioteca Filosofica, Roma-Bari, Laterza. Onorificenze e
riconoscimenti Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica
Italiana È membro delle seguenti
accademie e istituzioni scientifiche:
Accademia nazionale dei Lincei Institut international de philosophie
Istituto veneto di scienze, lettere ed arti Société européenne de culture
Fédération internationale des sociétés de philosophie Pontificia accademia
delle scienze Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino Accademia galileiana
di scienze, lettere ed arti Società filosofica italiana Note festivalfilosofia, su
festivalfilosofia). Enciclopedia
multimediale delle Scienze filosofiche, su emsf.rai.). Biografia Enrico Berti [collegamento interrotto], su
comune.ancona. Aristotele Opere di Enrico Berti, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Opere di Enrico Berti,. Registrazioni
di Enrico Berti, su RadioRadicale, Radio Radicale. Intervista a Enrico Berti () Enrico Berti
scheda nel sito dell'Padova (con l'elenco delle pubblicazion. Filosofia Filosofo
del XX secoloFilosofi italiani Professore Valeggio sul MincioProfessori
dell'Università degli Studi di PadovaStudenti dell'Università degli Studi di
PadovaProfessor dell'Università degli Studi di PerugiaAccademici dei
LinceiStorici della filosofia italiani. I pitagorici -- Gli
eleati -- Parmenide -- Zenone, Melisso -- Empedocle -- Gorgia --. LA
FILOSOFIA A ROMA Lo stoicismo medio il neo-epicureismo e Lucrezio --
L’Accademia nuova e Cicerone -- Il neo-stoicismo romano Seneca, Epitteto, Marc'Aurelio, Enrico Berti. Keywords. la morte di Cicerone, Cicerone res
publica – “De republica” – cf. il bene/il buono/il bello, “il bene e il buono”,
Cicerone e la filosofia politica classica, il De Republica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Berti” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bertinaria – l’indole e le vicende della filosofia italiana – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Genova).
Filosofo italiano. Grice: “I like Bertinaria; he is, like me a philosophical
cartographer – in his case, of ‘filosofia italiana’ for which he has identified
‘indole’ e this or that ‘vicenda,’ – now J. L. Austin once remarked that ‘sake’
has no denotatum – but ‘vicem’ does!” -- Francesco Bertinaria (n. Genova), filosofo.
Studiò all'Pisa, si trasferì a Torino per collaborare con l'editoria Pomba. Ha
curato la traduzione Abriss der Geschichte der Philosophie di Kennegieszer,
professore dell'Breslavia. Si occupò anche di filosofia orientale e di
filosofia italiana. Nel 1860 Bertinaria ottenne la cattedra di Filosofia della
Storia all'Torino. Nel 1865 fu chiamato all'Genova. Morì a Genova nel
1892. Altre opere: “La filosofia italiana” (Pomba, Torino);
“Compendio di storia della filosofia” (Pomba, Torino); “Discorso sull'indole e
le vicende della filosofia italiana” (Pomba, Torino). “Concetto della filosofia
e delle scienze inchiuse nel dominio di essa, «Antologia italiana»”; “Disegno
di una storia delle scienze filosofiche in Italia dal Risorgimento delle lettere
sin oggi, Antologia italiana», “Concetto scientifico della storia, Stamp.
sociale degli artisti tipografi, Torino); “Saggi filosofici” (Tip. Fory e
Dalmazza, Torino); “Prospetto dell'insegnamento della filosofia della storia” (Stamperia
dell'unione tipografico editrice, Torino); “Della teoria poetica e dell'epopea
latina, Torino); “Dell'importanza della filosofia della storia e sue relazioni
con le altre scienze” (Torino); “L'antica filosofia del diritto” (Tip. Cavour,
Torino); “Principi di biologia e di sociologia, Negro, Torino); “La storia
della filosofia e la filosofia della storia” «Riv. cont.», Estr.: Baglione,
Torino); “Sulla formola esprimente il nuovo principio dell'enciclopedia” «Riv. cont.»,Il
positivismo e la metafisica” «Riv. cont.», Estr.: A. F. Negro, Torino); “Scienza, Arte e
Religione, «Gerdil», Estr.: Tip. Torinese, Torino); “Dell'origine, progresso e
condizione presente della filosofia civile, «Riv. bol.», “Saggio sulla funzione
ontologica della rappresentazione ideale, FSI); “Concetto del mondo civile
universale, FSI); “La dottrina dell'evoluzione e la filosofia trascendentale”
(Tip. Ferrando, Genova); “Ricerca se la separazione della Chiesa dallo Stato
sia dialettica ovvero sofistica, FSI, Estr.: Tip. dell'Opinione, Roma); “Il
problema dell'incivilimento, ossia come possano essere conciliate fra loro le
dottrine della civiltà nativa di Vico e della civiltà nativa di Romagnosi,
FSI); “La psicologia fisica ed iperfisica” (Unione tipografico-editrice,
Torino); “Ricerca se l'odierna società civile progredisca ovvero retroceda,
FSI); “L'odierno antagonismo sociale. Discorso inaugurale nella Genova”
(Tip.Martini, Genova); “Il problema critico esaminato dalla filosofia
trascendente, FSI); “Discorso per l'inaugurazione dei corsi filosofici e
letterari nella R. Genova, Tip.Martini, Genova); “Idee introduttive alla storia
della filosofia, RIF, Estr.: Tip. della R. Accademia dei Lincei, Roma); “Determinazione
dell'assoluto. Saggio di filosofia esoterica, «Giornale della Società di
letture e conversazioni scientifiche di Genova», Estr.: Tip. A. Ciminago, Genova); “Il problema
capitale della scolastica risoluto dalla filosofia trascendente. Nota
storico-critica, RIF, Estr.: Tip. alle Terme Diocleziane di Giovanni Balbi,
Roma); “Scritti Bulgarini, G. B., Recensione dell'articolo del prof. F.
Bertinaria apparso sulla «Rivista Italiana»: Idee introduttive alla storia
della filosofia, «Rosmini», F. Bertinaria. Studio biografico, «Annuario della R.
Genova», Estr.:Martini, Genova, CecchiL., Francesco Bertinaria. Commemorazione,
Martini, Genova); D'Ercole, P., Notizie biografiche del prof. F. Bertinaria,
«Annuario della R. Università degli studi di Torino», Estr.: Torino; Mamiani,
T., Rec. di F. Bertinaria, La dottrina della evoluzione e la filosofia
trascendente.Discorso, Genova FSI); “Mamiani T., Intorno alla sintesi ultima
del sapere e dell'essere. Lettere al professore Bertinaria, FSI, Estr.: Roma
1882. Tolomio, 249-266. Note
Bertinaria, su dif.unige. Piero
Di Giovanni, Un secolo di filosofia italiana attraverso le riviste, FrancoAngeli.
Opere di Francesco Bertinaria, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Biografie Biografie Letteratura Letteratura Filosofo del XIX secoloSaggisti
italiani del XIX secoloInsegnanti italiani Professore Genova. TAVOLA
GENETICA DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA
(Secondo la legge di creazione) I. Facoltà spirituali e fisiche
dell'uomo, le quali ne fanno condi zionalmente un essere razionale, vale a dire
un ente creato, soggetto alle condizioni della sua vita presente ossia all'orga
namento terrestre. = UOMO MORTALE. A ) Teoria o Autotesia; quello che v’ha di
dato nello spirito dell'uomo per istabilirne le facoltà fisiche ossia create. a
) Contenuto, ossia costituzione psicologica. a2) Parte elementare. = FACOLTÀ
ELEMENTARI (in numero di sette ). a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE.
a4) Elemento fondamentale ossia neutro; facoltà di sapere, = COGNIZIONE
(Kenntniss]. (I) 64) Elementi primordiali ossia polari. a5 ) Cognizione del Non
- Io. = RAPPRESENTAZIONE (Vorstellung]. (II) (1 ) Per la lettura delle nostre
Tavole genetiche noi.dobbiamo far notare alle persone non peranco abituate a
siffatta esposizione tabellare, che, a seconda della divisione dicotomica, ch'è
la sola rigorosamente logica, le due sottoclassi di ciascuna classe suddivisa
sono notate colle lettere a) e b) a destra accompagnate da un numero superiore
d'un'unità a quello che ha il medesimo indice della classe così suddivisa. In
tal maniera, muo vendo dai due generi primitivi, designati da A) e B), ciascuno
di questi due generi ha due classi designate rispettivamente da a) e b);
ciascuna di queste classi a) e 6) può avere di nuovo due sottoclassi a2) e 62 );
ciascuna di queste ultime classi a2) e 62) può avere di nuovo due sotto classi,
designate rispettivamente da a3) é 73 ); e così di seguito finchè ciascuna di
queste diverse sottoclassi ammette divisioni ulteriori. BERTINARIA -3 34 TAVOLA
GENETICA 65) Cognizione dell'Io. = COSCIENZA (Bewusztsein ).(III) 63) Elementi
derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. a4) Elementi derivati immediati ossia distinti.
a5) Combinazione della Cognizione colla Rappresen tazione. = SENSIBILITÀ. (IV)
Nota. Qui hanno luogo i Sensi esterni ed il Senso interno. 65) Combinazione
della Cognizione colla Coscienza. = INTELLETTO. (V) Nota. Qui hanno luogo
l'Intelligenza, il Giudizio e la Ragione condizionale (quella che si trova
incarnata nel. l'organismo fisico ossia terrestre dell'uomo). 64) Elementi
derivati mediati ossia transitivi. = IM MAGINAZIONE, a5) Transizione dalla
Sensibilità all'Intelletto. = IM MAGINAZIONE RIPRODUTTIVA. (VI) Nota. —Qui
hanno luogo la Memoria e la Previsione. 65) Transizione dall'Intelletto alla
Sensibilità. = IM MAGINAZIONE PRODUTTIVA. (VII) Nota. — Qui hanno luogo la
Costruzione e la Fantasia. 62) Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in
numero di quattro ). a3) Diversità nella riunione sistematica degli elementi
primordiali. a4) Influenza parziale. a5) Influenza della Rappresentazione nella
Coscienza. = SENTIMENTO. (I) 65) Influenza della Coscienza nella Rappresenta
zione. = COGNIZIONE. (II) b4) Influenza reciproca di questi elementi
primordiali; armonia sistematica tra la Rappresentazione e la Coscienza per
mezzo del loro concorso teleologico alla generazione delle Cognizioni. =
COMPRENSIONE. (III) NOTA. Qui hanno luogo il Giudizio teleologico (per la
cognizione dell'ordine ), ed il Gusto estetico (per la cogni zione del bello e
del sublime). DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 35 63) Identità finale nella
riunione sistematica dei due ele menti distinti, della Sensibilità e
dell'Intelletto, per mezzo dell'elemento fondamentale ossia neutro, for mante
la Cognizione. = POTENZIALITÀ. (IV) NoTA. - Qui hanno luogo, nell'aspetto
speculativo, ch'è quello della cognizione senza causalità, il GENIO, e nel
l'aspetto pratico, che è quello della cognizione colla cau salità, la VOLONTÀ.
b ) Forma, ossia relazione psicologica. a2) Nella parte elementare della
costituzione psicologica. a3) Per le facoltà primitive. a4) Per l'elemento
fondamentale; forma della Cogni zione. = ATTENZIONE) Per gli elementi primordiali:
a5) Forma della Rappresentazione. = OBJETTIVITÀ. b5) Forma della Coscienza. =
SUBJETTIVITÀ. 63 ) Per le facoltà organiche: a4) Immediate o distinte. a5)
Forma della Sensibilità. = INTUIZIONE (An schauung). 65) Forma dell'Intelletto.
= CONCETTO (Begriff) Mediate o transitive. a5) Forma dell'Immaginazione
riproduttiva. = IM MAGINE. 65) Forma dell’Immaginazione produttiva. = SCHEMA.
Nella parte sistematica della costituzione psicologica. a3) Nella diversità
sistematica. a4 ) Per l'influenza parziale degli elementi primordiali. a5)
Forma del Sentimento. = APPRENSIONE. 65) Forma della Cognizione. = APPERCEZIONE.
64) Per la loro influenza reciproca; forma della Com prensione. = RIFLESSIONE.
63) Nell'identità finale degli elementi distinti; forma della Potenzialità. =
AZIONE [Thaetigkeit ).TAVOLA GENETICA B) Tecnia o Autogenia; quello che bisogna
fare pel compimento delle facoltà fisiche ossia create nell'uomo. a ) Nel
contenuto ossia nella costituzione psicologica. a2) Nella parte elementare di
questa costituzione. ' a3) Per gli elementi immediati ossia distinti. al)
Compimento della Sensibilità. = PERFEZIONE ESTE TICA. Compimento
dell'Intelletto. = PERFEZIONE LOGICA. I caratteri di questa doppia perfezione,
estetica e logica, sono: l'estensione, la chiarezza, la varietà, la precisione,
il complesso e la certezza. 63) Per gli elementi mediati o transitivi. a4)
Compimento dell'Immaginazione riproduttiva, per la legge d'associazione delle
immagini. = As SIMILAZIONE (spiritualizzazione delle intuizioni). 64)
Compimento dell'Immaginazione produttiva, per la legge di schematizzazione
delle idee. = MOSTRA (corporificazione dei concetti ). 62) Nella parte
sistematica di questa stessa costituzione. a3) Per il compimento dell'armonia
prestabilita (préfor mation primitive] nei due elementi primordiali, nella
Rappresentazione e nella Coscienza; la quale armonia prestabilita fornisce le
ragioni sufficienti per la desi gnazione reciproca (facultas signatrix ) dei
concetti per mezzo delle intuizioni, e delle intuizioni per mezzo dei concetti.
= LINGUAGGIO (in generale). Per il compimento dell'identità primitiva negli ele
menti distinti, nella Sensibilità e nell'Intelletto; la quale identità fornisce
il compimento della Potenzialità per via d'indefinita ascensione ai principii,
e per mezzo d'indefinita deduzione delle conseguenze, siccome legge suprema
delle umane cognizioni. = RAGIONE INCONDI ZIONALE. 6 ) Nella forma ossia nella
relazione psicologica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA Nella parte elementare
di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà organiche in ordine
all'uniformità nella generazione delle cognizioni umane, siccome regola ossia
canone psicologico. = METODO. (DESTINO ). 62) Nella parte sistematica di questa
stessa relazione; com pimento delle facoltà sistematiche in ordine all'identità
finale negli oggetti delle cognizioni umane, siccome pro blema universale della
Psicologia. = IDEE (trascendenti) (RAGIONE ASSOLUTA ). II. Facoltà spirituali
ed iperfisiche dell'uomo, le quali ne fanno in condizionatamente un essere
razionale, vale a dire un ente assoluto, indipendente da qualsivoglia
condizione. = UOMO IMMORTALE. Nota. - Questa seconda parte della vera
psicologia, da niuno finora avvertita, appartiene solamente alla filosofia assoluta
del Messianismo. Essa non potrebbe in alcun modo venir raggiunta
dall'esperienza, perchè le facoltà che ne formano l'oggetto sono, non solamente
iperfisiche, ma al tresì creatrici, vale a dire poste fuori del mondo creato,
dove si trovano gli oggetti dell'osservazione e dell'espe rienza. Eccone la
genesi assoluta. A) Teoria o Autotesia; quello che vha di dato nell'ipostasi
dello spirito dell'uomo per poterne ricavare le sue facoltà iper fisiche ossia
creatrici. a) Contenuto ossia costituzione eleuterica. a2) Parte elementare. =
FACOLTÀ CREATRICI ELEMENTARI (in numero di sette ). a3) Elementi primitivi. =
FACOLTÀ PRIMITIVE. a4) Elemento fondamentale o neutro; principio ipo statico
nell'uomo. = COSCIENZA POTENZIALE. Elementi primordiali o polari. a5 )
Coscienza potenziale del Non - 10. = ALTERIETÀ. (II) 65) Coscienza potenziale
dell’Io. = IPSEITÀ. (III) 38 TAVOLA GENETICA. Elementi derivati. = FACOLTÀ
ORGANICHE. Elementi derivati immediati o distinti. a5) Combinazione della
Coscienza potenziale coll’Al terietà. = ETERONOMIA. (IV) 65) Combinazione della
Coscienza potenziale con l'Ipseità. = AUTONOMIA. (V) 64) Elementi derivati
mediati o transitivi. a5) Transizione dall'Eteronomia all'Autonomia. =
RELIGIONE RIVELATA. Transizione dall'Autonomia all'Eteronomia. = RELIGIONE
ASSOLUTA. (VII) 62) Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in numero di
quattro ). a3) Diversità nella riunione sistematica degli elementi primordiali.
a4) Influenza parziale. a5) Influenza parziale dell'Alterietà nell'Ipseità. =
ETEROTELIA. (Influenza parziale dell'Ipseità nell’Alterietà. = AUTOTELIA.
Influenza reciproca di questi elementi primordiali; armonia sistematica tra
l’Alterietà e l'Ipseità, per mezzo del loro concorso teleologico alla creazione
propria dell'uomo. = SPIRITO (Geist]. (III) Nota. Questo è il principio più
alto della filosofia di Hegel; ma si vede ch'esso non raggiunge il Verbo e nem
meno l'Assoluto, del quale secondo riesce, in certa ma niera, solamente
peristilio. Identità finale nella riunione sistematica degli ele menti distinti
dell'Eteronomia e dell'Autonomia per mezzo dell'elemento fondamentale o neutro,
formante la Coscienza potenziale. = ASSOLUTO nella coscienza ossia COSCIENZA
ASSOLUTA. Forma o relazione eleuterica. Nella parte elementare della
costituzione eleuterica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 39 a3) Per le facoltà
primitive. a4) Per l'elemento fondamentale; formadella Coscienza potenziale. =
GENIALITÀ. Per gli elementi primordiali. a5) Forma dell'Alterietà. =
RECETTIVITÀ (nella co scienza ). 65) Forma dell'Ipseità. = PROPRIETIVITÀ (nella
co scienza ). 63) Per le facoltà organiche: a4) Immediate o distinte. a5) Forma
dell'Eteronomia. = MORALITÀ. 65) Forma dell’Autonomia. = MESSIANITÀ. 64 )
Mediate o transitive. a5) Forma della Religione rivelata. = GRAZIA. 65) Forma
della Religione assoluta. = MERITO. Nella parte sistematica della costituzione
eleuterica. a3) Nella diversità sistematica. a4) Per l'influenza parziale degli
elementi primordiali. a5) Forma dell'Eterotelia. = DIPENDENZA PROVVI DENZIALE.
65 ) Forma dell'Autotelia. = INDIPENDENZA UMANA. 64) Per l'influenza reciproca;
forma dello Spirito. = SPONTANEITÀ. Nell'identità finale degli elementi
distinti; forma dell'Assoluto nella coscienza. = RAZIONALITÀ CREATRICE) Tecnia
o Autogenia; ciò che bisogna fare pel compimento delle facoltà iperfisiche o
creatrici nell'uomo. a) Nel contenuto o nella costituzione eleuterica. a2)
Nella parte elementare di questa costituzione. a3) Per gli elementi immediati o
distinti. a4) Compimento dell’Eteronomia; stabilimento proprio, operato
dall'uomo stesso, del suo essere assoluto. = AUTOTESIA. 40 TAVOLA GENETICA
DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 64) Compimento dell'Autonomia; stabilimento
proprio, operato dall'uomo stesso del suo sapere assoluto. = AUTOGENIA. 63) Per
gli elementi mediati o transitivi. a4) Compimento della Religione rivelata. =
Per mezzo della LEGGE DEL PROGRESSO. Compimento della Religione assoluta. = Per
mezzo della LEGGE DI CREAZIONE) Nella parte sistematica di questa stessa
costituzione. Per il compimento dell'armonia prestabilita (préfor mation
primitive] nei due elementi primordiali, nella Alterietà e nell'Ipseità;
armonia che fornisce le ra gioni sufficienti per l'esplicazione della
Virtualità creatrice nell'uomo. = VERBO) Per il compimento dell'identità
primitiva nei due elementi distinti, nell'Eteronomia e nell'Autonomia; identità
che fornisce il compimento dell'Assoluto nella coscienza per mezzo della sua
identificazione col Verbo, come legge suprema della creazione propria dell'ờomo.
= ARCIASSOLUTO ossia ciò che è INDICIBILE (nell'ipostasi della coscienza umana
). Nella forma o nella relazione eleuterica. Nella parte elementare di questa
relazione; compimento delle facoltà organiche in ordine all'uniformità nella
pro pria creazione umana, come regola o canone eleuterico per la liberazione
dell'uomo dalle sue condizioni fisiche. = RIGENERAZIONE SPIRITUALE DELL'UOMO.
62) Nella parte sistematica di questa stessa relazione; com pimento delle
facoltà sistematiche in ordine all'identità finale nel risultamento della
propria creazione umana, cioè in ordine all'individualità assoluta dell'uomo,
come problema universale di questa parte eleuterica della Psi cologia. =
CREAZIONE PROPRIA DELL'UOMO (Immortalità ). COMMENTO ALLA TAVOLA GENETICA DELLA.
PSICOLOGIA FISICA ED IPERFISICA DI HOENATO WRONSKI PARTE PRIMA PSICOLOGIA
FISICA Facoltà spirituali e fisiche dell'uomo, le quali ne fanno condi
zionatamente un ESSERE RAZIONALE, vale a dire un ente creato, soggetto alle
condizioni della sua vita presente, ossia all'organamento terrestre. - UOMO
MORTALE. In questa prima parte della Tavola genetica della Filosofia della
Psicologia l'Autore tratta solamente delle facoltà spirituali da lui dette
fisiche per ciò ch'esse sono date immediatamente dalla natura, e si svolgono
per necessità della costituzione naturale dell'uomo, riserbandosi di trattare
delle facoltà iperfisiche nella seconda parte della Tavola stessa. L'Autore
dice che le facoltà fisiche fanno dell'uomo condizio natamente un essere
razionale, e spiega l'avverbio, chiamando l'uomo, in quanto egli è solamente
fornito di tali facoltà, un ente creato soggetto alle condizioni della sua vita
presente. Chiun que non conosca l'ontologia wronskiana, e si trovi solamente
iniziato alla psicologia ancora comunemente coltivata oggidì, avrà motivo
d'inarcare le ciglia udendo queste espressioni; ma colui il quale sappia che
l'Autore ammette due sorta di creazione, delle quali la prima è opera dell'Ente
supremo, e costituisce, rispetto alla mente umana che la contempla, l'ordine
eterono mico governato dalla necessità, e la seconda è opera dello Spi ſito
creato, e costituisce, rispetto allo spirito stesso, l'ordine autonomico
governato dalla libertà di cui egli è dotato, capirà pure facilmente che
l'uomo, quale creatura di Dio, è essenzial mente eteronomico, e per conseguenza
soggetto alle condizioni dell'organamento terrestre, al quale la sua vita è
vincolata in forza delle leggi necessarie del cosmo; e quale autore del proprio
svolgimento, egli è essenzialmente autonomico, vale a dire crea tore di se
stesso. Posta questa teoria ontologica, si debbono pure ammettere due ordini di
umane facoltà, fra loro così distinti che non vadano mai fra loro confusi,
sebbene siano fra loro collegati come qualità di un medesimo soggetto, ed il
primo si trovi logi camente e cronologicamente anteriore al secondo, che in
dignità gli è superiore. Laonde, chiamando naturale o fisica l'entità
eteronomica, e soprannaturale od iperfisica l'entità autonomica dell'uomo, si
vengono a caratterizzare benissimo i due ordini di facoltà fra loro così
diversi, che quelle del primo fanno dell'uomo bensì un ente razionale, ma
condizionato, laddove quelle altre del secondo rendono l'uomo stesso ente
razionale incondizionato cioè assoluto. A Teoria o Autotesia. Presso le
colonie greche nell'Italia inferiore, le quali erano per lo più composte di
Dori ed Achei, ebbe luogo molto svolgimento di vita esteriore ed interna;
imperocchè vennero a rinomanza per le legislazioni di Saleuco e Caronda, per
l'arte orato ria e la poesia lirica, per un'eccellente scuola me dica stabilita
in Crotone, città salita a prospera for tuna, e per molti vincitori ai giuochi
olimpici, che quivi ebbero i natali. PITAGORA portossi a Crotone e dimora per
lo più nella Magna Grecia. La sua vita è oscura e molto favolosa. Egli fu dotto
particolarmente in matematica, musica teoretica, astronomia e ginnastica. Le
favole lo dicono tau maturgo e rivelatore di sapienza divina. Egli deve essere
figlio d'Apollo e d'Ermete, con una gamba d'oro, e fu veduto in più luoghi
nello stesso tempo. Gli animali seguivano la sua chiamata. Da Ermete ebbe il
dono della ricordanza della sua vita ante riore, come Euforbio, e seppe
ridestare la medesima in altri. Egli sentiva l'armonia delle sfere celesti, e
venne considerato come una divinità. Però è che si parla di un culto sacro e di
orgie pitagoriche. Egli deve aver conosciuto Ferecide e Talete, ed essere stato
educato dai sacerdoti egiziani; ma da se stesso si procacciò la maggior parte
di sue cogni zioni. Fondò a Crotone una società segreta in cui si professavano
i principii politici dell'aristocrazia: Pri ma che un individuo venisse
accettato in quella do veva subire prove. I membrisi distinguevano in eso.
terici ed essoterici, cioè più e meno iniziati. In tale società praticavanşi
esercizii corporali e spirituali, vita e costumi comuni e regole, parole
simboliche, invocazioni al fondatore (aútòs špa ), banchetti (ovo oltia ) e
funerali; ma non già comunione di beni. I fini principali della società erano
prima la mo rale religiosa, poi la scienza, particolarmente la matematica e la
musica. La società pitagorica ebbe influenza diretta sugli interessi politici
nelle città di Crotone, Sibari, Metaponto, Locri e Tarento; ma essendo stata
cagione di una guerra, molti Pitago rici perirono e fors’anche lo stesso
Pitagora mori a Metaponto, e dopo morte fu onoratissimo. I Pita gorici
perseguitati e scacciati, conservarono pure influenza politica. A molti di
essi, come Timeo, Archita ed Ocello da Lucania, sono attribuiti scritti, e le
lettere attribuite a Pitagora ed a sua moglie o figlia Teano, come pure i versi
d'oro, sono d'ori gine posteriore. Fra gli ultimi Pitagorici i migliori sono
Filolao ed Archita, e dei primi scritti riman gono ancora frammenti. Quantunque
la filosofia pitagorica abbia seguito varie direzioni, pure dobbiamo
considerarla nella sua unità. L'esporre la medesima riesce difficile sia pella
diversità delle vedute de'varii scrittori che le appartengono, sia pei segni
simbolici di cui servi vasi quella scuola per significare le idee ed i varii
sensi a cui s'impiegavano. -Come Ferecide, miti camente esprimendosi, diceva
che Erebo aveva dato forma al Caos e ne venne il Tempo, Pitagora volle la
pluralità generata dall'unità, ossia dal numero. Que sto è l'essenza (ovoia) od
il principio (apxn) di tutte le cose. Il numero è pensato come uno, però anche
quale unità di due antitesi, del pari e dispari. Onde la monade e la diade sono
i principii delle cose. La diade è il principio della sostanza informe, ossia
il numero indeterminato; la monade è il principio ordinatore. La sostanza
informe viene alla pluralità ed alla varietà per mezzo dell'unità; però tutte
le cose si fanno ad imitazione del nu mero, possono considerarsiqualinumeri. Il
numero. è il principio generale tanto della natura, quanto della cognizione.
Cosi l'uno è l'essenza del numero, il numero semplicemente, il fondamento di
tutti i numeri, l'unità suprema, la divinità nel mondo. I Pitagorici dissero
triade il numero del tutto consi derato nell'integrità di principio, mezzo e
fine. La tetrattisi è importante, perchè i primi quattro nu meri formano
assieme dieci, ed i primi quattro pari e dispari formano trentasei; parimente
im portante è la deca, e vale come l'unità per sim bolo del principio di tutte
le cose. Nell'essenza del numero, ossia nell'unità suprema, si contengono tutti
i numeri, e per conseguenza gli elementi della natura e dell'universo. Questa
teoria si accorda colla divisione dei toni del monocordo inventato da Pitagora.
Dividendo in due parti una corda tesa, la metà produce l'ottava; cosi il tono
fondamentale della corda intiera sta all'ottava come 2: 1, che è la perfetta
proporzione musicale. La corda divisa in tre parti dà 2/3 della corda divisa,
la quinta che sta al tono fondamentale come 2: 3; così 3/4 della corda dà la
quarta, che sta al tono fondamen tale come 3: 4. Questi tre intervalli
formavano l'ar monia degli antichi, onde l'importanza dei segni 1, 2, 3, 4.
L'unità suprema è pari- dispari. Gli elementi della natura sono compresi nelle
seguenti dieci antitesi: 1. Limitato, illimitato: 2. Dispari, pari: 3. Uno, più:
4. Destro, sinistro: 5. Mascolino, femminino: 6. Quiete, moto: 7. Retto, curvo:
8. Luce, tenebra: 9. Buono, cattivo: 10. Quadrato, rettangolo. Tuttavia non
furono escluse altre antitesi. L'uno è solo nella terza antitesi, perchè ha due
signifi cati, come principio e come sintesi di tutte le an titesi. Nelle
antitesi il primomembro significa sem pre il più perfetto, in quanto che tutto
nel mondo risulta dal perfetto e dall'imperfetto. L'uno essendo il fondamento
di tutti i numeri, perchè è pari e dispari nello stesso tempo, non solamente è
il principio del perfetto, ma anche dell'imperfetto. Il perfetto, ossia il
buono, non è dunque primamente, ma coesiste all'imperfetto nell'uno come diade;
perciò avviene in prima che l'uno forma il mondo, ossia quanto è possibile;
imperocchè l'efficacia di Dio è limitata, ed ogni cosa recà al meglio solamente
secondo sua potenza. Ma perchè i Pitagorici non prendono l'antitesi per
fondamento delle cose, bensi il numero ossia il pari- dispari come dispari e
pari? Nella tavola si presentano il limite, ossia il limitanté, ed il limitato.
Il limitante è secondo loro, rispetto ai corpi, una pluralità di punti che
formano un numero. L'illimitato significa il mezzo tra il limite, ossia lo
spazio di mezzo; la quale espressione aveva grande significato nella musica e
geometria loro. Dagli spazii musicali mezzani, ossia intervalli, essi
derivavano l'accordo de'varii toni. I punti di limite costituendo il principio
e la fine, l'illimitato è nel mezzo e produce l'espansione, e precisamente la
geometria secondo le tre misure. Il cubo è pro dotto da tre intervalli, la
superficie da due, la linea da un solo; il punto non ha intervallo, è l'u nità.
Dal limite e dall'illimitato, ossia dalle unità e dagli intervalli, viene la
grandezza dello spazio. Ma d'onde lo spazio mezzano? Il secondo membro delle
loro antitesi è il negativo; perciò l'illimitato, o lo spazio mezzano, è il
vacuo. La separazione delle unità, ossia numeri, avviene per mezzo del vacuo;
questo è dunque principio e solamente un'altra espressione dell'illimitato o
pari, perchè tutti i membri posteriori delle antitesi possono es sere mutati, e
cosi anche i membri anteriori. Qual fu l'opinione dei Pitagorici intorno
l'origine del mondo? Le cose provengono dalle unità in diversi spazii mezzani,
esse formano un numero di unità, ed in ciò consiste la loro natura e la loro
origine, non 'secondo il tempo, ma secondo la maniera umana di pensare. L'unità
suprema come circon data dall'infinito, ossia dal vacuo, si sforza di di
vidersi in antitesi e di ricongiungersi di nuovo. L’uno si divide in una
pluralità di cose per mezzo dello spazio vacuo, perció l'illimitato si partisce
in più parti affinchè entri nel limitante. Il vero essere ha dunque il suo
fondamento nel limite. L'entrare dell'illimitato nel limitato vien detto
l'alito ossia la vita del mondo. Perciò bisogna prendere il mondo come numero,
come unità, le quali sono congiunte in Dio, che è l'unità primitiva, e separate
dallo spazio mezzano. Dalla composizione delle unità provengono diverse
relazioni, che sono ordinate armonicamente e con simmetria. Il legame di ogni
relazione è l'armonia. Ora l'unione delle antitesi trovandosi nell'unità
suprema, essa è il principio dell'armonia e l'universo numero ed armonia, ed
anche l'armonia è di bel nuovo il principio dell'unità di tutte le cose. Ma
nell'armonia è pur anco compreso il concetto di ordine. Avuto riguardo all'
importanza della deca, adottavano dieci corpi mondani che si trovano in
armoniche distanze. Rispetto ai sette toni, dal tono fondamentale all'ot tava
adottavano sette -vocali. La monade è il punto, la diade la linea, la triade la
superficie, la tetrat tisi il corpo geometrico, la pentattisi i corpi fisici.
In questo modo arbitrario continuavano essi a porre cinque elementi, e dicevano
paragonando: Il cubo significa la terra, la piramide il fuoco, l'ottaedro
l'aria, l'icosaedro l'acqua, ed il dodecaedro l'etere come quinto elemento. Il
migliore di questi ele menti è il fuoco, probabilmente perchè fra le dieci
antitesi la luce e l'inerte significano il perfetto. Il fuoco riposa nel mezzo
del mondo ed è la guardia ο castello di Giove (Διός φυλακή.Ζηνός πύργος), ha la
forma di un cubo, perché questo, essendo consi derato il corpo più perfetto a
cagione dei tre inter valli simili, secondo i Pitagorici era l'altare dell'u
niverso; il qual fuoco si forma prima da sè e guida poi la formazione del
mondo. Dal mezzo il fuoco si spande per tutto l'universoe lo abbraccia. Attorno
al fuoco centrale sono ordinati i dieci corpi mon dani, cioè il cielo delle
stelle fisse, i cinque pianeti, il sole, la luna, la terra e la controterra (artiyJabí),
il quale ultimo corpo è invisibile. Essi si vibrano in direzione circolare, ad
eccezione della terra im mobile nel mezzo (probabilmente con la contro terra ),
e la quale contiene il fuoco; perchè anche il mondo intiero corrispondente alla
deca è una palla: onde l'armonia delle sfere, perchè ogni corpo vibrandosi
rende un tono. Tuttavia noi non sentiamo quell'armonia, giacchè appartiene alla
nostra so stanza, e come ogni tono si può solo sentire pel contrapposto del
silenzio, l'armonia delle sfere è senza pausa. I corpi circolanti sono otto
solamente, e questi sono ordinati in quattro intervalli e sette toni, talchè la
sfera delle stelle fissé ha il tono più basso, quello della luna il più alto.
L'imperfezione è particolarınente sulla terra; però la luna e gli altri mondi
sono più perfetti e più belli. Sulla terra ba luogo il cangiamento disordinato
ed in appa renza molto fortuito; essa stessa è soggetta all'in stabilità. S 67
Si annodano ai numeri anche i concetti di per fezione e d'imperfezione in senso
morale. La diade è principalmente il simbolo dell'immorale. L'anima dell'uomo è
parimenti un numero od armonia, l'intelletto o pensiero è l'uno, la scienza il
due, l'immaginazione il tre, il sentimento il quattro. L'anima è inserita nel
corpo pel número e relazione armonica del corpo, perciò non è corporea, ma solo
apparente in una relazione corporale. Vi sono anche anime prive di corpo che
hanno vita di fan tasma, e le quali non sono mai entrate in alcun corpo o di
nuovo ne sono uscite; queste sono i de moni. A questo si riferisce la dottrina
esoterica della metempsicosi e la fede nella ricompensa dopo morte, a cui
conseguita la personalità e l'immor talità dell'anima. L'unione dell'anima con
un corpo è la pena di qualche empietà; la vita terrena è uno stato d'infelicità,
ma necessario ed ordinato al buo no per mezzo dell'unione col tutto. L'anima
umana possiede l'essenza ragionevole e l'essenza irragio nevole, quella delle
bestie solamente la seconda, però ha qualche germe d'intelligenza. La virtù è
armonia, la giustizia è detta anche numero uguale. Tutta la vita è sotto la
cura divina: il suicidio è da condannarsi. Pare che la morale e la politica dei
Pitagorici si appoggiasse a massime separate di ca rattere ascetico; essi
inculcavano la moderazione nei desiderii e nelle passioni, la fedeltà, l'amore,
l'amicizia, il lavoro, la costanza e l'educazione ri gorosa. – Cosi la dottrina
pitagorica è in parte etica, rappresentata dall'armonia e dalla musica, in
parte fisica per la matematica, pei fenomeni fisici derivanti dalla forma della
sensibilità; la quale si ricava da ciò che l'unità del principio si risolve in
una pluralità di cose. La presupposizione della ori ginale imperfezione deve
unire ambe queste parti. L'unità suprema è semplice, ma considerata nella sua
attività, nello sviluppo mondano della sensibi lità è composta; il
soprasensibile ossia l'unità su prema è indeterminato. In ciò sta riposta senza
dubbio l'idea di Dio come creatore del mondo, ma è offuscata dal modo forzato
con cui si presenta all'uopo di spiegare l'origine del mondo, la natura delle
cose singolari e la loro connessione, e dalla nozione simbolica e particolarmente
matematica della provvidenza divina. Onde l'applicazione di questa
dottrina alla parte spirituale è difficilissima. Pertanto la dottrina
pitagorica è nell'etica tanto difettosa, quanto pare siano stati eccellenti i
parti giani di essa nell'esercizio della virtù. I lonii e Pitagorici
tentarono spiegare l'origine del mondo; essi ammettendo la produzione delle
cose riuscirono realisti. Per l'opposto gli Eleati sono idealisti, tendono alla
cognizione del non -sensibile ed affermano: Nulla viene all'essere, tutto
esiste. Il nome loro proviene dalla città d'Elea nella Magna Grecia, dov'era la
sede principale di questa scuola filosofica. SENOFANE da Colofone, sede della
poesia epica e gnomica, contemporaneo di Pitagora, si portò verso il 536 ad
Elea nella Magna Grecia, e fu prima poeta epico ed elegiaco. Rimangono solo
frammenti delle sue opere. La sua tesi fondamentale è questa: Dio è, e non può
divenire; come pure in generale nissuna cosa può cominciare ad esistere;
imperocchè il generato dovrebbe essere uguale al generante, epperò ambi non
sarebbero fra loro differenti; ma l'ineguaglianza, come per esempio, che il più
pic colo nasca dal più grande e vi ritorni, si deve attri buire all'opinione
insussistente che alcuna cosa non esistente possa venir prodotta da ciò che
esiste. Per ciò vi ha solamente l'uno, e questi è Dio, il quale forma col cielo
e la terra un essere solo, unico (in TÒ öv xai tò Tây). Per conseguenza il
politeismo o la mitologia parvegli un'empietà, particolarmente i miti immorali.
Sostenne contro le scuole jonica e pitagorica che Dio non è mosso e limitato,
nè inerte ed illimitato, perchè le prime limitazioni sono pro prie della
pluralità, le altre appartengono al non esistente. Dio è perfettamente uguale
perchè non ha parti; considerato spiritualmente è pura intelli genza,
considerato corporalmente è da paragonarsi ad un globo. Secondo tali principii
era impossibile una spiegazione della natura. Cosi egli oppose alla verità
l'opinione, ossia l'intuizione sensibile; ep però non seppe trovare il nesso
tra l'unità e la pluralità. Per la qual cosa si duole che l'ignoranza sia
retaggio dell'umana schiatta. Senofane è pan teista; ma importante il suo
pensiero dell'essere assoluto. PARMENIDE da Elea fece con Zeno ne un viaggio ad
Atene, dove forse conobbe Socrate. Egli sviluppò il sistema di Senofane;
tuttavia non prese le mosse dal concetto di Dio, ma da quello dell'essere e del
non -essere, della certezza e dell'o pinione, riconducendosi poi all'idea di
Dio siccome quella che è riposta nell'esistente. Secondo lui v'ha un doppio
sistema di conoscenza, quello della ra gione ossia del vero, e quello dei sensi
ossia del l'apparenza. Il suo poema sulla natura trattava di ambe le maniere,
ma dai frammenti che pervennero a noi conosciamo la prima meglio della seconda.
Es sere, pensare e conoscere è tutt'uno. Il non-essere è impossibile, tutto
l'essere è identico; perciò il reale non lią cominciamento, è invariabile,
indivisibile, riempie tutto lo spazio, da se stesso si limita, sussi ste per
legge di necessità: onde qualunque cangia mento, qualunque movimento è mera
apparenza. Ciò non ostante la stessa apparenza è regolata da una legge, per cui
le rappresentazioni delle cose sono costanti (80% a ). A fine di spiegare la
natura di tali rappresentazioni ricorre a due principii, il caldo, ossia il
fuoco etereo, il freddo ossia la notte della terra; il primo è penetrante,
positivo, reale, pensante (Saucoupyós), epperò più vicino alla verità; il
secondo è denso, pesante (@an), negativo, sola mente una limitazione del primo.
Questa dottrina della natura è meccanica. Da tali due principii de rivò egli
tutti i cangiamenti ed anche i fenomeni del senso interno. L'uomo è un composto
di fuoco etereo e di notte, per conseguenza partecipa alla cognizione della
verità ed all'apparenza. MELISSO da Samo, verso l'anno 444, celebre an che come
politico e capitano di flotta contro Pericle, adottò lo stesso idealismo, e
prese a combattere particolarmente la filosofia naturale della scuola ionica.
Non si deve far parola degli dei, perchè gli uomini non hanno cognizione alcuna
di tali enti. Presso Melisso ritorna il concetto di perfezione. Ciò che esiste
è infinito, non è prodotto, nè può perire. Non v'ha movimento o trasformazione,
perché avvi un essere solo e nissun vacuo; epperò non si danno la porosità e la
densità. L'esistente non può essere diviso, cosi non ha parti, non è corporeo.
La plu ralità è sola apparenza sensibile. Quello che in ve rità esiste è dotato
di vita. ZENONE d'Elea, discepolo ed amico di Parmenide, fece con questo un
viaggio ad Atene e si distinse tanto per acume d'intelletto e sottile
dialettica, quanto per fortezza d'animo, avendo sacrificata in battaglia la
propria vita a difesa della patria. Egli sostene va il sistema di Parmenide in
ciò che nega la plu ralità delle cose, il movimento e lo spazio. Data la
pluralità delle cose, ne dovrebbe conseguitare che nello stesso tempo fossero
infinitamente piccole ed infinitamente grandi; la prima condizione perchè
risultano di ultime unità indivisibili, il cui aggregato non può produrre
grandezza; la seconda con dizione perchè risultano da una quantità infinita di
parti sempre più estese e per conseguenza divisi bili. Qui il sofisma consiste
in ciò, che nel primo caso suppone l'indivisibilità, nel secondo la rigetta. In
seguito diceva: la pluralità è ad un tempo limitata ed illimitata; limitata
perchè più o meno determinata, illimitata perchè ogni distanza da un punto di
una grandezza fino all'altro è infinito, avuto riguardo all'infinita quantità
di parti di mez Egli contestava il movimento per le contrad dizioni inerenti a
questo concetto; imperocchè bi sogna che lo spazio misuratore, il quale consta
di parti infinite, venga percorso in un intervallo limi tato. Onde l'argomento
detto l'Achille, con cui af fermava che se una testuggine avesse il vantaggio
d'un passo avanti, non potrebbe essere raggiunta da Achille, perchè la distanza
non cesserebbe mai appieno, quantunque si facesse sempre più breve. Diceva poi
che non dovevasi accettare la dottrina del movimento, risultando da semplici
momenti di quiete, in quanto ciò che si muove perpetuamente si sviluppa in
qualche parte. Lo spazio vacuo è ines cogitabile, appunto perché la pluralità
ed il mo vimento non sono pensabili. Che se fosse alcun che reale, esso
dovrebbe trovarsi in uno spazio, giac chè ogni realità è compresa in quello,
epperò una continuazione senza fine dovrebbe trovare luogo in uno spazio che la
contenesse. Queste prove apago giche, appoggiate all'assurdità dell'opinione
con traria, sono sofistiche per lo scambio delle forme rappresentative logico
-matematiche di valore su biettivo e delle forme razionali di valore obiettivo.
Nell'Achille si trova una falsa applicazione della ce lerità all'espansione,
ossia del tempo allo spazio. Per mezzo dell'antitesi della ragione e dell'espe
rienza Zenone pose le fondamenta della dialettica e dello scetticismo, che ben
presto venne continuato dalla scuola di Megara e finalmente corruppe tutta la
filosofia greca. $ 75 EMPEDOCLE d'Agrigento in Sicilia, verso l'anno 460,
naturalista, medico, celebre come taumaturgo, perfezionò la fisica degli
Eleati, siccome Zenone la metafisica. L'unità delle cose è il mondo, simile ad
un globo, ragione per cui lo chiama opalpos, opera perfetta dell'amore, da lui
governata, a lui iden tica. La materia e la forza non si decompongono. L'amore
irradiandosi dal centro penetra tutto ed è ad un tempo necessità: dipende da
tutto pel con trasto delle forze. Essendo l'uomo solamente una parte della
divinità, la cognizione umana non può essere che imperfetta,''e quantunque
conosca gli elementi del tutto, non può penetrarne l'unità, che Dio solo può
comprendere. Egli distingue dalla mas sa la forza movente. Le forze solamente
movono, ma non variano le cose; però questa dottrina della natura è meccanica.
Egli è impossibile che il nulla produca alcuna cosa, e che venga a mancare ciò
che esiste. Egli ammette quattro elementi, fra i quali dà preferenza al fuoco,
considerandolo come l'essenza divina delle cose; imperocchè tutto si ri cava
dal fuoco ed in esso tutto si risolve. La sepa razione avviene per odio, ma
senza che riman gano intervalli vacui. L'amore congiunge le cose eterogenee,
l'odio le omogenee, operando la sepa razione del composto. Vi sono periodi
nella for mazione del mondo. Ma il mondo mosso è sola mente una parte del tutto,
il dominio dell'odio solo sottordinato, ed anche solo presente nella rappre
sentazione. Prima si formano le cose elementari, il sole, l'aria, il mare, la
terra, poi da questi pro vengono le organiche per mezzo dell'amore; le piante e
gli animali si formano dal concorso degli elementi, ma in principio le membra
esistendo se paratamente hanno prima luogo i mostri. La na tura organica
essendo formata dall'amore è il pas. saggio alla vita beata nello sfero. Gli
spiriti sono trasmigrati in corpi per delitto, epperò sono neces sarie le
purificazioni. Tutto è ripieno di ragione e partecipa alla conoscenza. Gli
elementi non godono di vita pacifica, essendo svelti dallo sfero, mossi
dall'odio, epperciò ricevono diverse forme senza propria metempsicosi. Tale
migrazione per tutte le forme è la miseria delle cose, conseguenza dell’o dio.
Rimedio contrario è l'intiero abbandono all'a more. Non v'ha guarentigia
d'intelletto se ci diamo alla vita sensuale. La cognizione de' corpi ha per
fondamento l'osservazione sensibile, ed è opera dell'unione meccanica de'corpi
per mezzo dei tras corrimenti á toppolai) e delle correnti che pene trano in
altri corpi per via de'pori (xotha ). L'unione delle impressioni sensibili
nella coscienza, spiegasi col congiungersi del sangae nel cuore. Questa co
gnizione procura l'opinione, ma non il vero sapere. La cognizione divina è
somministrata dalla ragione ed avviene in maniera mistica per mezzo della pu
rificazione. — La filosofia di Empedocle è il primo tenue saggio per
rettificare le nozioni sensibili coi puri concetti della ragione, e disgiungere
dai feno meni fisici la cognizione del vero reale, ossia il fondamento
sensibile delle cose. La sua fisica ha tutti i difetti della spiegazione meccanica
della na tura. Anch'egli si duole della ristrettezza dell'uma no intendimento.
Si racconta che incontrò la morte nel cratere dell'Etna. Empedocle aveva
scritto un poena didattico sulla natura, ma non ne perven nero a noi che
frammenti. GORGIA da Leonzio, discepolo
d’Empedocle, e anche maggior dispregiatore di Protagora di quanto è vero e
buono. Egli si portò in Atene in qualità d'ambasciatore, si attirò gli sguardi
per una nuova maniera oratoria, viaggið all'intorno, raccolse molto danaro
dall'insegna mnento e morì in età avanzata. Le sue orazioni sono meramente
pompose, svolte per mezzo di antitesi, epperciò fredde. Egli si vantava di
parlare all'im provviso di tutto, sia brevemente sia a lungo, e di sapere a
tutto rispondere. Il suo insegnamento nel l'arte oratoria consiste in
artifizii, specialmente in paralogismi. Egli sprezzava la virtù, tenendo l'arte
di persuadere per la suprema. In luogo dell'esistente degli Eleati pose il non
- esistente. Egli sosteneva tre tesi: 1 ° egli v'ha niente, nè l'essere nè il
non essere, nè ambi assieme. L'essere non è perchè o non deve aver principio o
deve averlo, od ambi assieme. Se non ha principio è eterno, perciò un non -
essere, è come eterno anche infinito, ma poi dovrebbe essere od in se stesso od
in -un altros ma in se stesso dovrebbe essere ad un tempo contenente e
contenuto, in un altro vi sarebbe un infinito in un altro infinito; però ambi i
casi sono impossibili. Se ha principio, dev'essere prodotto o dall'esistente o
dal non esistente. Nel primo caso sarebbe contro la presupposizione eterno e
non avrebbe principio, nel secondo dovrebbe il nulla come non esistente,
produrre alcuna cosa. Ma il nulla esistendo, l'es sere dovrebbe essere non
esistente, perchè il nulla e l'essere sono contrapposti. L'essere poi non po
trebbe avere principio e non averlo nello stesso tempo per essere un'antitesi.
Parimenti il non essere non può essere, perchè altrimenti l'essere stesso non
potrebbe essere. 2° Quand'anche qual che cosa fosse, tuttavia non si potrebbe
conoscere, perchè non si può pensare che il pensabile, non il reale che è fuori
del pensiero. Vi ha differenza tra il pensato ed il reale (questa distinzione è
vera, maGorgia ne fece un'applicazione falsa ). 3° Quando anche alcuna cosa
fosse pensabile, essa pero non sarebbe comunicabile, perchè solamente il
concetto ed il discorso si possono comunicare, non già la cosa stessa.- Zenone
aveva già adoperato gli ele menti delle nozioni sensibili per mostrare in esse
stesse la loronullità a frontedella verità puramente razionale; Gorgia si
prevalse degli elementi della dottrina eleatica intorno alla ragione per
annullare l'ultima stessa, essendo contraria alla verità delle nozioni
sensibili, ed il pensiero potendo solamente produrre apparenze. $ 80 In tal
maniera fini il primo periodo della filosofia greca. I lonii partirono dalla
natura, ossia dalmondo, gli Eleati da Dio; i primi rifletterono meno alla Di
vinità, facendone conto solamente come dellaforza prima della natura o della
vita; imperocchè per essa solamente intendevano a spiegare l'origine del mondo
o per via dinamica o meccanica, finchè Anassagora separò Dio dalla materia,
però ad ambi attribuendo pari originalità e concedendo solo al primo la
direzione del mondo. Gli Eleati rigetta rono cotesto dualismo, ritornarono al
monismo, ma non poterono accordare la perfezione di Dio coll'im perfezione del
mondo, cercando un rifugio col dire che il mondo non è alcuna cosa reale, ma
solo ap parente. Fu questo il grave errore, che sempre più ingrandito aboli
finalmente Dio, la religione e la moralità. Già la scuola ionica aveva lasciato
la mo rale in un canto. Pitagora, il quale trattò l'origine ed il governo del
mondo col suo ingegnoso ma farzato e sterile paragone colla matematica, ebbe
riguardo al morale, però meno in teorica che in pratica. –La filosofia ebbe poi
un nuovo eccita mento della parte morale per - mezzo di Socrate, quantunque
egli non abbia seguito la direzione scientifica, ma solo la pratica e
religiosa. A ciò conseguitarono i sublimi saggi di Platone e d'Aristo tele per
investigare la natura, Dio e la moralità; ma anche questi uomini dovettero
soccombere al grande incarico, per quanto inspirato sembrasse il primo e
circospetto il secondo. Finalmente la scuola epicurea prese, come gli Atomisti
e Sofisti sul finire del primo periodo, a proteggere la sensualità e l'ateismo.
Per opera degli Scettici prese a domi nare il dubbio; si cercò invano di
risolvere il pro blema dell'unione della materia e dello spirito,
dell'intuizione e del pensiero, e bisogno gettarsi nelle braccia del
teosofismo: Così terminava la fi losofia greca, avendola dal principio alla
fine ac compagnata il dubbio e la tristezza. Il Cristiane simo salvo poiil
mondo dalla corruzione intellettuale e morale. I
Romani non ebbero mente filosofica. Essi ac colsero la filosofia greca,
particolarmente l'epicu rea, che rispondeva al loro lusso, e Tito LUCREZIO
TERZO PERIODO -ECLETTICI E SINCREBISTI. ne fece soggetto di un poema didattico,
cui diede l'antico titolo: Della natura delle cose; anche più famigliare si
resero la dottrina stoica, che accor dandosi all'antico carattere romano,
esercitò in fluenza sulla loro legislazione ed amministrazione, e trovò ancora
rinomati partigiani al tempo del l'impero, cioè Lucio ANNEO SENECA, maestro di
Nerone, autore di molti scritti filosofici, EPITTETO da Terapoli in Frigia,
verso lo stesso tempo, schia vo, il cui discepolo FLAVIO ARRIANO da Nicomedia
compilò in greco un piccolo manuale (éyxezpidcov) secondo le lezioni del
maestro, e MARCO AURELIÓ ANTONINO, imperatore romano dall'anno 164 fino al 180,
autore di meditazioni in lingua greca sotto il titolo: Eis éautóv. Seneca fu
più eclettico, Epit teto si attenne ai voti della natura e ridusse la dottrina
stoica alla formola ανέχον και απέχου, 81 stine et abstine. Lo scritto di
Antonino ha carattere di dolcezza e pietà; tutti e tre abbracciarono sola mente
la parte etica della filosofia stoica. Che se questi Epicurei e Stoici romani
si mantennero fedeli ad un solo sistema, MARCO TULLIO CICERONE diede esempio di
un compiuto eclettismo, e tanto egli contribui co'suoi numerosi scritti a
rendere acces sibile ai Romani la filosofia greca, quanto gli mancò originalità
filosofica. Nella pratica preferi il sistema stoico, nella teoretica
l'accademico, accettandovi anche l'epicureo e l'aristotelico. In generale poi
le dottrine di Platone ed ancora più quelle di Aristo tele rimasero pei Romani
tesori nascosti. Francesco Bertinaria. Keywords:
l’indole e le vicende della filosofia italiana. Refs.: determinazione
dell’assoluto. Luigi Speranza, “Grice e Bertinaria” – The Swimming-Pool
Library.
Grice
e Berto – reductio ad absurdum – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “I like Berto, but
then, my first unpublication is on negation and privation! Against my tutee,
Sir Peter, I always took Aristotle’s tertium non datur pretty seriously, but
the consequentia mirabilis I had to re-label implicature; for, as Tertulliano
used to say, ‘Just because it is deaf (ab-surdum), I believe it!” -- Grice: “If Peirce (I lectured on him for
years, and deem him my friend) is right that ‘dictum,’ in Roman, is cognate
with Hellenic ‘deixis,’ Boezio was too hasty to translate ‘anti-phasis’ as
‘contra-dictio,’ for ‘phrasis’ is indeed Hare’s phrastic, while the dictio can
be just a signal – as a spoon casting the shadow of a fork, to use Berto’s genial
example!” – Grice: “Berto likes to pose the thing as an x-rhetorical question:
che cosa e una contradizione, -- implicaturum: ‘if anything AT ALL!” – “He is
friends with Priest, so what can you expect!? J). Francesco Berto (Venezia), filosofo. Laureatosi a Venezia
con una tesi su Emanuele Severino, ha conseguito il dottorato presso la stessa
università con una tesi sulla dialettica hegeliana. Dopo aver conseguito un
post-doc in Filosofia teoretica all'Università degli Studi di Padova è stato
Chaire d'Excellence Fellow al CNRS di Parigi, dove ha insegnato Ontologia
all'École Normale Supérieure ed è stato membro dell'Istituto di Filosofia della
Scienza e della Tecnica della Sorbona. È stato Research Fellow all'Institute
for Advanced Study della University of Notre Dame (Indiana, USA). Ha insegnato
Logica anche all'Università Ca' Foscari di Venezia e all'Università Vita-Salute
San Raffaele. È stato Structural Chair of Metaphysics alla Universiteit van
Amsterdam e membro del Northern Institute of Philosophy di Crispin Wright alla
University of Aberdeen. Attualmente tiene la Chair of Logic and Metaphysics al
dipartimento di Filosofia dell'University of St Andrews ed è Research Chair
all'Institute for Logic, Language and Computation alla Universiteit van Amsterdam. Premio Filosofico Castiglioncello, nella
sezione giovani, con il libro Teorie dell'assurdo. I rivali del Principio di
Non-Contraddizione. Nel l'Università Ca' Foscari di Venezia gli ha
assegnato il Premio Ca'Foscari alla Ricerca di 10.000 euro per giovani
ricercatori. Nel ha ottenuto dall'AHRCResearch Council di Gran
Bretagna un finanziamento di 240.000 sterline per il progetto "The
Metaphysical Basis of Logic".
Nel ha ottenuto dall'European
Research Council un finanziamento di 2.000.000 di euro per il progetto
"The Logic of Conceivability".
Altre opere: “Logica” (Roma, Carocci); “Che cos'è una contraddizione” (Roma,
Carocci); “L'esistenza non è logica: dal quadrato rotondo ai mondi impossibili”
(Roma-Bari, Laterza); “Tutti pazzi per Gödel. La guida completa al Teorema di
Incompletezza” (Roma-Bari, Laterza); “Logica da Zero a Gödel” (Roma-Bari,
Laterza); “Teorie dell'Assurdo. I rivali del Principio di Non-Contraddizione”
(Roma, Carocci); “Che cos'è la dialettica hegeliana? Un'interpretazione
analitica del metodo” (Padova, Il Poligrafo); “La Dialettica della struttura
originaria, Padova, Il Poligrafo). “Il Pensiero”; “Sistemi intelligenti”;
“Iride”, “Rivista di estetica”, “Divus Thomas” “Il Giornale di metafisica. Comune RosignanoLivorno, su comune.rosignano.livorno
). Università Ca'Foscari di Venezia, su
unive. Aberdeen Amsterdam Archiviato il
in. Aberdeen Archiviato il 9
settembre in. PhilPapers.org Stanford Encyclopedia of Philosophy:
Dialetheism, su plato.stanford.edu. Stanford Encyclopedia of Philosophy:
Impossible Worlds, su plato.stanford.edu. Stanford Encyclopedia of Philosophy:
Cellular Automata, su plato.stanford.edu. 23 aprile 23 aprile ).Filosofia Filosofo del XXI
secoloLogici italianiAccademici italiani Professore VeneziaProfessori
dell'Università Ca' FoscariProfessori dell'AmsterdamStudenti dell'Università
Ca' Foscari Venezia. Francesco Berto. Keywords: reductio ad absurdum, pegaso, il
quadrato redondo, incompletezza goedeliana, Grice’s System Q, Myro’s System G,
Speranza’s System GHP, R. J. Jones’s System C., dialettica, contradizzione,
negazione, quadratto di opposizione, Hegel e l’opposizione, Hegel e la
contradizione, che e inompleto secondo Godel? Sistema G incompieto,
incopetiezza, Bellorofonte in sistema G, Parmenide, neo-Parmenide, Severino
come neo-Parmenidiano, circolo quadrato, la quadratura del circolo, calcolo di
predicate di primo ordine con identita, la struttura originaria della
dialettica, dialettica, posizione, contraposizione, composizione – Oxonian
dialectic, dialettica hegeliana, severino, dialettica oxoniense, dialettica
ateniense. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berto” – The Swimming-Pool
Library.
Grice
e Betti – la lupa; ovvero, problemi di storia della costitutzione politica e
sociale nell’antica Roma – filosofia romana – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Camerino). Filosofo italiano.
Studia a Parma e Bologna (con una tesi sulla Crisi della repubblica e la genesi
del principato in Roma). Insegna per un anno Lettere al Liceo classico di
Camerino e vince il concorso per la libera docenza presso l'Università di
Parma. Trascorre lunghi periodi di studio all'estero, grazie a diverse borse di
studio, nelle più prestigiose università europee (Marburgo, Friburgo e
altre). Nel 1917 diviene professore ordinario all'Università degli Studi
di Camerino. In seguito insegna diritto nelle Università degli Studi di
Macerata, Pavia, Messina, dove ha tra i suoi allievi Giorgio La Pira e Tullio
Segrè), Parma, Firenze, Milano, Roma. Come Gastprofessor e visiting professor
svolge corsi nelle Università di Francoforte sul Meno, Bonn, Gießen, Colonia,
Marburgo, Amburgo, Il Cairo, Alessandria d'Egitto, Porto Alegre, Caracas. Betti
è stato uno dei più importanti giuristi italiani di tutti i tempi e fu tra i
principali artefici del codice civile italiano del 1942 tuttora vigente.
Collocato fuori ruolo 1960, emerito dal 1965, è chiamato a insegnare ius
romanum alla Pontificia Università Lateranense. Nel corso della sua
attività accademica ha coperto tutti i rami del diritto, in particolare il
diritto romano, civile, commerciale e processuale[2]. Nel 1955 ha fondato
presso le Università di Roma e di Camerino l'Istituto di Teoria dell'interpretazione.
È stato socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei e dottore honoris causa
delle Università di Marburgo, Porto Alegre e Caracas. Per il suo sostegno
intellettuale al fascismo fin dal 1919, alla Liberazione fu messo agli arresti
nel 1944 a Camerino e imprigionato per circa un mese per decisione del CLN[3].
Nell'agosto del 1945 fu sospeso dall'insegnamento e sottoposto a giudizio di
epurazione. Il procedimento lo prosciolse da ogni imputazione. Produzione
scientifica Le sue scelte politiche comunque non hanno compromesso il pregio e
l'importanza delle sue opere. Le sue opere principali sono: Teoria generale del
negozio giuridico, Teoria generale delle obbligazioni, Teoria generale della
interpretazione. Fa parte delle commissioni ministeriali che hanno
redatto il codice civile del 1942. L'influenza di Betti fu determinante nella
soluzione, adottata dal guardasigilli Dino Grandi, dell'abbandono del progetto
italo-francese delle obbligazioni e dei contratti, che negli intenti originari
del piano per la nuova codificazione avrebbe dovuto costituire l'attuale quarto
libro del codice civile. Altre opere: “Sulla opposizione dell'exceptio
sull'actio e sulla concorrenza tra loro”; “La vindicatio romana primitiva e il
suo svolgimento storico nel diritto privato e nel processo”; “L'antitesi
storica tra iudicare (pronuntiatio) e damnare (condemnatio) nello svolgimento
del processo romano”; “Studii sulla litis aestimatio del processo civile
romano”; “Sul valore dogmatico della categoria contahere in giuristi proculiani
e sabiniani”; “La restaurazione sullana e il suo esito: contributo allo studio
della crisi della costituzione repubblicana in Roma”; “La struttura
dell'obbligazione romana e il problema della sua genesi”; “Il concetto dell’obbligazione
costruito dal punto di vista dell'azione”; “Trattato dei limiti soggettivi
della cosa giudicata in diritto romano”; “La tradizione nel diritto romano
classico e giustinianeo”; “Esercitazioni romanistiche su casi pratici”, “Anormalità
del negozio giuridico”; “Diritto romano”; “Diritto processuale civile
italiano”; “Teoria generale del negozio giuridico”; “Interpretazione della
legge e degli atti giuridici: teoria generale e dogmatica”; “Teoria generale delle
obbligazioni”; “Teoria generale della interpretazione”; “Teoria delle obbligazioni
in diritto romano”; “L'ermeneutica come metodica generale delle scienze dello
spirito” (Città Nuova, Roma); “Attualità di una teoria generale
dell'interpretazione”; “La crisi della repubblica e la genesi del principato in
Roma”. Note ^ La sua dottrina ha costituito oggetto di studio approfondito da
parte di Tonino Griffero. ^ Crifò Giuliano, Maestri del Novecento: Emilio Betti:
il ruolo del giurista, Milano: Franco Angeli, Ritorno al diritto: i valori
della convivenza. Fascicolo 7, 2008. ^ Sull'intervento a suo favore di Giuseppe
Ferri, v. S. Truzzi, Stefano Rodotà, l’autobiografia in un’intervista:
formazione, diritti, giornali, impegno civile e politica, Il Fatto quotidiano,
Bibliografia Crifò, Giuliano (1978). Emilio Betti. Note per una ricerca, in
Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico, 7Ciocchetti, Mario, Emilio
Betti, Giureconsulto e umanista. Belforte del Chienti. Brutti, Massimo (2015).
Emilio Betti e l'incontro con il fascismo. Roma Tre-Press. Voci correlate
Filosofia del diritto Ermeneutica giuridica Collegamenti esterni Dizionario
Biografico, su treccani.it. Portale Biografie Diritto Portale Diritto
Categorie: Giuristi italiani del XX secoloStorici italiani del XX
secoloAccademici italiani del XX secoloMorti l'11 agostoNati a
CamerinoAccademici dei LinceiProfessori della Sapienza - Università di
RomaProfessori dell'Università degli Studi di CamerinoProfessori
dell'Università degli Studi di FirenzeProfessori dell'Università degli Studi di
MacerataProfessori dell'Università degli Studi di MessinaProfessori
dell'Università degli Studi di MilanoProfessori dell'Università degli Studi di
ParmaProfessori dell'Università degli Studi di PaviaProfessori dell'Università
di MarburgoProfessori dell'Università di ViennaStudiosi di diritto
romanoStudenti dell'Università degli Studi di ParmaStudenti dell'Università di
BolognaStudenti dell'Università di FriburgoStudenti dell'Università di
MarburgoStudiosi di diritto civile del XX secoloStudiosi di diritto commercialeStudiosi
di diritto processuale civile del XX secolo[altre] Emilio Betti. Keywords: la
lupa; ovvero, problemi di storia della costituzione politica e sociale
nell’antica Roma, auslegung, auslegungslehre, storia della repubblica romana,
diritto romano, exception, action, vindication, dirittop rivato, iudicare,
pronuntiatio, damnare, condemnation, processor omano, litis aestimatio,
processo civile, contaheer, giurista proculiano, giurista sabiniano, restauraziones
ullana, constitutziane rpeubblicana, obbligazioner omana, cosa giudicata,
diritto romanoc lassico, diritto romano guistinaneo, diritto processuale
civile, negozio giuridico, interpretazione, genesi del principato, lingua
romana, lingua latina, base etnica della antica Roma, i latini, l’eta
monarchica, il signficato di ‘rex’ (regere, cf. lex, legare), l’eta
repubblicana, res pubica used during l’eta monarchica, Romolo, il primo re,
Tarquino, l’ultimo re, l’eta repubblicana, la stirpe dei patrizi, patrizio,
cepo aristocratico, Caesar dittatore, assassinio di Caesar, il principato,
Augusto, significante ‘consacrato’, ‘Imperator Augusto Ottaviano’, imperio,
imperatore, pater familias, paternalism, diritto consuetudinario, il fuhrer,
l’hero, autorita carismatica, civilita, ius civile, romanita, diritto romano
ostrogotico, diritto romano longobardi, popolo romano, nazione romana, romano e
sabini, diritto per romani e diritto per pellegrini, vocabulario del diritto
romano, dizionario di diritto romano, lexicon di diritto romano, concetto
autenticamente romano di auctoritas, lex, legare, eddictum, decretum,
suggestion, agere, diritto processuale, contratto, negozio, diritto penale,
diritto civile, crisi della repubblica, Antonio e Ottaviano, stato autoritario,
concetto di stato, Ponzio Pilato e la morte di Gesu, pontificex massimo,
laicitia del diritto romano, senatus, PSQR, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Betti: Vico ed il circolo dell’implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Bianco – filosofia dello
spirito; ovvero, la morte di Patroclo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cervinara). Filosofo italiano. Grice:
“I like Bianco; he optimistically thinks of ‘morale’ as a ‘scienza’ – but
‘della vita,’ which helps. I have myself explored the topic, and came with a
‘philosophy’ of life, rather!” -- Carlo Bianco (n. Cervinara), filosofo. Ha
vissuto per tutta la vita nella città natale, in provincia di Avellino. La sua
intensa e appassionata vita di uomo di cultura lo ha portato in giro per tutto
il mondo. Laureato in lettere,
filosofia e scienze, docente di filosofia morale all'Trento, fu un seguace del
pensiero di Platone e Marcuse. Fondatore della corrente del concretismo,
dottrina filosofica che propugna il rispetto di ogni fede religiosa, il credo
nell'aldilà e nella vita dopo la morte, ottenne nel 2004 la candidatura al
premio Nobel per la letteratura dalle Accademie italiane. Nel corso della sua carriera ricevette per
tre volte il premio della Presidenza del Consiglio dei ministri. Accademico di
Francia, membro della Columbia Academy, nella sua lunga attività letteraria
conseguì diversi diplomi e riconoscimenti. Premio "Elsa Morante" che
gli venne consegnato da Maurizio Costanzo e Dacia Maraini. Il sindaco di Napoli
Rosa Russo Iervolino gli conferì la medaglia d'oro quale miglior ambasciatore
della Campania nel mondo. Bianco, infatti, era un valente conoscitore di lingue
straniere, compresi alcuni dialetti. Conosceva molti dialetti di paesi
africani, che aveva avuto modo di apprendere nei suoi frequenti viaggi; aveva
conseguito, inoltre, una laurea in scienze coloniali. L'Università Latina di
Parigi gli conferì una laurea honoris causa in lettere. Un saggio biografico del 2001 e una raccolta
di poesie curata da Alfredo Marro, direttore del Caudino (mensile cervinarese
col quale il filosofo ha a lungo collaborato), si occupano del filosofo
cervinarese. Nell'autunno, Franco Martino gli dedicò una poesia dal titolo
"A Carlo Bianco" nel suo libro Paese mio carissimo. Bianco morì il 9 aprile a 99 anni mentre stava lavorando su un testo
di Tommaso d'Aquino. la città di Cervinara gli ha dedicato una piazza nella
natia frazione dei Salomoni. Altre
opere:: “Introduzione a Kant” (Edizione La nuova Italia letteraria, Bergamo); “Saggio
di filosofia dello spirito” (Editrice La Zagara); “L'Uomo sui confini
dell'ignoto” (Edizioni centro ricerche Biopsichiche, Padova); “La morale come
scienza della vita” (Edizioni Studi e ricerche, Catania); “Tempi di Sofistica”
(Edizioni studi e ricerche, Catania); “Pensieri, Vincenzo Ursini Editore,
Catanzaro); “L'uomo, l'inconoscibile” (Edizioni Scientifiche Internazionale,
Napoli); “La vita davanti a voi, Casa Editrice Fausto Fiorentino. Vedi
Cervinara commemora Carlo Bianco articolo de la Repubblica, 3 settembre,
Sezione Napoli, Archivio storico. Vedi È
morto Carlo Bianco avvocato e candidato al Nobel nel articolo de la Repubblica,
Sezione Napoli, Archivio storico.
Alfredo Marro, Un gigante del pensiero, Edizioni Il Caudino, Cervinara
2001. Alfredo Marro, Biografie cervinaresi, Edizioni Il Caudino, Cervinara
2004. Alfredo Marro, Frammenti di un'animapoesie scelte di Carlo Bianco,
Edizioni Il Caudino, Cervinara, Filomena Stanzione, Carlo Bianco nella Cultura
Caudina, Casa Editrice Fausto Fiorentino, Rotondi 2000. Carlo Bianco, poeta della fede e del dolore
biografia e nel sito "carlobianco.blogspot".
Filosofia Categorie: Avvocati italiani del XX secolo Filosofi italiani del XX
secoloLetterati italiani Cervinara Cervinara. Carlo Bianco. Keywords: la
filosofia dell spirito; ovvero, la morte di Patroclo, Centro Ricerche
Biopsichiche Padova, saggio sulla filosofia dello spirito, kantismo, spiritualismo,
morale, vita, liberta, piazza bianco, cervinara. -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Bianco” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Blossio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Cumae) Gaio Blossio. Blossio.
Alla stoa romana si collega Blossio di Cuma (il nome ha origine osca), che e scolaro
dello stoico Antipatro di Tarso. Dopo la morte di Tiberio Gracco, Blossio
dove difendersi davanti ai consoli.. Poi, Blossio fugge da Roma, e si reca in
Asia presso Aristonico di Pergamo e, quando questo e sconfitto, si da la morte.
Blossio was a member of the Porch who is thought to have had an influence on
the reformes introduced in Rome by Tiberio Gracco.
Grice e Bobbio – il bisogno del
bisogno del senso del senso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice:
“My favourite Bobbio must be his ‘dialettica’ – he knows all about it, since he
is into the Plato/Aristotle models that run most philosophy – some think there
is a third model at play – but …” – “Bobbio is a good one; like me, he is a
philosophical cartographer – into the longitudinal and latitudinal unity of
philosophy – even if he can be picky when it comes to the longitudinal: Italian
only, and uncanonical, like Cattaneo, Gramsci, Croce, … -- Especially
Cattaneo!” Grice: “Bobbio – this is the philosopher, not the infantry general –
is a Griceian in that ‘fiducia reciproca’ becomes an essential meta-goal; he
has been involved with the dispute naturalism/positivism, and has come with
some interesting points about the ‘regole del gioco’ – and whether ‘custom’ can
be a ‘normative fact’!” – “All in all, his philosophy is about trying to look
for an answer to what I deem the fundamental question regarding rational
co-operation – His appeal to philosophical biology or zoology is interesting –
Toby trusts Tibby, the squarrels, as Jack trusts Jill and vice versa – but does
a ‘lupus’ trust a ‘lupus’? Hobbes, who didn’t know the first thing about
zoology, philosophical or other – thought so!” Essential Italian philosopher,
who’s written on Fregeian sense ‘senso,’the need for sensethe search for sense,
meaning meaning. «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi
quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze.» (Norberto
Bobbio, Invito al colloquio, in Politica e cultura, Einaudi, Torino 195515.). Considerato
«al tempo stesso il massimo teorico del diritto e il massimo filosofo
[italiano] della politica […] nella seconda metà del Novecento», fu
«sicuramente quello che ha lasciato il segno più profondo nella cultura
filosofico-giuridica e filosofico-politica e che più generazioni di studiosi,
anche di formazione assai diversa, hanno considerato come un
maestro». Bobbio nacque a Torino il 18 ottobre 1909 da Luigi (medico) e
Rosa Caviglia. Una condizione familiare agiata gli permise un'infanzia
serena. Il giovane Norberto scrive versi, ama Bach e la Traviata, ma
svilupperà, per causa di una non ben determinata malattia infantile «la
sensazione della fatica di vivere, di una permanente e invincibile stanchezza»
che si aggravò con l'età, traducendosi in un taedium vitae, in un sentimento
malinconico, che si rivelerà essenziale per la sua maturazione
intellettuale. Studiò prima al Ginnasio e poi al Liceo classico Massimo
D'Azeglio dove conoscerà Leone Ginzburg, Vittorio Foa e Cesare Pavese, poi divenute
figure di primo piano della cultura dell'Italia repubblicana. Dal 1928, come
molti giovani dell'epoca, fu infine iscritto al Partito Nazionale
Fascista. La sua giovinezza, come da lui stesso descritto fu:
"vissuta tra un convinto fascismo patriottico in famiglia e un altrettanto
fermo antifascismo appreso nella scuola, con insegnanti noti antifascisti, come
Umberto Cosmo e Zino Zini, e compagni altrettanto intransigenti antifascisti
come Leone Ginzburg e Vittorio Foa". Allievo di Gioele Solari e
Luigi Einaudi, si laureò in Giurisprudenza l'11 luglio 1931 con una tesi
intitolata Filosofia e dogmatica del Diritto, conseguendo una votazione di
110/110 e lode con dignità di stampa. Nel 1932 seguì un corso estivo
all'Marburgo, in Germania, insieme a Renato Treves e Ludovico Geymonat, ove
conoscerà le teorie di Jaspers e i valori dell'esistenzialismo. L'anno
seguente, nel dicembre 1933, conseguì la laurea in Filosofia sotto la guida di
Annibale Pastore con una tesi sulla fenomenologia di Husserl, riportando un voto
di 110/110 e lode con dignità di stampa, e nel 1934 ottenne la libera docenza
in Filosofia del diritto, che gli aprì le porte nel 1935 all'insegnamento,
dapprima all'Camerino, poi all'Siena e a Padova (dal 1940 al 1948). Nel 1934
pubblicò il primo libro, L'indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e
giuridica. Le sue frequentazioni sgradite al regime gli valsero, il 15
maggio 1935, un primo arresto a Torino, insieme agli amici del gruppo
antifascista Giustizia e Libertà; fu quindi costretto, a seguito di una
intimazione a presentarsi davanti alla Commissione provinciale della Prefettura
per discolparsi, a inoltrare esposto a Benito Mussolini. La chiara reputazione
fascista di cui godeva la famiglia gli permise però una piena riabilitazione,
tanto che, pochi mesi dopo, con il richiesto intervento di Mussolini e di
Gentile, ottenne la cattedra di filosofia del diritto a Camerino, che era
occupata da un altro ordinario ebreo, espulso a seguito delle leggi razziali.
Dopo un diniego iniziale a causa dell'arresto di tre anni prima, fu reintegrato
grazie all'intervento di Emilio De Bono, amico di famiglia, mentre era
presidente di commissione il cattolico e dichiarato antifascista Giuseppe
Capograssi. È in questi anni che Norberto Bobbio delineò parte degli
interessi che saranno alla base della sua ricerca e dei suoi studi futuri: la
filosofia del diritto, la filosofia contemporanea e gli studi sociali, uno
sviluppo culturale che Bobbio vive contemporaneamente al contesto politico
temporale. Un anno dopo le leggi razziali, infatti, esattamente il 3 marzo
1939, giurò fedeltà al fascismo per poter ottenere la cattedra all'Siena. E
rinnovò il giuramento nel 1940, a guerra dichiarata, per prendere il posto del
professor Giuseppe Capograssi, a sua volta insediatosi nel 1938 nella cattedra
del professor Adolfo Ravà estromesso dall'Padova perché ebreo. Questo episodio
della sua vitaspesso riportato come se Bobbio avesse preso direttamente il
posto di Ravàfu poi oggetto di svariate polemiche. Nel '42, un giovane
Bobbio affermò davanti alla Società Italiana di Filosofia del Diritto che
Capograssi crebbe in «quel rinascimento idealistico del XX secolo, nel nostro
campo di studi iniziato, stimolato, e, quel ch'è di più, criticamente fondato
da Giorgio Del Vecchio». Nel 1942 partecipò al movimento liberalsocialista
fondato da Guido Calogero e Aldo Capitini e, nell'ottobre dello stesso anno,
aderì al Partito d'Azione clandestino. Nei primi mesi del 1943 respinse
l'"invito" del ministro Biggini (che poco dopo redasse, su impulso di
Mussolini, la costituzione della Repubblica di Salò) a partecipare a una
cerimonia presso l'Padova durante la quale si sarebbe dedicata una lampada
votiva da collocare al sacrario dei caduti della rivoluzione fascista nel
cimitero della città. Nel 1943 sposò Valeria Cova: dalla loro unione
nacquero i figli Luigi, Andrea e Marco. Arrestato a Padova per attività
clandestina e rimase in carcere per tre mesi. Nel 1944 venne pubblicato il
saggio La filosofia del decadentismo, nel quale criticò l'esistenzialismo e le
correnti irrazionalistiche, rivendicando al contempo le esigenze della ragione
illuministica. Dopo la liberazione collaborò regolarmente con Giustizia e
Libertà, quotidiano torinese del Partito d'azione, diretto da Franco Venturi.
Collaborò all'attività del Centro di studi metodologici con lo scopo di
favorire l'incontro tra cultura scientifica e cultura umanistica, e poi con la
Società Europea di Cultura. Nel 1945 pubblicò un'antologia di scritti di
Carlo Cattaneo, col titolo Stati uniti d'Italia, premettendovi uno studio,
scritto tra la primavera del 1944 e quella del 1945 dove sosteneva che il
federalismo come unione di stati diversi era da considerarsi superato dopo
l'avvenuta unificazione nazionale. Il federalismo a cui pensava Bobbio
era quello inteso come "teorica della libertà" con una pluralità di
centri di partecipazione che potessero esprimersi in forme di moderna
democrazia diretta. Nel 1948 lasciò l'incarico a Padova e venne
chiamato alla cattedra di filosofia del diritto dell'Torino, annoverando corsi
di notevole importanza come Teoria della scienza giuridica (1950), Teoria della
norma giuridica (1958), Teoria dell'ordinamento giuridico (1960) e Il
positivismo giuridico (1961). Dal 1962 assunse l'incarico di insegnare scienza
politica, che ricoprirà sino al 1971; fu tra i fondatori della odierna facoltà
di Scienze politiche all'Torino insieme con Alessandro Passerin d'Entrèves, al
quale subentrò nella cattedra di filosofia politica nel 1972 mantenendola fino
al 1979 anche per l'insegnamento di Filosofia del diritto e Scienza politica.
Dal 1973 al 1976 divenne preside della facoltà ritenendo che mentre gli
incarichi accademici fossero «onerosi e senza onori» era l'insegnamento
l'attività principale della sua vita: «un abito e non solo una
professione». La politica, del resto, divenne via via un tema
fondamentale nel suo percorso intellettuale e accademico, e parallelamente alla
pubblicazioni di carattere giuridico, aveva avviato un dibattito con gli
intellettuali del tempo; nel 1955 aveva scritto Politica e cultura, considerato
una delle sue pietre miliari, mentre nel 1969 era uscito il libro Saggi sulla
scienza politica in Italia. Nei venticinque anni accademici all'ombra
della Mole Antonelliana, Bobbio svolse anche diversi tra corsi su Kant, Locke,
lavori su Hobbes e Marx, Hans Kelsen, Carlo Cattaneo, Hegel, Vilfredo Pareto,
Gaetano Mosca, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, e contribuì con una pluralità di
saggi, scritti, articoli e interventi di grande rilievo che lo portarono, in
seguito a diventare socio dell'Accademia dei Lincei e della British Academy.
Divenuto condirettore con Nicola Abbagnano della Rivista di filosofia a partire
dal '53, fu come questi socio dell'Accademia delle Scienze di Torino, della
quale entrò a far parte il 9 marzo dello stesso anno per essere confermato
socio nazionale e residente dal 26 aprile 1960. Significativa la
collaborazione, sul tema pacifista, col filosofo e amico antifascista Aldo
Capitini, le cui riflessioni comuni sfoceranno nell'opera I problemi della
guerra e le vie della pace (1979). Nel 1953 partecipò alla lotta condotta
dal movimento di Unità Popolare contro la legge elettorale maggioritaria e nel
1967 alla Costituente del Partito Socialista Unificato. Nel tempo delle
contestazioni giovanili, Torino fu la prima città a farsi carico della
protesta, e Bobbio, fautore del dialogo, non si sottrasse a un difficile
confronto con gli studenti, tra i quali il suo stesso primogenito Luigi che
militava all'epoca in Lotta Continua. Nel contempo, venne anche incaricato dal
Ministero per la Pubblica Istruzione quale membro della Commissione tecnica per
la creazione della facoltà di sociologia di Trento. Guido Calogero
e Norberto Bobbio alla Rencontres internationales de Genève Nel 1971 Bobbio fu tra
i firmatari della lettera aperta pubblicata sul settimanale L'Espresso sul caso
Pinelli. Nel 1998 Norberto Bobbio in una lettera indirizzata ad Adriano Sofri
pubblicata su La Repubblica ripudiò il tono del linguaggio utilizzato
nell'appello ma senza ritrattarne l'adesione al contenuto di critica sui fatti
legati a Piazza Fontana. Il 14 febbraio 1972 scrivendo a Guido Fassò
intorno al problema democratico, Bobbio si sfogava sostenendo che «questa
nostra democrazia è divenuta sempre più un guscio vuoto, o meglio un paravento
dietro cui si nasconde un potere sempre più corrotto, sempre più incontrollato,
sempre più esorbitante [...] Democrazia di fuori, nella facciata. Ma dietro la
tradizionale prepotenza dei potenti che non sono disposti a rinunciare nemmeno
a un'oncia del loro potere, e lo mantengono con tutti i mezzi, prima di tutto
con la corruzione. La democrazia non è soltanto metodo, ma è anche un ideale: è
l'ideale egualitario. Dove questo ideale non ispira i governanti di un regime
che si proclama democratico, la democrazia è un nome vano. Io non posso
separare la democrazia formale da quella sostanziale. Ho il presentimento che
dove c'è soltanto la prima un regime democratico non è destinato a durare. Sono
molto amaro, amico mio. Ma vedo questo nostro sistema politico sfasciarsi a
poco a poco [...] a causa delle sue interne, profonde, forse inarrestabili
degenerazioni».[25] A metà degli anni settanta, nel solco di un sempre
più vivace impegno civile, e alle soglie di uno dei periodi più drammatici in
Italia (culminato col rapimento e l'omicidio di Aldo Moro), provocò un vivace
dibattito sia negando l'esistenza di una cultura fascista sia trattando
estensivamente sui rapporti tra democrazia e socialismo. L'8 maggio 1981,
alla vigilia dei referendum sull'aborto, rilascia un'intervista al Corriere
della Sera nella quale afferma la sua contrarietà all'interruzione della
gravidanza. Successivamente la sua attenzione si concentrò a favore di una
"politica per la pace", con motivati distinguo a sostegno del diritto
internazionale in occasione della Guerra del Golfo del 1991. Delle
venticinque lettere inedite che fanno parte della corrispondenza epistolare che
Bobbio tenne con Danilo Zolo e che ora sono state rese pubbliche nel volume
L'alito della libertà, a cura dello stesso Zolo, interessante quella del 25
febbraio 1991 riguardante la "Guerra del Golfo" che vide protagonisti
nel gennaio del 1991 gli Stati Uniti di George Bush senior, le forze dell'ONU e
vari paesi arabi alleati contro l'Iraq di Saddam Hussein che aveva invaso il
Kuwait. Bobbio definì "giusta" questa guerra non rendendosi conto che
quella parola «... poteva essere interpretata in modo diverso da come l'avevo
intesa io... come guerra "giustificata" in quanto rispondente a
un'aggressione.» Bobbio quindi si lamentò delle polemiche nate al riguardo da
parte di "pacifisti da strapazzo". Il fatto che l'ONU, scrisse
Bobbio, avesse autorizzato l'intervento in guerra contro l'Iraq, la rendeva
"legale", in questo senso, "giusta". Bobbio però
riconobbe che l'ONU fosse stato successivamente, nel corso della guerra, messo
da parte e gli "spietati bombardamenti" su Baghdad hanno fatto sì che
si possa temere che «...se la pace sarà instaurata con la stessa mancanza di
saggezza con cui è stata condotta la guerra, anche questa guerra sarà stata,
come tante altre inutile.» Nel 1979 fu nominato professore emerito
dell'Torino e nel 1984, ai sensi del secondo comma dell'articolo 59 della
Costituzione italiana, avendo «illustrato la Patria per altissimi meriti» in
campo sociale e scientifico, fu nominato senatore a vita dal Presidente della
Repubblica Sandro Pertini. In quanto membro del Senato si iscrisse prima come
indipendente nel gruppo socialista, poi dal 1991 al gruppo misto ed infine dal
1996 al gruppo parlamentare del Partito Democratico della Sinistra, poi
divenuto dei Democratici di Sinistra.[27] Norberto Bobbio e Natalia
Ginzburg a Barolo per festeggiare gli ottant'anni di Vittorio Foa. Dopo la
stagione di mani pulite, e la cosiddetta fine della Prima Repubblica, venne
pubblicato il saggio Destra e sinistra, i cui contenuti provocarono un notevole
dibattito culturale, agitando non poco l'humus della politica italiana. Il
libro toccò le cinquecentomila copie vendute in pochi mesi e venne ripubblicato
l'anno successivo, riveduto e ampliato, con risposte ai critici. A
riconoscimento di un'intera vita lucidamente dedicata alle scienze del diritto,
della politica, della filosofia e della società, tra dubbio e metodo, tra ethos
e laicità, Bobbio ricevette lauree honoris causa da molte università, tra le
quali quelle di Parigi (Nanterre), Buenos Aires, Madrid (tre, in particolare
alla Complutense) e Bologna,[29] e vinse il Premio europeo Charles Veillon per
la saggistica nel 1981, il Premio Balzan ed il Premio Agnelli nel 1995.
Nel 1997 pubblicò la sua autobiografia. Nel 1999 uscì una terza edizione
aggiornata del suo best seller, ormai tradotto in una ventina di lingue. Nel
2001 morì la moglie Valeria, e Bobbio iniziò un graduale ritiro dalla vita
pubblica, pur rimanendo in attività e curando ulteriori pubblicazioni. Fecero
rumore le sue osservazioni critiche sia nei confronti di Silvio Berlusconi sia
della partitopenia (ossia mancanza di partiti)[31], e le riflessioni sulla
crisi della sinistra e della socialdemocrazia europea. Il 18 ottobre 2003,
ricevette il "Sigillo Civico" della sua Torino "per l'impegno
politico e il contributo alla riflessione storica e culturale". Dopo
avervi trascorso la maggior parte della vita, Norberto Bobbio morì a Torino il
9 gennaio 2004. Secondo le sue volontà, alcuni giorni dopo la morte, la salma
venne tumulata, con una cerimonia civile strettamente privata nel cimitero di
Rivalta Bormida, comune piemontese in provincia di Alessandria.Il pensiero di
Norberto Bobbio si forma nei primi decenni del Novecento in una temperie
filosofica dominata dell'idealismo. Tuttavia, come molti studiosi torinesi, non
abbraccia mai questa visione del mondo: dopo un primo accostamento alla
fenomenologia, significativamente attestato dalle sue opere sulla filosofia di
Husserl, si avvicina al filone neorazionalista e neoempirista fiorito in
Europa, specialmente oltralpe in Germania ed attorno al Circolo di
Vienna. Negli anni quaranta e cinquanta Bobbio entra in contatto con la
filosofia analitica di tradizione anglosassone. Compie studi di analisi del
linguaggio, tracciando le prime linee di ricerca della scuola analitica
italiana di filosofia del diritto, di cui è ancora oggi riconosciuto figura
eminente di riferimento. Al riguardo vanno menzionati perlomeno i due saggi:
Scienza del diritto e analisi del linguaggio e Essere e dover essere nella
scienza giuridica. Dedica studi specifici a Hobbes, a Pareto e a molti
filosofi e teorici della politica di cui già s'è detto. Vede nell'Illuminismo
un modello di rigore e di rifiuto del dogmatismo di cui riprende l'ideale
razionalistico, traducendolo anche nell'analisi del sistema democratico e
parlamentare. Sino dagli anni cinquanta si occupa di temi quali la guerra e la
legittimità del potere, dividendo la sua produzione tra la filosofia giuridica,
la storia della filosofia e i temi di attualità politica. Durante gli
ultimi anni del fascismo, Bobbio matura la convinzione della necessità di uno
Stato democratico, che sgombri il campo dal pericolo della politica
ideologizzata e delle ideologie totalitarie sia di destra che di sinistra;
auspica una gestione laica della politica e un approccio filosofico-culturale
ad essa, che aiuti a superare la contrapposizione fra capitalismo e comunismo e
a promuovere la libertà e la giustizia. Nel saggio Quale socialismo?
(1976), Bobbio critica sia la dialettica marxista sia gli obiettivi dei
movimenti rivoluzionari, sostenendo che le conquiste borghesi dovevano
estendersi anche alla classe dei proletari. Bobbio ritiene fallimentare solo
l'esperienza marxista-leninista, mentre prevede che le istanze di giustizia
rivendicate dai marxisti possano, in futuro, riaffiorare nel panorama
politico. Il pensiero di Bobbio diviene così, soprattutto tra gli
intellettuali dell'area socialista, un modello esemplare, grazie al suo 'sapere
impegnato', certamente «più preoccupato di seminare dubbi che di raccogliere
consensi». Egli stesso riprenderà la riflessione su un tema a lui caro, quello
del rapporto tra politica e cultura, proponendo, tra le pagine di Mondoperaio,
una «autonomia relativa della cultura rispetto alla politica» secondo la quale
«la cultura non può né deve essere ridotta integralmente alla sfera del
politico». Nel 1994 esce l'opera Destra e sinistra, nella quale Bobbio
focalizza le differenze fra le due ideologie e i due indirizzi
politico-sociali; la destra, secondo l'autore, è caratterizzata dalle tendenze
alla disuguaglianza, al conservatorismo ed è ispirata da interessi, mentre la
sinistra persegue l'uguaglianza, la trasformazione, ed è sospinta da ideali. In
quest'opera, Bobbio si esprime anche in favore dei diritti animali[36].
Nell'opera L'età dei diritti (1990), Bobbio individua i diritti fondamentali
che consentono lo sviluppo di una democrazia reale e di una pace giusta e
duratura. Una partecipazione collettiva e non coercitiva alle decisioni
comunitarie, una contrattazione delle parti, l'allargamento del modello
democratico a tutto il mondo, la fratellanza fra gli uomini, il rispetto degli
avversari, l'alternanza senza l'ausilio della violenza, una serie di condizioni
liberali, vengono indicati da Bobbio come capisaldi di una democrazia, che
seppur cattiva, è preferibile ad una dittatura. Per tutta la vita
scrittore di numerosissimi articoli, anche tramite interviste, Norberto Bobbio
incarna l'ideale della filosofia critica e militante che lo vede protagonista
anche del Centro di studi metodologici di Torino e tra i fondatori del Centro
studi Piero Gobetti di Torino che conserva la sua biblioteca e il suo archivio, «Mi
ritengo un uomo del dubbio e del dialogo. Del dubbio, perché ogni mio
ragionamento su una delle grandi domande termina quasi sempre, o esponendo la
gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un'altra grande domanda. Del
dialogo, perché non presumo di sapere quello che non so, e quello che so metto
alla prova continuamente con coloro che presumo ne sappiano più di me.»
(Norberto Bobbio, Elogio della mitezza, Linea d'ombra edizioni, Milano 19948.)
Contrario alla figura dell'intellettuale «Profeta»[37], preferendo il ruolo del
«Mediatore» impegnato «nella difficile arte del dialogo» (e ciò è anche
testimoniato dal colloquio intrattenuto con i marxisti per un riesame critico
del loro «dogmatismo e settarismo» che coinvolse anche Togliatti), il suo atteggiamento
teoretico fu segnato da una positiva «ambivalenza» fra una posizione realista e
una idealista che non rifuggiva le complessità del discorso, ricorrendo sovente
al paradosso. Ciò gli valse, in virtù dell'amore per il dibattito che consideri
«il pro e il contro» di ogni questione, la qualifica di filosofo «de la
indecisión» (Rafael de Asís Roig)[41][42], giacché ogni suo «ragionamento su
una delle grandi domande [si concludeva] quasi sempre, o esponendo la gamma
delle possibili risposte, o ponendo ancora un'altra grande domanda». Nell'ultimo
libro che raccoglie saggi, scritti e testimonianze su maestri, amici ed
allievi, Bobbio comincia ricordando i tre maestri Francesco Ruffini, Piero
Martinetti e Tommaso Fiore. L'elenco degli amici è lungo e annovera compagni di
studio come Antonino Repaci[44][45] come Renato Treves e Ludovico Geymonat e
colleghi come Nicola Abbagnano, Bruno Leoni, Alessandro Passerin d'Entrèves e
Giovanni Tarello. Bobbio ricorda poi gli allievi Paolo Farneti, Morris Lorenzo
Ghezzi, Amedeo Giovanni Conte, Uberto Scarpelli che, come Bobbio stesso scrive,
nel 1972 fu naturaliter suo successore a Torino sulla cattedra di Filosofia del
diritto. Traggono ispirazione dal pensiero di Bobbio le "lezioni
Bobbio", svoltesi nel 2004, e la manifestazione "Biennale
Democrazia" di Torino. Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola
della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai
benemeriti della scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1966.[46]
Gran Croce del Merito Civilenastrino per uniforme ordinariaGran Croce del
Merito Civile — Roma, Laurea honoris causa in Scienze Politichenastrino per
uniforme ordinaria Laurea honoris causa in Scienze Politiche — Università degli
Studi di Sassari, 5 maggio 1994. Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila
Aztecanastrino per uniforme ordinaria Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila
Azteca — Torino, Intitolazioni A
Norberto Bobbio è stata intitolata la biblioteca dell'Torino, sita in Lungo
Dora Siena, 100 A. Gli è stato inoltre intitolato un istituto di
istruzione superiore a Carignano, nella provincia di Torino, denominato appunto
"I.I.S Norberto Bobbio". A lui è intitolata la biblioteca
civica di Rivalta Bormida, paese natale della madre Rosa Caviglia. Altre opere:
“Saggi” (Roma-Bari, Laterza); “L'indirizzo fenomenologico nella filosofia
sociale e giuridica” (Di Lucia, Torino, Giappichelli); “Scienza e tecnica del
diritto” (Torino, Istituto giuridico della Regia Università); “L'analogia nella
logica del diritto” (Di Lucia, Milano, Giuffrè); “La consuetudine come fatto
normative” (Torino, Giappichelli); “La filosofia del decadentismo, Torino,
Chiantore); “Stati Uniti d'Italia. Scritti sul federalismo democratico” (Roma,
Donzelli); “Teoria della scienza giuridica, Torino, Giappichelli); “Politica e
cultura” (Torino, Einaudi); “Studi sulla teoria generale del diritto, Torino,
Giappichelli); “Teoria della norma giuridica” (Torino, Giappichelli); “Teoria
dell'ordinamento giuridico, Torino, Giappichelli); “Teoria generale del diritto,
Torino, Giappichelli); “Il positivismo giuridico, Lezioni di Filosofia del
diritto” (Torino, Giappichelli); “Locke e il diritto naturale” (Torino); “Da
Hobbes a Marx. Saggi di storia della filosofia” (Napoli, Morano); “Italia
civile. Ritratti e testimonianze” (Firenze, Passigli); “Giusnaturalismo e
positivismo giuridico” (Roma-Bari, Laterza); “Profilo ideologico del Novecento
italiano” (Milano, Garzanti); “La scienza politica in Italia” (Roma-Bari, Laterza); “Diritto e Stato in
Kant” (Torino, Giappichelli); “Una filosofia militante” (Torino, Einaudi); “La
teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico” (Torino,
Giappichelli); “Quale socialismo? Discussione di un'alternativa” (Torino, Einaudi);
“Il problema della guerra e le vie della pace” (Bologna, Il Mulino); “Studi
hegeliani. Diritto, società civile, Stato, Torino, Einaudi); “Le ideologie e il
potere in crisi. Pluralismo, democrazia, socialismo, comunismo, terza via e
terza forza, Firenze, Le Monnier); “Il futuro della democrazia. Una difesa
delle regole del gioco, Torino, Einaudi); “Maestri e compagni, 3ª ed., Firenze,
Passigli); “Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra” (Casale
Monferrato, Sonda); “Hobbes, Torino, Einaudi); “L'età dei diritti, Torino,
Einaudi, “Il dubbio e la scelta.
Intellettuali e potere nella società contemporanea, Roma, Carocci); “Elogio
della mitezza e altri scritti morali, Milano, Il Saggiatore); “Destra e
sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica” (Roma, Donzelli);
“Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana” (Roma, Donzelli);
“Eguaglianza e libertà” (Torino, Einuadi); “De senectute e altri scritti
autobiograficiPolito, prefazione di G. Zagrebelsky, Torino, Einaudi); “Né con
Marx né contro Marx, C. Violi, Roma, Editori Riuniti); “Autobiografia, A.
Papuzzi, 3ª ed., Roma-Bari, Laterza); “Teoria generale della politica, M.
Bovero, Torino, Einaudi); “Trent'anni di storia della cultura a Torino”
(Torino, Einaudi); “Dialogo intorno alla repubblica, Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo
e Democrazia” (Milano, Simonelli); Contro i nuovi dispotismi. Scritti sul berlusconismo”
(Bari, Dedalo); “Etica e politica. Scritti di impegno civile” (Mondadori). Premio
"Artigiano della Pace"giovanipace.sermig.org, su
giovanipace.sermig.org. 3 dicembre
(archiviato dall'url originale l'8 dicembre ). Premi e
riconoscimenti a Norberto Bobbiocentenariobobbio, su centenariobobbio. Fondazione
Internazionale BalzanPremiati: Norberto Bobbiobalzan.org Hegel-Preis der Landeshauptstadt
StuttgartStadt Stuttgart: Bisherige Preisträgerstuttgart.de Luigi Ferrajoli, L'itinerario di Norberto
Bobbio: dalla teoria generale del diritto alla teoria della democrazia, in
Teoria politica, N. Bobbio, seconda tavola fuori testo. Scrive Bobbio:
«[Fui] esonerato, per mia vergogna, dalle ore di ginnastica per una malattia
infantile restata, almeno per me, misteriosa». (Norberto Bobbio, De senectute,
Einaudi, Torino Fondo Norberto BobbioL'Inventario: Stanza studio Bobbio
(SB)centrogobetti, su centrogobetti, N.
Bobbio18. Cesare Maffi, Massimo
Bontempelli: punito da fascisti e antifascisti, in ItaliaOggi, n. 206, 1º
settembre 11. Nello Ajello, Una vita per
la democrazia nel secolo delle dittature, su ricerca.repubblica, Anna Pintore,
RAVÀ, Adolfo Marco, in Dizionario biografico degli italiani, 86, Torino, Treccani,. 28 aprile. A puro titolo d'esempio si veda Diego
Gabutti, Norberto Bobbio non esitò a occupare la cattedra del professore ebreo
Adolfo Ravà, cacciato dall'università per motivi razziali, in ItaliaOggi, Francesco Gentile, Società italiana di
filosofia del diritto (atti del XXV Congresso), La via della guerra e il
problema della pace, Vincenzo Ferrari, Filosofia giuridica della guerra e della
pace, Milano, Courmayeur, Franco Angeli,
"Laicità e immanentismo nel pensiero di Norberto Bobbio", di
Alfonso Di Giovine, in Democrazia e diritto, Nicola Abbagnano, Storia della filosofia,
volume 9. Il pensiero contemporaneo: il dibattito attuale, POMBA, Torino Norberto Bobbio, Tra due repubbliche: alle
origini della democrazia italiana, Donzelli Editore, Fortini si reca in Cina in
visita ufficiale nella Repubblica Popolare Cinese con la prima delegazione
italiana formata, tra gli altri, da Piero Calamandrei, Norberto Bobbio, Enrico
Treccani e Cesare Musatti. Il viaggio durerà un mese e il diario della visita
verrà pubblicato l'anno seguente in Asia Maggiore. Così Fortini chiama scherzosamente Bobbio
assimilandolo a Cartesio (Descartes) e al suo razionalismo Franco Fortini, Asia Maggiore, Einaudi,
Torino Ricordo di Norberto bobio, in Rivista
di Filosofia, Bologna, Società Editrice
Il Mulino, Proiflo biografico di Norberto Bobbio, su accademiadellescienze, N. Bobbio, decima tavola fuori testo. "Non dobbiamo chiedere scusa per Piazza
Fontana" Guido Fassò, La democrazia
in Grecia, Giuffrè Editore, Milano «con
l'aborto si dispone di una vita altrui». Affermava la necessità di evitare il
concepimento non voluto e non gradito; e concludeva, rispondendo a Nascimbeni:
«Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri
come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non
uccidere". E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il
privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere».(in Intervista a
Bobbio) Senato della Repubblica, su
senato. N. Bobbio, ventesima tavola
fuori testo. Centenario Norberto Bobbio,
su centenariobobbio 5 aprile 2009).
Premio Balzan [collegamento interrotto], su balzan.com. I timori di Bobbio Democrazia senza partitiLa
Repubblica Ha lasciato scritto Norberto
Bobbio: «Ho compiuto 90 anni il 18 ottobre. La morte dovrebbe essere vicina a
dire il vero, l'ho sentita vicina tutta la vita. Non ho mai neppure
lontanamente pensato di vivere così a lungo. Mi sento molto stanco, nonostante
le affettuose cure di cui sono circondato, di mia moglie e dei miei figli. Mi
accade spesso nella conversazione e nelle lettere di usare l'espressione
'stanchezza mortale'. L'unico rimedio alla stanchezza 'mortale' è il riposo
della morte. Decido funerali civili in comune accordo con mia moglie e i miei
figli. In un appunto del 10 maggio 1968 (più di trent'anni fa) trovo scritto:
vorrei funerali civili. Credo di non essermi mai allontanato dalla religione
dei padri, ma dalla Chiesa sì. Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per
tornarvi di soppiatto all'ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico.
Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la
ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano
in vari modi. Alla morte si addice il raccoglimento, la commozione intima di
coloro che sono più vicini, il silenzio. Breve cerimonia in casa, o, se sarà il
caso, in ospedale. Nessun discorso. Non c'è nulla di più retorico e fastidioso
dei discorsi funebri». (Ne La Repubblica la cronaca del funerale di
Bobbio.) Né ateo né agnostico ma lontano
dalla Chiesa, in «La Repubblica», 10 gennaio 2004. Norberto Bobbio, Scienza del diritto e
analisi del linguaggio, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile,
n. 2, giugno 1950, 342-367. 5 luglio. Norberto Bobbio, Essere e dover essere nella
scienza giuridica, in Rivista di filosofia, n. 3, luglio-settembre 1967, 235-262. 5 luglio. «Mai come nella nostra epoca sono state messe
in discussione le tre fonti principali di disuguaglianza: la classe, la razza
ed il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella
piccola società familiare e poi nella più grande società civile e politica è
uno dei segni più certi dell'inarrestabile cammino del genere umano verso
l'eguaglianza. E che dire del nuovo atteggiamento verso gli animali? Dibattiti
sempre più frequenti ed estesi, riguardanti la liceità della caccia, i limiti
della vivisezione, la protezione di specie animali diventate sempre più rare,
il vegetarianesimo, che cosa rappresentano se non avvisaglie di una possibile
estensione del principio di eguaglianza al di là addirittura dei confini del
genere umano, un'estensione fondata sulla consapevolezza che gli animali sono
eguali a noi uomini, per lo meno nella capacità di soffrire? Si capisce che per
cogliere il senso di questo grandioso movimento storico occorre alzare la testa
dalle schermaglie quotidiane e guardare più in alto e più lontano». (da Destra
e sinistra, Donzelli, Roma 1994) N.
BobbioLIV, nota 11: «È significativo che nella sua ultima lezione accademica
tenuta come titolare della cattedra di Filosofia della politica a Torino ipresente’
come egli stesso ricorderà ‘il collega cui mi sentivo intellettualmente e
politicamente più vicino, Alessandro Passerin d'Entrèves’, Bobbio abbia citato
‘con forza la celebre frase che subito dopo la Prima guerra mondiale, di fronte
agli allievi, che pretendevano dal celebre professore un orientamento politico,
Max Weber pronunciò: «La cattedra non è né per i demagoghi né per i profeti»’.
(N. Bobbio, Il mestiere di vivere, il mestiere di insegnare, il mestiere di
scrivere, colloquio con Pietro Polito, in “Nuova Antologia”, N. Abbagnano, Storia
della filosofia, IX, POMBA per Gruppo
Editoriale L'Espresso S.p.A., Torino ove è detto: «Bobbio, dai primi anni
Cinquanta in poi, ha ricorrentemente tallonato la sinistra marxista,
provocandola con intenti costruttivi e spingendola ad un esame critico del suo
persistente dogmatismo e settarismo. Il documento più importante di tali
provocazioni, nel decennio in esame, è la raccolta di saggi Politica e cultura
del Alcuni di questi saggi appaiono in origine sulla rivista ‘Nuovi argomenti'
che [...] costituisce in quegli anni uno dei più significativi luoghi
d'incontro tra area laica e quella marxista. Lì appare, nel 1954, uno dei saggi
più provocatori, in senso costruttivo, [...] rivolti a quest'area (dalla quale
si risponderà con gli interventi di Della Volpe e di Togliatti): quello dal
titolo molto significativo Democrazia e dittatura». Scrive Bobbio: «Pur non essendo mai stato
comunista [...] [e] avendo dedicato la maggior parte degli scritti di critica
politica a discutere coi comunisti su temi fondamentali come la libertà e la
democrazia [...], [ho] sempre considerato i comunisti, o per lo meno i
comunisti italiani, non come nemici da combattere ma come interlocutori di un
dialogo sulle ragioni della sinistra». (N. Bobbio, Teoria generale della politica,
Einaudi, Torino 2009618) Sul pensiero di
Bobbio circa il comunismo, si veda anche l'intervista Giancarlo Bosetti, «No,
non c'è mai stato il comunismo giusto», in l'Unità, 3 aprile 1998. Segue alla pagina
successiva Archiviato N. Bobbio203. N.
BobbioXVII. N. Bobbio, Elogio della
mitezza, Linea d'ombra edizioni, Milano 19948.
Antonino Repaci, magistrato e uomo della Resistenza, nipote di Leonida
Repaci Istituto storico della Resistenza
e della società contemporanea in provincia di Cuneo, su
beniculturali.ilc.cnr:8080. 19 febbraio
26 aprile ). Sito della
Presidenza della Repubblica, quirinale
Comune di Rivalta Bormida | La Biblioteca, su comune.rivalta.al. 14
luglio. Norberto Bobbio, Giuseppe Tamburrano, Carteggio su
marxismo, liberalismo, socialismo, Roma, Editori Riuniti, Pier Paolo Portinaro, Introduzione a Bobbio,
Roma-Bari, Laterza, Voce "Norberto Bobbio" in, Biografie e
bibliografie degli Accademici Lincei, Accademia dei Lincei, Roma, Enrico
Lanfranchi, Un filosofo militante. Politica e cultura nel pensiero di Norberto
Bobbio, Bollati Boringhieri, Torino, Nunzio Dell'Erba, Norberto Bobbio
l'accento sulla democrazia, in "Storia e problemi contemporanei", Angelo
Mancarella, Norberto Bobbio e la politica della cultura. Le sfide della
ragione, "Ideologia e Scienze sociali", 26, Lacaita Editore,
Bari-Roma 1995 Giuseppe Gangemi, Meridione, Nordest, Federalismo. Da Salvemini
alla Lega Nord, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996 Girolamo Cotroneo, Tra
filosofia e politica. Un dialogo con Norberto Bobbio, Soveria Mannelli, Rubbettino,
Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi
Metodologici" di Torino (1940-1979), Pantograf (CNR), Genova Morris
Lorenzo Ghezzi, La distinción entre hechos y valores en el pensamento de
Norberto Bobbio, Editorial U. Externado de Colombia, Bogotá, Tommaso Greco,
Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale tra filosofia e politica,
Donzelli, Roma 2000 Costanzo Preve, Le contraddizioni di Norberto Bobbio. Per
una critica del bobbianesimo cerimoniale, CRT, Pistoia, Zagrebelsky, Massimo L.
Salvadori, Riccardo Guastini, Norberto Bobbio tra diritto e politica, Laterza,
Roma-Bari 2005 Marco Revelli, Norberto Bobbio maestro di democrazia e di
libertà, Cittadella Editrice, Assisi, Pazé, L'opera di Norberto Bobbio.
Itinerari di lettura, Milano, Franco Angeli, Roberto Giannetti, Tra
liberaldemocrazia e socialismo. Saggi sul pensiero politico di Norberto Bobbio,
Plus, Pisa 2006 Antonio Punzi, Omaggio a Norberto Bobbio, Metodo, linguaggio,
Scienza del diritto, Giuffrè, Milano, Agosti, Marco Revelli, Bobbio e il suo
mondo. Storie di impegno e di amicizia nel '900, Aragno, Torino, Peyretti,
Dialoghi con Norberto Bobbio su politica, fede, nonviolenza, Claudiana, Torino
() Nunzio Dell'Erba, Norberto Bobbio, in Id., Intellettuali laici nel '900
italiano", Vincenzo Grasso editore, Padova, Pier Paolo Portinaro, «Bobbio, Norberto» in
Il contributo italiano alla storia del PensieroDiritto, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,. Ruiz Miguel Alonso, Politica, historia y derecho
en Norberto Bobbio [Fontamara ed.],. Mario G. Losano, Norberto Bobbio. Una
biografia culturale, Carocci, Roma, Tommaso Greco, Norberto Bobbio e la storia
della filosofia del diritto, in Diacronìa. Rivista di storia della filosofia
del diritto, Norberto Bobbio; Franco Pierandrei, Introduzione alla
costituzione, Roma, Laterza, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Norberto
Bobbio, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Norberto Bobbio, su Find a
Grave. Opere di Norberto Bobbio, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Norberto Bobbio / Norberto Bobbio
(altra versione),. Norberto Bobbio, su Goodreads. Norberto Bobbio / Norberto Bobbio (altra
versione) / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione)
/ Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione), su
senato, Senato della Repubblica.
Registrazioni di Norberto Bobbio, su RadioRadicale, Radio Radicale. Le opere di Norberto Bobbio (Biblioteca e
Archivio "Norberto Bobbio" del Centro Studi "Piero Gobetti"
di Torino), su erasmo. Commemorazione di Norberto Bobbio, su
giornaledifilosofia.net. Epistolario Norberto BobbioDanilo Zolo Norberto
Bobbio, dal sito dell'ANPIAssociazione Nazionale Partigiani d'Italia (ultimo
accesso del 15 ottobre 2009) I presupposti filosofici nell'opera di Norberto
Bobbio di Franco Manni V D M Antifascismo V D M Senatori a vita di nomina
presidenziale Filosofia. Norberto Bobbio.
Keywords: il bisogno del bisogno del senso del senso. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e Bobbio," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice
e Boccadiferro – luogo comune – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo italiano. Grice: “Boccadiferro is a good
one; he is what Oxonians call ‘a Renaissance man,’ and all’italiana, he has a
beautiful carved grave – He was into ‘physica,’ or physics, what Lord Russell
would call ‘stone-age metaphysics,’ but the Italians call ‘fisica medievale,’
and he was surely an Aristotelian – Platonic physics is a florentine, rather
than a Bolognese thing – no wonder the first stadium ever in Italy started in
Bologna, not Firenze, whose Accademia platonica was the place to see and be
seen!” -- Ludovico Boccadiferro Bologna: la tomba di Boccadiferro nella
basilica di San Francesco Ludovico Boccadiferro (Bologna) filosofo e umanista
italiano. Il suo nome latino è 'Ludovicus Buccaferrea, Da una illustre famiglia cittadina, dopo aver
seguito le lezioni dei filosofi Alessandro Achillini dal quale derivò il suo
orientamento averroistico, e forse Pietro Pomponazzi, presso lo Studio di
Bologna, Ludovico Boccadiferro insegnò a sua volta filosofia nella medesima
università. Nel 1525 si trasferì alla Sapienza di Roma ove ebbe modo di farsi
apprezzare anche da papa Clemente VII. Alla Sapienza rimase sino al 1527
quando, a seguito del rovinoso sacco di Roma dei lanzichenecchi, tornò a
Bologna per riprendere l'insegnamento che mantenne fino sua alla morte,
avvenuta nella città natale a circa sessantatré anni nel 1545. È sepolto in una
tomba monumentale all'interno della basilica di San Francesco a Bologna. Scrisse diverse opere, in buona parte edite
postume o mai pubblicate, sulla filosofia aristotelica. Altre opere: “Explanatio
libri I physicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Nova explanatio
Topicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Lectiones in quartum meteororum
Aristotelis librum” (Venezia, Francisci Senensis); “Philosophi praeclarissimi
Lectiones super primum librum meteorologicorum Aristotelis, nunc recens in
lucem editae, additi etiam sunt duo indices, tum rerum, tum quaestionum
copiosissimi” (Venezia, Ioannem Baptistam Somascum Papiensem); “Lectiones super
tres libros de anima Arist. Nunc recens in lucem aeditae, cum copiosissimo
indice tam rerum notabilium quam quaestionum quae in uniuerso opere
continentur” (Venezia, apud Ioan. Baptistam Somascum, & fratres); “Explanatio
libri primi physicorum Aristotelis lectionibus excerpta recenti hac nostra
editione quam potuit diligentissime expolita atque elaborate” (Venezia, Hieronymum
Scotum); “Lectiones in Aristotelis Stagiritae libros, quos vocant Parva
naturalia” (Venezia, Hieronymum Scotum); “Lectiones, in secundum, ac tertium
meteororum Aristotelis libros” (Venezia, Hieronymum Scotum); “In duos libros
Aristotelis de generatione et corruptione doctissima commentaria a Ioanne
Carolo Saraceno nunc primùm castigata atque diligentissimè repurgata necnon
copiosissimo atque locupletissimo indice ab eodem nunc primùm amplificata atque
illustrata” (Venezia, Franciscum de Franciscis Senensem); “Lectiones super
primum librum Meteorologicorum Aristotelis, duo additi etiam sunt indices,
nempe rerum ac quæstiorum copiosissimi” (Venezia, hæredem Hieronymi Scoti). Vedi
Treccani L'Enciclopedia Italiana, riferimenti in. Fonte Dizionario Biografico degli Italiani,
riferimenti in. Antonio Rotondò,
«BOCCADIFERRO, Ludovico», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 11,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1969. Charles H. Lohr, «The
Aristotle commentaries of Ludovicus Buccaferrea», Nouvelles de la république
des lettres, 1984, pp. 107-18.
Alessandro Achillini Averroè Aristotelismo Altri progetti Collabora a
Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Ludovico
Boccadiferro Ludovico Boccadiferro, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ludovico Boccadiferro, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Ludovico Boccadiferro, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Ludovico Boccadiferro,. Ritratto di Ludovico Boccadiferro Quadreria
dell'Bologna, Archivio storico. il 24 marzo. Averroismo, in Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Filosofia Filosofo Professore
Bologna Bologna Umanisti italiani. E ex decem illis capitibus,
quæ præmittenda esse alias diximus, cetera, ut mi- Quz præmis nus necessaria
huic tra & ationi, prætermittentes, hæc potissimú attingemus, tenda sunt an
te expolitio quodnam fit philosophi propositum in his libris topicorum, quæ ſit
huius nem Topico partis utilitas, quæ inscriptio, qui ordo, & quæ operis
diuiſio: quibus abso- rum lutis, ad textus expofitionem accedemus. Propolitum
igitur in his libris est, quod fit phi diale & icam methodum trader quare, ut,
quid hoc propofitum nobis polli positum in li ceatur, intelligamus,
cognoſcendum est quid fit diale & ica. & quoniam tunc bris Topico rem
unamquanque optime cognoscimus, fi ipsam à ſui fimilibus sciamus rum.
diſtinguere; dialectica autem maxime ſimilis effe uidetur rhetoricæ; ideo ui
debimus, quo modo conueniant, differantg; inter ſe dialectica, & rhetorica.
Dialecticam Stoici definiunt scientiam bene dicendi. bene dicereautem quidfit
diale effe uolunt uera dicere, ac rei conſentanea.cum autem folus philoſophus
corum ſente Čtica ex Stoia hoc efficiat, ipfi ad philosophiam solum diale
&ticæ nomen referunt, ac ſolus cia. philosophus, ex eorum ſententia,
diale&icus est. Plato vero, ut Alexander refert, dialecticam esse existimavit
divisiuam me quid iterum fit thodum: cuius opus est, & ex uno plura facere,
& plura in unum compone- Placonis fena ex re hanc enim in Phædro dialectica
appellat, ubi eam summis laudibus extollit. tentia, vervm alia forte eſt
Platonis ſententia: uult enim ipſe, ut patet in dialogo alia, et uera, de iufto,
dialecticam esse facultatem, qux conatur ordinecerto, circa unum Platonis fen:
quodque, quid ipſum ſit, inuenire. cum autem hæc facultas dupliciter tentia de
dia lectica, quid conſiderari poſsit, primout eius regulæ, ac præcepta ſeorſum
conſiderantur; lit. fecúdo, ut hæ regulæ rebus ipsis applicantur; dialecticam
Plato à rebus non feiunxit, ideo diale & icum metaphysicum appellauit, qui
rationem capit cu iuſlibet essentiæ, & non ſolum regulas, &
præceptiones callet, quibus inter rogandum reſpondendum ue fit fed, &
interrogare fic, & reſpondere, quod eſt diale & ici proprium. cum autem
huius fit uel præcipuum inſtrumentum diuifio, ideo eam in Phædro tantopere
commendauit. Aristoteles autem dialecticam poſuit ſyllogiſticã methodum ex
proba- Aristotelis sé bilibus agentem de quacunque re propofita. methodum
appellat fyllogifti- tentia de dia cam ex probabilibus, quoniammultipliciter
fyllogiſinidifferunt, uel ſcilicet lectica, quid ſecundum propofitionis ſpecies,
uel ſecundum modos, &figuras, uel ſecun dummateriam,in qua ſunt. ſecundum
quidem propofitionum ſpecies alii funt categorici, alii hypothetici.ſecundum
modos, & figuras, alii ſunt per- quomodo fe fe& i, aliiimperfecti, alii
in aliis figura, & modo. fecundum autem materiam cundum mo differunt,
quoniamalii ſuntex ueris, & propriis, qui demonſtratiuidicun- dos &
figu tur; atque ars, quæ huiuſmodi ſyllogiſmos docer conſtruere, appellaturme
ſyllogiſmi,et thodus demonſtratiua. Alexander eam dicit appellari demonstrationem.
quomodo fe alii autem ſyllogiſmi ex probabilibus probant, qui diale &tici
appellantur; at cundum ma que ars, quæ huiuſmodi fyllogiſmos docet conſtruere,
diale & ica methodus teriam. A eſt EXPOSITIO LIB. 1. tedicta declarat. est
peripateticis, de qua philoſopho propoſitum eſt agere in his topicorum libris.
at uero ſyllogiſmi, qui ex apponentibusprobabilibus procedunt, ſo exemplis an
phiſtici ſunt; ac ſophiſtica ars eft, quæ de ipſis agit, horum autem differen
tia hinc perſpici poteſt. ſienim dicamus, nullum bonum eſt imperfe & um,uo
luptas eſtquid imperfe & um, ergo uòluptas non eſt bona, hic eſt demonſt ra
tiuus ſyllogiſmus, quiex uoluptatis diffinitione procedit. at ſi dicamus, om ne
bonum bonos efficit poſsidentes, fed uoluptas bonos non efficit, ergo uoluptas
non eſt bona: hic erit dialecticus ſyllogiſmus. quod enim bonum bonos efficiat,
eſtquidem probabile, non tamen neceſſario uerum. ſcien tia enim bona eſt, quæ
tamen bonos poſsidentes non efficit. at ſi quis dicat, quod eft bonum, eſt
appetibile, ſed uoluptas eſt appetibilis, ergo uoluptas quare diale- elt bona:
ettfyllogiſinus ſophiſticus, quiex apparentibus probabilibus pro ética ex pro-
cedit: fallit autem ex loco à conſequenti.quòd fi quis cauſam quærat, cur
babilibus,& dialectica ex probabilibus tantú procedat,hæcnimirum eſſe
uidetur, quòd, te propolita cum diale&tica interrogare doceat,acreſpondere,(id
quod uerbum Sráneye agat. sou, à quo dialectica di& a eft, nobis indicat )
oportet, utdiale & ica de rebus omnibus differat, cum res omnes
interrogando, & reſpondendo tractari poſsinc. ſi igitur diale & icus de
quacunque re propoſita agit, neceſſe eſt, de rebus etiam fallis quandoque
diſſerat. quod li ita fit, impoſsibile eſt, ut ex rebus ueris ſemper probet:
neque enim ex ueris falſum colligi aliquo mo: do poteſt. ad probabilia igitur
diale&icus conuertitur, quæ élicit à reſpon quare diale- dente, ex illisq;
propofitum concludit: neque enim probabilia omnino ue etica lit à phi ra ſunt.
ita igitur patet, quid peripateticis dialectica fit. lofopho ap- Quæ cum ita
fint, re& e di& um eſt à philosopho, diale &ticã eſſe avtispoçor
rhet pellata avtitoricæ. tribus enim modis potiſsimum conueniunt rhetorica,
& diale &tica: primo quidem, quia definitum genus non habent circa quod
uerſentur, ſicut & modis inter aliæ omnes diſciplinæ. nam & medicina,
& mathematica,& naturalis philofo fe conueniát phia, & ciuilis
ſcientia, & artes omnes ſubie & um quoddam agnoſcunt, in dialectica
& tra cuius ambitum continentur. nihil enim, quod ad humanum corpus non rhetorica.
pertineat,medicina conſiderat: neque arithmetica, quod ad numerum.at diale
&tica de quacunque re propofita poteſtagere.eodem modo & rhetoris ca
proprium ſubieci genus,circa quod uerſetur, non habet. ſecüdo, conue niunt
dialectica, & rhetorica, quia utraque non ex propriisrerum princi piis, ſed
ex rebus communibus probat. aliter enim deremedica agit diale Žicus, quam
medicus. hic ex propriis eius artis principiis diſſerit:diale&ti cus uero
ex communibus: eodé modo & orator. Tertio conueniunt, quia circa oppoſita
æque uerſantur, id eft, utranque partem contradictionis tuen tur. ſimiliter
enim diale & icus tuebitur uoluptatem effe bonam, &non bo,: nam, animam
effe mortalem, & immortalem:& orator, aliquid effe iuſtum, & non
iuſtum, utile & non utile, laudabile, & uituperabile, eodem modo de
fendet. aliæ autem omnes artes, etfi utrunque oppoſitorum cognofcant, non tamen
utrunque eorum efficiunt, fed, quod melius eſt, ſemper ſibi pro ponunt.medicus,
exempli cauſa, quæ ſanitatem efficiunt,fimul& quæ mor bum, perſpecta habet,
non tamen fanitatem, & morbum indifferenter effi cit, ſed ſanitatem ſibi
ſemper proponit.eodem modo & aliiomnes artifices. quare diale- ſola diale
& ica, ac oratoria ars circa utrunque oppofitæ indifferenter uerſan rica à
philo tur.atque hinc eſt, quòd hæ duæ artes à philoſophis poteſtates ſolent
appel fophis lint ap lari. poteftas enim proprie oppofitorumeſt: hæ autem artes
non unum mat pellatę pote- gis oppofitorum, quam alterum tuentur, licet alii
iccirco ipſas appellari po ſtate; idý; teftates dicant, quoniam potentesreddunt
eos, qui ipſis inſtructiſunt.quid spopoo rheto ! tici & rheto enim tur.
enim non poteſt, qui hominibus probare, ac perſuadere, quod libeat; pofsit?
alii uero iccirco eas poteſtates appellari dicunt, quoniã ad bonú æque busci
nfirma tribus rationi ad malú uſum his uti poffumus: atque hinc eft, quòd
neſcias, bonine an mali plus hominibus hæ artes attulerint: ficut enim,fiad
honeſtas rariones dedu cantur, ut ueritatis inuentionem, iuſtitiæ defenfionem,
ac commoda pa trix maxime proſunt, ita fiad oppoſita trahantur, maxime obelle
ſolent his igitur tribus cóueniunt dialectica, & rhetorica, quòd definitum
genus ſub je& um non habent, quod non ex propriis, ſed ex communibus
probant, & quòd utranque oppofitorum æque tuentur. TOTIDEM etiã modisinter
fe differút.primoenim diale & ica circa quam- quot modis cunque materiam
uerſatur. rhetorica autem ciuilem materiam quodammo inter fediffe
dofibiappropriat. ſecundo diale &interrogando ica, & reſpondendo de re-
rat rhetoria busagic, ac prolixitatem uerborum fugiens quambreuiſsime differit:
rhe- lectica: torica uero continuata, ac diffuſa oracione uritur, quod
confiderans Zeno reéte admodum rhetoricam manui expanſæ, dialecticam uero eidem
in pu gnum contractæ comparauit. tertio differunt, quia diale&ica circa
séris: quid ſie 94 sherorica uero circa uzóleous uerſatur. eft autem Siois
quæſtio nullis certiş is; & quid finibus temporum locorum, perſonarum
concluſa. úzóteous uero quæ defini ta eft uelomnibus, uel pluribus horum, ut fi
quæramus, an philoſophiæ ope ra fit danda, siois eſt, fi quæramus, an nobis hoc
temporephiloſophiz ſiç uacandum, utóðeris eft. IT A igitur paret, quod ſie
philoſophi propoſitum in his Topicorum libris agere, ſcilicet de
dialecticamethodo, uidimusý;, quid eſſet diale &tica, & quid cum
rhetorica conueniat, quid ue ad ipfa differat. AlterVM, quod diſcutiendum
propoſuimus, eft, quænam ſit huius operis diale &icz u. utilitas eftautem
eius utilitas ad quatuor præcipue.primo ad diſputationes, tilitas, & ad
fecundo ad oratoriam facultatem,tertio ad ueritatis inuentionem, ultimo quot
res cöfe ad ſcientiarum principia probanda.ſi quis ea demoliri tentet, ad
difputatio- ratpotiſſimú, nes quidem utilis eſt diale&ica, quoniam loca
nobis ſubminiſtrat; unde e. quid.confe Tuantur argumenta ad quodlibet problema
conſtruendum, uel deftruédum. ad diſputa - præterea docer quomodo interrogare,
ac reſpondere debeamus. quare fi ţiones. alios interrogabimus, quodlibet
probare poţerimus: fiautem interroganti reſpondebimus, fententiam noſtram
egregie ſuſtinebimus, atque ad ircon ueniens non deducemur.quàm autem
adrhetoricam conferat,hinc patet', quàm confen quod omnes fere, qui de
rhetorica conſcripſerunt, non aliunde, quam ex riam faculta docis, qui hic
traduntur, probationes fuas, quæ ſunt quaſi orationis cor, de- cem, ſumi
tradunt, neque tamen eo minor eft hæc utilitas, quòd plerique rhe cores ex his
Ariſtotelis libris, quod ad rem ſuam faceret, iamdudum mutua cti ſunt.magni
enim intereſt, fi quis aquam ex riuulis hauriat potius quam ex fonte, id autem
uel hinc patere poteſt, quòd, cum apud Ariſtotelem tradi ti ſint tercentum,
atque eo amplius loci, ita diſtincte ſecundum quæſtionum differentias, ut
nihilmagisrhetores eos omnes ad uiginti fere deduxerunt, quam ampla facultas in
quantascoa&a anguſtias. Ad ueritatis autem inuent quàm confe tionem
dialectica confert, quoniã cum in unaquaquere poſsimus ad utran- rat ad uerita
quepartem diſputare ex probabilibus. probabilia autem non fint exomni tis
inucntio parte falſa, ideo ex ipſis aliquid ueri colligere poterimus, quod
Ariftotelis reſtimonio confirmatur, qui plerunque in rebusdifficillimis diale
& icos fyl logiſmos pro utraque parte præmittit.deinde fententiam ferens
folet often quim confe dere quoquo modo rem ita ſe habere, & quoquomodo non.
Confert de rat ad ſciena mum diale & ica ad ſcientiarum principia
defendenda: nulla enim ſciétia pro A 2 pria nem. Iteriorum. tiarum prima pria
principia poteſtprobare, fed ea pro ueris aſſumens, alia omnia ex illis
pendapaa pro probat: at fi huiuſmodi principia negentur, nullus præter
dialecticum,& metaphyſicum poterit ipſa probare.maxima igitur, utpatet, eſt
diale &ticæ utilitas,atque ideo immerito quidam ipfam damnarunt, &
fuftulerunt.fie quòd quidã nim diale &tici quidam pernicioſas opiniones
intulerunt, ut Protagoras, dialectica im qui cum in dialecticis excelleret,
Deos in dubium reuocauit, unde decreto merito dam- publico Athenienfes eius
libros arſerunt,ipſumą; Athenis ablegarunt, tan narint, idq; Protagoræ e quam
hominem reipublicæ, ac philoſophicæ ueritati perniciofum, id non xemplo.
dialecticæ contigit uitio, ſed eorum potius, qui dialecticam à rerum cogni
tione ſepararunt, quod profecto aliud non eft, quàm fi quis corpus ab ani ma
ſeparet, aut oculum à uiſua facultate: unde mirum non eft, fi poftea dialectica
ad deteriorem partem abufi fuerint. quæ fit hu - SEQUITUR, ut inquiramus,quæ
ſit huius operis inſcriptio, et inſcriptionis ius operis in- caula.
inſcribuntur autem hi libri Torine, græco nomine, à uerbo Tótosi,
infcriptionis. quodlocum nobis ſignificat. eſt autem locus, ut Rodulphus
definit,com munis quædam reinota, cuius admonitu, quid in quaque re probabile
ſit; poteft inueniri, atq; hinc libri, qui de huiufmodi locis agut, Topica
appellati. Iam illuduidendum eſt, qui ſit horum librorum ordo ad alios libros
logicæ qui fit ordo facultatis. primoq; inquirendum eſt, an libri Topici ſequi
debeant libros huius libri. pofteriorum reſolutoriorum: deinde an etiam ſequi
debeant libros priorú, et primo an Primo quidem, quòd pofteriorum libri, qui de
demonſtratione agunt, To cedere debe- pica conſequi debeant; ex eo probatur,
quoniam demonſtratio eft finis to ant libros Po tius logicæ tractationis, ut
Græci atteſtantur, de ea igitur ultimo loco agen dum eſt.præterea cum
probabilia uiam nobis aperiant ad ipſam demonſtra tionem, fintq; inuentu, ac
cognitu faciliora, dehis igitur priori loco agen huius ratio dum eſt. his
itaque rationibus Topica præcedere Poſteriora ſtatuamus. an uero præcedant, an
ſequantur Priora, non minor eſt difficultas. Marcus Ci Topica cero, cuius
fententiam ſequitur Boetius, logicam facultatem, quam dili - Lebeidlibros
gentem rationem diſſerendi appellat, in duas partes dicit efle diductam, u.
Priorum, nam inueniendi,alteram iudicandi:inueniendi artem ordine naturæ
priorem idậ; ex fen- dicit. ſi hæcita ſunt, cum inueniendi ars in Topicis
libris tradatur, iudican tentia Cice- diuero in Prioribus, ergo Topica procedut
Priora.quæ enim priora ſuntin ronis, & Boe doctriva ordinata, prius etiam
tradi debent.uerum quoniam plerique ne çit. fciunt qua ratione pars illa
appelletur iudicatiua,ideo hoc ipſum nunc:0. ſtendamus. Appellatur hæc pars
inuentiua eo quòd locos, utdiximus, con partes logicæ tinet, ex quibus
probabilia eruuntur.pars uero altera iudicatiua dicitur, altera inuen- quoniam
doceſ, quo pacto, probabilia illa, quæ inuenimus, fint conne& en
tiua,altera ne da, qua ſcilicet figura, & quomodo, ut aliquid concludamus,
non ſolum ma appellentur. teria opuseft, qua id efficiamus, ſed etiam recto,
& artificioſo connexu., non aliter, quam qui cercas, autáreasimagines
fundunt, non ſolum materia indlgent, fed etiam typis quibuſdam,per quos fuſa
materia debitam formam fufcipiat.pars igitur illa, quæ de locis agit,
inuentiua, quæ uero de modis,ac figuris ſyllogiſmorum, atque inſuper
decautionibuscaptioſarum argumen opinionis fu- tationum, iudicatiua eſt
appellata. ſed, ut ad rem propoſitam redeamus, perioris effi - concludebat
prior ratio Topica debere præcedere librospriorum, ſed huic cax oppofi -
fententia opponitur efficax ratio.in Prioribus enim agitur de ſyllogiſmo in.
communi, in Topicis autem de ſyllogiſmo dialectico.cum autem commu niora femper
præcedere debeant, ergo priorum libri præcedent Topica, hancq; ſententiam
peripateticiomnes, Græci, Latini, & Arabes concordes cui caméopi
conſequuntur.Si cui tamen prior ſententia magis arrideat, quòd ſcilicet TO nis
confirma tio. an qua ' ratione. I O PICOR VM ARIŞ T. 3 Ctio. $ Topica
præcedane, non concedet; quod oppoſita ratio aſſumit, quòd fcili- nioni magis
cet in Topicis de diale&ico ſyllogiſmo agatur, ſed dicețibi agi de materia
& eiustatio diale & ici fyllogiſmi, quæ ſunt ipſa probabilia.hæc poſtea
quomodo ſyllogif- nis confirma mosautalia argumentationis fpecieconnecti
debeant,in prioribus traditur. tio. quòd Gi philoſophus Topicoru initio dicit
ſe in propoſita tractatione diale &icum fyllogiſmum quærere, hoc propterea
dicit, quoniam hæc omnia gra- niobiectio. huic opinio tia diale & ici
ſyllogiſmitra & antur: quid enim conferent probabilia, nifi ipfi huius
obie– recte componere, ac connectere ſciamus? non tamen ſupponunt do
&trinam ctionis diflo de fyllogiſmo, quæ in prioribus traditur: Id neque ex
eo oſtendi poteſt, hanc lutio. tračiationem eam fupponere, quæ eſt de
fyllogiſmo, quoniam philoſophus alia huius ra obie initio primi Topicorum de
ſyllogiſmo, atque eius ſpeciebus agit:non enim ob aliud de his agit, niſi ut
dialectici fyllogiſmi materiam inueniat, de qua huius obie hoc loco nou
diffiniret, eiusg; ſpecies, cum dehis in reſolutoriis abunde e- ftionis dißio
lutio alia, giffet.ita igitur Topica librum de interpretatione conſequentur,
Priorum conclufio. autem, ac Pofteriorum libros præcedent. Illvd deniū uidendum
ſuperelt, quæ fit huius operis diuiſio.diuiditur au- quæ fic huius tem in tres
partes. in primo enim libro oſtendit partes, ex quibus compo- operis diui –
nuntur orationes dialecticæ, & partium partes, uſque ad fimpliciſſimas. in
fio. fecunda parte oitendit loca, ex quibus fumantur argumenta ad conſtruen dum,
& deftruendum omnegenus quæſiti, quod fit in ſex ſequentibus libris. in
tertia autem parte; uidelicet in o & auo libro interrogantem inftruit, quo-.
modo debeat interrogare, ac reſpondentem, quomodo debeat reſpódere. In hoc
primo capite proponitphiloſophus propoſitum ſuum in his Topicis libris.
&quoniam hæc omnia,quæ in hoc uolumine tractantur, gratia diale quid in hoc
Etici fyllogiſmi tractantur, ideo præmittit, quid ſit fyllogiſmus, & quæ
fint agendum pro eius differentiæ.primo igitur definit fyllogiſmum, deinde
definit ſyllogiſ- ponac philo mum demonſtratiuum: & quoniam demonltratio
conſtat exprimis, & ueris, fophus. oftendit, quænam ſint hæc prima, &
uera, definit etiam diale &ticum ſyllogif mum. & quoniam conſtat ex
probabilibus,oftendit quænam ſint probabilia. definit deinde litigioſum
fyllogiſmum, poftremo definit paralogiſmum, qui in ſcientiis fit, ac concludens
dicit ſe ſummatim dehis egiſſe, admonetą; ſe non effe de rebus his exactam do
& rinam traditurum, ſed qualis pro poſitæ methodo conuenit. Propoſitum )
Duæ ſunt apud philoſophos uoces cognatæ, propofitum, & fub- quid inter se
iectum. ſubiectum eſt circa quod unaquæque diſciplina uerfatur: propoſitum
differantpro uero eſt id, quod artifex ſibiproponit, & quo effe & to
ceſſat ab opere, exem- pofitum; & plicauſa,fubie& um in medicina
efthumanum corpus, propoſitum uero eſt ſubiectum. fanitatem efficere in humano
corpore, & femper propoſitum comprehen dit etiam ſubiectum, quare Græci
interpretes, cum ſemper expofitum quæ rant, de ſubiecto nunquam fere uerba
faciunt notandum autem eſt, quòd in hoc differre uidentur artes factiuæ à
diſciplinis contemplatiuis, quòd in pro- quomodo fa pofito artium faciuarum
tria complectuntur, effectio primum, quæ eſt cu- ctiuz artes à juſlibetartis
finis, deinde forma, quæ ab artifice introducitur, quæ & ipſa differant.
fubie & um artis propinquum appellatur, ſicut eſt in medicina ſanitas:
ptäte rea ipſum ſubiectum, atque hæc tria in propoſito artis explicantur,
nilicon tingat formæ illi, &fubiecto unum eſſe nomen impofitum. in
propofito au tem contemplatiuarum diſciplinarum comprehenditur cognitio, quæ
eſt cuiuſlibet fcientiæ contemplatiuæ finis, & ipſum ſubie & um licet
fiquis in his etiam diligentius inſpiciat, uidebit formam quandam latere
naturalis philoſophi.propofitum eſt res naturales cognoſcere, fed forma latet
modus 1 1 торт сок у м ARIST, di, dus, ſcilicet & character quo illas
cognofcit, nempe phyſice eodem modo, &arithmetici propoſituni eſt numeros
cognoſcere ledlatet illud mathema tice, quod eſt quali forma eius cognitionis.
notandum etiam eft aliud effe proris differ. propofitum eius, qui ſcientiam
aliquam tradit, &ipſius ſcientiæ, exempli se àpropoſ- cauſa,philoſophipropofitum
eſt in hoc uolumine de dialectica agere, ipfius to ſcientiæ, uero diale
&ticæ propofitum eſt probabiliter diſputare de quacunque propofi quä ipfe
fcri- to problemate. utrunque autem propofitum indicant uerba philoſophi. ptor
tradit. quid ſit me Methodum. utcognoſcamus quid methodusſit, quæ res, ſicuti
non facilis eſt; thodus. ita digniſsima eft cognitione, notandum eſt,quòd
methodus, ficut nomen indicat, elt uia quædam, qua unum poft aliud certo quodam
ordine poſitum eft, quare diſciplinæ omnes, quæ certum quendam ordinem
obſeruant, me: quæ fint pro- thodi appellantur: ſed inter ipſas diſciplinas
aliæ ſunt, quæipſis diſciplinis prie mecho- tradendis deſeruiunt, & iccirco
diſciplinarum inſtrumenta dici poflunt, cu juſmodi ſunt definiendiars, &
diuidendi, & aliæ quædam. aliæ uero ſunt di ſciplinæ, quibus illæ
deferuiunt, proprie quidem methodi nomen diſciplinis deſeruientibus conuenit,
quæ omnes ad logicam tractationem pertinent, quæ etiam in cauſa ſunr, cum aliis
diſciplinis applicantur,ut niethodi nomé accipiant: unde & medendimethodus,
& phylica methodus dicitur, cum ſci licethæ diſciplinæ certo quodam ordine
traduntur, quod non aliunde ha bent, quam ex illis logicis mechodis. quod hæc
ars Inuenire. dixit hoc philoſophus, quoniam ante ipſum hæc ars nondum erat
nondum inué conſtituta: etſi multa apud Platonem, & alios ueteres
philoſophos reperi ta erat,ſed ip rentur, illa tamen erant præcepta quædam
ſparſa, & difie & a,neque colle ſe primus ea inuenit, & p &a in
artem. primus omnium Ariftoteles hæc diligenter perſecutus artem fecit, hanc
inſtituit, fimul & perfecit. A quapoterimus etc, cum diale &
icainterrogando, & reſpondendo conſiſtat, quid diale & i- oftendit
philoſophus, quidnam ipſa conferac tum interroganti, tum reſpon ca cöferat in
denti.confert enim interroganti, quoniam docet ipſum diſſerere de qua
reſpondenti cunque re, quæ à reſpondente proponi poſsit: confert reſpondenti,
quonia inftruit ipſum, ne abinterrogante deducatur ad inconueniens:ſed ſenten
tiam ſuam egregie ſuſtinear, De omni, hoc dicens philoſophus quodam modo diale
& icam d rhetorica ſe parauit. etſi neutra earum habeatſubie & um
limitatum,non æque tamen rhe torica de omni quæſtione diſputat, ſicut
dialectica.circa ciuilia enim nego cia magis uerſatur, quod quædā Propoſito
problemate. Quid ſit problemainferius oftendet philoſophus. diſpu non ſunt dia-
tat diale & icus de rebus ciuilibus, de rebus naturalibus, de rebus medicis
lettica pro- aliisg;, in his tamen quædam ſunt, quæ non ſuntdialectica
problemata, ne blemata. que enim diſputabit de his, quæ indigentſenſu, aut
pæna,utquòd ignis fic callidus, neque de his, quæ propinquam habent
demonſtrationem, led de his quæ dubitationem aliquam habent. Ex
probabilibus.quare diale & icus ex probabilibus diſſerat, ſuperius diximus.
quid philofo. Primum igitur. particula igitur coniungit hanc partem cum eo,
quod dixit gat illa parti ſyllogizare.fi enim docet hæc ars fyllogizare ex
probabilibus, ergo oppor Cula,Primum tet, utcognoſcamus, quid fit fyllogiſmus;
præterea debemus uidere, quæ igitur. ſint ſyllogiſmorum differentiæ, ut
manifeſtum fiat, quòd fit hic fyllogiſinus ex probabilibus, quo dialectica
methodus utitur. dubitatio an Hunc enim quærimus. dubitant quidam, cum
diale&icus ſyllogiſmus ſit huius hisusubiectului operis fubie& um,
quomodo dicat philoſophus, hunc enim quærimus, quo fit dialecticus niam fubie
& um debet præcognoſci in qualibet ſcientia, cuiuseſt ſubie & um: 1 1 1
quod TOPIC Q R VM. ARIS 1.: 4 tionem. quod autem eft præcognitum, non poteſt
eſſe quæſitum: ſed dicendum eft, fyllogiſmus, quòd in hoc uolumine fubie &
um eſtnon dialecticus ſyllogiſmus, ſed diale & i- methodus. ca methodus,
cuius tamen præcipuum opus eſt ſyllogiſmus diale&icus. ſed li folutio Tupe
etiam ſupponamus ſubiectum eſſe ſyllogiſmum diale& icum,nó tamen eſt in-
rioris dubita conueniens, quòd quæratur, quoniam ſubie &tum in ſciétia
ſupponitur, quod aliaetiam for fit, & quid ſignificet. ſed poteſt poſtea
quæri, quid fit, quæ ſint eius partes, lutio. paſsiones, &proprietates.non
igitur idem erit ſuppofitum, & quæſitum. Eft itaque ſyllogiſinus.
fyllogiſmum interpretatus eft Cicero ratiocinationem, quid nobis fi in eius
definitione orationem poſuit philoſophus loco generis (cum enim gnificet fyllo
aéros duo fignificet, græci omnesaccipiunthoc loco pro oratione )non folu
gulmus: enim ſyllogiſmum, fed & alia plura oratio comprehendit.quæ omnia à
fyllo Pelindorecas giſmo ſeparauitphilofophus quatuor adiectisdifferentiis: eam
enim oratio fumatphilo nem, in qua poſitis quibuſdam, aliud quid neceſſario
accidit, propter po- fophus ora fita ſyllogiſmum appellat. Quibufdampoſitis,
per hocſyllogiſmum ſeparauitab his orationibus, in quibus quid ſeparec nihil
ponitur, qualis eſt enarratiua oratio. pofitis autem ſignificat fumptis, hac
particula & conceſsis: oportet enim, ut quæ ad ſyllogizandum ſumuntur,
etiam con atis. quibufdá po cedantur, uel ſcilicet ab alio, fi cum alio quis
ratiocinetur, uel faltem à ſe ipſo, ſiſecum ratiocinetur,uelab audiente non
expetit reſponſionem. præ utrú illud, po terea illud, poſitis, comprehendit non
folum affirmatiuas propoſitiones, ſitis,compre uerum & negatiuas.nam &
negatiuæ nihilo fecius ad fyllogizandum ſumun- hendat & af tur, quàm
affirmatiuæ.præterea illud, poſitis, proprie reſpicit categoricas negatiuas p
propoſitiones. hypotheticæ enim non ponuntur, fed fupponuntur, unde ca
politiones: tegorici ſyllogiſmi ſimpliciter, acproprie fyllogiſmi dicuntur.
hypothetici utrú illud po ſitis compre non ſimpliciter dicuntur ſyllogiſmi, fed
hoc totum ſyllogiſini hypothetici. dixit præterea pofitis, & non pofito,
quoniam ex uno pofito nihil poteft fyi ricas, aneuí logiſtice concludi, ſed
utminimum ex duobus.argumenta enim illa, quæ ex hypoteticas. uno polito aliquid
concludunt, uti ſunt enthymemara, & quæ Antipatri ſe- quomodo co
&tatores Moronéquata appellarunt, defectuoſa funt,quod
deprehenditur,quiasnofcai qua fi id, quod prætereunt, ſuppleamus, nihil eft in
argnmentatione ſuperuaca veum, quod profe & o fieret,fi huiuſmodi
argumentationes non eflent defi- etuoſa. cientes, ut in ſyllogiſmis uidere
eft.fiuntautem enthymemata, ubi propofi quando pof lint fieri en tio aliqua
præteriri poteſt, quoniam euidens eſt, & manifefta, ut reſpirat, thymemata
ergo uiuit: at ſi huiuſmodi propoſitio latens ſit, tunc no poſſunt effici
enthy- quando non memata, ut fi dicamus,motus eſt,ergo uacuum non eſt, ſed hæ
appellantur poſsint fieri illationes, & conſequentiæ, non etiam enthymemata.
enthymema Aliud quid à poſitis, oftendit his uerbis philoſophus fyllogiſmi
utilitatem.nul fyllogiſmi uci lum enim eft aptius inſtrumentum ad cognoſcendum,
quàm fyllogiſmus: cú litas. enim nos fimus cognitionis participes, non tamen
fine diſcurſu res cogno- quotuplici - fcamus, ſicuti beatæ métes, quæ intuitiue
cognoſcunt, ideo ab uno ad aliud ter abuno ad procedimus.cum autem hoc
quadrupliciter fieri pofsit, uel à noto ad notū, datur. uel ab ignoto ad
ignotum,uel ab ignoto ad notum, uel à noto ad ignotum; tres primi modi nihil ad
cognitionem conferunt, ſed ſolus quartus, quo pro cedimus à noto ad ignotum,
hoc autem fit per fyllogiſmum:quare cum im poſsibile fit, ut idem fit notum,
& ignotum, ideo oportet, ut in fyllogif mo aliud concludatur ab his, quæ
poſita ſunt: quia fialiquid concludaturno aliud à pofitis, ea oratio non erit
ſyllogiſmus, quia fyllogiſmi uim nó habet, quinam fyllo ſicut oculumnon
dicimus, qui uidendi uſu caret, ut eſt pidus, autlapideus. gifni à toi merito
igitur à fyllogiſmi definitione excluduntur, qui ſyllogiſmi siapapouueror pellari
Siepo iſtoicis appellantur, in quibus aliud à pofitis non concluditur, ut uel
dies pouuevos. eſt, do argu menta defe ta. aliud proce TOPIC OR VM ARI S. T. 1
obie &tio. eſt, uelnox eſt, ſed dies eſt,ergo dies eft.Sed obiiciet quis,
liſyllogiſmi funt, qui hoc modo ex diuifione procedunt, uel dies eſt, uel nox
eít, ſed dies eſt, non ergo nox eſt: quare non etiam priores illi fyllogiſmi
erunt. uidetur e nim quòd idem ſit, nox non eſt, & dies eſt, etſi in uerbis
fit differentia.uer borum enim differentia, fi idem ſit ſignificatum, nihil
omnino facit. dicen ſolutio obie- dum eſt, quòd illatum illud noxnon eſt,
ſignificat quidem diem eſſe, non ta ctionis. men primario, ſed ſecundario.
primo enim ſignificat no &is negationem, ſe cundario autem ſignificat diei
præſentiam, eo quòd non exiſtente no & te ne cellario dies eſt:quemadmodum
& nox eſt, primo ſignificat no &i præſen tiam, ſecundario uero diei
priuationem. cum igitur aliqua fit inter hæc dif · ferentia, quoniam non eandem
rem primario lignificat, ideo hi ſyllogiſmi quòd fyllogif ſunt. illiuero, in
quibus nulla prorſus eſt differentia, inter aſſumptum, et illa mi,quifiunt tum
non merentur dici ſyllogiſmi, eadem ratione & fyllogiſmi illi ſunt, qui ex
contradi- ex contradi& tione fiunt, ut uel dies eſt, uel dies non eſt, ſed
dies eſt, non er merentur di- go non eſt.aſſumptum enim illud primario ponit
diem efle, fecundario au ci ſyllogiſmi. temnegat diem non eſſe. quæna fit ha Ex
neceſſitate accidit. declarat hac uoce philoſophushabitudinem,quæ eſt in bitudo
inter ter concluſionem, & præmiſſas, quas appellauit pofita. oportet enim
quòd præmillas, & concluſio à pofitis neceffario inferatur. notandum autem
eſt,aliud eſſe con quid differat cluſionem neceſſariam, quàm quæ ex neceſsitate
accidit.conclufio enim eſt inter conclu- neceſſaria, quæ eſt in
neceſariamateria, uthomoeft mortalis: concluſio ue fioné necella ro ex
neceſsitate eſt, quæ à poſitis neceſſario dependet, quod non minus riá, &
de ne: uerum eſt in materia neceſſaria, quam in contingenti. ſeparauit autem
hoc dentem,& de dicens philoſophus, ſyllogiſmum ab indu & ione, in qua,
quoniam non om neceffario, nia ſingularia inducuntur, & fi inducantur, non
tamen oportet, quòd eodem ſcilicet é hæc modo fe habeat uniuerfale, ficut
unumquodque ſumptorum, ideo conclu conclufio in lio in ea non accidit ex
neceſsitate. fiigitur conclufio non accidit ex neceſsi Cario, tate, non erit
ſyllogiſmus: atquehinc merito litigioſus ſyllogiſmus in forma peccans
nonmereturdiciſyllogiſmus. quot de cau- Propter poſita. quatuor de cauſis hoc
adiecit Philoſophus, primout deficien lis philoſo - tes fyllogiſmos ſepararet,
in quibus deficit altera propofitio ad ſyllogiſtica il phus poſuerit lationem,
ut lac habet, ergopeperit. ſecüdo, ut ſepararet ſyllogiſmos ſuper in
definitione ſyllogiſmi uacaneos, in quibus aſſumitur propofitio aliqua ad
concluſionem non necef particulă hâc faria, ut fi dicamus, omne iuſtum eſt
honeſtum, omne honeftum eft bonum, ſcilicet Pro- omne bonum eſt eligibile, ergo
omne honeftum eſt eligibile.tertio,ut ſepa pter poſita raret orationes, in
quibus propria conclufio non infertur, fed aliquid alie tuor de cap - num, ut,
quod eſt ſecundum naturam, eſt eligibile, uoluptas eſt ſecundum na Gis. turam,
ergo uoluptasbona eſt. talis elt Epicuri ratio, de morte diſſolutum non ſentit:
quod non ſentit, nihil ad nos pertinet:mors ergo nihil ad nos pertinet. quarto,
ut ſepararet eas orationes, in quibus non ponitur aliqua propoſitio uniuerſalis,utſi
dicamus, linea a eſt æqualis lineæb, &linea c eſt æqualis eidem lineæb,
ergo linea a, & linea c funt æquales inter ſe. hæc enim concluſionon
ſequitur expofitis, fed ex uniuerſali prætermiffa, quæ dicit, quæ ſunt æqualia
uni tertio,funt æqualia inter ſe. quid differae Demonſtratio igitureſt, quando
ex ueris, & primis ſyllogiſinus eft. Aliud eft demon inter demon- ftratio,
& demonſtratiua methodus.eſt enim demonſtratiua inethodus ip deinonitrati
ſa ars, & diſciplina, quæ demonſtrationes efficit. demonftratio uero eſt
uam metho demonſtratiux methodiopus.cum igitur uelit philoſophus fyllogiſmi dif
duin. ferentias definire, à demonſtratione incipit, quæ eft omnibus aliis
nobiliſſi ma. dicit autem ipſam eſſe fyllogiſmum, qui conſtat exprimis, &
ueris, uel. hoc eft qua 1 ex торгсок у м AA 5 R I S T. ex his, quæ pro aliqua
prima,& uera ſuæ cognitionis principium ſumpſe runt.oportet igitur, fi
definitionem aliquam cognofcere debemus, icire quænam ſint prima, & uera,
quod ipſe paulo poſt oftendit, quòd ſcilicet ſunt fcientifica principia
diſciplinarum, quæ nonex aliis, ſed ex ſeiplis fidem ha- quòd ſcienti bent. hxc
enim quoniam funt principia,non poſſunt ex aliis demonſtrari, exte, non au quia
non amplius eflentprincipia, ſi ex aliis poflent demonſtrari. & cum ex tem
ex aliis ipfis alia demonftrentur,opus eſt, quòd ex ſeipſis fidem habeant,
alioqui o- fidem habét. mnia demonſtrata eſſent incerta. ſunt igitur ipſa
principia ſcientiarum cer ta, & euidentia: ex his autem quædam funt
nobiſcum innata, & quæ à præce ptore non diſcuntur, ac proinde appellantur
communes animi conceptio nes, dignitates, & proloquia, ſeu profata. alia
uero ſunt, quæ non poſſunt quidem demonſtrari, nobiſcum tamen non ſunt inſita,
ſed admonitione quadam, & declaratione indigent.leui enim declaratione
ipfis affentimur, & hæc appellantur poſitiones, quæ duplices ſunt, uel enim
dicunt aliquid ef quotuplices lint politio ſe, uel non eſſe, &dicuntur
petitiones, uel poftulata, uel quid fit res indi- nes. cant: ſed
non dicunt aliquid efle, uel non efle, & appellantur definitiones, quæ
omnia apud mathematicos manifefta funt. Quod autem dicit philoſophus, Non enim
oportet in diſciplinalibus principijs inquirere propter quid. Videri poſſetali-
obie &tio, 9 cui dubium, cum Themiftius primo poſteriorum dicat, prima
principia fcilicet prima ſcientiarum habere cauſam, propter quam illis
affentimur lumen, ſcilicet fciétifica prin intellectus agentis: præterea
principia cognoſcimus per terminos, ſed ter- habent,pro mini ſunt
cauſamaterialis principiorum, ergo principia habent cauſam.di- pterquam il
cendum eſt, quòd prima principia habent quidem cauſam, quæ affentimur ip
nöautem ex ſis, non tamen habent caufam,propterquam poffintdemonſtrari. ad
ſecun- fe habentcau dum dicendum eft, quòd ex terminis quidem cognofcuntur
priucipia, non fam. tamen ex illis poſſuntdemonftrari,quoniam termini ſunt
incomplexi: ne que omnis cauſa dicitur propter quid, ſed ea, ex qua poſſit
aliquid demoſtrari. HABEmvs igitur, quæ ſint prima, & uera: addit uel ex
his, quæ per aliqua quare philo prima, & uera, &c. niſi enim hoc eſſet
additum, primæ ſolum illæ effentde- fophus in de monſtrationes, quæ ex
principiis demonſtrantur, cum non minus etiam de- nis definitio monſtrationes
ſint, quæ demonſtrantur ex demonſtratis primis, ſed quamuis ne poſuerit ca, ex
quibus fit demonſtratio, prima non fint ſemper, tamen ſunt priora etiã hæc uer
concluſione. ſemper enim debent eſſe caufæ conclufionis, non folum in in- ba,
uel ex his, ſerendo, ſed etiam in eſſendo. propterea dubitat Alexander, fi quis
ab effe- quæ penalina &u ad cauſam procedat, utrum debeat dici demonſtratio,andiale&
icus ſyl- uera luz co logiſmus, quia enim procedit ex ueris, non uidetur, quòd
fit diale & icus; qui gnitionis prin ex probabilibusprocedir: & quoniam
ex pofteriori procedit, non uidetur, сіруй fumple quòd fit demonitratio, quæ ex
primis procedit. ſoluit Alexander, quòdu trunque tueri poſſumus, & quòd ſit
dialecticus fyllogiſmus, quoniam huiuf modi uera ſumuntur pro probabilibus, ut
lac habet, ergo peperit. luna de ficit, ergo terra inter ipſam, & folem eſt
interpofita. poffumus etiam dice re, quod fit demonſtratio, fed demonſtratio
quo ad nos, quia in ea accipi mus ea.quæ nobis notiora ſunt.eſt igitur
demonſtratio imperfe & a, & im proprie dicta. Dialecticus autem
ſyllogiſmusex probabilibus ſyllogizans.Non poflumus autem hanc quænam fint
definitionem intelligere, niſi cognoſcamus,quæ fint probabilia, ideo fubdit
probabilia. philoſophus,probabilia ſunt, quæ uidentur uel omnibus, uel pluribus,
uel ſapientibus,& his uel omnibus, uel pluribus, uel maxime cognitis, &
pro- omnibus pro batis, omnibus quidem probabilia ſunt, ut fanitatem eſſe
expetendam,ui- babilia. runt. quænam ſint B tam торт сок у м ARIST.. tam eſe
expetendam, fcire pulchrum eſſe, parentes eſſe honorandos: hæc e nini omnibus
probantur, quòd fi quialiter affirmant,id aduerſus intrinſeca rationem dicunt.
plurimis autem probabilia ſunt, prudentiam effe diuitiis plurimis quænam fint
eligibiliorem, & animam corpore præftantiorem. notató; hoc loco Alexan pro
babilia. der, quòd fi diale&icus de his ſoluni diſputaret, quæ in communi
notione uerfantur, ea ipfi ſufficerent, quæ omnibus, uel pluribus probātur: fed
quo niam plerunque etiam de his, quæ à communi notitia remota ſunt, ideo ea
quænam fint etiam probabilia aſſumit, quæ ſapientibus uidentur.omnibusautem
ſapien pbabilia om- tibus uidentur, quæanimi bona ſcientia, ſcilicet &
uirtus fint præftantiora nibusſapien- bonis corporis,quòd ex nihilo nihil fiat.
plurimis autem ſapientibus proba bilia ſunt uirtutem effe per ſe expetibilem:
& fi aliter Epicurus ſentiat felici tatem à uirtute fieri, quòd non detur
aliquod corpus indiuiſibile; & fi aliter ſentiat Democritus, quòd non ſint
mundi infiniti; & ſi contra Anaxagoras quænam fint opinatus ſit;
celeberrimis autem probabilia ſunt,animam humanam eſſe im probabilia ce mortalē,
quæ fuit Platonis opinio, uel effe quoddam quintum corpus,quam leberrimis fa-
dicit Alexander fuifle Ariſtotelis ſententiam, quod & M. Tullius eidem at
pientibus. quòd etiam tribuit, licet alii omnes aliter ſentiant de Ariſtotelis
opinione. ſunt autem,pbabilia ſunt hæc probabilia, & fiuel pauciadmodum,
uelunus tantum forteita ſit opina ea, quæ uel tus, quoniam ſicut illi
probatiſsimi ſunt, ita eorum opiniones maxime pro unus, uel pau babiles eſſe
uidentur. notandum autem eſt differre probabile à uero, non eo fenferint-, quòd
probabile falſum ſit,utplurimum enim probabile, neque omnino eft illi probabi-
uerum, neque omnino falſum, ſed differunt iudicio.dicitur enim uerum ex les
fuerint. ipſa re, quando ſcilicet cum re conſentit. probabile autem dicitur ex
audie tium opinione: fi enim ita audientes opinentur, probabile dicitur.probabi
lia enim quatenus probabilia ſunt, neque uera, neque falſa ſunt: quædam e nim
uera probabilia ſunt, ut Deos eſſe: quædã etiam uera ſunt,quæ non funt
probabilia, ut quòd extra cælum nihil ſit: quædam etiam ſunt falſa, & proba
bilia, ut quòd Deus omnia pofsit, neque enim mala poteſt, ſicut & pleraque
ſunt, &faiſa, & non probabilia: ſed ex his nulla fit argumentatio.
notandum etiam eft, pleraque probabilia eſſe inter ſe oppoſita. fæpe enim quod
proba turuulgo,non probatur à fapientibus, ut quòd bona animi præſtentcorpo
quid fit pro- ris bonis. M. Tulius primode inuétione probabile dicit effe id,
quod fere fie babile ex M. ri ſolet, ut matres diligere filios ſuos, & id,
quod in opinione pofitú eft, ut Tullii opinio, impiis apud inferospenaseffe
paratas:&quòd ad hochabetquandã ſimilitu dinem, ut ſi his, qui imprudenter
ceſſeruntignoſci,conuenit: his, qui ne in quot par- ceſſario profuerunt,
haberigratiam non oportet. hoc autem probabile in tes diuidatur quatuor
partesdiuiditur, in lignum, quod uel negocium præcedit, uel comi probabile.
tatur,uel conſequitur. credibile iudicatum, quod eſt uel religioſum, uel
commune, uel approbatum: & comparabile, cuius partes tres ſunt, imago,
collatio, exemplum, quotuplex ſit Litigioſus autem ſyllogiſmus. duplicem
oftendit philoſophus eſſe ſyllogiſmum fyllogiſmus litigiofum, & qui
procedit ex apparenter probabilibus, ſed re&am ſeruar litigiofus.
connexionem: & quiconnexionem prauam habet, uel fit ex uere probabi libus.
ftatuita; philoſophus eum, quiin connexione fyllogiſtica peccat, non eſſe
dicendum ſyllogiſmum, fed hoc totum fyllogiſmum contentioſum, quemadmodum homo
mortuus non dicitur homo, fed hoc totum homo mortuus. qui uero ſyllogiſticam
connexionem ſeruat, ſed procedit ex ap parentibus probabilibus, dici poteſt
ſyllogiſmus. ratio autem quare hic ſit fyllogiſmus, hic uero non eſt, quoniam
uitiatur fyllogiſtica connexio, pe rit fyllogiſmi natura non aliter, quam homo
deſinit elle, quod eſt, li anima priuetur, ne. priuetur, quoniam non poterat
hæc definitio intelligi, nifi cognoſceremus quid etient apparenter probabilia,
& quid differrenta uere probabilibus, quid fint ap ideo hocipfum declarabit
philofophus. dicit enim, quòd nihil eorum, quæ bilia; & quid funt
probabilia in ſuperficie idem, funtapparenter probabilia, habet omni differant
à ue no fantaſiam idem, funtuero probabilia.id autem eſt apparenter probabi- re
probabili le & in ſuperficie, quòd facile redarguitur,quia ſcilicet
promptam habet bus. inſtantiam, ut ſi dicamus, quod uidet, oculoshabet.ſi quis
enim hoc admit -tat, fateri cogetur oculum habere oculos, ita ſi quis fateatur,
quæ loque ris, ex ore exeunt, audire poterit, currũ loqueris ergo: currus ex
ore exit. eodem modo qui oculos habet, uidet, fed dormiens habet oculos, ergo
uidet.in his fi quis parum infpiciat, mox deprehendet mendacium, quod
nonhabeantea, quæ uere probabilia dicuntur:neque enim hoc facile quis
redarguet, quod maiori bono contrariuin eſt,maius malum eft: in multis eniin
hoc uerum eſt, falſum tamen quandoque deprehenditur.nam morbus, qui eſt maius
malum, quàm mala babitudo, contrariatur ſanitati, quæ eſt minus bonum, quàm
bona habitudo. Principii litigioſarum orationum. per hoc intelligit philoſophus
propoſitiones, ex quibus litigiofi ſyllogiſmi fiunt, non autem horum
argumentorum loca. NOTAND v M autem eft differre litigioſum, ſeu contentioſum
ſyllogiſmũ quid differat à ſophiſtico ex utentis inſtituto.contencioſus enim
eſt,qui ui& oriam aſpi- litigiofus fyl rat:fophifticusautem, qui gloriam.
ſophiſtice enim ex fucata fapientia glo logiſmus à ſo phiftico. riam captat, ut
inde pecunias acquirat,ut dicitur,primo Elenchorum ca pite decimo. Adhuc autem
præter dictos omnes fyllogiſmos. aliam ſyllogiſmidifferentiam affert quidfit
para philoſophus, qui eſt paralogiſmus, quifit in ſcientiis expropriis
quidéprin- logiſmus. cipiis alicuius fcientiæ procedens, ſed male dedu &is,
atque ideo falſis. appel lauit autem philoſophis ſcientiis geometriæ cognatas
ſtereometriam,per- fcientiæ geo fpe &tiuam, aſtrologiam, arithmeticam,muficam,
archite & uram, chofmo- metriä сo graphiam, mechanicen, & alias
quaſdam.quòd autem huiuſmodi ſyllogiſmi gnatæ. à ſuperius di&is differant,
patet: non enim ſuntdemonſtratiui, quia falſum concludunt. nam etſi propria
principia alicuius fcientiæ aſſumant, quxuera funt, eo tamenmodo intellecta,
quo falſus deſcriptor illis utitur, ſunt falla. neque etiam huiuſmodi
ſyllogiſmidicipoffunt diale & ici; quoniam ex proba bilibus non ſunt: neque
enim quæ omnibus probantur, neque quæ pluribus affumunt, neque quæ omnibus
fapientibus, neque quæ plurimis, neque celeberrimis, ſed nequedicipoffunthi
ſyllogiſmi litigiofi,quoniam non af fumunt apparenter probabilia. propria enim
principia non uulgo, ſed his, qui in ſcientia ſunt uerſati,cognoſcuntur quare
probabilia dici non poffunt, & cum ad prauum ſenſum deducuntur, non etiam
dici poterunt apparen ter probabilia. Λημμάτων. λήμματα funt apud Αriftoteleim
propofitionesfyllogifmorti quas λήμματα. nos præmiffas appellamus, &
ſumpta: undelyllogiſinidefe & uofi, qui ex ana qua ſint. tantū propoſitioni
conſtabāt,ab Antipatro coronéiuuati ſunt appellati.notan dum eft paralogiſmum,
qui in ſcientiis fit, qui pſeudographusappellatur;ita quonam mo fe habere ad
demonſtrationem, quemadmodum fe habet contentiofus ad do paralogiſ diale&
icum.notandum præterea eſt paralogiſmi nomine, comprehédi utrun- mus habeat que
modum ſyllogiſmi contentiofi, fyllogiſmum ſophiſticum pſeudogra- ftrationen
phum, & tentatiuum. Species igitur fyllogiſmorum, ut figura quadam
complecti licet. Plures affert ratio. rationes qua nes Alexander, quare dixerit
philoſophus, ut figura quadam comple & i licet, re philofo B 2 uel phus
dixerit, quænam Gnt tiuus. ut figura qua uel quoniam non tradiderit diligentem,
& exquiſitam horum definitionem, dam comple Eti licet. nonenim ad hoc
inſtitutum pertinebat, uel quia non omnes fyllogiſmorum differentias eſt
perſecutus.eas enim prætermiſit, quæ fumuntur pencs dif ferentias propofitionum,
& quæ penes earum connexionem, uel quoniam prætermiſit enthymema, quod
quamuis non fit fimpliciter fyllogiſmus, eſt tamen ſyllogiſmus rhetoricus, uel
quoniam prætermiſit ſyllogiſmum tenta quid fit fyllo tiuum,dequo alibi fa&a
eſt mentio.eft autem fyllogiſmus tentatiuus, qui gıſmus tenta procedit ex
probabilibus, non ſimpliciter, ſed reſpondenti. eft enim ten tatiuus
ſyllogiſinus ad eos refellendos, qui fingunt fe aliquid ſcire, quod ne ſciunt:
fed dubitat Alexander,ac fere affirmat idem effe Tyllogiſmum tenta tiuum, ac
pſeudographum. philoſophus enim in Elenchorum libro tenta tiuum fyllogiſmum
definit, quod fit ex his, quæ reſpondenti probantur: & quæ neceſſario
tenere debetis, qui profiteturſe habere ſcientiam. hoc au qua in re ten tem
idem eſt, ac fi diceret ex peculiaribus fcientiæ principiis. hæc enim tene
tatiuus fyllo- re debet, qui ſcientiam habere profitetur. appellatur autem
tentatiuus à Fat a pſeudo propoſito, & inftituto interrogantis,
pſeudographema autem ab effe& u. grapho. Vtautem uniuerſaliter dicamus.
Admonet philoſophus in his, quæ di &a ſunt, ac quòdnon in in omnibus, quæ
ſunt dicenda, non eile expectandam certam, ac demon omnibus re- ftratiuam
ſcientiam, quia propoſita tra & atio id non fert, cum de probabili renda
demó- bus fit, quorum certa, atque exquiſita fcientia haberi non poteft, ut
dicebat ftratiua fcien in ſecundo metaphyſices, certitudo mathematica non eſt
in omnibus expe tenda, neque omnium poteſt haberi demonſtratio. dubitatio Q- QVAER
VNT quidam, cum philoſophus attulerit duos fyllogiſmos con phus attule-
tentiofos,alterum,qui peccat in materia,alterum, qui peccat in forma, fit du os
fyllo cur unum tantum pſeudographum, qui in materia peccat, foluunt, quòd
giſmos con- peccatum formæ eſt commune omnibus ſyllogiſmis: quoniam igitur
ipſum tentiofos, & expoſuit in fyllogiſmo contentioſo: ideo hoc loco ipſum
prætermiſit, at pſeudogra- peccatum materix eſt fingulis proprium. Sequitur, ut
inquiramus, quæ sit huius operis inscriptio, et inscriptionis ius operis
incausa inscribuntur autem hi libri topice, græco nomine, a verbo topos
inscriptionis munis quædam rei nota, cuius admonitu, quid in quaque reprobabile
sit, potest inueniri, atq hinc libri, quide huiusmodi loci sagut, topica
appellati. Iam illud videndum est, quisit horum librorum ordo ad alios libros
logicæ qui sit ordo facultatis primo q; inquirendum est, an libri topici se qui
debeant libros huius libri ant libros totius logicæ tractationis, ut græci
attestantur de eaigitur ultimo loco agen Iteriorum.dumest. prætere a cum
probabilia viam nobi saperi anta dipsam demonstrationem, ling inventu,
accognitu faciliora, dehi sigitur priori loco agen huius ratio, dumest his
itaque rationibus topica præcedere posteriora statuamus: an uero præcedant,
ansequantur priora, non minor est difficultas. Marcus Cicero, cuius sententiam
sequitur Boetius, logicam facultatem, quam dili-, posteriorum resolutoriorum:
deinde an etiam sequi debeant libros priori et primo an Primo quidem, quod
posteriorum libri, qui de demonstratione agunt, Topica cedere debe-
consequi debeant, ex eo probatur, quoniam demonstratio est finisto præcedere
gentem rationem differendi appellat, in duas partes dicites sedidu &am,
unam inveniendi, alteram iudicandi: ioveniendi artem ordine naturæ priorem ida;
exfen- dicit si hæc ita sunt, cum inveniendi ars in topicis libris tradatur,
iudican tencia Ciceronis diueroin prioribus, ergo topica procedúr priora quæ
enim priora sunt in sciunt qua ratione pars illa appelletur iudicativa, ideo
hoci p sum nunc o qua ratione stendamus. Appellatur hæc pars inventiva eo quod
locos, ut diximus, con partes logicæ tinet, ex quibus probabilia eruuntur. pars
vero altera iudicatiua dicitur, altera inven quoniam docer, quo pa & t
o probabilia illa. Locus sigitur, ut definit Alexander, est principium, &
occasio epicherema- secundumA eo tis, cum inprimo ea omnia tradiderit,
quæ præcognoscenda erant, antequa traderentur loci: merito igitur hic incipit
explicare locos sed hic duo sunt secundo libro et si enim de hacrenon nulla
dixerimus, minandaante examinanda primoq,uidsit locus nunc est diligentius
explicatione libri, hoc ipsum tamen cum agebamus de inscriptione sit de locis,
par est, explicandum cum enim omnis futura tractatio d u o efle exatis est
autem in ixeípnucdiale & icus syllogismus. Theophrastus autem hoc mo
lexandrum. do definivit locum, quod est principium quoddam, u elelementum, a
quo principia, quæ circa unum quodque sunt, accipimus, ratione quidem
circumscriptionis universalium definitum, ratione vero singularium indefinitum
in hac definitione per illud, quæ sunt circa unum quod que principia,
intelligere debemus, quæ de uno quoque problemate afferri possunt argumenta per
illud autem rationem quidem circumscriptionis universalium definitum,
rationeuero singularium indefinitum, intelligeredebemus, quod huius modi
principium & elementum universale ipsum definit & determinat singularia
autem indefinite comprehendit, neque enim de hoc, aut de illo singulari
loquitur, fedde ipso universali, sub quo omnia singularia indefinite
comprehenduntur, exempli causa, hic est locus, fia licui contrario aliquod
inest contrarium, reliquo quoque contrario reliquum contrarium inerit in hac
propositione universale est determinatum, singularia vero indefinite
comprehenduntur atque exea argumenta accipimus ad unum quod que eorum, quæ
subea comprehenduntur sienim quæ raturutrum bonum pro exemplum, sit, ab eo loco
accipiemus propositionem huic proposito problemati convenientem; si enim malum
obest, ergo bonum prod est patet autem, quod hæc propositio ex eo loco &
est, & probabilitatem nacta est, eodem modo si quæratur, ut rum albus color
sit disgregativu suisus ex prædi &o loco conveniens, argumentum proposito
problemati accipiemus hoc modo, si nigrum est congregatiuum uisus, ergo album
est disgregatiuum eodem modo pro babimus voluptatem esse bonam si enim
tristitia mala est, ergo voluptas est bona hæc igitur omnia, & plura alia
in eo loco indefinite, & indeterminate comprehenduntur hic etiam est locus,
si id, quod magis videtur alicui inef senonin est, tamen neque id, quod minus
videtur in esse ipsiinerit, qui sicut & in priori visum est, universale
quidem definite, singularia vero indefinite comprehendit neque enim de hoc, aut
illo quicquam pronunciat ex definitio loci ANTIQVAM contextum philosophi
exponamus, videamus priuseiuspro } H roncm. quando que ingrediuntur
argumentatione, quando queuero extra positæ vim solum ipsi tribuunt. Cicero
autem intelligit locum esse terminum, unde hæ maxime propositiones desumuntur
cum enim hæ maximæ propositiones plurimæ sint termini autem,unde sumuntur, longe
pauciores; ideo universa earum multitudo in paucos illos terminos collecta est,
ut aliæ in definitione consistant, aliæ ingenere, aliæ in roto, at que aliæ in
aliis, at quehiter mini a Boetio appellantur differentiæ, eo quod maxime
proposiciones per ipsos dividantur, sicut igenus per differentias maximæ enim
propositiones aliæ sunt ex toto, aliæ ex partibus, aliæ ex genere, &c &
sicut maximæ illæ propositiones minorum propositionum copiam intra suum ambitum
continent, ita termini ili, in quos maximæ illæ propositiones convenienti
ratione re ducuntur, illas continere quodam modo videntur ideoq loci dicuntur
ita igitur locum intelligit M. Tullius, deilisý; in suis Topicis agit, cum
Aristoteles priori modo locum intelligat, ac de illis agat. Sed incidit hoc
loco non indigna contemplatio quis scilicet melius, atque ad usum accomodatius
rem hanc tractaverit, an Aristoteles, qui universales, & maximas illas
propositiones explicaverit; an M. Tullius, qui maximis propositionibus præter
missis eos tantum terminos, in quos illæ colliguntur, exposuerit hoc autem ita
investigari psse videtur siquis exterminis ilis uelit in proposita quæstione
argumenta sibi consicere, cum ad argumenta conficienda necessariæs
intpropositiones id eo oportet, ut exterminis illis propositiones inveniat, ex
quibus argumenta construat sed hoc dificilli mum est, & multa indiget
prudentia, & longa consideratione quis enim possetstatim inspecto termino
propositionum, quæ probabiles sint & indubita txcopiam inuenire; atque ex
hiseas, quæ propositæ quæstioni conveniat, eligere si hoc ita est, patet longe
consultius, & præstantiu segisse philosophum, qui has propolitiones nobis
invenerit, & explicauerit; easq; secundum unum quodque quæstionis genus
certo ordine ita digesserit, ut quam vis plurimæ sint, nihil tamen confusionis
pariant, sed maximam, accertamin una quaquere argumentorum copiam suppeditant
neque tamen prætermit tit philosophus terminos, exquibus maximæ propositiones
desumuntur: hoc enim facile ad modum est exeiusdi & iselicere sed noluit
ipse terminorum ordinem sequi, quoniam ordo ille problematum ordine
minterturbasset, qui longe præstantior est & ad usum accomodatior qai
igitur terminorum do &rinam sequitur, primo propositiones ignorat; quarum
præcipuus est usus in argumentis & fine quibus nullus est terminorum usus
deinde nullum secundum quæstionum genera ordinem habet, quo sit, utinomni qux
sionis genere per omnia loca temere vagaricoa & us sit atque ita patet lon
dubitatio, TOPICORVM ARIST. cota mende his omnibus possumus argumentari, ut si
velimus probare diuitias non esse bonas, ex eo loco hoc modo argumentabimur si
sanitas, quæ magis videtur esse bona, quam divitiæ, bona tam en non est, ergo
neque divitiæ bonæ sunt si enim deinde probemus sanitatem non esse bonam ex eo
forte, quod aliquibus sit causa mali, ex loco proposito ostensumerit divitias
non esse bonas. probare uule NOTANDVM autem hoc loco est,alio mod. Ludovicus Buccaferreus. Ludovicus Buccaferrea. Ludovico
Boccadiferro. Keywords: luogo comune. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Boccadiferro” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Boccanegra – esperienza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “Boccanegra is a good
one; we often laugh at Aquinas because he is a saint – but we have to recall
that Aquinas never knew it – for centuries after his death he ain’t one!
Boccanegra prefers to call him ‘Aquino,’ or ‘Aquinate,’ --.” Grice: “Boccanegra
is like me a systematic philosopher: dalla metafisica alla etica – is that
possible? Yes, what is the ‘paraidm,’ in Kuhn’s use of this tricky word? Esperienza,
alla Locke! And co-experience in my conversational model!” -- Alberto Boccanegra (n. Venezia), filosofo.
Osvaldo Boccanegra nacque a Venezia, figlio primogenito di Antonio e Ida
Camerin. Partecipò alla seconda guerra mondiale come sottotenente del Regio
esercito, richiamato alle armi nel 1941. Nei giorni successivi all'armistizio
di Cassibile riuscì a sottrarsi alle rappresaglie naziste e si ricongiunse
all'esercito italiano a Catanzaro, dove spesso prestò servizio presso la Croce
rossa. Formazione Durante gli anni della
leva trovò il tempo per dedicarsi allo studio dell'intero Organon di
Aristotele. Ottenne il dottorato in filosofia presso l'Università Cattolica di
Milano con una tesi dal titolo I primi principi in Duns Scoto. Presupposti e
corollari. Nell'ateneo milanese, dove Boccanegra frequentava la cerchia dei
neo-tomisti radunatisi attorno a Gustavo Bontadini, gli venne offerta la
cattedra di filosofia teoretica che lui, tuttavia, rifiutò. In quegli anni
scrisse e divulgò le sue idee alternative sulla rivista filosofica Vita e
Pensiero. Entrò a far parte dell'Ordine Domenicano a San Domenico di Fiesole
con il nome religioso di frà Alberto, che lo accompagnò di lì in poi anche in
occasione della pubblicazione delle sue opere.
Entrò al Pontificio Ateneo Angelicum di Roma per lo studio delle materie
filosofiche e teologiche dove discusse la sua tesi dottorale in filosofia (De
dynamismo entis) e ottenne il lettorato in teologia grazie al suo Fundamenta
metaphisica, tractatus de Deo secundum S. Thomam. Ordinato sacerdote a San
Marco di Firenze non abbandonò più il convento di San Domenico di Fiesole. Attività filosofica, teologica e critica
Boccanegra lasciò per sempre incompiuto il suo trattato dottorale in teologia,
ma nel 1969 pubblicò comunque una esauriente sintesi del suo pensiero su vari
numeri della rivista filosofica “Sapienza”. Fu per anni vice direttore della
Commissione per la traduzione della Somma Teologica di Tommaso d'Aquino in
Italiano presieduta da Tito Centi. Gli imponenti schemi riassuntivi sono
consultabili nei 35 volumi editi dalle ESD di Bologna. Degne di nota furono le
sue corpose introduzioni alla Summa di d'Aquino pubblicate in più
edizioni. Neotomista, è considerato da
alcuni filosofo metafisico per altro tra i più rilevanti, mentre altri lo
ricordano tra i teologi cattolici di spicco. La sua attività preferita
tuttavia, fu l'insegnamento e la divulgazione. Negli anni settanta Professoreè
professore di filosofia al Pontificio Ateneo Angelicum di Roma. Di tale corso
ci restano le dispense dal titolo: Frammenti di metafisica iniziale. Per più di
vent'anni ha insegnato filosofia e teologia nello Studio Teologico Accademico
Bolognese e nello Studio Teologico Fiorentino.
Migliaia di pagine manoscritte sono conservate dopo la sua morte
nell'archivio conventuale di San Domenico di Fiesole. Fu autore di
pubblicazioni ed articoli filosofici comparsi o recensiti su riviste italiane
ed internazionali. Fu confessore
ricercato soprattutto dai giovani. Nonostante una malattia che lo ha
accompagnato e provato per quasi tutta la vita costringendolo a cure costanti,
riusciva quotidianamente a fare escursioni per diversi chilometri. Quando negli
ultimi anni le sue forze non gli permisero di continuare la ricerca, si dedicò
alla preghiera costante, sia di giorno che di notte. Saggi e pubblicazioni La beatitudine Gli atti
umani, Edizioni Studio Domenicano, 1985 La prova radicale dell'esistenza di Dio
e i suoi rapporti con l'antropologia, Osservazioni sul fondamento della
moralità, Pluralismo teologico di «tolleranza» o di «diritto»?, Circa la
relazione di G. Bontadini, La persona umana centro della metafisica
tomistica, Nome di battesimo. Angelo Belloni, Biografia di Alberto
Boccanegra, Ordine dei frati predicatori Domenicani, Provincia Romana di S.
Caterina da Siena, luglio Relatore
Amato Masnovo. Alberto Boccanegra,
L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su
“Sapienza”,Boccanegra, “La Somma teologica”,
VIII, La Beatitudine; Gli Atti umani, Giuseppe Del Re, The cosmic dance:
science discovers the mysterious harmony of the universe, Templeton, Barzaghi,
Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell'essere, Volume 3,
Studio Domenicano, Giovanni Cavalcoli, Enrico Maria Radaelli, La questione
dell'eresia in Rahner. Archiviato in., articolo uscito su «Divinitas», anno LI,
n. 3, III quadrimestre 2008. Alberto
Boccanegra, L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su
"Sapienza", Boccanegra, Il rinnovamento metodologico
nell'insegnamento della filosofia, "Revue internationale de
philosophie", Edizioni L'homme et la moraleOrigine et sources de la morale
thomisteÉlaboration de la théologie comme science dans l'œuvre de saint Thomas,
"Revue thomiste", recensione, Saint-Maximin (France), École de
théologie pour les missions"Revista nacional de cultura", recensione,
Edizioni 173-178, Ministerio de Educación, Instituto Nacional de Cultura y
Bellas Artes, Biografie Biografie
Cattolicesimo Cattolicesimo Filosofo del
XX secoloTeologi italiani Venezia FiesoleDomenicani italiani. Alberto
Boccanegra. Boccanegra. Keywords: esperienza. The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bocchi – solidarii – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “Bocchi is a good one;
and Bocchi is a good one – Gianluca Bocchi is a curator who lives in a Roman
palazzo and whose expertise is ‘natura morta.’ Gianluca Bocchi is also a
philosopher of science – as he calls it – My favourite piece by Bocchi is about
collective thinking, -- solidarieta – Surely when I wrote ‘In defense of a
dogma’ with my tutee we were being solidary with each other, and we own each
sentence – collective thinking --.” Grice: “I could have called my desideratum
the principle of conversational solidarity – I am thinking of course Butler in
mind, and the whole bit is to see why (if at all – cf. Stalnaker) an
utilitarian justification is insufficient, and we need recourse to Kant!” -- Gianluca
Bocchi «La nostra età non ha soltanto
vissuto l'esperienza della relatività da ogni punto di vista. Ha fatto
soprattutto l'esperienza dell'incompiutezza di ogni punto di vista. La
contingenza, la singolarità e l'irripetibilità di ogni punto di vista sono
condizioni indispensabili per avere accesso al mondo, per dialogare con gli
altri punti di vista, per creare nuovi mondi»
«Per noi, raccogliere la sfida della complessità significa considerare
la scienza una via importante per riannodare i legami con le altre tradizioni,
per riscoprire con interesse i loro significati profondi, per esplorare la
varietà delle esperienze cognitive, emotive, estetiche, spirituali della specie
umana» «Il nostro continente è sempre
stato sede di migrazioni, di interazioni, di contrasti e di conflitti fra
popoli e stirpi differenti, e questa diversità di radici è un elemento
integrante dei suoi sviluppi passati e presenti.» Niente fonti! Questa voce o sezione
sull'argomento filosofi italiani non cita le fonti necessarie o quelle presenti
sono insufficienti. Puoi migliorare questa voce aggiungendo citazioni da fonti
attendibili secondo le linee guida sull'uso delle fonti. -- Gianluca Bocchi (n.
Milano), filosofo. Gianluca Bocchi È un filosofo della scienza e della storia,
esperto di scienze biologiche ed evolutive, di storia globale, di storia
urbana, di geopolitica, di storia delle idee, delle culture, delle lingue. Ha
fra l'altro introdotto in Italia, con Mauro Ceruti, le tematiche concernenti le
scienze dei sistemi complessi e la connessa epistemologia della complessità,
contribuendo altresì alla loro diffusione a livello internazionale. Pubblicazioni Disordine e costruzione. Un'interpretazione
epistemologica dell'opera di Jean Piaget (con Mauro Ceruti), Milano,
Feltrinelli, Modi di pensare postdarwiniani. Saggio sul pluralismo evolutivo
(con Mauro Ceruti), Bari, Dedalo, La sfida della complessità (con Mauro
Ceruti), Milano, Feltrinelli, 1985, (nuova edizione con nuova introduzione,
Milano, Bruno Mondadori, 2007). Un nouveau commencement (con Edgar Morin e
Mauro Ceruti), Seuil, Paris, L'Europa nell'era planetaria (con Edgar Morin e
Mauro Ceruti), Milano, Sperling and Kupfer, 1991. Origini di storie (con
Ceruti), Milano, Feltrinelli, The Narrative Universe, NJ, Hampton Press; tr.
spagnola El sentido de la historia, Editorial Débate, Madrid; tr. portoghese
Origens e Historias, Instituto Piaget, Lisbona). La formazione come costruzione
di nuovi mondi, Roma, Formez-Censis, Solidarietà o barbarie. L'Europa delle
diversità contro la pulizia etnica (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano,
Raffaello Cortina, Le radici prime dell'Europa. Gli intrecci genetici,
linguistici, storici (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Bruno Mondadori,
Origini della scrittura. Genealogie di un'invenzione (a cura di, con Mauro
Ceruti), Milano, Bruno Mondadori, Educazione e globalizzazione (con Mauro
Ceruti), Milano, Raffaello Cortina, Una e molteplice. Ripensare l'Europa (con
Mauro Ceruti), Milano, Tropea, Le città di Berlino (con Laura Peters), Bologna,
Bononia University Press, Le vie della
formazione. Creatività, innovazione, complessità (con Francesco Varanini),
Milano, Guerini,. L'Europa globale. Epistemologie delle identità, Roma,
Studium,, Borderscaping: Imaginations
and Practices of Border Making (a cura di, con Chiara Brambilla, Jussi Laine,
James W. Scott), Farnham (Surrey, UK), Ashgate,. Note Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, Origini di
storie, Prefazione, Milano, Feltrinelli, Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, La
sfida della complessità, Introduzione alla nuova edizione, Milano, Bruno
Mondadori, Gianluca Bocchi, L'Europa globale. Epistemologie delle identità,
Mille anni d'Europa, fra globale e locale, Roma, Studium, gianlucabocchi. 10
aprile (archiviato dall'url originale).
CE.R.CO, su cercounibg. Filosofia Filosofo Professore Milano. Oddly, my
favourite Bocchi philosopher is Francesco Bocchi! Keywords: solidarii, Francesco
Bocchi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bocchi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Bodei –
geometria delle passioni – filosofia sarda -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Cagliari). Filosofo Italiano. Grice:
“Bodei is a good one; of course he is sardo -- my favourite of his tracts is
one on ‘condivisione’ and ‘beni communi’ – which is what my conversational
pragmatics is all about --; he has also philosophised on the tricky Grecian
concept of ‘harmony’, and the very charming Roman concept of ‘con-cordia’ – and
he has explored the diagogic form of philosophy in his historical analysis of
‘la dialettica,’ – he has explored ‘ragione,’ vis-à-vis what he calls the
‘geometria delle passioni,’ and he has also shed light on the univocity or lack
thereof of ‘virtu cardinali” – virtue is unitary, but some virtues are more
unitary than others!” Grice: “Bodei has explored ‘coraggio,’ and other
virtues.” – “In his geometry of passions, he sheds light on Plato’s convoluted
idea that in my head I have the reason of a man; in my heart I have the will of
a lion-like warrior, and in my gut I have the love of a multi-headed monster!”
-- Essential Italian philosopher. Remo
Bodei (n. Cagliari) filosofo e accademico italiano. Laureato all'Pisa,
perfezionò la sua preparazione teoretica e storico-filosofica a Tubinga e
Friburgo, frequentando le lezioni di Ernst Bloch ed Eugen Fink; a Heidelberg,
con Karl Löwith e Dieter Henrich; poi all'Bochum. Conseguì inoltre il diploma
di licenza e il diploma di perfezionamento della Scuola Normale
Superiore. Fu visiting professor presso le Cambridge, Ottawa, New York,
Toronto, Girona, Città del Messico, UCLA (Los Angeles) e tenne conferenze in
molte università europee, americane e australiane. Comitato redazionale
della rivista Laboratorio politico. Dal 1995 collaborava con Massimo
Cacciari, Massimo Donà, Giuseppe Barzaghi, Salvatore Natoli e Stefano Zamagni
nell’iniziativa La filosofia nei luoghi del silenzio, un tentativo di coniugare
filosofia e contemplazione nella forma del ritiro comunitario. Docente di
ruolo in Filosofia alla UCLA di Los Angeles, dopo aver a lungo
insegnato Storia della filosofia ed Estetica alla Scuola Normale Superiore
e all'Pisa, dove continuò a tenere, sia pur saltuariamente, qualche
corso. Era anche membro dell'Advisory Board internazionale dello
IEDIstituto Europeo di Design. Dal 13 novembre Remo Bodei fu socio corrispondente
dell'Accademia dei Lincei, per la classe di Scienze Morali, Storiche e
Filosofiche. Era marito della storica Gabriella Giglioni. I suoi
libri sono stati tradotti in molte lingue. Pensiero Si interessò a fondo
della filosofia classica tedesca e dell'Idealismo, esordendo con la
fondamentale monografia Sistema ed epoca in Hegel, dopo aver già tradotto in
italiano l'importante Hegels Leben (Vita di Hegel) di Johann Karl Friedrich
Rosenkranz. Appassionato cultore della poesia hölderliniana, all'autore
dell'Hyperion dedicò saggi di notevole interesse. Con il volume Geometria delle
passioni estese la sua meditazione anche a protagonisti della filosofia moderna
come Cartesio, Hobbes e soprattutto Spinoza. Studioso del pensiero utopistico
del Novecento, in particolare del marxismo eterodosso di Ernst Bloch e di
autori 'francofortesi' come Theodor Adorno e Walter Benjamin, intervenne nella
discussione sulla filosofia politica italiana, confrontandosi e dialogando in
particolare con Norberto Bobbio, Michelangelo Bovero, Salvatore Veca e Nicola
Badaloni. Nei suoi studi sull'estetica curò l'edizione dell'Estetica del brutto
di Johann Karl Friedrich Rosenkranz e analizzò in particolare concetti centrali
come le categorie del bello e del tragico. Costante la sua attenzione per
Sigmund Freud e gli sviluppi della psicoanalisi, per le logiche del delirio e
per fenomeni in apparenza quotidiani ma sconvolgenti come l'esperienza del déjà
vu. Filosofo di una ragione laica, sulla scia di Ernst Bloch, autore di Ateismo
nel cristianesimo, cercò di distillare anche nel teorico del compelle intrare,
Agostino d'Ippona, le possibili linee di un "ordo amoris" capace di
assicurarci quell'identità in cui, come vuole il Padre della Chiesa, saremmo
noi stessi pienamente: dies septimus, nos ipsi erimus ("il settimo giorno
saremo noi stessi"). Premio Nazionale Letterario Pisa Sezione
Saggistica. Bodei inoltre curò la traduzione e l'edizione italiana di
testi di Hegel, Karl Rosenkranz, Franz Rosenzweig, Ernst Bloch, Theodor Adorno,
Siegfried Kracauer, Michel Foucault. Molti suoi lavori hanno per oggetto
lo spessore e la storia delle domande che riguardano la ricerca della felicità
da parte del singolo, le indeterminate attese collettive di una vita migliore,
i limiti che imprigionano l'esistenza e il sapere entro vincoli politici,
domestici e ideali. Già in Scomposizioni, affrontò alcuni temi della genealogia
dell'uomo contemporaneo e propose la metafora della geometria variabile per
indagare le strutture concettuali ed espositive che, contraendosi o
espandendosi sino a noi, orientano la percezione e la formulazione di problemi.
La sua analisi dell'interazione di queste configurazioni mobili proseguì in
Geometria delle passioni (1e in Destini personali che hanno avuto rilevante
successo di pubblico. Alla divulgazione dell'amore per la filosofia
dedicò alcune conferenze e un libro (Una scintilla di fuoco). Negli
ultimi tempi stava lavorando sulla storia e sulle teorie della memoria.
Citazioni «Ciascuno di noi vive nell'immaginazione altre vite, alimentate dai
testi letterari e dai media. Per loro tramite tenta di porre rimedio alla
limitatezza della propria esistenza. (citato in Corriere della sera, )»
«Malgrado i ripetuti annunci è certo che la filosofia, al pari dell'arte, non è
affatto 'morta'. Essa rivive anzi a ogni stagione perché corrisponde a bisogni
di senso che vengono continuamentee spesso inconsapevolmenteriformulati. A tali
domande, mute o esplicite, la filosofia cerca risposte, misurando ed esplorando
la deriva, la conformazione e le faglie di quei continenti simbolici su cui
poggia il nostro comune pensare e sentire» (Remo Bodei, La filosofia nel
Novecento, Roma, Donzelli, Nel passato il progresso delle civiltà umane era
relativo, sottoposto a cicli naturali di distruzioni e di rinascite, che ne
spezzavano periodicamente il consolidamento e la crescita» (Remo Bodei,
Limite, Il Mulino) Opere Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, Il Mulino, La
civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, Il Mulino,. Hegel e
Weber. Egemonia e legittimazione, (con Franco Cassano), Bari, De Donato,
Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Napoli, Bibliopolis, Scomposizioni.
Forme dell'individuo moderno, Torino, Einaudi, Riedizione ampliata, Bologna, Il
Mulino,. Hölderlin: la filosofia y lo trágico, Madrid, Visor, Ordo amoris.
Conflitti terreni e felicità celeste, Bologna, Il Mulino, Geometria delle
passioni. Paura, speranza e felicità: filosofia e uso politico, Milano,
Feltrinelli, Le prix de la liberté, Paris, Éditions du Cerf, Le forme del
bello, Bologna, Mulino,. La filosofia nel Novecento, Roma, Donzelli, Se la
storia ha un senso, Bergamo, Moretti & Vitali, La politica e la felicità
(con Luigi Franco Pizzolato), Roma, Edizioni Lavoro, Il noi diviso. Ethos e
idee dell'Italia repubblicana, Torino, Einaudi, Le logiche del delirio.
Ragione, affetti, follia, Roma-Bari, Laterza, I senza Dio. Figure e momenti
dell'ateismo, Brescia, Morcelliana, Il dottor Freud e i nervi dell'anima.
Filosofia e società a un secolo dalla nascita della psicoanalisi, Roma,
Donzelli, Destini personali. L'età della colonizzazione delle coscienze, Milano,
Feltrinelli, Delirio e conoscenza, Remo Bodei, in Il Vaso di Pandora, Dialoghi
in psichiatria e scienze umane, Una scintilla di fuoco. Invito alla filosofia,
Bologna, Zanichelli, Piramidi di tempo. Storie e teoria del déjà vu, Bologna,
Il Mulino, 2006. Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia,
Milano, Bompiani, Il sapere della follia, Modena, Fondazione Collegio San Carlo
per FestivalFilosofia, 2008. Il dire la verità nella genealogia del soggetto
occidentale in A.A. V.V., Foucault oggi, Milano, Feltrinelli, 2008. La vita
delle cose, Roma-Bari, Laterza, Ira. La passione furente, Bologna, Il Mulino,.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra (con Sergio Givone), Torino,
Lindau,. Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri, Milano,
Feltrinelli,. Limite, Bologna, Il Mulino,. Le virtù Cardinali (con Giulio
Giorello, Michela Marzano e Salvatore Veca), Roma-Bari, Laterza,. Dominio e
sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale, Bologna,
Il Mulino,. Onorificenze Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica
Italiana.nastrino per uniforme ordinaria Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito
della Repubblica Italiana. Di iniziativa del Presidente della Repubblica.
Cavaliere dell'Ordine delle Palme Accademichenastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere dell'Ordine delle Palme Accademiche immagine del nastrino non ancora
presente Cittadino onorario di Siracusa, Modena, Carrara e Roccella Jonica.
Note È morto il filosofo Remo Bodei, su
fanpage, 7 novembre. Repubblica
18/08/ Albo d'oro, su
premionazionaleletterariopisa. onweb. 7 novembre. «Bodei Prof. Remo: Grande Ufficiale Ordine al
Merito della Repubblica Italiana», sito della presidenza della repubblica.
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Remo Bodei, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Opere di Remo Bodei,.
Pubblicazioni di Remo Bodei, su Persée, Ministère de l'Enseignement
supérieur, de la Recherche et de l'Innovation.
Registrazioni di Remo Bodei, su RadioRadicale, Radio Radicale. Remo Bodei: Spinoza, un filosofo maledetto,
sul RAI Filosofia, su filosofia.rai.
Scheda del professor Bodei nel sito del Dipartimento di filosofia dell'Pisa, su
fls.unipi. V D M Vincitori del Premio Dessì Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi
italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1938 3 agosto 7 novembre Cagliari PisaAccademici
dei LinceiAccademici italiani negli Stati Uniti d'AmericaProfessori della
Scuola Normale SuperioreProfessori dell'Università della California, Los
AngelesProfessori dell'PisaStudenti dell'Pisa. Bodei. Keywords: geometria delle
passioni, filosofia sarda, I concordati, Concordia, armonia, condivisio. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Bodei," per
Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia.
Grice e Boezio: -- classico -- Grice: “Boezio is possibly my favourite Italian
philosopher, only that he wasn’t really Italian – he found Vittorino’s Latin translation
from the Grecian urn of Aristotle ‘rough,’ and provided a ‘newish’ one – but
actually Vittorino had better intuitions about the lingo than Boezio did – and
that is why Strawson preferred to tutor with the Vittorino translation – we
covered all that Boezio wrote – and we never used the Patrologia edition, since
we are protestant!” -- Possibly the most important Italian philosopher of all
time. Grice loved Boethius“He made
Aristotle intelligible at Clifton!” -- Anicius Manlius Severinus, Roman philosopher
and Aristotelian translator and commentator. He was born into a wealthy
patrician family in Rome and had a distinguished political career under the
Ostrogothic king Theodoric before being arrested and executed on charges of
treason. His logic and philosophical theology contain important contributions
to the philosophy of the late classical and early medieval periods, and his
translations of and commentaries on Aristotle profoundly influenced the history
of philosophy, particularly in the medieval Latin West. His most famous work,
The Consolation of Philosophy, composed during his imprisonment, is a moving
reflection on the nature of human happiness and the problem of evil and
contains classic discussions of providence, fate, chance, and the apparent
incompatibility of divine foreknowledge and human free choice. He was known
during his own lifetime, however, as a brilliant scholar whose knowledge of the
Grecian language and ancient Grecian philosophy set him apart from his Latin
contemporaries. He conceived his scholarly career as devoted to preserving and
making accessible to the Latin West the great philosophical achievement of
ancient Greece. To this end he announced an ambitious plan to translate into
Latin and write commenbodily continuity Boethius, Anicius Manlius Severinus
taries on all of Plato and Aristotle, but it seems that he achieved this goal
only for Aristotle’s Organon. His extant translations include Porphyry’s
Isagoge an introduction to Aristotle’s Categories and Aristotle’s Categories,
On Interpretation, Prior Analytics, Topics, and Sophistical Refutations. He
wrote two commentaries on the Isagoge and On Interpretation and one on the
Categories, and we have what appear to be his notes for a commentary on the
Prior Analytics. His translation of the Posterior Analytics and his commentary
on the Topics are lost. He also commented on Cicero’s Topica and wrote his own
treatises on logic, including De syllogismis hypotheticis, De syllogismis
categoricis, Introductio in categoricos syllogismos, De divisione, and De
topicis differentiis, in which he elaborates and supplements Aristotelian
logic. Boethius shared the common Neoplatonist view that the Platonist and
Aristotelian systems could be harmonized by following Aristotle in logic and
natural philosophy and Plato in metaphysics and theology. This plan for
harmonization rests on a distinction between two kinds of forms: 1 forms that
are conjoined with matter to constitute bodies
these, which he calls “images” imagines, correspond to the forms in
Aristotle’s hylomorphic account of corporeal substances; and 2 forms that are
pure and entirely separate from matter, corresponding to Plato’s ontologically
separate Forms. He calls these “true forms” and “the forms themselves.” He
holds that the former, “enmattered” forms depend for their being on the latter,
pure forms. Boethius takes these three sorts of entities bodies, enmattered forms, and separate
forms to be the respective objects of
three different cognitive activities, which constitute the three branches of
speculative philosophy. Natural philosophy is concerned with enmattered forms
as enmattered, mathematics with enmattered forms considered apart from their
matter though they cannot be separated from matter in actuality, and theology
with the pure and separate forms. He thinks that the mental abstraction
characteristic of mathematics is important for understanding the Peripatetic
account of universals: the enmattered, particular forms found in sensible
things can be considered as universal when they are considered apart from the
matter in which they inhere though they cannot actually exist apart from
matter. But he stops short of endorsing this moderately realist Aristotelian
account of universals. His commitment to an ontology that includes not just
Aristotelian natural forms but also Platonist Forms existing apart from matter
implies a strong realist view of universals. With the exception of De fide
catholica, which is a straightforward credal statement, Boethius’s theological
treatises De Trinitate, Utrum Pater et Filius, Quomodo substantiae, and Contra
Euthychen et Nestorium show his commitment to using logic and metaphysics,
particularly the Aristotelian doctrines of the categories and predicables, to
clarify and resolve issues in Christian theology. De Trinitate, e.g., includes
a historically influential discussion of the Aristotelian categories and the
applicability of various kinds of predicates to God. Running through these
treatises is his view that predicates in the category of relation are unique by
virtue of not always requiring for their applicability an ontological ground in
the subjects to which they apply, a doctrine that gave rise to the common
medieval distinction between so-called real and non-real relations. Regardless
of the intrinsic significance of Boethius’s philosophical ideas, he stands as a
monumental figure in the history of medieval philosophy rivaled in importance
only by Aristotle and Augustine. Until the recovery of the works of Aristotle
in the mid-twelfth century, medieval philosophers depended almost entirely on
Boethius’s translations and commentaries for their knowledge of pagan ancient
philosophy, and his treatises on logic continued to be influential throughout
the Middle Ages. The preoccupation of early medieval philosophers with logic
and with the problem of universals in particular is due largely to their having
been tutored by Boethius and Boethius’s Aristotle. The theological treatises
also received wide attention in the Middle Ages, giving rise to a commentary
tradition extending from the ninth century through the Renaissance and shaping
discussion of central theological doctrines such as the Trinity and
Incarnation. «Nulla è più
fugace della forma esteriore, che appassisce e muta come i fiori di campo
all'apparire dell'autunno.» (Boezio, citato da Umberto Eco ne Il nome
della rosa) Severino Boezio Boetius.png Magister officiorum del Regno Ostrogoto
Durata mandatosettembre 522 – agosto MonarcaTeodorico il Grande Console del
Regno Ostrogoto Durata mandato510 Monarca Teodorico il Grande
PredecessoreFlavio Importuno SuccessoreMagno Felice Flavio Secondino Senatore
romano Durata mandato510 – settembre 524 Dati generali Professionefilosofo San
Severino Boezio Fl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di Federico da
MontefeltroFl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di Federico da
Montefeltro Padre della Chiesa Martire NascitaRoma,
MortePavia, Venerato da Tutte le Chiese che ammettono il culto dei santi
Ricorrenza23 ottobre Attributipalma Manuale Anicio Manlio Torquato Severino
Boezio (in latino: Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius; Roma, – Pavia,
è stato un filosofo e senatore romano. Inter latinos aristotelis
interpretes et aetate primi, et doctrina praecipui dialectica, 1547. Da BEIC,
biblioteca digitale Noto come Severino Boezio, o anche solo come Boezio, con le
sue opere ha avuto una profonda influenza sulla filosofia cristiana del
Medioevo, tanto che alcuni lo collocarono tra i fondatori della Scolastica[1].
Fu principale collaboratore del re Teodorico, ricoprendo la carica di magister
officiorum. Boezio, nel clima di rilancio della cultura che la pace rese
possibile durante il regno del re goto, concepì l'ambizioso progetto di
tradurre in latino le opere di Platone e di Aristotele. Teodorico, nei suoi
ultimi anni, divenne sospettoso di tradimenti e congiure, e Severino venne
imprigionato a Pavia e giustiziato. Papa Leone XIII ne approvò il culto
per la Chiesa in Pavia, che ne custodisce i resti nella basilica di San Pietro
in Ciel d'Oro e lo festeggia il 23 ottobre[2].Discendeva da una nobile
famiglia, i cui membri avevano avuto carriere prestigiose. Suo padre fu
probabilmente Manlio Boezio, prefetto del pretorio d'Italia, due volte prefetto
di Roma e console nel 487; probabilmente suo nonno fu il Boezio prefetto del
pretorio sotto Valentiniano III, ed è verosimile che fosse imparentato col
Severino console nel 461 e col Severino Iunior console nel Boezio era anche
imparentato con la nobile e antica gens Anicia (gens a cui apparteneva san Gregorio
Magno e san Benedetto da Norcia), oltre che con lo scrittore Magno Felice
Ennodio.Alla morte del padre fu affidato ad una nobile famiglia romana,
probabilmente quella di Quinto Aurelio Memmio Simmaco, la cui figlia Rusticiana
Boezio sposerà intorno al 495; la coppia ebbe due figli, Boezio e Simmaco, che
proseguirono la tradizione di famiglia di ricoprire ruoli prestigiosi
diventando entrambi consoli nel 522. L'evento fondante della vita
politica di Boezio fu la vittoria (493) del re degli Ostrogoti Teodorico il
Grande su Odoacre, re degli Eruli e sovrano d'Italia; fu l'inizio del regno
degli Ostrogoti sull'Italia (con Ravenna come capitale e Pavia e Verona come
sedi reali) e della difficile convivenza tra questi e la popolazione romana.
Boezio studiò alla scuola di Atene, retta dallo scolarca Isidoro di
Alessandria, dove si insegnavano soprattutto Aristotele e Platone insieme con
le quattro scienze fondamentali per la comprensione della filosofia platonica,
l'aritmetica, la geometria, l'astronomia e la musica; qui conobbe forse il
giovane e futuro grande commentatore di Aristotele, Simplicio. S'iniziava con
lo studio della logica aristotelica, preceduta dall'introduzione, l'Isagoge, di
Porfirio; è il piano che Boezio seguirà nel compito che un giorno vorrà
assumersi di tradurre in latino, commentare e accordare i due pensatori
greci. Al periodo intorno al 502 si fa risalire l'inizio della sua
attività letteraria e filosofica: scrisse i trattati del quadrivio, le quattro
scienze fondamentali del tempo, il De institutione arithmetica, il De
institutione musica e i perduti De institutione geometrica e De institutione
astronomica. Qualche anno dopo tradusse dal greco in latino e commentò
l'Isagoge di Porfirio, un'introduzione alle Categorie di Aristotele, che avrà
un'enorme diffusione nei secoli a venire. La sua erudizione era ben nota
e apprezzata: nel 507 Teodorico lo interpellò riguardo alla richiesta ricevuta
dal re burgundo Gundobado per un orologio ad acqua, e menzionò la sua
conoscenza del greco e la sua opera di traduzione dal greco al latino;[4]
quello stesso anno Teodorico consultò Boezio riguardo a un suonatore di lira,
richiestogli dal sovrano franco Clodoveo I, in quanto era al corrente della
conoscenza della teoria musicale da parte dell'erudito romano. La fama così
ottenuta gli procurò il rango di patricius
e la nomina al consolato sine collega da parte della corte imperiale di
Costantinopoli, carica biennale che gli dà diritto a un seggio permanente nel
Senato romano. Da questi anni fino al 520 tradusse e commentò le
Categorie e il De interpretatione di Aristotele, scrisse il trattato teologico
Contra Eutychen et Nestorium, il perduto commento ai Primi Analitici di
Aristotele, un De syllogismis categoricis, un De divisione, gli Analytica posteriora,
un De hypotheticis syllogismis, la traduzione, perduta, dei Topica di
Aristotele e un commento ai Topica di Cicerone. Partecipò ai dibattiti
teologici del tempo: compose il De Trinitate, dedicato al nonno Simmaco,
l'Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter
praedicentur, il Quomodo substantiae in eo quod sint bonae sint, cum non sint
substantialia sint. L'interesse di Boezio e di molta parte del patriziato
romano per i problemi teologici che avevano il loro centro soprattutto in
Oriente, con i dibattiti sull'arianesimo, misero in allarme Teodorico, che
sospettava un'intelligenza politica della classe senatoria romana con l'Impero,
la cui ostilità verso i Goti ariani era sempre stata appena malcelata.
Appena terminati i De sophisticis elenchis, perduti, e i De differentiis
topicis, Boezio fu chiamato alla corte di Teodorico, per discutere della non
facile convivenza fra gli elementi gotici e italici della popolazione. Nel 522
i suoi due figli ebbero l'onore del consolato; in tale occasione Boezio
pronunciò un panegirico in onore di Teodorico di fronte al Senato romano.[6]
Nel settembre di quello stesso anno fu nominato magister officiorum, carica che
tenne fino all'agosto successivo, e Boezio stesso elenca tra gli atti che compì
in tale carica, come l'aver impedito ad alcuni militari ostrogoti di vessare i
deboli, l'aver osteggiato la pesante tassazione che gravava sulla Campania in
periodo di carestia, l'aver salvato le proprietà di Paolino, l'aver difeso da
un processo ingiusto l'ex-console Albino;[7] proprio quest'ultima azione causò
la caduta in disgrazia di Boezio, e la composizione della sua opera più
famosa. Era infatti accaduto che a Pavia il referendarius Cipriano aveva
sequestrato alcune lettere dirette alla corte di Bisanzio, in base alle quali
Cipriano accusò il nobile romano Albino di complottare ai danni di Teodorico.
Boezio difese Albino, affermando che le accuse di Cipriano erano false, e che
se Albino era colpevole, allora lo erano anche Boezio stesso e tutto il
Senato.[8] Gli furono avanzate delle nuove accuse fondate su sue lettere, forse
falsificate, nelle quali Boezio avrebbe sostenuto la necessità di «restaurare
la libertà di Roma»; fu allora sostituito nella sua carica da Cassiodoro e, nel
settembre 524, incarcerato a Pavia con l'accusa di praticare arti magiche; qui
ebbe inizio la composizione della sua opera più nota, il De consolatione
philosophiae. La tomba di Severino Boezio nella Basilica di San
Pietro in Ciel d'Oro a Pavia. Boezio fu giudicato a Roma da un collegio di
cinque senatori, estratti a sorte, presieduto dal praefectus urbi Eusebio.
Questi, nell'estate del 525, notificò la sentenza di condanna a morte di
Boezio, che fu ratificata da Teodorico ed eseguita presso Pavia, nell'Ager
Calventianus, una località che non si è potuta identificare con certezza.
Secondo alcuni studiosi, l'Ager Calventianus sarebbe da identificare con la
scomparsa località di Calvenza, presso Villaregio dove, nel XIX secolo, venne
scoperta una grande epigrafe del VI secolo, ora conservata nei Musei Civici di
Pavia, che fu forse la lastra tombale di Boezio[9]. Lo storico bizantino
Procopio racconta che, poco dopo l'esecuzione di Boezio e Simmaco, a Teodorico
fu servito un pesce di sproporzionate dimensioni nella cui testa gli parve di
vedere il teschio del secondo che lo fissava minaccioso. Sconvolto da ciò,
Teodorico si ammalò e morì poco dopo in preda ad allucinazioni e rimorsi.
Un'altra leggenda post mortem di Boezio narra che un cavallo nero si presentò
da Teodorico, che volle a forza montarlo. Il cavallo, insensibile alle redini,
iniziò a correre con il cavaliere incollato alla sella, finché arrivò al
Vesuvio, nel cratere del quale rovesciò Teodorico. Severino Boezio ebbe
due mogli. La prima fu la poetessa siciliana Elpide, morta nel 504. La seconda
fu Rusticiana.[10] Il pensiero di Boezio Le discipline filosofiche
Boezio e l'Aritmetica in un manoscritto tedesco del XV secolo Boezio
insegna agli studenti, miniatura, 1385 Consapevole della crisi della cultura
latina del suo tempo, Boezio avvertì la necessità di tramandare e conservare le
conoscenze elaborate nel mondo greco. Data alla filosofia la definizione di
amore della sapienza, da lui intesa come causa della realtà e perciò
sufficiente a sé stessa, la filosofia, come amore di quella, è anche amore e
ricerca di Dio, che è la sapienza assoluta. La filosofia è conoscenza di tre
tipi di esseri. Gli intellettibili - termine tratto da Mario Vittorino - sono
gli esseri immateriali, concepibili solo dall'intelletto, senza l'ausilio dei
sensi, come Dio, gli angeli, le anime; il ramo della filosofia che di questi si
occupa è propriamente la teologia. Gli intelligibili sono invece gli
esseri presenti nelle realtà materiali, le quali sono percepite dai sensi ma
quelli sono concepibili dall'intelletto: gli intelligibili sono dunque gli
intellettibili in forma materiale. La natura è infine oggetto della fisica,
suddivisa in sette discipline: quelle del quadrivium - aritmetica, geometria,
musica e astronomia - e del trivium - grammatica, logica e retorica. Le scienze
del quadrivio sono per Boezio i quattro gradi che portano alla sapienza: il
quadrivio «deve essere percorso da coloro la cui mente superiore può essere
sollevata dalla sensazione naturale agli oggetti più sicuri dell'intelligenza».
La prima delle discipline del quadrivio, «il principio e la madre» delle altre
è, per Boezio, l'aritmetica; il De institutione arithmetica, scritta intorno al
505 e dedicata al suocero Simmaco, è ripresa dall'Introduzione all'Aritmetica di
Nicomaco di Gerasa. Nel suo De institutione musica, la cui fonte sono gli
Elementi armonici di Tolomeo e un'opera perduta di Nicomaco, distingue tre
generi di musica: una musica cosmica, mundana, che non è percepibile dall'uomo
ma deve derivare dal movimento degli astri, dal momento che l'universo, secondo
Platone, è strutturato sul modello degli accordi musicali, la cui armonia è
fondata sull'equilibrio dei quattro elementi presenti in natura - acqua, aria,
terra e fuoco; una musica humana, espressione della mescolanza, nell'uomo,
dell'anima e del corpo e derivante dal rapporto fra l'elemento fisico e
l'elemento intellettuale e pertanto percepibile con un'attività di
introspezione in noi stessi; la musica ha una profonda influenza sulla vita
umana: è l'armonia dell'uomo con sé stesso e di sé con il mondo. Infine, esiste
naturalmente la musica pratica, strumentale, musica instrumentis constituta,
ottenuta dalle vibrazioni degli strumenti e dalla voce. Le altre due opere di
geometria e di astronomia, tratte dagli Elementi di Euclide e dall'Almagesto di
Tolomeo, sono andate perdute. La logica L'acquisizione delle discipline
del trivium - grammatica, retorica e logica - è utile per esprimere al meglio
la conoscenza che già si possiede. La logica di Boezio è in sostanza un
commento della logica di Aristotele, dal momento che egli segue l'Isagoge, il
commento alla logica aristotelica del neoplatonico Porfirio, che Boezio conobbe
dapprima nella traduzione latina di Vittorino e poi direttamente dal testo
greco di Porfirio, oltre a tradurre le Categorie e il De interpretatione di
Aristotele. Le categorie, secondo Aristotele, sono i diversi significati che i
termini (όροι) usati in una discussione possono assumere; un medesimo vocabolo
- per esempio uomo - può significare un uomo reale, l'uomo in generale, un uomo
rappresentato in una scultura; per evitare confusioni, al termine
"uomo", che è una categoria sostanza, aggiungendo altre nove
categorie, ossia colore, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, situazione,
stato, azione e passione, un discorso, che ha per soggetto la sostanza
"uomo", sarà chiaramente individuato. Al soggetto sostanza si
possono unire dei predicati, distinti da Aristotele in cinque modi diversi: il
genere, la specie, la differenza, la proprietà e l'accidente. Il genere è il
predicato più generale di un soggetto: al soggetto "Socrate"
appartiene allora il genere "animale" e, caratterizzando più in
particolare con l'indicare la specie come sottoclasse del genere, si potrà dire
che Socrate è un animale di specie "uomo". Le sostanze
"prime", quelle che indicano le cose, gli oggetti sensibili, esistono
di per sé, secondo Aristotele, mentre il genere e la specie sono indicate da
Aristotele come sostanze "seconde", e non è chiaro se esse esistano
di per sé. A questo proposito «non dirò», scrive Porfirio, «riguardo ai generi
e alle specie, se siano sostanze esistenti per sé, o se siano semplici
pensieri; se siano realtà corporee o incorporee; se siano separate dai sensibili
ovvero poste in essi. Poiché questa è impresa molto ardua, che ha bisogno di
più vaste indagini». Boezio in un manoscritto medievale. Allo
stesso modo Boezio si pone il problema se i generi e le specie siano realtà
esistenti di per sé, come esistono realmente i singoli individui, e se, in
questo caso, siano realtà spirituali o materiali e, se materiali, esistano in
unione con le realtà sensibili o se siano separate; oppure, non esistendo di
per sé, se siano semplici categorie dello spirito umano che le abbia concepite
per necessità di linguaggio. La risposta di Boezio è che «Platone ritiene
che i generi, le specie e gli altri universali non siano soltanto conosciuti
separatamente dai corpi, ma che esistano e sussistano indipendentemente da
quelli; invece Aristotele pensa che gli incorporei e gli universali sono sì
oggetto di conoscenza, ma che non sussistono che nelle cose sensibili. Quale di
queste opinioni sia la vera, io non ho avuto l'intenzione di decidere, perché è
compito di più alta filosofia. Noi abbiamo deciso di seguire l'opinione di
Aristotele, non perché l'approviamo totalmente ma perché questo libro l'Isagoge
di Porfirio è scritto seguendo le Categorie di Aristotele». Tuttavia
Boezio dà una risposta al problema degli universali, prendendola da Alessandro
d'Afrodisia: il pensiero umano è in grado di separare dagli oggetti sensibili
nozioni astratte, come quelle di "animale" e di "uomo";
anche se il genere e la specie non potessero esistere separati dal corpo, non
per questo ci è impedito di pensarli separatamente da esso. I cinque
predicabili o universali, se non sono delle sostanze, come vuole Aristotele,
sono allora dei concetti (intellectus): «uno stesso soggetto è universale
quando lo si pensa ed è singolare quando lo si coglie con i sensi nelle cose»;
platonicamente, egli riafferma così l'esistenza di oggetti propri della mente
che non possono essere conosciuti sensibilmente. Boezio non riprende la teoria
aristotelica dell'intelletto agente, che spiegherebbe come sia possibile al
pensiero separare ciò che è unito: nel suo commento all'Isagoge questa
operazione di astrazione resta inspiegata ma verrà ripresa, in diversa forma,
nel De consolatione philosophiae. Sono quattro gli scritti boeziani che
trattano di questioni teologiche: il Contra Eutychen et Nestorium, o De persona
et duabus naturis in Christo, dedicato a un diacono Giovanni, che potrebbe
essere il futuro papa Giovanni I, fu composto nel 512 come contributo al
controverso dibattito sulla persona e sulla natura, umana e divina, di Cristo.
Eutiche sosteneva l'esistenza in Cristo di una natura divina in una persona
divina, mentre Nestorio, sostenendo l'identità di persona e natura, sosteneva
che Cristo avesse avuto due nature, una divina e una umana e perciò anche due
persone, una divina e una umana. Boezio si preoccupa innanzi tutto di chiarire
i significati delle parole, affinché non si creino contrasti dovuti a semplici
fraintendimenti. Distingue tre diversi significati del termine «natura»,
natura come «predicato di tutte le cose esistenti», natura come «predicato di
tutte le sostanze corporee e incorporee» e natura come «differenza specifica
che dà forma a qualsiasi realtà»; definisce poi con "persona" una
«sostanza individua di natura razionale» riferibile agli uomini, agli angeli e
a Dio. Scrive infatti (Contra Eutychen, 2, 3): «la persona non si può mai
applicare agli universali, ma soltanto ai particolari e agli individui: non
esiste infatti la persona dell'uomo in genere o dell'uomo in quanto animale.
Pertanto se la persona appartiene soltanto alle sostanze e soltanto a quelle
razionali, se ogni natura è una sostanza, e se la persona sussiste non negli
universali ma soltanto negli individui, essa si può così definire: "la
sostanza individua di natura razionale"». Ma Boezio non pretende di
aver dato una parola definitiva sulla controversia: occorre che sia «il
linguaggio ecclesiastico a scegliere il nome più adatto»; per quello che lo
riguarda, egli dichiara di non essere «tanto vanitoso da anteporre la mia
opinione a un giudizio più sicuro. Non è in noi la sorgente del bene e nelle
nostre opinioni non vi è nulla che dobbiamo preferire a ogni costo; da Colui
che solo è buono derivano tutte le cose veramente buone». Intorno al 518 fu
composto il De hebdomadibus, o Ad eundem quomodo substantiae in eo quod sint,
bonae sint, cum non sint substantialia sint, ossia In che modo le sostanze
siano buone in quel che sono, pur non essendo beni sostanziali, ove Boezio
distingue, nell'ente, l'essere e il «ciò che è» l'id quod est, ciòe il soggetto
individuale che possiede l'essere: per Boezio «l'essere non è ancora, ma ciò
che ha ricevuto la forma dell'essere, quello è e sussiste». Stabilito che
«tutto ciò che è tende al bene», si pone il problema se possano definirsi buoni
gli enti finiti, la cui essenza non è la bontà; distingue allora i beni che
sono tali in sé dai «beni secondi», ossia quelli che lo sono in quanto
partecipano della bontà, per giungere alla conclusione che anche il «bene
secondo» è buono, essendo «scaturito da quello il cui essere stesso è buono»,
ossia dal primo Essere che è anche e necessariamente il primo Bene. Nel De
sancta Trinitate o Quomodo trinitas unus Deus, uno scritto successivo al 520,
si pone il problema se a Dio, come a tutte le persone della Trinità, si
applichino le categorie della logica, e se dunque siano una sostanza e se sia
possibile che abbiano degli attributi; lo stesso tema, in forma sintetica, è
espresso nell'Ad Johannem diaconum utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de
divinitate substantialiter praedicentur. Il De consolatione
philosophiae La consolazione della filosofia, miniatura del 1485.
Boezio in prigione, miniatura, 1385. Scritta durante la carcerazione, i cinque
libri del De consolatione si presentano come un dialogo nel quale la Filosofia,
personificata da «una donna di aspetto oltremodo venerabile nel volto, con gli
occhi sfavillanti e acuti più della normale capacità umana; di colorito vivo e
d'inesausto vigore, benché tanto avanti con gli anni da non credere che potesse
appartenere alla nostra epoca», dimostra che l'afflizione patita da Boezio per
la sventura che lo ha colpito non ha in realtà bisogno di alcuna consolazione,
rientrando nell'ordine naturale delle cose, governate dalla Provvidenza
divina. Si può dividere l'opera in due parti, una costituita dai primi
due libri e l'altra dagli ultimi tre. È una distinzione che corrisponde a
quanto raccomandato dallo stoico Crisippo nella cura delle afflizioni: quando
l'intensità della passione è al culmine, prima di ricorrere ai rimedi più
efficaci, occorre attendere che essa si attenui. Così infatti si esprime la
Filosofia (I, VI, 21): «siccome non è ancora il momento per rimedi più
energici, e la natura della mente è tale che, respingendo le vere opinioni,
subito si riempie di errori, dai quali nasce la caligine delle perturbazioni
che confonde l'intelletto, io cercherò di attenuare a poco a poco questa
oscurità in modo che, rimosse le tenebre delle passioni ingannevoli, tu possa
conoscere lo splendore della luce vera». Una medicina leggera, «qualcosa
di dolce e di piacevole che, penetrato al tuo interno, apra la strada a rimedi
più efficaci», è la comprensione della natura della fortuna, esposta nel II
libro utilizzando temi della filosofia stoica ed epicurea. La fortuna (II, I,
10 e segg.) «era sempre la stessa, quando ti lusingava e t'illudeva con le
attrattive di una felicità menzognera se l'apprezzi, adeguati ai suoi
comportamenti, senza lamentarti. Se aborrisci la sua perfidia, disprezzala
[...] ti ha lasciato colei dalla quale nessuno può essere sicuro di non essere
abbandonato ti sforzi di trattenere la ruota della fortuna, che gira
vorticosamente? Ma, stoltissimo fra tutti i mortali, se si fermasse, non
sarebbe più lei». Del resto, quello che la fortuna ci dà, saremo noi stessi a
doverlo abbandonare in quell'ultimo giorno della nostra vita che (II, III, 12)
«è pur sempre la morte della fortuna, anche della fortuna che dura. Che
importanza credi allora che abbia, se sia tu a lasciarla morendo, o se sia lei
a lasciarti, fuggendo?». Se dunque ci rende infelice tanto il suo
abbandono durante la nostra vita, quanto il fatto che, morendo, dobbiamo
abbandonare i doni che quella ci ha elargito in vita, allora la nostra felicità
non può consistere in quei doni effimeri, in cose mortali, e neppure nella
gloria, nel potere e nella fama, ma deve essere dentro noi stessi. Si tratta
allora di conoscere «l'aspetto della felicità vera», dal momento che ciascuno
(III, II, 1) «per vie diverse, cerca pur sempre di giungere a un unico fine,
che è quello della felicità. Tale fine consiste nel bene: ognuno, una volta che
l'abbia ottenuto, non può più desiderare altro». Dimostrato che (III, IX, 2)
«con le ricchezze non si ottiene l'autosufficienza, non la potenza con i regni,
non con le cariche il rispetto, non con la gloria la fama, né la gioia con i
piaceri», tutti beni imperfetti, occorre determinare la forma del bene
perfetto, «questa perfezione della felicità». Ora, il bene perfetto, il
«Sommo Bene», è Dio, dal momento che, secondo Boezio, sviluppando una
concezione neoplatonica (III, X, 8) «la ragione dimostra che Dio è buono in
modo da poterci convincere che in lui vi è anche il bene perfetto. Se infatti
non fosse tale, non potrebbe essere l'origine di ogni cosa; vi sarebbe altro,
migliore di lui, in possesso del bene perfetto, a lui precedente e più
prezioso; è chiaro che le cose perfette precedono quelle imperfette. Pertanto,
per non procedere all'infinito col ragionamento, dobbiamo ammettere che il
sommo Dio sia del tutto pieno del bene sommo e perfetto; ma s'era stabilito che
il bene perfetto sia la vera felicità: dunque la vera felicità è posta nel
sommo Dio». Nel IV libro (I, 3) Boezio pone il problema di come «pur
esistendo il buon reggitore delle cose, i mali esistano comunque ed siano
impuniti e non solo la virtù non venga premiata ma sia persino calpestata dai
malvagi e punita al posto degli scellerati». La risposta, secondo lo schema
platonico, della Filosofia, è che tutti, buoni e malvagi, tendono al bene; i
buoni lo raggiungono, i malvagi non riescono a raggiungerlo per loro propria
incapacità, mancanza di volonta, debolezza. Perché infatti i malvagi (IV, II,
31 - 32) «abbandonata la virtù, ricercano i vizi? Per ignoranza di ciò che è
bene? Ma cosa c'è di più debole della cecità dell'ignoranza? Oppure sanno cosa
cercare ma il piacere li allontana dalle retta via? Anche in questo caso si
dimostrano deboli, a causa dell'intemperanza che impedisce loro di opporsi al
male? oppure abbandonano il bene consapevolmente e si volgono al vizio? Ma
anche così cessano di essere potenti e cessano persino di essere del tutto».
Infatti il bene è l'essere e chi non raggiunge il bene è privo necessariamente
dell'essere: dell'uomo ha solo la parvenza: «tu potresti chiamare cadavere un
uomo morto, ma non semplicemente uomo; così, i viziosi sono malvagi ma nego che
essi siano in senso assoluto». Nel quinto e ultimo libro Boezio tratta il
problema della prescienza e provvidenza divina e del libero arbitrio. Definito
il caso (I, I, 18) «un evento inaspettato prodotto da cause che convergono in cose
fatte per uno scopo determinato», per Boezio il concorrere e confluire di
quelle cause è «il prodotto di quell'ordine che, procedendo per inevitabile
connessione, discende dalla provvidenza disponendo le cose in luoghi e in tempi
determinati». Il caso, dunque, non esiste in sé stesso, ma è l'evento di cui
gli uomini non riescono a stabilire le cause che lo hanno determinato. È
compatibile allora il libero arbitrio dell'uomo con la presenza della
prescienza divina e a cosa dovrebbe servire pregare che qualcosa avvenga o
meno, se già tutto è stabilito? La risposta della Filosofia è che la previdenza
di Dio non dà necessità agli eventi umani: essi restano la conseguenza della
libera volontà dell'uomo anche se sono previsti da Dio. Ma questo stesso problema,
così posto dall'uomo, non è nemmeno corretto. Dio è infatti eterno, nel senso
che non è soggetto al tempo; per lui non esiste il passato e il futuro, ma un
eterno presente; il mondo, invece, anche se non avesse avuto nascita, sarebbe
perpetuo, ossia soggetto al mutamento e dunque soggetto al tempo; nel mondo
esiste pertanto un passato e un futuro. La conoscenza che Dio ha delle cose non
è a rigore un "vedere prima", una pre-videnza, ma una provvidenza, un
vedere nell'eterno presente tanto gli eventi necessari, come sono quelli
regolati dalle leggi fisiche, che gli eventi determinati dalla libera volontà
dell'uomo. La fortuna della Consolazione fu notevole per tutto il
Medioevo, così da fare del suo autore una delle fonti più autorevoli del
pensiero cristiano, per quanto l'opera si fondi sulle tradizioni stoiche e
soprattutto neoplatoniche; essa tuttavia si manifesta come ultima autorevole
affermazione della libertà del pensiero in complementarità con la fede espressa
in sue altre opere, come dimostra il fatto che Boezio non abbia mai citato
Cristo in un'opera di tale natura e composta a un passo dalla morte - tanto che
già nel X secolo il monaco sassone Bovo di Corvey dirà, a questo riguardo, che
nella Consolazione sembra che la Filosofia abbia scacciato Cristo. Allievo
della scuola neoplatonica di Atene, Boezio trovò negli insegnamenti della
classica tradizione neoplatonica esempi di direttiva morale pienamente
sufficienti rispetto a quanto poteva trovare nel Cristianesimo, del quale, non
a caso, come mostrano i suoi Opuscoli teologici, si occupò soltanto per
problemi relativi unicamente alla dogmatica e mai alla morale e al destino
dell'uomo. Lo stile La De Consolatione philosophiae è un esempio di
prosimetro, una composizione in cui la poesia si alterna alla prosa, secondo un
modello che viene fatto risalire al filosofo cinico Menippo di Gadara nel III
secolo a.C. e introdotto a Roma nel I secolo a.C. da Varrone; molto
probabilmente Boezio tenne presente il De nuptiis Mercurii et Philologiae di
Marziano Capella, opera di struttura analoga, composta circa un secolo prima.
Boezio, nelle opere precedenti, frutto di elaborazioni teologiche, di commenti
e di traduzioni, non si era preoccupato di dare dignità letteraria ai suoi
scritti; nella Consolazione ha voluto affermare la propria appartenenza alla
tradizione latina, con una trasparente imitazione del dialogo platonico
attraverso i modelli di Cicerone e di Seneca, così da porsi, nel versante sia
letterario che filosofico, come l'ultimo classico romano. Le opere
discusse A Boezio furono attribuite altre opere, come la De fide catholica o
Brevis fidei christianae complexio, che sembra appartenere a quel suo allievo
Giovanni nel quale si è voluto riconoscere Papa Giovanni I. Anche se ancora
oggi vi è discussione sull'attribuzione a Boezio, l'impostazione catechistica
dell'opera, che tratta delle verità essenziali del Cristianesimo, quali la
Trinità, il peccato originale, l'Incarnazione, la Redenzione e la Creazione,
porterebbero a escludere una paternità boeziana. Attribuita a Mario Vittorino
la De definitione e a Domenico Gundisalvo la De unitate et uno, resta tuttora
non definito l'autore della De disciplina scholarium, anch'essa attribuita a
suo tempo a Boezio. Culto La figura di Boezio fu molto stimata nel Medioevo.
Le sue vicissitudini avevano molte analogie con la vita di San Paolo,
ingiustamente imprigionato e martire. Il poeta Dante Alighieri nomina
Boezio nella Divina Commedia e nel Convivio, dove afferma (II, 12) di averne
iniziato gli studi quando, dopo la morte di Beatrice, si era dedicato alla
filosofia. Nel Paradiso di Dante, Boezio è uno degli spiriti sapienti del IV
Cielo del Sole (Par., X, 124-126), che formano la prima corona di dodici
spiriti in cui è presente anche san Tommaso d'Aquino. Dal Martirologio
Romano al 23 ottobre: "A Pavia, commemorazione di san Severino Boezio,
martire, che, illustre per la sua cultura e i suoi scritti, mentre era
rinchiuso in carcere scrisse un trattato sulla consolazione della filosofia e
servì con integrità Dio fino alla morte inflittagli dal re
Teodorico". Opere Le date di composizione sono tratte da Philip
Edward Phillips, "Anicius Manlius Severinus Boethius: A Chronology and
Selected Annotated Bibliography", in Noel Harold Kaylor Jr., & Philip
Edward Phillips, (a cura di), A Companion to Boethius in the Middle Ages,
Leiden, Brill, Opere matematiche De institutione arithmetica, adattamento delle
Introductionis Arithmeticae di Nicomaco di Gerasa. De Institutione musica -- si
basa su un'opera perduta di Nicomaco di Gerasa e sulla Harmonica di Tolomeo.
Opere logiche A) Traduzioni dal greco Porphyrii Isagoge (traduzione
dell'Isagoge di Porfirio) In Categorias Aristotelis De Interpretatione vel
Periermenias Interpretatio priorum Analyticorum (due versioni) Interpretatio
Topicorum Aristotelis Interpretatio Elenchorum Sophisticorum Aristotelis B)
Commenti a Porfirio, Aristotele e Cicerone In Isagogen Porphyrii commenta (due
versioni, la prima basata sulla traduzione di Gaio Mario Vittorino, la seconda
sulla sua traduzione. In Aristotelis Categorias, In librum Aristotelis de
interpretatione Commentaria minora, In librum Aristotelis de interpretatione
Commentaria majora, In Aristotelis Analytica Priora, Commentaria in Topica
Ciceronis (incompleta: manca la fine del sesto libro e tutto il settimo) Opere
originali De syllogismo cathegorico, De divisione, De hypotheticis syllogismis,
In Ciceronis Topica, De topicis differentiis, Introductio ad syllogismos
cathegoricos, Opuscola Sacra (trattati teologici), De Trinitate, Utrum Pater et
Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur (Se
"Padre" "Figlio" e "Spirito Santo", siano
predicati sostanzialmente della Divinità) Quomodo substantiae in eo quod sint
bonae sint cum non sint substantialia bona conosciuto anche col titolo De
Hebodmadibus (In che modo le sostanze siano buone in quel che sono, pur non
essendo beni sostanziali) De fide Catholica Contra Eutychen et Nestorium De
consolatione Philosophiae. Frammenti di un trattato sulla geometria sono
pubblicati in: Menso Folkerts (a cura di), Boethius' Geometrie II. Ein
mathematisches Lehrbuch des Mittelalters, Wiesbaden, Franz Steiner, Edizioni
Severino Boezio, Dialectica, Venetiis, apud Iuntas, Manlii Severini Boethii
Opera Omnia, Patrologiae cursus completus, Series latina, Anicii Manlii
Severini Boethii Opera, I-II, Turnholt
Anicius Manlius Severinus Boethius Torquatus, De consolatione
philosophiae. Opuscula theologica, ed. C. Moreschini, editio altera, Monachii –
Lipsiae. Delle consolazione della filosofia, Tradotto dalla Lingua Latina in
Volgar Fiorentino -- Varchi, Con Annotazioni a margine e Tavola delle cose più
segnalate. Si aggiunge la Vita dell'Autore..., in Venezia, presso Leonardo
Bassaglia, Venezia, La consolazione della Filosofia, traduzione di Umberto
Moricca, Firenze, Salani, Philosophiae consolatio, testo con introduzione e
trad. di Emanuele Rapisarda, Catania, Centro di Studi sull'antico
Cristianesimo, La consolazione della filosofia, traduzione di R. Del Re, Roma,
Edizioni dell'Ateneo, Trattato sulla divisione, traduzione di traduzione,
introduzione e commento di Lorenzo Pozzi, Padova, Liviana Editrice, De
hypotheticis syllogismis, testo latino, traduzione, introduzione e commento di
Luca Obertello, Brescia, Paideia, La consolazione della filosofia, introduzione
di Christine Mohrmann, trad. di Ovidio Dallera, Collana BUR, Milano, Rizzoli,
La Consolazione della filosofia. Gli Opuscoli teologici, traduzione di A.
Ribet, a cura di Luca Obertello, Collana Classici del pensiero, Milano,
Rusconi, De Institutione musica, testo e traduzione di Giovanni Marzi, Roma, La
consolazione della filosofia, a cura di Claudio Moreschini, Collezione Classici
Latini, Torino, POMBA, La consolazione di Filosofia, A cura di Maria Bettetini.
Traduzione di Barbara Chitussi, note di Giovanni Catapano. Testo latino a
fronte, Collana NUE, Torino, Einaudi, I valori autentici, a cura di M.
Jovolella, Collana Oscar Saggezze, Milano, Mondadori, La ricerca della felicità (Consolazione della
Filosofia III), A cura di M. Zambon, Collana Letteratura universale.Il
convivio, Venezia, Marsilio, Il De topicis differentiis di Severino Boezio, a
cura di Fiorella Magnano, Palermo, Officina di Studi Medievali, Le differenze
topiche. Testo latino a fronte, A cura di Fiorella Magnano, Collana Il pensiero
occidentale, Milano, Bompiani, Mondin, La prima Scolastica: Boezio, Cassiodoro,
Scoto Eriugena Martirologio romano,
citato in Severino Boezio, in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei
santi, santiebeati. Ennodio, Epistole,
Cassiodoro, Variae, Cassiodoro, Variae, De consolatione philosophiae, De
consolatione philosophiae, Anonimo Valesiano, Il sepolcro di Boezio, su
academia.edu. Alessio Narbone, Sicola
sistematica o apparato metodico alla storia letteraria della Sicilia, Il libro
contiene una iniziale dedica a ""Cosimo De' Medici Gran Duca di
Toscana"", poi la ""VITA DI ANICIO MANLIO TORQUATO SEVERINO
BOEZIO scritta latinamente da Giulio Marziano Rota ed ora nuovamente
volgarizzata"", ed infine la traduzione in fiorentino ""
volgare fiorentina"" di Benedetto Varchi che traduce in italiano
anche le parti non in prosa con versi in rime alternate: ultima cosa curiosa,
alla fine ci sono due ''''Inni d'ELPIDE, Matrona Siciliana Consorte di
Boezio''''. Bibliografia «Anicius Manlius Severinus Boethius iunior 5», The
Prosopography of the Later Roman Empire, Baixauli, Boezio. La ragione
teologica, Milano, Chadwick, Boezio: la consolazione della musica, della
logica, della teologia e della filosofia, Bologna, Onofrio, Fons scientiae. La
dialettica nell'Occidente tardo antico, Napoli, A. de Libera, Il problema degli
universali da Platone alla fine del Medioevo, Firenze, Frigerio, “Sulla prima
scolastica medievale", Torino, Frigerio, Il pensiero teologico ed etico di
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documentacatholicaomnia.eu. dal Migne, Patrologia Latina, con indici analitici.
De Arte Arithmetica libri duo, su daten.digitale-sammlungen.de. Manoscritto
conservato nella Biblioteca digitale di Monaco di Baviera. De institutione
Musica, su imslp.org. PredecessoreConsole romanoSuccessore Flavio Importuno,
sine college Flavio Arcadio Placido Magno Felice, Flavio Secondino V · D · M
Padri e dottori della Chiesa cattolica Severino Boezio Boetius.png
Magister officiorum del Regno Ostrogoto MonarcaTeodorico il Grande Console del
Regno Ostrogoto Durata mandato510 MonarcaTeodorico il Grande PredecessoreFlavio
Importuno SuccessoreMagno Felice Flavio Secondino Senatore romano. Dati
generali Professionefilosofo San Severino Boezio Fl Boetio (Flavio Boezio) -
Studiolo di Federico da MontefeltroFl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di
Federico da Montefeltro Padre della Chiesa Martire NascitaRoma,
475/477 MortePavia, Venerato daTutte le Chiese che ammettono il culto dei santi
Ricorrenza23 ottobre Attributipalma ManualeInter latinos aristotelis
interpretes et aetate primi, et doctrina praecipui dialectica, 1547. Da BEIC,
biblioteca digitale. Boezio raffigurato col proprio suocero, Quinto Aurelio
Memmio Simmaco, nobile e letterato romano. Filosofia Portale Filosofia
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Filosofi romaniSenatori romaniNati a RomaMorti a Pavia Anicii Consoli medievali
romani Filosofi Cristiani Filosofi giustiziati Martiri cristianiMagistri
officiorumPersonaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso)Santi romani del VI
secoloTeorici della musica italianiTraduttori dal greco al latino[alter. Refs.: Boethiius, in Stanford Encyclopaedia. Luigi Speranza, "Grice e Boezio," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Bollettino della Società filosofica
italiana. Cum sit necessarium, Chrisaorie, et ad eam quae
est apud Aristotelem praedicamentorum doctrinam nosse quid genus sit et quid
differentia quidque species et quid proprium et quid accidens, et ad
definitionum assignationem, et omnino ad ea quae in divisione vel
demonstratione sunt utilia, hac istarum rerum speculatione compendiosam tibi
traditionem faciens temptabo breviter velut introductionis modo ea quae ab
antiquis dicta sunt aggredi; altioribus quidem quaestionibus abstinens,
simpliciores vero mediocriter coniectans. Mox de generibus et speciebus
illud quidem sive subsistunt sive in solis nudis purisque intellectibus posita
sunt sive subsistentia corporalia sunt an incorporalia, et utrum separata an in
sensibilibus et circa ea constantia, dicere recusabo. Altissimum enim est
huiusmodi negotium et maioris egens inquisitionis. Illud vero quemadmodum
de his ac de propositis probabiliter antiqui tractaverint, et horum maxime
Peripatetici, tibi nunc temptabo monstrare. Videtur autem neque genus neque
species simpliciter dici. Genus enim dicitur et aliquorum quodammodo se
habentium ad unum aliquid et ad se invicem collectio, secundum quam
significationem Romanorum dicitur genus, ab unius scilicet habitudine -- dico
autem Romuli -- et multitudinis habentium aliquo modo ad invicem eam quae ab
illo est cognationem secundum divisionem ab aliis generibus
dictam. Dicitur autem et aliter rursus genus quod est uniuscuiusque
generationis principium vel ab eo qui genuit vel a loco in quo quis genitus
est. Sic enim Oresten quidem dicimus a Tantalo habere genus, Illum autem ab
Hercule, et rursus Pindarum quidem Thebanum esse genere, Platonem vero
Atheniensem; et enim patria principium est uniuscuiusque generationis
quemadmodum pater. Haec autem videtur promptissima esse significatio; Romani
enim qui ex genere descendunt Romuli, et Cecropidae qui ex genere descendunt
Cecropis et horum proximi. Et prius quidem appellatum est genus uniuscuiusque
generationis principium, dehinc etiam multitudo eorum qui sunt ab uno
principio; ut a Romulo, dividentes et ab aliis separantes, dicebamus omnem
illam collectionem esse Romanorum genus. Aliter autem rursus dicitur
genus, cui supponitur species ad horum fortasse similitudinem dictum. Etenim
principium quoddam est huiusmodi genus earum quae sub ipso sunt specierum,
videturque et omnem eam multitudinem continere quae sub ipso sunt
specierum. Tripliciter igitur cum genus dicatur, de tertio apud
philosophos sermo, quod etiam describentes assignaverunt, dicentes, genus esse
quod de pluribus et differentibus specie, in eo quod quid sit praedicatur, ut
animal. Eorum enim quae praedicantur alia quidem de uno dicuntur solo,
sicut individua sicut Socrates et hic et hoc, alia vero de pluribus,
quemadmodum genera et species et differentiae et propria, et accidentia
communiter sed non proprie alicui. Est autem genus quidem ut animal, species
vero ut homo, differentia autem ut rationale, proprium ut risibile, accidens ut
album, nigrum, sedere. Ab his ergo quae de uno solo praedicantur differunt
genera, eo quod haec de pluribus dicuntur. Ab his autem rursus quae de
pluribus, a speciebus quidem, quoniam species etsi de pluribus praedicentur,
non tamen de differentibus specie, sed numero: homo enim cum sit species, de
Socrate et Platone praedicatur, qui non specie a se invicem differunt, sed
numero. Animal vero cum sit genus, de homine, equo, et boue praedicatur, qui
differunt a se invicem specie, non numero solum. A proprio quoque differt
genus, quoniam proprium de una sola specie, cuius est proprium, praedicatur, et
de iis quae sub una specie sunt individuis, quemadmodum risibile de homine
solo, et de particularibus hominibus: genus autem non de una solum specie
praedicatur, sed de pluribus et differentibus. A differentia vero et ab iis
quae communiter sunt accidentia differt genus, quoniam etsi de pluribus et
differentibus specie praedicentur differentiae, et communiter accidentia, non
tamen in eo quod quid sit praedicantur, sed potius in eo quod quale est, et
quomodo se habet. Interrogantibus enim aliquibus quid est illud de quo
praedicantur haec? genus respondebimus: differentias autem et communiter et
accidentia non respondebimus. Non enim in eo quod quid est praedicantur de
subiecto, sed magis in eo quod quale sit. Interrogantibus enim qualis est homo?
dicimus rationalis, et qualis est corvus, dicimus niger. Est autem rationale,
differentia: nigrum vero, accidens. Quando autem quid est homo interrogamur,
animal respondemus: est autem genus hominis animal. Quare genus de pluribus
praedicari dividit ipsum ab iis quae de uno solo dicuntur, sicut individua; de
differentibus vero specie, separat eumdem ab iis quae sicut species
praedicantur, vel sicut propria: in eo autem quod quid sit praedicari, dividit
ipsum a differentiis et communiter accidentibus, quae singula non in eo quod
quid sit praedicatur, sed in eo quod quale est, vel quomodo se habet. Nihil
igitur neque superfluum, neque minus continet generis dicta descriptio. Species
autem dicitur quidem, et de uniuscuiusque forma, secundum quam dictum est:
primum quidem species digna est imperio: Dicitur autem species, et ea quae
est sub assignato genere, secundum quam solemus dicere, hominem quidem speciem
animalis, cum sit genus animal; album autem coloris speciem, triangulum vero
figurae speciem. Quod si etiam genus assignantes speciei meminimus, dicentes
quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quid praedicatur, et
speciem dicimus id quod sub assignato genere ponitur. Nosse oportet quod
quoniam genus alicuius est genus, et species alicuius est species, idcirco
necesse est et in utrorumque rationibus utrisque uti. Assignant ergo et sic
speciem: Species est quae sub assignato genere ponitur, et de qua genus in eo
quod quid sit praedicatur. Amplius autem sic quoque: Species est quae de
pluribus et differentibus numero, in eo quod quid sit praedicatur; sed haec quidem
assignatio specialissimae est, et eius quae solum species est, non etiam genus:
aliae vero et non specialissimarum esse possunt. Planum autem erit quod dicitur
hoc modo: In unoquoque praedicamento sunt quaedam generalissima, et rursus alia
specialissima, et inter generalissima et specialissima sunt alia quae et genera
et species eadem dicuntur. Est autem generalissimum quidem supra quod non est
aliud aliquod superveniens genus. Specialissimum autem post quod non est alia
aliqua inferior species. Inter generalissimum autem et specialissimum, alia
sunt quae et genera et species sunt eadem, ad aliud tamen et aliud
sumpta. Sit autem manifestum in uno praedicamento quod dicitur substantia:
est quidem et ipsa genus, sub hac autem est corpus, et sub corpore animatum
corpus, sub quo animal: sub animali vero, rationale animal, sub quo homo: sub
homine vero, Socrates et Plato, et qui sunt particulares homines. Sed
horum substantia quidem, generalissimum est, et genus solum: homo vero
specialissimum, et solum species; corpus vero, species quidem est substantiae,
genus vero corporis animati, sed et animatum corpus, species quidem est
corporis, genus vero animalis. Rursus animal species quidem est corporis
animati, genus vero animalis rationalis, sed rationale animal, species quidem
est animalis, genus autem hominis: homo vero species est rationalis animalis,
non autem etiam genus particularium hominum, sed solum species. Ac omne quod
est ante individua proximeque de ipsis praedicatur, species erit solum, non
etiam genus. Quemadmodum igitur substantia cum suprema sit, eo quod nihil supra
eam sit, genus est generalissimum, sic et homo, cum sit species, postquam non
est alia species, neque aliquid eorum quae possunt dividi in species, sed solum
individua (individuum enim est Socrates et Plato, et hoc album), species erit
solum, et ultima species (et ut dictum est) specialissima: quae vero in medio
sunt, eorum quidem quae supra se sunt species erunt, eorum vero quae post
genera sunt, quare haec quidem duas habent habitudines, illam quae est ad
superiora, secundum quam species dicuntur esse ipsorum, et eam quae est ad
posteriora, secundum quam genera ipsorum esse dicuntur. Extrema vero habent
unam habitudinem, nam et generalissimum ad ea quae posteriora sunt, habet habitudinem,
cum genus sit omnium supremum: eam vero quae est ad superiora non habet, cum
sit supremum, et primum principium, et (ut diximus) supra quod non est aliud
superveniens genus: et specialissimum etiam unam habet habitudinem, ea quae est
ad superiora, quorum est species: eam vero quae est ad posteriora non diversam
habet sed eandem, nam et individuorum species dicitur. Sed species quidem
individuorum, velut ea continens, species vero superiorum, ut quae ab illis
contineatur. Determinant ergo generalissimum ita, quod cum genus sit non est
species: et rursus, supra quod non est aliud superveniens genus: specialissimum
vero, quod cum sit species, non est genus, et quod cum sit species, non amplius
in species dividere possumus, et hoc modo quod de pluribus et differentibus
numero, in eo quod quid sit, praedicatur. Ea vero quae sunt in medio
extremorum, subalterna vocantur genera et species, et unumquodque eorum species
esse potest et genus, ad aliud quidem, et ad aliud sumpta. Ea vero quae sunt
supra specialissima usque ad generalissimum ascendentia, vicissim genera
dicuntur et species, ut Agamemnon, Atrides, Pelopides, Tantalides, et ultimo
Iovis. Sed in familiis quidem plerumque reducuntur ad unum principium,
verbi gratia ad Iovem. In generibus autem et speciebus non sic se habet; neque
enim unum commune genus omnium est ens, nec omnia eiusdem generis sunt secundum
unum supremum genus, quemadmodum dicit Aristoteles, sed sint posita,
quemadmodum dictum est in praedicamentis, prima decem genera, quasi decem prima
principia. Et si omnia quis entia vocet, aequivoce inquit nuncupabit, non
univoce: si enim ens unum esset commune omnium genus, univoce omnia entia
dicerentur: cum vero sint decem prima, commune est ens secundum nomen solum,
non etiam secundum rationem, quae secundum entis nomen est. Decem quidem igitur
generalissima sunt, specialissima vero in numero quidem quodam sunt, non tamen
infinito. Individua autem quae sunt post specialissima, infinita sunt
quapropter usque ad specialissima a generalissimis descendentes iubebat Plato
quiescere. Descendere autem per media dividendo specificis differentiis,
infinita vero relinquenda suadet, neque enim eorum posse fieri disciplinam.
Descendentibus igitur ad specialissima necesse est, dividendo per multitudinem
ire, ascendentibus vero ad generalissima necesse est colligere multitudinem in
unum: collectivum enim multorum in unam naturam species est, et magis etiam
genus. Particularia vero et singularia e contrario, in multitudinem semper
dividunt id quod unum est, participatione enim speciei, plures homines, sunt
unus homo, in particularibus autem et singularibus, unus et communis, plures,
divisivum enim est semper quod singulare est, collectivum autem et adunativum
quod commune est. Assignato autem genere, specie quid sit utrumque, et
genere quidem uno existente, speciebus vero pluribus: semper enim divisio
generis in species plures est, genus quidem semper de speciebus praedicatur, et
omnia superiora de inferioribus, species autem neque de proximo sibi genere,
neque de superioribus, neque enim convertitur. Oportet enim aut aequa de aequis
praedicari, ut hinnibile de equo, aut maiora de minoribus, ut animal de homine,
minora vero de maioribus minime: nec enim animal dicis esse hominem,
quemadmodum dicis hominem animal. De quibus autem species praedicatur, de his
necessario et speciei genus praedicatur et generis genus, usque ad
generalissimum. Si enim verum est dicere: Socratem hominem, hominem autem
animal, animal vero substantiam, verum est Socratem animal dicere atque substantiam:
semper igitur cum superiora de inferioribus praedicentur, species quidem de
individuo praedicabitur, genus autem et de specie et de individuo;
generalissimum autem et de genere, et de generibus, si plura sunt media et
subalterna, et de specie, et de individuo: Dicitur enim generalissimum
quidem de omnibus sub se positis generibus et speciebus et individuis; genus
autem quod ante specialissimum est, de omnibus specialissimis et de individuis,
solum autem species de omnibus individuis, individuum autem praedicatur de uno
solo particulari. Individuum autem dicitur Socrates, et hoc album, et hic
veniens Sophronisci filius, si solus sit ei Socrates filius). Individua
autem dicuntur huiusmodi, quoniam ex proprietatibus consistit unumquodque
eorum, quarum collectio numquam in alio quolibet eadem erit. Socratis enim
proprietates nunquam in alioquo quolibet erunt particularium eaedem. Hae vero
quae sunt hominis proprietates: dico autem eius qui est communis, erunt eaedem
pluribus, magis autem in omnibus particularibus hominibus in eo quod homines
sunt. Continetur igitur individuum quidem sub specie, species autem sub genere.
Totum enim quidem est genus, individuum autem pars, species vero totum et pars:
sed pars quidem alterius, totum vero non alterius, sed in aliis. In partibus
enim totum est. De genere quidem et specie, et quid sit generalissimum, et
quid specialissimum, et quae genera, et species eadem sunt, et quae individua,
et quot modis genus et species dicatur, sufficienter dictum est. Differentia
vero communiter, proprie, et magis proprie dicitur. Communiter quidem differre
alterum ab altero dicitur, quoniam alteritate quadam differt quocunque modo,
vel a seipso vel ab alio; differt enim Socrates a Platone alteritate quadam, et
ipse a se puero iam vir factus, et a se faciente aliquid cum quiescit, et
semper in aliquo modo habendi se alteritatibus spectatur. Proprie autem
differre alterum ab altero dicitur, quando inseparabili accidente alterum ab
altero differt. Inseparabile vero accidens est, ut nasi curvitas, caesitas
oculorum, et cicatrix cum ex vulnere occalluerit. Magis autem proprie alterum
differre ab altero dicitur, quando specifica differentia differt, quemadmodum
homo ab equo specifica differentia differt rationali qualitate. Universaliter
ergo omnis differentia alteratum facit cuilibet adveniens, sed ea quae est
communiter et proprie, alteratum facit: illa autem quae est magis proprie,
aliud. Differentiarum enim, aliae quidem alteratum faciunt, aliae vero aliud.
Illae igitur quae faciunt aliud, specificae uocantur; illae vero quae
alteratum, simpliciter differentiae: animali enim rationalis differentia
adveniens aliud facit, et speciem animalis facit. Illa vero quae est movendi,
alteratum facit a quiescente. Quare haec quidem aliud, illa vero alteratum
solum facit. Secundum igitur aliud facientes differentias et divisiones
fiunt a generibus in species, et diffinitiones assignantur, quae sunt ex
genere, et huiusmodi differentiis: secundum autem eas quae solum alteratum
faciunt, alterationes solum consistunt, et aliquo modo se habentis
permutationes. A superioribus rursus inchoanti dicendum est,
differentiarum alias quidem esse separabiles, alias vero inseparabiles. Moveri
enim et quiescere, et sanum esse, et aegrum, et quaecunque his proxima sunt,
separabilia sunt. At vero aquilum esse, vel simum, vel rationale, vel
irrationale, inseparabilia sunt. Inseparabilium autem, aliae quidem sunt per
se, aliae vero per accidens; nam rationale per se inest homini, et mortale, et
disciplinae esse susceptibile. At vero aquilum esse vel simum, per accidens et
non per se. Illae igitur quae per se sunt, in ratione substantiae accipiuntur,
et faciunt aliud: illae vero quae secundum accidens, nec in substantiae ratione
accipiuntur, nec faciunt aliud, sed alteratum. Et illae quidem quae per se
sunt, non suscipiunt magis et minus: illae vero quae per accidens, et si
inseparabiles sint, intentionem accipiunt et remissionem: nam neque genus magis
et minus praedicatur de eo cuius est genus, neque generis differentiae, secundum
quas dividitur: ipsae enim sunt quae uniuscuiusque rationem complent: esse
autem unicuique unum et idem, nec intentionem nec remissionem suscipiens est,
aquilum autem vel simum esse, vel coloratum aliquo modo, et intenditur et
remittitur. Cum igitur tres species differentiae considerentur, et cum hae
quidem sint separabiles, illae vero inseparabiles, et rursus inseparabilium,
hae quidem sint per se, illae vero per accidens, et rursus earum quae per se
sint differentiarum, aliae quidem sunt, secundum quas dividimus genera in
species aliae vero secundum quas haec quae divisa sunt specificantur; ut, cum
per se differentiae omnes huiusmodi sint animalis, animati et sensibilis,
rationalis et irrationalis, mortalis et immortalis, ea quidem quae est animati
et sensibilis differentia, constitutiva est animalis substantiae: est enim
animal substantia animata sensibilis, ea vero quae est mortalis et immortalis
differentia, itemque rationalis et irrationalis, divisivae sunt animalis
differentiae, per eas enim genera in species dividimus. Sed hae quidem
quae divisivae sunt differentiae generum, completivae fiunt et constitutivae
specierum: dividitur enim animal rationali et irrationali differentia, et
rursus mortali et immortali differentia, sed ea quae sunt rationalis
differentiae et mortalis, constitutivae sunt hominis, rationalis vero et
immortalis, Dei: illae vero quae sunt irrationalis et mortalis, irrationabilium
animalium. Sic et suprema substantia, cum divisiva sit animati et inanimati
differentia, sensibili et insensibili, animata et sensibilis congregatae ad
substantiam, animal perfecerunt, animata vero et insensibilis perfecerunt
plantam. Quoniam ergo eaedem aliquo modo acceptae fiunt constitutivae,
aliquo modo autem divisivae, omnes specificae dicuntur: et his maxime opus est
ad divisiones generum et diffinitiones specierum, sed non his quae secundum
accidens inseparabiles, nec magis his, quae sunt separabiles. Quas etiam
determinantes dicunt: Differentia est qua abundat species a genere. Homo enim
ab animali plus habet rationale et mortale: animal enim ipsum nihil horum est,
nam unde haberent species differentias? nec enim omnes oppositas habet, namque
idem simul habebit oppositas, sed quemadmodum probant, potestate quidem habet
omnes differentias sub se, actu vero nullam. Et sic nec ex his quae non sunt,
aliquid fit, nec in eodem simul opposita erunt. Definiunt autem eam et hoc
modo: Differentia est quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quale
sit praedicatur rationale enim et mortale, de homine praedicatum in eo quod
quale quiddam est homo dicitur sed non in eo quod quid est; "Quid
est" enim "homo?" interrogatis nobis conveniens est dicere
"Animal"; quale autem animal inquisiti, quoniam rationale et mortale
est convenienter assignabimus. Rebus enim ex materia et forma constantibus
vel ad similitudinem materiae specieique constitutionem habentibus (quemadmodum
statua ex materia est aeris, forma autem figura), sic et homo communis et
specialis ex materia quidem similiter consistit genere, ex forma autem
differentia, totum autem hoc animal rationale mortale homo est quemadmodum
illic statua. Describunt autem huiusmodi differentiam et hoc modo:
Differentia est quod aptum natum est dividere quae sub eodem sunt genere
rationale enim et irrationale hominem et equum, quae sub eodem sunt genere quod
est animal, dividunt. Assignant autem etiam hoc modo: Differentia est qua
differunt a se singula nam secundum genus non differunt; sumus enim mortalia
animalia et nos et irrationabilia sed additum rationabile separavit nos ab
illis; rationabiles sumus et nos et dii sed mortale appositum disiunxit nos ab
illis. Interius autem perscrutantes et speculantes differentiam, dicunt
non quodlibet eorum quae sub eodem sunt genere dividentium esse differentiam
sed quod ad esse conducit et quod eius quod est esse rei pars est; neque enim
quod aptum natum est nauigare erit hominis differentia, etsi proprium sit
hominis. Dicimus enim: animalium haec quidem apta nata sunt ad nauigandum, illa
vero minime dividentes ab aliis, sed aptum natum esse ad nauigandum non erat
completiuum substantiae nec eius pars sed aptitudo quaedam eius est (idcirco
quoniam non est talis quales sunt quae specificae dicuntur differentiae). Erunt
igitur specificae differentiae quaecumque alteram faciunt speciem et quaecumque
in eo quod quale est accipiuntur. Et de differentiis quidem ista
sufficiunt. Proprium vero quadrifariam dividunt. Nam et id quod soli
alicui speciei accidit, etsi non omni (ut homini medicum esse vel geometrem),
et quod omni accidit, etsi non soli (quemadmodum homini esse bipedem), et quod
soli et omni et aliquando (ut homini in senectute canescere), quartum vero in
quo concurrit et soli et omni et semper (quemadmodum homini esse risibile; nam,
etsi non ridet, tamen risibile dicitur, non quod iam rideat sed quod aptus
natus sit; hoc autem ei semper est naturale; et equo hinnibile). Haec autem
proprie propria perhibent, quoniam etiam convertuntur; quicquid enim equus, et
hinnibile, et quicquid hinnibile, equus. Accidens vero est quod adest et
abest praeter subiecti corruptionem. Dividitur autem in duo, in separabile et
in inseparabile; namque dormire est separabile accidens, nigrum vero esse
inseparabiliter coruo et Aethiopi accidit (potest autem subintellegi et corvus
albus et Aethiops amittens colorem praeter subiecti
corruptionem). Definitur autem sic quoque: Accidens est quod contingit
eidem esse et non esse uel: Quod neque genus neque differentia neque species
neque proprium, semper autem est in subiecto subsistens. Omnibus igitur determinatis
quae proposita sunt, dico autem genere, specie, differentia, proprio,
accidenti, dicendum est quae eis communia adsunt et quae propria. Commune
quidem omnibus est de pluribus praedicari; sed genus quidem de speciebus et de
individuis, et differentia similiter, species autem de his quae sub ipsa sunt
individuis, at vero proprium et de specie et cuius est proprium et de his quae
sub specie sunt individuis, accidens autem et de speciebus et de
individuis. Namque animal de equis et bubus et canibus praedicatur quae
sunt species, et de hoc equo et de hoc boue quae sunt individua; irrationale
vero et de equis et de bubus praedicatur et de his qui sunt particulares;
species autem, ut homo, solum de his qui sunt particulares praedicatur;
proprium autem, quod est risibile, de homine et de his qui sunt particulares;
nigrum autem et de specie coruorum et de his qui sunt particulares, quod est
accidens inseparabile; et moueri de homine et de equo, quod est accidens
separabile sed principaliter quidem de individuis, secundum posteriorem vero
rationem de his quae continent individua. Commune est autem generi et
differentiae continentia specierum; continet enim et differentia species, etsi
non omnes quot genera; rationale enim, etiam si non continet ea quae sunt
irrationabilia ut genus quemadmodum animal sed continet hominem et deum quae
sunt species. Et quaecumque praedicantur de genere ut genus, et de his quae sub
ipso sunt speciebus praedicantur; quaeque de differentia praedicantur ut
differentiae, et de ea quae ex ipsa est specie praedicabuntur. Nam, cum sit
genus animal, non solum de eo praedicantur ut genus substantia et animatum sed
etiam de his quae sunt sub animali speciebus omnibus praedicantur haec usque ad
individua; cumque sit differentia rationalis, praedicatur de ea ut differentia
id quod est ratione uti, non solum de eo quod est rationale sed etiam de his
quae sunt sub rationali speciebus praedicabitur ratione uti. Commune autem
est et perempto genere vel differentia simul perimi quae sub ipsis sunt; quemadmodum,
si non sit animal, non est equus neque homo, sic, si non sit rationale, nullum
erit animal quod utatur ratione. Proprium autem generis est de pluribus
praedicari quam differentia et species et proprium et accidens; animal enim de
homine et equo et aue et serpente, quadrupes vero de solis quattuor pedes
habentibus, homo vero videtur de solis individuis, et hinnibile de equo et de
his qui sunt particulares; et accidens similiter de paucioribus. Oportet autem
differentias accipere quibus dividitur genus, non eas quae complent substantiam
generis. Amplius genus continet differentiam potestate; animalis enim hoc
quidem rationale est, illud vero irrationale. Amplius genera quidem priora
sunt his quae sunt sub se positis differentiis propter quod simul quidem eas
aufert, non autem simul aufertur (sublato enim animali aufertur rationale et
irrationale), differentiae vero non auferunt genus (nam, si omnes interimantur,
tamen substantia animata sensibilis subintellegi potest quae est animal). Amplius
genus quidem in eo quod quid est, differentia vero in eo quod quale quiddam
est, quemadmodum dictum est, praedicatur. Amplius genus quidem unum est
secundum unamquamque speciem (ut hominis id quod est animal), differentiae vero
plurimae (ut rationale, mortale, mentis et disciplinae perceptibile) quibus ab
aliis differt. Et genus quidem consimile est materiae, formae vero
differentia. Cum autem sint et alia communia et propria generis et
differentiae, nunc ista sufficiant. Genus autem et species commune quidem
habent de pluribus (quemadmodum dictum est) praedicari; sumatur autem species
ut species et non etiam ut genus, si fuerit idem species et genus. Commune
autem his est et priora esse eorum de quibus praedicantur et totum quiddam esse
utrumque. Differt autem eo quod genus quidem continet species sub se,
species vero continentur et non continent genera; in pluribus enim genus quam
species est (genera enim praeiacere oportet et formata specificis differentiis
perficere species, unde et priora sunt naturaliter genera et simul interimentia
sed quae non simul interimantur). Et species quidem cum sit, est et genus,
genus vero cum sit non omnino erit et species. Et genera quidem univoce de
speciebus praedicantur, species vero de generibus minime. Amplius quidem
genera abundant earum quae sub ipsis sunt specierum continentia, species vero
generibus abundant propriis differentiis. Amplius neque species fiet
umquam generalissimum neque genus specialissimum. Generis autem et proprii
commune quidem est sequi species (nam, si homo est, animal est, et, si homo
est, risibile est), et aequaliter praedicari genus de speciebus et proprium de
his quae illo participant (aequaliter enim et homo et bos animal, et Cato et
Cicero risibile). Commune autem et univoce praedicari genus de propriis
speciebus et proprium quorum est proprium. Differt autem quoniam genus quidem
prius est, posterius vero proprium (oportet enim esse animal, dehinc dividi
differentiis et propriis). Et genus quidem de pluribus speciebus
praedicari, proprium vero de una sola specie cuius est proprium. Et proprium
quidem conversim praedicatur cuius est proprium, genus vero de nullo conversim
praedicatur (nam neque si animal est, homo est, neque si animal est, risibile
est; sin vero homo, et risibile est, et e converso). Amplius proprium omni
speciei inest cuius est proprium et uni et semper, genus vero omni quidem
speciei cuius fuerit genus et semper, non autem soli. Amplius species
quidem interemptae non simul interimunt genera, propria vero interempta simul
interimunt quorum sunt propria, et his quorum sunt propria interemptis et ipsa
simul interimuntur. Generis vero et accidentis commune est de pluribus
(quemadmodum dictum est) praedicari sive separabilium sit sive inseparabilium;
et enim moueri de pluribus, et nigrum de coruis et hominibus et Aethiopibus et
aliquibus inanimatis. Differt autem genus accidente quoniam genus ante
species est, accidentia vero speciebus inferiora sunt; nam si etiam
inseparabile sumatur accidens sed tamen prius est illud cui accidit quam
accidens. Et genere quidem quae participant aequaliter participant,
accidente vero non aequaliter; intentionem enim et remissionem suscipit
accidentium participatio, generum vero minime. Et accidentia quidem in
individuis principaliter subsistunt, genera vero et species naturaliter priora
sunt individuis substantiis. Et genera quidem in eo quod quid est praedicantur
de his quae sub ipsis sunt, accidentia vero in eo quod quale aliquid est vel
quomodo se habeat unumquodque; "Qualis est" enim "Aethiops?"
interrogatus dicis "Niger", et quemadmodum se Socrates habeat, dicis
quoniam sedet vel ambulat. Genus vero quo aliis quattuor differat dictum
est. Contingit autem etiam unumquodque aliorum differre ab aliis quattuor, ut,
cum quinque quidem sint, unum autem ab aliis quattuor differat, quater quinque
uiginti fiant omnes differentiae; sed, semper posterioribus enumeratis et
secundis quidem una differentia superatis (propterea quoniam iam sumpta est),
tertiis vero, duabus, quartis vero tribus, quintis vero quattuor, decem omnes
fiunt (quattuor, tres, duae, una). Genus enim differt differentia et specie et
proprio et accidenti; quattuor igitur sunt omnes differentiae. Differentia vero
quo differt genere dictum est quando quo differret genus ab ea dicebatur;
relinquitur igitur quo differat specie et proprio et accidente dicere, et fiunt
tres. Rursus species quo quidem differat a differentia dictum est quando quo
differret specie differentia dicebatur, quo autem differt species genere dictum
est quando quo differret genus specie dicebatur; reliquum est igitur ut quo
differat proprio et accidente dicatur; duae igitur etiam istae sunt
differentiae. Proprium autem quo differat accidente relinquitur, nam quo specie
et differentia et genere differt praedictum est in illorum ad ipsum
differentia. Quattuor igitur sumptis generis ad alia differentiis, tribus vero
differentiae, duabus autem speciei, una autem proprii ad accidens, decem erunt
omnes; quarum quattuor quae erant generis ad reliqua superius
demonstravimus. Commune ergo differentiae et speciei est aequaliter
participari; homine enim aequaliter participant particulares homines et
rationali differentia. Commune vero est et semper adesse his quae participant;
semper enim Socrates rationalis et semper Socrates homo. Proprium autem
differentiae quidem est in eo quod quale sit praedicari, speciei vero in eo
quod quid est; nam, et si homo velut qualitas accipiatur, non simpliciter erit
qualitas sed secundum id quod generi aduenientes differentiae eam
constituerunt. Amplius differentia quidem in pluribus saepe speciebus
consideratur (quemadmodum quadrupes in pluribus animalibus specie
differentibus), species vero in solis his quae sub specie sunt individuis
est. Amplius differentia prima est ab ea specie quae est secundum ipsam;
simul enim ablatum rationale interimit hominem, homo vero interemptus non
aufert rationale, cum sit deus. Amplius differentia quidem componitur cum
alia differentia (rationale enim et mortale compositum est in substantia
hominis), species vero speciei non componitur ut gignat aliquam aliam speciem
(quidam enim equus cuidam asino permiscetur ad muli generationem, equus autem
simpliciter asino numquam conveniens perficiet mulum). Differentia vero et
proprium commune quidem habent aequaliter participari ab his quae eorum
participant; aequaliter enim rationalia rationalia sunt et risibilia risibilia
sunt. Et semper et omni adesse commune utrisque est; sive enim curtetur
qui est bipes, non substantiam perimit sed ad quod natum est semper dicitur;
nam et risibile, eo quod natum est habet id quod est semper sed non eo quod
semper rideat. Proprium autem differentiae est quoniam haec quidem de
pluribus speciebus dicitur saepe ut rationale de homine et deo, proprium vero
in una sola specie cuius est proprium. Et differentia quidem illis est
consequens quorum est differentia sed non convertitur, propria vero conversim
praedicantur quorum sunt propria idcirco quoniam
convertuntur. Differentiae autem et accidenti commune quidem est de
pluribus dici, commune vero ad ea quae sunt inseparabilia accidentia semper et
omnibus adesse; bipes enim semper adest omnibus coruis, et nigrum esse
similiter. Differunt autem quoniam differentia quidem continet et non
continetur (continet enim rationalitas hominem), accidentia vero quodam quidem
modo continent eo quod in pluribus sint, quodam vero modo continentur eo quod
non unius accidentis susceptibilia sunt subiecta sed plurimorum. Et
differentia quidem inintendibilis est et inremissibilis, accidentia vero magis
et minus recipiunt. Et impermixtae quidem sunt contrariae differentiae, mista
vero contraria accidentia. Huiusmodi quidem communiones et proprietates
differentiae et caeterorum sunt. Species vero quo quidem differat a genere
et differentia dictum est in eo quod dicebamus quo genus differt caeteris et
quo differentia differret caeteris. Speciei autem et proprii commune est
de se invicem praedicari; nam, si homo, risibile est, et si risibile, homo est
(risibile vero quoniam secundum id quod natum est dicitur, saepe iam dictum
est); aequaliter enim sunt species his quae eorum participant et propria quorum
sunt propria. Differt autem species proprio quoniam species quidem potest
et aliis genus esse, proprium vero et aliarum specierum esse impossibile
est. Et species quidem ante subsistit quam proprium, proprium vero postea
fit in specie; oportet enim hominem esse ut sit risibile. Amplius species
quidem semper actu adest subiecto, proprium vero aliquando potestate; homo enim
semper actu est Socrates, non vero semper ridet quamuis sit natus semper risibilis.
Amplius quorum termini differentes, et ipsa sunt differentia; est autem speciei
quidem sub genere esse et de pluribus et differentibus numero in eo quod quid
est praedicari et caetera huiusmodi, proprii vero quod est soli et semper et
omni adesse. Speciei vero et accidentis commune quidem est de pluribus
praedicari; rarae vero aliae sunt communitates propterea quoniam plurimum a se
distant accidens et cui accidit. Propria vero utriusque sunt, speciei quidem in
eo quod quid est praedicari de his quorum est species, accidentis autem in eo
quod quale quiddam est vel aliquo modo se habens. Et unamquamque
substantiam una quidem specie participare, pluribus autem accidentibus et
separabilibus et inseparabilibus. Et species quidem ante subintellegi quam
accidentia vel si sint inseparabilia (oportet enim esse subiectum ut illi
aliquid accidat), accidentia vero posterioris generis sunt et aduenticiae
naturae. Et speciei quidem participatio aequaliter est, accidentis vero,
vel si inseparabile sit, non aequaliter; Aethiops enim alio Aethiope habebit
colorem vel intentum amplius vel remissum secundum nigritudinem. Restat
igitur de proprio et accidenti dicere; quo enim proprium specie et differentia
et genere differt, dictum est. Commune autem proprii et inseparabilis
accidentis est quod praeter ea numquam consistant illa in quibus considerantur;
quemadmodum enim praeter risibile non subsistit homo, ita nec praeter
nigredinem subsistit Aethiops. Et quemadmodum semper et omni adest
proprium, sic et inseparabile accidens. Differunt autem quoniam proprium
uni soli speciei adest (quemadmodum risibile homini), inseparabile vero
accidens, ut nigrum, non solum Aethiopi sed etiam coruo adest et carboni et
ebeno et quibusdam aliis. Quare proprium conversim praedicatur de eo cuius
est proprium et est aequaliter, inseparabile vero accidens conversim non
praedicatur. Et propriorum quidem aequalis est participatio, accidentium
vero haec quidem magis, illa vero minus. Sunt quidem etiam aliae
communitates vel proprietates eorum quae dicta sunt sed sufficiunt etiam haec
ad discretionem eorum communitatisque traditionem. Hiemantis anni tempore in
Aureliae montibus concesseramus atque ibi tunc, cum violentior auster eiecisset
noctis placidam atque exturbasset quietem, recensere libitum est ea ƿ quae
doctissimi viri ad illuminandas quodammodo res intellectus densitate
caliginantissimas quibusdam quasi introductoriis commentariis ediderunt. Eius
vero rei Fabius initium fecit, qui cum me lectulo recumbentem et quaedam super
eisdem rebus cogitantem meditantemque vidisset, hortatus est, ut, quod saepe
eram pollicitus, aliquam illi eius rei traderem disciplinatu. Complacitum est
igitur, quoniam tunc et familiarium salutationes et domestica negotia
cessabant. Interrogatus ergo a me super quibus vellet rebus enodare atque
expedire, tunc Fabius: Quoniam, inquit, tempus ad studia uacat et hoc otium in
honestum negotium converti licet, rogo ut mihi explices id quod Victorinus
orator sui temporis ferme doctissimus Porphyrii per Isagogen, id est per
introductionem in Aristotelis Categorias dicitur transtulisse. Et primum
didascalicis quibusdam me imbue, quibus expositores vel etiam commentatores, ut
discipulorum animos docibilitate quadam assuescant, utuntur. Tunc ego: Sex
omnino, inquam, Magistri in omni expositione praelibant. Praedocent enim quae
sit cuiuscumque operis intentio, quod apud illos skopou" vocatur;
secundum, quae utilitas, quod a Graecis crhusimon appellatur; tertium, qui
ordo, quod tauxin vocant; quartum, si eius cuius esse opus dicitur, germanus
propriusque liber est, quod gnhusion interpretari solent; quintum, quae sit
eius operis inscriptio, quod eipigrafhun Graeci nominant. In hoc etiam quod
intentionem cuiusque libri insollerter interpretarentur, de inscriptione quoque
operis apud quosdam minus callentes haesitatum est. Sextum est id dicere, ad
quam partem philosophiae cuiuscumque libri ducatur intentio quod Graeca
oratione dicitur eii" poi~on meuro" filosofiva" ainaugetai. Haec
ergo omnia in quolibet philosophiae libro quaeri convenit atque expediri. Tunc
Fabius quae esset introductionis intentio interrogavit. Et ego inquam:
Aristoteles, cui factus est introductionis pons, non aliter intellegi potest,
nisi ipsas res de quibus disputaturus est ad intellegentiam praeparemus. Videns
enim Porphyrius quod in rebus omnibus essent quaedam prima natura, ex quibus
omnia velut ex aliquo fonte manarent, et illa quae prima essent, et substantia
esse et generis vocabulo nuncupari; porro autem numquam esse genus posse, nisi
ei quaedam aliau subderentur, et quae essent subdita, species appellari; porro
autem numquam genus uni speciei genus esse posse sed pluribus; plures autem
species non posse esse multiplices, nisi eas aliqua discretio separaret -- si
enim nihil sibi dissimiles forent, una species, non multiplices viderentur;
illa igitur divisio et dissimilitudo specierum ƿ differentiae nomine vocitatur,
omnia vero quae aliqua re differunt, fieri aliter non potest, nisi quibusdam
propriis solitariisque naturis insignita sint. Atque haec hactenus -- videns
ergo quod omnis omnium disparilitas in gemina rerum principia secaretur, in
substantiam atque accidens, ita ut neque accidens sine substantia neque sine
accidenti substantia esse posset -- accidens quippe sine aliquo substantiae
fundamento esse non potest, substantia vero ipsa sine superiecto accidenti
videli nullo modo potest. Ut enim color sit, quod est accidens, in corpore
erit, quod est substantia. Porro autem cum corpus, id est substantiam videris,
insignitam eam accidenti, id est aliquo colore respicies. Itaque fit ut
neque substantia praeter accidens sit neque accidens a substantia relinquatur;
ubi enim substantia fait, mox accidens consecutum est -- speculatus igitur
Porphyrius in his duabus rebus, id est accidenti et substantia, genera,
species, propria differentiasque versari et quod ipsa per se sint genera
subiectis et subiacentibus speciebus, quae differentiis et propriis insignitae
sunt, statuit principaliter de genere, specie, differentia propriisque
tractare. Et quoniam tractatus hic in definitionibus, ut post docebimus,
proderit, si quis autem in definitione generali ponat accidens, eum non recte
definire manifestum est, quod suo loco tractabitur, statuit pauca de
accidentibus praelibare. Ita enim nos prudentissimus doctor instituit, ut tunc
in definitionibus quibuslibet plenam scientiam queamus accipere, cum quod
prosit, dictum sit et quod non sit utile, segregetur. Haec igitur huius operis
est intentio, de genere, specie, differentiis, propriis accidentibusque
tractare. Hic Fabius: Expedisti, inquit, de intentione, nunc utilitatem
explica. ÐVaria, inquam, et multiplex in hoc corpore commoditas utilitasque
versatur. Primum enim in Aristotelis Categorias perquam uberrime prodest. Quid
autem prosit, dicemus, cum de eius libri inscriptione tractabimus sed in quibus
aliis prosit, paucis philosophiae ipsius divisione facta perstringam. Et prius
quid sit ipsa philosophia considerandum est. Est enim philosophia amor et
studium et amicitia quodammodo sapientiae, sapientiae vero non huius, quae in
artibus quibusdam et in aliqua fabrili scientia notitiaque versatur sed illius
sapientiae, quae nullius indigens, vivax mens et sola rerum primaeua ratio est.
Est autem hic amor sapientiae intellegentis animi ab illa pura sapientia
illuminatio et quodammodo ad se ipsam retractio atque aduocatio, ut videatur
studium sapientiae studium divinitatis et purae mentis illius amicitia. Haec
igitur sapientia cuncto equidem animarum generi meritum suae divinitatis
imponit et ad propriam naturae vim puritatemque reducit. Hinc nascitur
speculationum cogitationumque veritas et sancta puraque actuum castimonia. Quae
res in ipsius philosophiae divisionem sectionemque convertitur. ƿ Est enim
philosophia genus, species vero duae, una quae theoretica dicitur, altera quae practica,
id est speculativa et activa. Erunt autem et tot speculativae philosophiae
species, quot sunt res in quibus iustae speculatio considerationis habetur,
quotque actuum diversitates, tot species varietatesque virtutum. Est igitur
theoretices, id est contemplativae vel speculativae, triplex diversitas atque
ipsa pars philosophiae in tres species dividitur. Est enim una theoretices pars
de intellectibilibus, alia de intellegibilibus, alia de naturalibus. Tunc
interpellavit Fabius miratusque est, quid hoc novi sermonis esset, quod unam
speculativae partem intellectibilem nominassem. Nohtau, inquam, quoniam Latino
sermone numquam dictum repperi, intellectibilia egomet mea verbi compositione
vocavi. Est enim intellectibile quod unum atque idem per se in propria semper
divinitate consistens nullis umquam sensibus sed sola tantum mente
intellectuque capitur. Quae res ad speculationem dei atque ad animi
incorporalitatem considerationemque verae philosophiae indagatione componitur:
quam partem Graeci qeologivan nominant. Secunda vero est pars intellegibilis,
quae primam intellectibilem cogitatione atque intellegentia comprehendit. Quae
est omnium caelestium supernae divinitatis operum et quicquid sub lunari globo
beatiore animo atque ƿ puriore substantia valet et postremo humanarum animarum
quae omnia cum prioris illius intellectibilis substantiae fuissent corporum
tactu ab intellectibilibus ad intellegibilia degenerarunt ut non magis ipsa
intellegantur quam intellegant et intellegentiae puritate tunc beatiora sint,
quotiens sese intellectibilibus applicarint. Tertia theoretices species est
quae circa corpora atque eorum scientiam cognitionemqtle versatur: quae est
physiologia, quae naturas corporum passionesque declarat secunda vero,
intellegibilium substantia, merito medio collocata est, quod habeat et corporum
animationem et quodammodo vivificationem et intellectibilium considerationem
cognitionemque. Practicae vero philosophiae, quam activam superius dici
demonstratum est, huius quoque triplex est divisio. Est enim prima quae sui
curam gerens cunctis sese erigit, exornat augetque virtutibus, nihil in vita
admittens quo non gaudeat, nihil faciens paenitendum. Secunda vero est quae rei
publicae curam suscipiens cunctorum saluti suae providentiae sollertia et
iustitiae libra et fortitudinis stabilitate et temperantiae patientia medetur;
tertia vero, quae familiaris rei officium mediocri componens dispositione
distribuit. Sunt harum etiam aliae subdivisiones, quas nunc persequi
supersedendum est. Ad haec igitur ut fieri possint et ut superiora intellegi
queant, necessarius maxime uberrimusque fructus est artis eius quam Graeci
logikhun, nos rationalem possumus dicere. Quod ƿ recta orationis ratione quid
verum quidque decens sit, nullo erroris flexu diverticulove fallatur. Quam
quidem artem quidam partem philosophiae, quidam non partem sed ferramentum et
quodammodo supellectilem iudicarunt. Qua autem id utrique impulsi ratione
crediderint, alio erit in opere commemorandum. Haec autem generis, speciei,
differentiae, proprii atque accidentis disputatio in omni nobis philosophiae
cognitione quas quandam viam parat. Nam cum quid genus sit docemur, quid
species, intellegimus genus esse philosophiam, species vero indubitanter
theoreticen et practicen. De logica vero, utrum sit species, eadem hac possumus
ratione perpendere. Prodest nobis differentiae cognitio ad ipsarum philosophiae
specierum differentias cognoscendas. Prodest proprii scientia ad cognoscendum
quid unicuique philosophiae differentiae solitaria natura videatur substantia
innatum. Prodest accidentis cognitio quid principaliter in rebus sit cernere et
quid secundo contingentique loco veniat, discernere. Ita nobis harum quinque
rerum scientia ramosa quadam et multifida vi in omnes sese philosophiae partes
infundit. Ad grammaticam vero non minor huius rei usus est, quando per
orationem genus, octo vero partes orationis per genera, species, differentias
propriaque metimur. Est vero huius rei perquam rhetoricae amica coniunctaque
cognitio. Ita enim rhetoricam in tribus causarum possumus separare generibus et
eas in subiectis constitutionibus dissecare. Definitionum quoque, quod ad
logicam pertinet, magna ƿ atque utilis uberrimaque cognitio est; quas
definitiones nisi per genera, species, differentias proprietatesque tractaveris
mlllus umquam definitionibus terminus imponetur. Nam si quid definies, ex quo
sit genere primum tibi dicendum est, atque in hoc genus speciesque consummata
sit. Nam cuiuscumque rei genus dixeris, ad quam rem illud dixeris, speciem
facis, ut si quid sit homo definias, dicas hominem esse animal igitur quoniam
ad hominem aptasti animal, genus esse animal et hominem speciem a te declaratum
est. Sed non sufficit sola generis in definitione monstratio. Si enim
solum animal hominem esse dixeris, non potius hominem quam bovem aut equum
definitione depinxeris. Prodest igitur etiam differentias adhibere, per quas id
quod definies ab speciebus aliis seiungatur, ut dicas hominem esse animal
rationale. Et quoniam sub eadem differentia plures frequenter species inveniuntur,
ut sub rationali deus atque homo, utilissimus proprietatis usus est, ut id
dicas quod sola quam definis species suum propriumque retineat. Fit ergo
huiuscemodi hominis definitio: homo est animal, id est genus, homo vero
species; rationale, quod differentia est; risus capax, quod proprium est.
Accidentium vero in definitionibus nullus usus est. Prodest ergo in
definitionibus harum quinque rerum cognitio; ut nec ea quae sunt utilia
praetermittas nec ea quae nihil praestant commoditatis adiungas. In divisione
vero tantum prodest, ut nisi per horum scientiam nulla res recte distribui
secarique possit. Nam quae generum vel specierum recta distributio divisiove
erit, ubi ipsarum per quas dividitur rerum nulla scientiae cognitione
dirigimur? ƿ Probationum vero veritas in his maxime constituta est, quod per ea
quae dividis, id quod dividis vel quid aliud probas. Nam Marcus Tullius in
Rhetoricorum primo, quoniam divisionem generum causarum rite atque ordinate
faciebat, eius rei probationem ita esse debere per species generaque disposuit,
cum ait easdem res aliis superponi, aliis supponi posse, eisdem et subiectas et
superpositas esse non posse. Haec fere de utilitate ad tempus dicenda
credidimus. Tunc Fabius: Demiror, inquit, cur inchoanti mihi tam subtilius
inventas exercitatasque res edideris. Sed dic, quaeso, quodnam hoc tuum fuit
consilium? Ego dicam tibi: quod assuescendus animus auditoris et mediocri
subtilitate imbuendus est, ut cum sese hic primum exercuerit palaestra ingenii,
quasi quodammodo prius luctatus ea quae sequentur sine ullo labore conficiat.
Sed 'quid restat?' dicas licebit. Et Fabius: Ordinem, inquit, restare arbitror,
si bene commemini. ÑAtqui, inquam, hic ordo valde cum inscriptione coniunctus
est. Si enim alterutrum noris, ambo noveris. Ordo tamen est quod omnes post
Porphyrium ingredientes ad logicam huius primum libelli traditores fuerunt,
quod primus hic ad simplicitatem tenuitatis usque progressus, quo procedentibus
viandum sit, praeparat. Aristoteles enim quoniam dialecticae ƿ atque apodicticae
disciplinae volebat posteris ordinem scientiamque contradere, vidit apodicticam
dialecticamque vim uno syllogismi ordine contineri. Scribit itaque priores
Resolutorios, quos Graeci iAnalutikouu" vocant, qui legendi essent
antequam aliquid dialecticae vel apodicticae artis attingerent. In primis enim
Resolutoriis de syllogismorum ordine, complexione figurisque tractatur. Et
quoniam syllogismus genus est apodictici et dialectici syllogismi, dialecticam
vero in Topicis suis exercuit, aipoudeixin in secundis Resolutoriis ordinavit,
horum disciplina, quam ille in monstrandis syllogismis ante collegerat, prius
etiam in studiis lectitatur. Itaque prius primi Resolutorii, qui de syllogismi
sunt, quam secundi Resolutorii, qui de apodictico syllogismo, vel Topica, quae
de dialectico syllogismo sunt, accipiuntur. Traxit igitur Aristoteles
dialecticam atque apodicticam scientiam adunavitque in syllogismorum
resolutoria disputatione. Sed quoniam syllogismum ex propositionibus constare
necesse est, librum Peri; eIrmhneiva" qui inscribitur, 'de
propositionibus' adnotavit. Omnes vero propositiones ex sermonibus aliguid
significantibus componuntur. ƿ Itaque liber quem de decem praedicamentis
scripsit, quae apud Graecos kathgorivai dicuntur, de primis rerum nominibus significationibusque
est. Vidit enim Aristoteles infinitam miscellamque esse rerum omnium
verborumque disparilitatem et, ut eorum ordinem reperiret, in decem primis
sermonibus prima rerum genera significantibus omne quicquid illud vel rerum vel
sermonum poterat esse, collegit. Sed Aristoteles hactenus. Speculatus autem
Porphyrius si categoriae genera sunt rerum, rerum vero sermonumque diversitas
speciebus, differentiis propriisque insigniretur, videns etiam quod accidentium
in categoriis magna vis esset -- omnes enim res Aristoteles in duas primum
dividit partes, in accidens atque substantiam, et accidens in novem membra
dispersit dicens aut substantiam esse quamcumque illam rem aut si accidens
esset, quoniam aut qualitas aut quantitas aut ad aliquid aut ubi aut quando aut
iacere aut habere aut facere esset aut pati -- praelibat igitur nobis
Porphyrius ad horum verissimam cognitionem hoc de generibus, speciebus,
differentiis, propriis accidentibusque tractatu. Sic igitur cum ante
apodicticam dialecticamque rem syllogistica praelegatur, ante syllogisticam in
propositionibus primus labor sit, ante propositiones in categoriis pauca
desudent, ante categorias quae generibus, speciebus, differentiis, propriis
accidentibusque censentur, ordo est de his ipsis rebus pauca praelibare. Recte
igitur et filo lineae quodam hic Porphyrii liber primus legentibus studiorum
praegustator et quodammodo initiator occurrit. Quodsi in hac re quod dictum est
sat est, rem etiam de inscriptione confecimus. Quo enim alio melius quam introductionis
nomine nuncuparetur hic liber? Est namque ad Categorias Aristotelis introitus
et quaedam quasi ianua venientes admittet. Tunc Fabius: Perge, quaeso te,
et si eius hoc proprium germanumque opus est collige. ÑHoc, inquam, indubitatum
est, omnibus enim Porphyrii libris stilus hic convenit. Et mos hic Porphyrio
est, ut in his rebus quae sunt obscurissimae, introducenda quaedam et
praegustanda praecurrat, ut alio quodam libro de categoricis syllogismis fecit
et de multis item aliis quae in philosophia gravia illustriaque versantur. Et
hoc apud superiores indubitatum est, quibus nos nolle credere inscitia est.
ÑTunc Fabius: Restat, inquit, ut ad quam partem philosophiae ducatur,
edisseras. Ego dicam tibi. Quoniam categoriae ad propositiones aptantur, syllogismi
de propositionibus componuntur, apodictici vero vel dialectici syllogismi in
logicae artis disciplina vertuntur, constat quoque categorias, quae ad
propositiones syllogismosque pertinent, logicae scientiae esse conexas. Quare
introductio quoque in categorias ad logicam scientiam convenienter aptabitur.
Quoniam ea quae praedicuntur explicui, nunc textus ipsius ratio atque ordo
videatur. Tunc Fahius: Priusquam explanatio sensus procedat, id scire desidero,
cur cum posset dicere 'cum necessarium sit', praeposterato ordine cum sit
necessarium dixit. Et ego: Quoniam, inquam, nullum accidens est, quod non
substantiae fundamento nitatur. Porro autem quicquid ad cuiuslibet superiecti
firmitatem est, id antequam ipsum esset, fuisse necesse est. Ut enim in domibus,
nisi prius fundamenta subicias, nulla umquam fabrica, sic, nisi prius
substantiae fundamenta sint, nulla umquam accidentia superponentur. oportet
enim prius esse aliquid, ut formam qualitatis arripiat, nam 'necessarium'
qualitas est. Non absurde igitur prius 'esse' posuit, post etiam 'necessarium',
id est post substantiam qualitatis nomen aptavit. Hic Fabius:
Subtilissime, inquit, et lucide sed nunc ordo ipse operis testusque videatur. CUM
SIT NECESSARIUM, MENANTI, SIVE AD ARISTOTELIS CATEGORIAS SIVE AD DEFINITIONIS
DISCIPLINAM, NOSSE QUID GENUS SIT QUIDVE SPECIES, QUID DIFFERENTIA, QUID
PROPRIUM, QUID ACCIDENS, OMNINO ENIM AD EA QUAE SUNT DIVISIONIS VEL QUAE
PROBATIONIS, QUORUM UTILITATIS EST MAGNAE COGNITIO, BREVITER TIBI EXPLICARE
TEMPTABO. QUAE APUD ANTIQUOS QUIDEM ALTE ET MAGNIFICE QUAESTIONUM GENERA
PROPOSITA SUNT, EGO SIMPLICI SERMONE CUM QUADAM CONIECTURA IN RES ALIAS ISTA
EXPLICABO MEDIOCRITER. Nunc ego: Praediximus quidem pauca superius sed vel his
quaedam addere vel haec eadem rursus commemorare absurdum esse non arbitror.
Totus autem sensus talis est. Scribens ad Menantium de utilitate libri summatim
pauca praedixit, quo elucubratior animus auditoris exercitatiorque ad haec
capienda perveniat. Prodesse autem ad Aristotelis Categorias dicit, quod, cum
omnem sermonum significantium varietatem diversa rerum summa divideret et in
substantiam atque accidens omnes res secaret atque dispergeret, accidens in
novem secuit partes, quod superius demonstravi, et haec genera generalissima
nominavit, id est genikwutata, quod super ista alia genera inveniri non
possint. Igitur si sunt genera, sine speciebus esse non possunt. Si sub his
species supponuntur, differentiis non uacabunt. Quodsi differentias retinent,
propriis indigebunt. Accidentis vero novem praedicamenta sunt. Quocirca non
absurdum fuit hinc introductionem in Praedicamenta componi, ut de generibus,
speciebus, differentiis propriisque tractaret, quae in ipsis Praedicamentis
inseparabiliter videntur inserta. Amplius, quod Aristotelica subtilitas, priusquam
ad praedicamentorum ordinem veniretur, de aequivocis univocisque tractavit,
definit vero aequivoca sic: AEQUIVOCA SUNT QUORUM NOMEN SOLUM COMMUNE EST,
SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO ALIA ut si qua sunt quae nomine tantum
communicent, substantia vero dissimilent, univoca vero, quae sub eodem nomine
et sub eadem substantia continentur. omne igitur genus ad species quae sunt sub
ipso positae, univoce praedicari potest. Porro autem quicquid ad quaslibet res
aequivoce praedicatur, in his sola differentia est, genus vero speciesque non
convertitur. Animal enim et homo univocum est. Animal enim animalis nomine
dicitur, porro autem nomini nomen etiam convenit animalis, ut dicatur animal:
uno ergo nomine animalis homo et animal appellatur. Animalis vero definitio est
'substantia animata sensibilis': quam si ad hominem vertas, nihil absurdum
feceris; potest enim esse homo substantia animata sensibilis sed animal genus,
homo vero species. Univoce igitur genus et species praedicantur. Aequivoca vero
quae fuerint, quoniam definitionibus differunt et eorum quorum definitiones
aliae sunt, alia est etiam et substantia, quorum alia substantia est, alia sunt
etiam omnino genera, in his, id est aequivocis, constat quod neque genus neque
species possit aptari. Ut enim si quis hominem marmoreum et hominem vivum
hominis nomine appellet, idem nomen fecerit substantiae, differentia vero
definitioneque dissimili. Porro autem hominis et statuae non unum genus est sed
statuae inanimatum, hominis animatum. Quare constat quoniam numquam sub eisdem
generibus continentur quaecumque aequivoce praedicantur. Quam vim, nisi prius
de generibus, speciebus, propriis et differentiis notitiam scientiamque
perceperis, nullo umquam tempore discernes. Idem Aristoteles ait quid sint primae
substantiae, quid secundae. Et primas substantias dicit esse individuorum
corporum et singulorum, ut est Cicero aut Plato aut Socrates, secundas vero
substantiis species appellavit, ut est homo, vel genera, in quibus ipsae
species continentur, ut est animal. Haec igitur nisi praelibata generis
specieique cognitione sciri non possunt. Idem ait substantiam ad aliam
substantiam in eo quod substantia sit, nulla differentia disgregari. Idem
substantiae proprietates requirit, ut quasi inpresso aliquo signo, sic
proprietate nota facilius quid substantia sit invenire atque expedire possimus.
Atque hoc idem in accidentibus fecit. Nam et quantitatis et qualitatis et ad
aliquid relationis propria collegit, et idem magna apud Aristotelem cura
diligentiaque conspicitur. Videsne ut sese quinque harum rerum vis in
categorias interserat et praedicamentorum virtutibus inseparabiliter
colligetor? non mendax igitur Porphyrius de hac quinque harum rerum nobis in
Categorias utilitate promisit. Definitionis vero disciplinam superius diximus
praeter genela, species, differentias et propria non posse tractari. Sed
quoniam sunt quaedam genera quae genus habere non possunt, ut est substantia
vel alia quae Aristoteles in praedicamentis constituit. Dicat quis ad haec
horum cognitionem nihil omnino prodesse. Quod non sit in his a genere trahenda
definitio in quibus genus inveniri non possit, quod, si qua res genus non ƿ
haberet, species non esset; hoc ita posito ad generalissimarum generum
definitionem nihil genera et species utilitatis habere. Ridicula mehercule
atque absurda propositio! Praeter scientiam enim generum specierumque magis
genera illa generalissima cognoscere qui potis est, cum, haec sola generum
specierumque cognitio si amissa sit, nihil de generibus speciebusque noscatur?
In illis igitur in quibus genus aliud superius inveniri non potest, nullus
umquam terminus definitionis aptabitur et in ipsius definitione genera
speciesque cessabunt et solae differentiae propriaque illius terminum
definitionis informant. Cum enim id quod dicis, ab aliis rebus omnibus
adiunctis differentiis segregaveris et propriis inpressis formam eius
figuramque monstraveris, genus quod invenire non poteris. Perquirere non
labores. Sed in his species et genera non requiruntur in quibus, quod ipsa generalissima
sint genera, genus inveniri non queat. Porro autem in his quorum genus est
aliquid, nisi a genere definitio ducatur, finis eius definitionis vitiosa
conclusione colligitur. Accidens vero ad definitiones nihil prodesse non
dubium est. Definitio enim substantiam informare desiderat, accidens vero
substantiam non designat. Accidens igitur in definitione nihil prodest. Est
itaque necessaria generis specieique cognitio, ut si generalissima non sint
quae quisque definiturus est, a genere definitionem trahat, si vero
generalissima sint, ut genus quaerere, quod inveniri non potest, non laboret.
Aeque enim vitiosum est vel in generalissimis genera quaerere vel subalternis
generibus a generibus definitionem ducere supersedere. Differentiae vero
et propria, vel si magis genera sunt vel si subalterna, maximam retinent
utilitatem. Et quoniam ad definitiones quae pertinent quaedam dicta sunt, pauca
etiam de his ipsis rationabilius subtiliusque colligemus. Sit genus animal, sit
species homo, sit differentia rationale vel mortale, sit proprium risibile;
accidens vero quoniam ad definitiones in commodum est, praetermittamus.
Quisquis ergo speciem definit, ita genere ab aliis eam generibus separat, ut si
quis dicat 'quid est homo?' 'animal' dicat. Dicens enim animal separavit
hominem ab omnibus generibus quaecumque animalia non sunt. Si quis vero
differentiam dicat et eam ad speciem accommodet, res sub eisdem generibus per
differentias disgregavit. Nam cum dicis hominem esse animal rationale, eum
etiam et bos et equus species animalis sint, additum tamen rationale homini ab
aliis sub eodem genere speciebus hominis speciem segregavit atque distinxit
propria vero cum dederis, res quae sunt sub eisdem differentlis segregabis. Nam
cum dixeris hinnibile vel risibile, illud est equi proprium, illud hominis. Et
cum equus cum bove atque cane sub eadem differentia sit, quod irrationabilia
sunt omnia, adiectum hinnibile a caeteris equum sub eadem differentia speciebus
dividit. Homo vero et deus sub eadem differentia, id est rationali, quod
utrique rationales sunt, quamvis homo et deus adiuncta mortali differentia
separentur, proprio tamen, id est risibili, quod solus habet homo, naturalius ƿ
substantialiusque disiungitur. Quod in aliis rebus in quibus nullas species
talis differentia separat, melius cognosci potest. Nam cum sub eadem
differentia sint irrationabilia, equus, bos, canis, nec sit ulla alia quae eos
separet differentia substalltialis -- possunt enim accidentis differentiae esse
quae eos separent, quales sunt formarum -- additum proprium hinnibile equum ab
aliis sub eadem differentia speciebus proprietatis ipsius separatione
disiunxit. Repetendum est igitur a primordio quod genera in definitionibus
ab aliis generibus separant, differentiae ab ipsis speciebus quae sub eisdem
generibus positae sunt, propria ab speciebus quae sub eisdem differentiis
supponuntur. Sed quoniam plenede definitione tractatum est, probationis
vel divisionis vim subtilitatemque tractemus. Sed omnis divisio duplex est, aut
cum totum corpus in diversa disiungis aut cum genera per species distribuis. Si
quis igitur harum quinque rerum minus sollers divisiones rerum facere voluerit,
non est dubium quin eas per inscientiam saepe ab speciebus in genera solvat,
quod est factu foedissimum. Quod Hermagorae in prima Rhetoricorum disputatione
usu venit. In tales enim erroris nebulas incidit, ut duo genera sub aequalis
generis parte supponeret. Quodsi divisionum vim veritatemque vidisset et
disciplinam generum, specierum, propriorum et ƿ differentiarum suscepisset, numquam
tam insulsae divisionis errore tam vivacissime a Marco Tullio culparetur. In
probationibus vero tantus est huius operis fructus, ut praeter hoc nullius
umquam rei possit provenire probatio. Quid enim digne monstrare queas, cuius si
differentias nescias, id ipsum quale sit scire non possis? Quid autem digne
exequeris, cuius si genus nescias, ex quo id ipsum fonte manet ignores? vel
quid in probationibus ratione possis ostendere, cuius si speciem nescias, id
ipsum de quo aliquid probare vis, quid sit non possis agnoscere? Quodsi propria
praetermittas, nullas umquam res valebis propriae termino probationis
includere. At vero si non vim accidentium naturamque perspicias, cum de
cuiusque substantia tractes, inane accidentis nomen aeque in definitionibus
probationibusque miscebis. Ita his rebus cognitis integra stabilisque divisio
et definitio permanebit, incognitis debilis lababit et trunca
probatio. Haec se igitur Porphyrius, non enim Victorinus, breviter
mediocriterque promittit exponere. Nec enim introductionis vice fungeretur, si
ea nobis a primordio fundaret ad quae nobis haec tam clara introductio
praeparatur. Servat igitur introductionis modum doctissima parcitas disputandi,
ut ingredientium viam ad obscurissimas rerum caligines aliquo quasi doctrinae
lumine temperaret. Dicit enim apud antiquos alta et magnifica quaestione
disserta quae ipse nunc parce breviterque ƿ composuit. Quid autem de his a
priscis philosophiae tractatoribus dissertum sit, breviter ipse tangit et
praeterit. Tunc Fabius: Quid illud, inquit, est? Et ego: Hoc, inquam, quod ait
se omnino praetermittere genera ipsa et species, utrum vere subsistant an
intellectu solo et mente teneantur, an corporalia ista sint an incorporalia, et
utrum separata an ipsis sensibilirbus iuncta. De his sese, quoniam altior esset
disputatio, tacere promisit, nos autem adhibito moderationis freno mediocriter
unumquodque tangamus. Eorum ergo quae se transire et praetermittere pollicetur,
prima est quaestio, utrum genera ipsa et species vere sint an in solis intellectibus
nuda inaniaque fingantur. Quae quaestio huiusmodi est. Quoniam hominum
multiformis est animus, per sensuum qualitatem res sensibus subiectas
intellegit et ex his quadam speculatione concepta viam sibi ad incorporalia
intellegenda praemunit, ut cum singulos homines videam, eos quoque me vidisse
cognoscam et quia homines sint, me intellexisse profitear. Hinc igitur ducta
intellegentia velut iam sensibilium cognitione roborata sublimiori sese
intellectu considerationis extollit et iam speciem ipsam hominis, quae sub
animali est posita, et singulos homines continere suspicatur et illud
incorporeum intellegit cuius aote particulas corporales in singulis hominibus
sentiendis et intellegendis assumpserat. Nam hominem quidem illum specialem,
qui nos ƿ omnes intra sui nominis ambitum cohercet, non est dicere corporalem,
quippe quem sola mente intellegentiaque concipimus. Sic igitur mens rerum nixa
primordiis altiori atque incomparabili intellegentia sublimatur. Hinc ergo
animus non solum per sensibilia res incorporales intellegendi est artifex sed
etiam fingendi sibi atque etiam mentiendi. Inde enim ex forma equi vel hominis
falsam Centaurorum speciem sibi ipsa intellegentia comparavit. Has igitur
mentis considerationes quae a rerum sensu ad intellegentiam profectae vel
illtelleguntur vel certe finguntur, fantasiva" Graeci dicunt, a nobis visa
poterunt nominari. Ita ergo nunc de generibus, speciebus et caeteris quaerunt,
utrum haec vere subsistentia et quodammodo essentia constantiaque intellegantur,
ut a corporalibus singulis vere atque integre ductam hominis speciem
intellegamus, an certe quadam animi imaginatione fingantur, ut ille Horatii
versus est: HUMANO CAPITI CERUICEM PICTOR EQUINAM IUNGERE SI VELIT
quod neque est neque esse poterit sed sola falsa mentis consideratione
pingitur. Nimis acute subtilis inquisitio atque ad rem maxime profutura!
Scienda enim sunt utrum vere sint nec esse de his disputationem
considerationemque, si non sint. Sed si rerum veritatem atque integritatem
perpendas, non est dubium quin vere sint. Nam cum res omnes quae vere
sunt, sine his quinque esse non possint, has ipsas quinque res vere intellectas
esse non dubites. Sunt autem in rebus omnibus conglutinatae et quodammodo
coniunctae atque compactae. Cur enim Aristoteles de primis decem sermonibus
genera rerum significantibus disputaret vel eorum differentias propriaque
colligeret et principaliter de accidentibus dissereret, nisi haec in rebus
intimata et quodammodo adunata vidisset? Quod si ita est, non est dubium quin
vere sint et certa animi consideratione teneantur. Quod ipsius quoque Porphyrii
probatur assensu. Nam quasi iam probato et scito quod ista vere subsistant,
aliam quaestionem inferre non dubitat, cum dicit: an corporalia ista sint an
incorporalia. Quae nimis esset frivola atque absurda quaestio, utrum essent
corporalia, nisi prius esse constaret. Haec quoque non mediocriter utilis
inquisitio ita resolvitur: incorporalia esse quae ipsa quidem nullis sensibus
capiantur, animi tamen qualia sint consideratione clarescunt. Nam quia
incorporeorum prima natura est, potest res incorporea parens esse quodammodo
corporeae. Corporea vero incorporeis praeesse non poterunt, quod, quoniam
substantia genus est, corporale vero et incorporale species substantiae,
corporale non esse genus haec res declarat, quod substantiae, id est generi,
incorporale supponitur. Quodsi corporale esset genus, numquam sub eo species
incorporea poneretur. Animadverte igitur vehementissime, quam numquam ƿ
quicquam a te animadversum fuit. Genus ipsum quoniam species habet, species
vero differentiis disiunguntur et proprietatibus informantur, quoniam quaedam
species reperiuntur quae in contraria sub genere divisione contrarias obtineant
vices, ut sub animali rationale atque irrationale contraria sunt et sub
rationali mortale atque immortale et haec quoque contraria, quaeritur, si
animal solitario intellectu neque rationale neque irrationale sit, unde hae
differentiae in speciebus natae sint, quae in genere ante non fuerant. Quodsi
genus, id est animal, utrasque res in se habet, ut et rationale et irrationale
sit, in uno eodemque duo contraria eveniunt, quod est impossibile. Accingam
igitur breviter quaestionem et dicam quod non genus utrumque sit, id est
rationale vel irrationale, vel quicquid aliud inter se species per
contrarietates dividunt sed vi sua et potestate genus, hoc continet, ipsum vero
nihil horum est. Ita ergo genus tale est, ut ipsum neque corporale neque
incorporale sit, utrumque tamen ex se possit efficere, quod secundo libro
melius liquebit. Species alias corporalis, alias incorporalis est. Nam si
hominem sub substantia ponas, corporalem speciem posuisti, sin deum,
incorporalem. Eodem modo etiam differentiae. Nam si corporales vel incorporales
ƿ species dividunt, erunt alias incorporales, alio tempore corporales, ut si
dicas 'quadrupes' ad bipedem, corporalis differentia est sed 'rationalis' ad
irrationalem, incorporalis differentia est. Et propria nihilominus eodem modo.
Nam aequale speciei proprium fuerit: si corporalis, corporale erit proprium, si
incorporalis, incorporale vindicabitur. Et accidens eodem modo. Nam si
incorporalibus quid accidit, incorporale esse manifestum est, ut in animo
accidens est scientia, incorporalis scilicet, corporalibus vero quae accidunt,
corporalia esse manifestum est, ut si quis dicat accidens me habere capillum
crispum. Si igitur genus neutrum per se ipsum est sed utrasque res es se ipso
efficere potest, species, differentia, propria et accidentia ut accepta in
contrarias species fuerint, proinde vel corporalia vel incorporalia vocabuntur.
Sed sunt quibus hoc ipsum integrum videri possit, et haec solum incorporalia
esse definiunt. Qui sic dicunt, non considerari genus in eo quod quaeque res
suapte natura constat sed in eo quod genus sit. Itaque si substantia genus est,
non consideratur in eo quod substantia est sed in eo quod sub se species habet.
Item si species corporeum et incorporeum est, non in eo quod deus vel homo
dicitur, consideratur sed in eo quod est sub genere. Eodem modo etiam
differentiae non cons'iderantur in eo quod bipes vel quadrupes sit sed in eo
quod est differentia. Nam quadrupes hoc ipsum nulla differentia est, nisi sit
bipes a quo differat. Itaque non quadrupes vel bipes respicitur sed id quod
medium est in bipede et quadrupede, id est differentia: et de proprio idem. Nam
quod cuiusque est proprium, in eo proprium consideratur quod eius cuius dicitur
esse proprium speciei solius est. Nam 'risibilis' non in eo proprium hominis
quod risus est sed in eo quod solus homo potest ridere. Quae manifeste
incorporalia esse indubitatum est. Deinde accidentia proinde sunt, qualia
fuerint ea quibus accidunt, ut superius dictum est. Sed hi probare videntur hoc
ipsius Porphyrii sententia, qui, veluti iam probato quodi ncorporea sint, ita
ait: ET UTRUM SEPARATA AN IPSIS SENSIBILIBUS IUNCTA, quod, si esse haec
aliquando corporalia extitisset, absurdum esset quaerere utrum incorporalia seiuncta
essent a sensibilibus an iuncta, cum sensibilia ipsa sint corpora. Talis autem
est quaestio, ut quoniam quaedam incorporales sunt res, quae omnino corpora non
patiuntur, ut ƿ animus vel deus, quaedam vero quae sine corporibus esse non
possunt, ut prima post terminos incorporalitas, quaedam autem quae in
corporibus sunt et praeter corpora sese esse patiuntur, ut anima -- quaeritur
ergo hae quinque res ex quo incorporalitatis sint genere, utrum eorum quae
omnino separantur a corpore an quae a corporibus separari non possunt an quae
iungantur aliquotiens, aliquotiens segregentur. Videtur autem quod et segregari
et iungi possint. Nam quando corporalium divisio per genera in species fit et
eorum propria et differentiae nominantur, haec circa sensibilia, id est
corporalia esse non dubium est; cum vero de incorporalibus rebus tractatus
habetur et per ea ipsa dividuntur quae corpore carent, circa incorporalia
versantur. Quodsi boc est, non est dubium quod quinque haec ex eodem sunt
genere, quod et praeter corpora separata esse possint et corporibus iungi
patiantur sed ita, ut si corporibus iuncta fuerint, inseparabilia a corporibus
sint, si vero incorporalibus, numquam ab incorporalibus separentur et utrasque
in se contineant potestates. Nam si corporalibus iunguntur, talia sunt, qualis
illa prima post terminos incorporalitas, quae numquam discedit a corpore, si
vero incorporalibus, talia sunt, qualis est animus, qui numquam corpori
copulatur. Haec sese igitur Porphyrius tacere pollicitus breviter ƿ
mediocriterque super his rebus tractare promittit habita in res alias
consideratione aut coniectura, quod simile est ac si diceret: quoniam haec ad
praedicamenta et ad definitiones et ad divisiones et ad probationes pertinent,
ideo haec tractaturus assumo et eatenus de his disseram, quatenus in supra
dictis rebus proficiunt, non quatenus de his ipsis generibus speciebusque et
caeteris tractari possit. SUNT ENIM ILLA, ut ipse ait, GRAVIORIS TRACTATUS;
QUAM DOCTRINAM A PERIPATETICIS ACCEPTAM, id est ab Aristotelicis, SE SEQUI
confessus est. Nam Stoici, qui de his quoque rebus tractare voluerunt, non
omnino a Porphyrio suscipiuntur, atque ideo ait se a Peripateticis rationem
disputationis accipere. Tunc me Fabius ita percunctatus: Quid est, inquit, quod
dudum dixeras, cum a te de incorporalibus tractaretur, esse quasdam
incorporalitates quae circa corpus semper consisterent, ut sunt primae incorporalitates
post terminos? Quae est haec incorporalitas aut quos terminos dicis? Non enim
intellego. ÑEt ego: Longas, inquam, tractatus est et nihil nobis ad hanc rem
quam quaerimus profuturus. Sed dicam breviter terminos me dixisse extremitates
earum quae in geometria sunt figurarum, de incorporalitate vero quae circa
terminos constat, si Macrobii Theodosii doctissimi viri primum librum quem de
Somnio Scipionis composuit in manibus sumpseris, plenius uberiusque cognosces.
Sed nunc ad sequentia transeamus. Tunc Fabius: Ut placet, inquit, simulque
sic incipit: VIDETUR ENIM NEQUE GENUS NEQUE SPECIES SIMPLICITER APPELLARI, ID
EST UNO MODO. GENUS NAMQUE DICITUR QUORUNDAM AD ALIQUID QUODAMMODO HABENTIUM
COLLECTIO, PER QUAM DARDANIDUM DICITUR GENUS. DICITUR RURSUS GENUS
UNIUSCUIUSQUE NATIVITATIS PRINCIPIUM AUT A GENERANTE AUT AB EO IN QUO QUIS
GENITUS EST. Caetera, inquit, fere nota sunt. Tunc ego: Si vim prius
aequivocationis aspicias, divisionem generis diligenter agnosces. Placet enim
per generis nomen cum sibi subectis aequivoca nominare. Aequivoca vero sunt
quae, cum nomine una sint, longe diversa substantiae ratione et definitione
discreta sunt, ut si quis hanc verbi gratia statuam Veneris <Venerem>
appellet. Congruunt igitur Venus ipsa et statua Veneris unius nuncupatione
vocabuli, quod utrisque Veneris nomen est. Si quis vero qui sit utrumque
definiat, longe aliam Veneris, aliam lapidis rationem definitionemque
constituet. Speciebus igitur illa esse aequivoca quae uno vocabulo appellentur,
definitionibus vero diversis ƿ constituantur, clarescet, ut opinor,
participatione generis quam Porphyrius fecit, non Victorinus, visa. Omne enim
quicquid a genere in species ducitur, univocum. non aequivocum est. Univocum
est quod et eodem nomine vocari et eadem definitione constitui potest, ut est
animal genus, homo vero species sed idem homo animal est. Genus igitur et
species, id est animal atque homo, possunt unius animalis nomine nuncupari, ut
utrumque animal vocetur sed eadem definitionibus non discrepent. Nam si definitionem
reddas animalis, dicas id esse animal quod est substantia animata sensibilis;
quam si definitionem ad hominem vertas, non erit absurdum dicere hominem
substantiam esse animatam atque sensibilem sicut animal, sicut iam superius
dictum est. Si enim univoca sunt quae uno nomine atque eadem definitione
constituuntur, aequivoca vero quae uno nomine sunt et non sunt una definitione
substantiae, quicquid univocum est, in his genera speciesque versantur,
quicquid aequivocum est, non est in eis talis participatio, ut speciebus et
generibus censeantur quae enim erit in his generis specieique cognitio, in
quibus substantiae definitio atque integerrima ratio disgregatur? Ita ergo
Porphyrius nomen generis ƿ in tres dividit formas sed ut aequivoca, non ut
univoca, id est ut hae formae uno quidem generis nomine contineantur, sui autem
proprietate disgregata dissentiant. Sed Porphyrius nomen generis hoc modo in
tres dividit partes, ut dicat vocari semel genus de eorunr inter se
plurimorumque collectione qui ab uno quocumque nomen generis trahunt, ut Romani
a Romulo trahentes genus ex eodem genere esse dicuntur. Secundo vero loco dici
genus affirmat, ut cuiuscumque est nationis principium aut a generante aut a
loco in quo quis natus est, ut Aeneam ab Anchisa et genere dicimus esse
Troianum. TERTIUM VERO GENUS DICIT ILLUD CUI SPECIES SUPPONITUR. Victorinus
vero duo superiora genera in unum redigit. Nam et multitudinis congruentiam
inter se per eandem generis nuncupationem et quorumcumque a genere lineam et
locum in quo quis natus est, uno generis vocabulo et designatione esse
declarat. Addit autem ipse quod soli Latinae linguae congruere possit: dicit
enim SECUNDO MODO GENUS DICI. UT EST GENUS CAUSAE HONESTUM. Quae genera
causarum Graeci in rhetorica arte genera esse non putant sed schumata vocant id
est figuras, genera autem sola principalia accipiunt, demonstrativum,
deliberativum scilicet et iudiciale. Quae ipsa ƿ ei[dh rIhtorikh`" vocant,
id est species rhetoricae, genera vero causarum. Tertium vero genus est id quod
Porphyrius ponit, id est sub quo differentiis distributae species supponuntur.
Sed quoniam de tertio genere tractaturus est, Victorini culpam vel, si ita
contingit, emendationem aequi bonique faciamus. Nunc ergo ad priorem apud
Victorinum generis significationem reuertamur et eius ut sunt verba enodanda
atque expedienda sumamus. GENUS NAMQUE inquit DICITUR QUORUNDAM AD ALIQUID
QUODAMMODO HABENTIUM COLLECTIO. Hic ergo utrumque monstravit, et cognationem
inter se multitudinis et lineae ductum. Nam cum dicit genus esse quorundam
collectionem ad se invicem quodammodo habentium, id est aliqua inter se
cognatione, iunctorum, et quod addidit ET AD ALIQUID, generis lineam
significat, quam singuli contingentes et ad unum sese ipsius generationis
applicatione iungentes plures ex eadem linea iuncti atque cognati sunt, ut sit
hic ordo: genus dicitur quorundam collectio quodammodo ad aliquem habentium, id
est alicuius lineam per genus contingentium, ut per collectionem cognationem
demonstret et per habitudinem quodammodo ad aliquem colligatam lineam generis
ductumque designet. Sequitur ergo et id planius lucidiusque significat, cum
dicit: DICITUR RURSUS GENUS CUIUSCUMQUE NATIVITATIS PRINCIPIUM AUT A GENERANTE
ƿ AUT AB EO IN QUO QUIS GENITUS EST. Id ipsum latius expedit quod superius
stricto et sentuoso brevitatis vinculo colligaverat. Dicit enim rursus dici
genus aut a generante aut a loco in quo quis natus est. Sed rursus particula si
ad hoc conectatur quod ait aut ab eo in quo quis genitus est, intellectus non titubat,
ut sit ordo: dicitur genus uniuscuiusque nativitatis principium aut a generante
aut rursus ab eo in quo quis genitus est. Vel certe erit simplicior expositio.
Si priorem generis significationem, id est quorundam ad aliquem quodammodo
habentium collectionem, ad solius cognationem multitudinis accipiamus, lineae
vero ductum et loci generationem in subteriore significatione distribui, ita
tamen, ut una quodammodo generis significatiolle et multitudinis cognationem et
a generante lineam et loci nativitatem significet. Haec enim omnia de sola
cuiuslibet natione tractantur. Quare non absurdum est quae omnia ad ortum
genitalem cuiuslibet pertineant. Una significatione generis contineri. Propriae
tamen et simplicissimae expositionis est quattuor significationes generis
constituisse Victorinum, ut ad tres Porphyrii unam ipse addiderit generis
causae, ut sint hae quattuor significationes, multitudinis cognatio, lineae
ductus, genus causae, genus specierum. Sequitur secunda generis divisio
apud Victorinum UT EST GENUS CAUSAE: quae Graeci, ut dictum est, Non genera sed
schumata vocant. Tertiae vero significationis generis, hic modus est GENUS DICI
CUI SUPPONITUR SPECIES, id est genus illud a quo species derivantur, quod ait
ad superiorum fortasse similitudinem aequitatemque dispositum. Sic enim genus
speciebus suis principium est, ut Romulus his, qui ab eo cognati sunt iunctique
Romani item eodem modo nomen Romuli Romanos omnes continet, quemadmodum nomine
generis species continentur. Nam sicut a Dardano Dardanidae prioris nomen
Dardani in sese ipsos posteriores accipiunt, ita et animal cum verbi gratia
species habeat hominem atque equum, equus scilicet atque homo animalis in se
vocabulum capere, ut dicantur ipsa animalia non recusant. Eodem igitur modo
species sub generibus continentur, quemadmodum cognati homines sub illo a quo
illam cognationem forte traxerunt. Nam et genus speciebus principium est et
plurimarum in se specierum collectivum est. Rursus primum cognationis nomen et
ipsius generationis est principium et in illius solius vocabulo diversitas
hominum vocabuli et generis participatione colligitur, atque hoc est quod ait
his verbis: ALITER DICITUR GENUS CUI SUPPONUNTUR SPECIES, IUXTA
SIMILITUDINEM FORTE SUPERIORUM APPELLATUM ETENIM PRINCIPIUM QUODDAM EST GENUS
HIS QUAE SUB IPSO SUNT ET VIDETUR MULTITUDINEM CONTINERE OMNIUM QUAE SUB SE
SUNT. Sed cautissime additum est videtur. Si enim nihil haec omnia distarent,
una significatio generis esset et ea quae in species funditur et ea quae in
cognatione dividitur. Sed est inter haec ƿ genera talis diversitas, quod genera
earum specierum quae sub se habent alias species, aequaevis speciebus
aequaliter sunt genera. Hominem enim et equum, qui sub animali sunt, neutrum
neutro possumus dicere prius ad tempus inchoationemque nascendi. Nam si qua res
una sit prior, altera posterior et eas sub uniuscuiusque generis nomine quis
velit aptare, non poterit; genus enim speciebus suis aequaliter genus est.
Quodsi genus speciebus suis aequaliter genus est, species ipsae eius ordinis
inter se aequali tempore ortuque censentur. At vero in generibus quae
cognationes efficiunt, non ita est. Quisquis enim fuit Capis pater, qui Capuam
condidit, si solum filium Capin progenuit et ab uno Capuanorum cognatio
iunctioque cuncta manavit, distat a genere cui species supponuntur, quod genus
uni speciei genus numquam esse potest nisi pluribus, quod quoniam est idoneum
genus illud, id est principium cognationum, etiam ab uno filio colligere et
congregare cognationem, quod genus per species ductum facere non potest, nisi
plures species supponantur, constat in hoc distare genus quod cognationem
colligit, ab eo a quo species dividuntur. Potest autem distare in hoc etiam,
quod genus, id est principium cognationis, potest habere sub se duos ex se non
aequali temporis conditione progenitos sed alium posterioris ortus, alium vero
senioris, quod in generibus speciebusque non convenit. Nam, ut ƿ superius
dictum est, species nisi sibi aequales fuerint, non merito sed natura, sub
genere poni non possunt. His igitur expeditis sequitur: TOTIENS IGITUR DE
GENERE DICTO DE POSTREMA SIGNIFICATIONE INTER PHILOSOPHOS DISPUTATIO EST, QUOD
DEFINIENTES ITA DECLARANT -- Quod dicit TOTIENS, tertio demonstrare vult atque
hoc propter lucidam operis seriem admissum est, ut, quoniam genus plurimorum
nomen est, omnis eius primum significatio diceretur, ut de qua disputandum
esset, aliis reiectis eligeret. Quod ait hoc modo: cum totiens, id est tertio,
genus dicatur, apud philosophos, id est unde ipse tractaturus est, de postrema
generis significatione quam dixit, id est de illo genere quod sub se species
habet, disputatio consideratioque vertitur. At vero de superioribus generibus
id est de cognatione et loco in quo quis genitus est, aut historicorum aut
poetarum spectatio est secundi vero generis rhetorum, tertii philosophorum
consideratio est. Etiam hic in disputationibus ordo est, quod, cum inciderent
res quae multis possit nominibus nuncupari et de unoquoque eorum vocabulo
tractari disserique, necesse est dici prius in ordinem omnia, ut id quod
eligitur et reicitur distinguatur. Sed illa quae reicienda atque explodenda
sunt, prius dicantur, illud vero quod disserendum tractandumque, ƿ capitur,
posterius nominetur, ut hic illa posterior generis significatio posita est,
quam disserendam accepturus prius definiendam et termino quodam
circumscribendam demonstrandamque suscepit. Omnis enim res, nisi quid prius sit
constiterit. Eius tractatus uacuo modo speculationis habebitur. Definit igitur
sic: genus esse quod ad plures differentias specie distantes in eo quod quid
sit praedicatur, velut animal. Quod definitionis talis est. Omnia quae distant,
habent inter se quandam differentiam qua distare et differre videantur. Porro
autem si quid sit genus et sub eo species supponantur, duas vel plures necesse
est species poni sub genere, quoniam unius speciei genus esse non potest. Sed
si plurimae species erunt, aliqua necesse est differentia dividantur, aliter
cnim plures esse non possunt. Nam si nihil distent, non erunt plures species et
nomen generis perit. Constat igitur eas sub genere poni species quae
differentiis distributae plures numero ipsarum differentiarum divisionibus
componantur. Ergo, quoniam superius dictum est in omnibus definitionibus a
genere definitionis trahendum esse principium, si quam cuiuslibet speciem
definile volueris, genus primo necesse est nominabis et ad illam speciem quam
definis, generis ipsius nomen prius aptabis. Et hoc illam principaliter dicis
esse, quod est illud genus sub quo ipsa species quam definis est posita. Post
autem differentiis propriisque eam ab aliis circumscriptione quadam
definitionis ƿ excludis. Nam si dicis animal esse hominem, animal genus est,
species vero homo. Nomen igitur animalis, id est generis, de homine, id est
specie, praedicasti, cum dixeris hominem esse animal. Quodsi nomen generis in
definitionibus ad unam speciem dicere posses, de ea nomen generis praedicares.
Species autem aequali modo generibus suis species sunt, nihil uetat, immo etiam
necesse est semper quaecumque sunt genera, de sibi subiectis speciebus in
definitionibus vel in quibuslibet interrogationibus praedicari. Sed quoniam
praedicatur genus de speciebus, quomodo praedicetur agnoscendum est. Nam si
dixeris: quid est homo? Et aliquis responderit animal, bene et integre respondisse
videtur, et certe. Nam cum tu quid sit homo interrogaveris, ille respondit
animal, genus scilicet de specie in eo quod quid sit species praedicavit. Nam
tu quid esset species interrogasti, ille vero in eo quod quid sit species quam
interrogasti, animalis nomen, id est generis accommodavit. Plena igitur et
propria definitio facta est generis, 'hoc esse genus quod ad plurimas
differentias specie distantes in eo quod quid sit appellatur, velut animal';
animal enim ad hominem, equum, bovem, coruum, anguem et alia plura quae
differentiis speciebusque differunt, in eo quod quid sit appellatur. Sed utrum
sic dixisset, genus esse quod ad plurimas species differentia distantes in, eo
quod quid sit praedicetur, an, sicut dixit, 'genus esse quod ad plurimas differentias
specie distantes in ƿ eo quod quid sit praedicatur', nihil interest. Nam sive
differentiae specie distent sive species differentiis distent, utrumque idem
est. Nam sive rationale et irrationale, quae sunt differentiae, specie hominis
verbi gratia atque equi distent, sive species homo atque equus differentia
rationali atque irrationali dividantur et distent, nihil interest. Quare plena
perfectaque facta est generis definitio. Sed definitiones duplicibus modis
fiunt. Una enim definitio est quae, sicut dictum est, a genere trahitur. Sed
quoniam sunt quaedam magis genera, quae super se genus aliud habere non
possunt, ut sunt praedicamentas decem quae Aristoteles constituit, eorum igitur
definitio quae haberi potest quorum genus inveniri non potest, quod omnium
quaecumque sunt, ipsa sunt genera? horum ergo quos Graeci vipografikou;"
lougou" dicunt, Latini subscriptivas rationes dicere possunt, reddemus.
Subscriptivae autem rationes sunt demonstrativae et quodammodo insignitivae
proprietatis illius rei quae cum ipsa generalissima sit et genus eius nullum
reperiri possit, eam tamen definire necesse est. Et Aristoteles, quoniam
substantiam genus generalissimum definire volebat et eius nullum genus poterat
invenire, proprietatem quandam et demonstrationem subscriptionemque ipsius rei
dixit esse subiectum. Substantia enim omnibus subiecta est. Accidens enim, quod
in novem ƿ dividitur partes, praeter substantiam esse non potest. Atque ideo
omnia quaecumque definienda sunt, si genus non habeant, eorum subscriptivam
quandam et demonstrativam rationem reddi necesse est. Sic igitur nunc generis,
quoniam rem ipsam definiendam putabat, non duxit a genere definitionem sed
dedit quandam generis demonstrationem proprietatemque. Dico autem quod
Porphyrius vel subalternorum generum vel illorum quae generalissima sunt, hanc
dederit definitionem et quodammodo subscriptionem demonstrationemque. Nam si
quod genus habeat aliud genus et item hoc ipsum aliud et item aliud si nullum
erit supra genus quod genus non habeat, in infinitum procedit ratio. Sin vero
non habuerit, necesse est quoque istam definitionem apte ordinateque congruere.
Dico autem genus non animal homini atque equo sed illud quo ipsum animal homini
atque equo genus est. Animal enim ipsum per sese nulli genus est neque homo
ipsum per sese ulli species est neque equus ipsum per sese ulli species est sed
sunt genera et species ad alterius participationem. Nam quoniam sub animali est
equus atque homo, non ad se ipsum animal genus est sed ad equum atque hominem.
Et item species quae vocantur, homo scilicet atque equus, non ad equum atque
hominem sed ad animal, species sunt. Dico igitur genus <et species> non
ipsas substantias in quibus genus et species sunt. Sed ipsam participationem
priorum ad subteriores et subterioram ad priores. Haec igitur participatio
quoniam et in magis ƿ generibus et in magis speciebus et in subalternis
generibus et in subalternis speciebus una atque eadem est et huius
participationis inveniri genus non poterat. Haec definitio generis quae facta
est, non a genere tracta est sed subscriptiva ratio et demonstrativa et
designatitla quodammodo generis est reddita. Hic Fabius: Subtiliter
mehercule et quod numquam fere ante haec audivimus. Sed perge, quaeso te. Iam
enim certant sidera quodammodo et nox luce superatur. ÑTunc ego: Sequitur rerum
omnium prima brevisque divisio. Ita enim ait: EORUM QUAE DICUNTUR, ALIA AD
UNITATEM DICUNTUR, SICUT SUNT OMNIA INDIVIDUA, UT EST SOCRATES ET HIC ET ILLUD,
ALIA QUAE AD MULTITUDINEM, UT SUNT GENERA ET SPECIES ET DIFFERENTIAE ET PROPRIA
ET ACCIDENTIA. HAEC ENIM COMMUNITER, NON UNIUS PROPRIE APPELLATIONIS
SUNT. Brevis, ut supra dictum est, et distincta divisio. Omnis enim res
aut unius rei nomen est aut plurimarum, et hoc est quod ait: eorum quae dicuntur,
alia ad unitatem dicuntur, sicut sunt omnia individua. Quid autem sit, breviter
explicandum est. Omne genus quoniam sub se ƿ species habet, species vero
differentiis distinguuntur et proprietatibus explicantur -- accidunt autem in
speciebus accidentia secundo loco, principaliter vero in individuis quae sunt
sub speciebus. Quid autem sit, posterius dicendum est -- genera igitur et de
speciebus dicuntur et de differentiis, quae ipsas species distribuunt, et de
propriis. Quae species componunt. Et de his accidentibus quae, cum principaliter
in individuis fuerint, in speciebus esse dicuntur. Hoc autem monstremus
exemplis. Et sit nobis genus animal, sit species homo, sit differenti
rationale, sit proprium risibile, sit accidens stans vel ambulans vel aliquid
in mensura corporis, ut tripedalis. Animal ergo, quod genus est, dicitur de
specie, id est de homine; dicis enim hominem esse animal. Porro autem de
speciei differentia nihilominus dicis genus: dicis enim rationale esse animal.
Nihil autem prohibet eodem modo et de proprio genus dicere. Nam si dicas: quid
est risibile? non absurdum est animal nominare. Accidentia vero hoc modo
principaliter in individuis, secundo vero loco in speciebus sunt. Nam si quis
dicat ad singulos homines, ut puta Ciceronem sedere vel stare vel quod aliud
libet, in specie hominis eadem quoque convenire necesse est. Nam si Cicero
sedet sedet etiam homo, si Cicero ambulat, ambulat etiam homo. Ergo si qua
accidentia venerint ab individuis et ea tracta in speciebus consederint, ad
ipsa quoque accidentia dici poterit genus. Quid est enim ambulans, si quis
interroget, merito animal dicitur. Nihil enim ambulare nisi animal potest.
Porro autem sub speciebus individua sunt, ut Cicero et Virgilius sub homine,
atque de individuo ƿ genus speciei praedicari potest. Nam si interrogaveris,
quid est Cicero, merito animal dicas. Genus igitur et ad speciem et ad
differentias et ad accidentia et ad propria et ad individua
nominatur. Porro autem species non iam de genere neque de differentiis sed
de solis propriis et subiectis individuis appellatur, in illis, id est
individuis, quia superest. In propriis vero, quia aequalis est. Quid autem sit,
hoc modo videamus. omnia genera speciebus suis supersunt et abundant. Abundare
autem genera dicimus speciebus plus habere genera virtutis quam species. Homo
enim quod est species, solum homo est, animal vero quod est genus, non solum
homo est sed et equus vel bos vel quod aliud libet animali supponere. Ita maior
vis generis recte de minori sibi et subiecta specie praedicatur. Alia vero sunt
quae sibi sunt paria, ut sunt propria et species. Species est homo, proprium
risibile. Quicquid ergo fuerit risibile, hoc est homo, quicquid homo, hoc
risibile. Itaque neque risibile hominis neque homo risibilis potentiam
superuadit sed aequalia sibi ad se invicem praedicari possunt, ut dicas: quid
est homo? risibile; quid est risibile? homo. Ita igitur quaecumque superiora
fuerint, ad illa quae subteriora sunt, praedicantur et quaecumque aequalia
fuerint. Aequaliter sibi ad se invicem praedicantur. Illa vero quae subteriora
sunt et minora, de superioribus et abundantibus, ut sunt genera et species --
genera enim abundantia, species minores -- praedicari non possunt. Numquam enim
recte speciem de genere praedicabis. Ita ergo species de proprio praedicatur ut
pari sed quoniam sub speciebus singillatim individua sunt -- individua autem
vocamus quae in nullas species neque in aliquas iam alias partes dividi
possunt, ut est Cato vel Plato vel Cicero et quicquid hominum singulorum est;
hos enim in nullis partibus dividis, ut animal in species, hominem scilicet
atque equum, hominem ipsum specialem et singulos circumplectentem in Catonem,
Platonem, Virgilium et omnes singillatim homines distributos; hominem vero
ipsum singulum, id est Ciceronem, in nullos alios distribuere possumus atque
ideo a[tomon, id est individuum, vocitatum est -- species ergo, quae ad propria
aequaliter praedicatur, ad individua, quoniam maior est species hominis quam
quodlibet individuum, ita praedicatur, ut superius ad id quod est subterius.
Cicero enim solus Cicero est, homo autem non solum est Cicero quod si ad
individua praedicatur, et ad individuornm accidentia praedicabitur. Ita igitur
species ad genus eo quod superius est, non praedicatur neque ad differentiam,
quia differentia, ut nunc monstraturi sumus, super speciem est, ad proprium
vero, cui par est, vel ad individuum, cui superest, praedicatur. Differentia
vero et ad species et ad propria et ad individua praedicatur. Namque rationale,
quod est differentia, ad hominem praedicatur, quod est species. Item rationale,
id ƿ est differentia, praedicatur ad risibile, id est proprium. Dicitur enim id
esse risibile, quod rationale. Nam si homo rational et homo risibile, constat
id quod est risibile, etiam rationale posse nominari. Quodsi ad species
differentia dicitur, species autem ad individua praedicatur. Necesse est ut
differentia quoque ad individua praedicetur. Dicis enim: qualis est Cicero?
rationalis. Quodsi differentia ad individua praedicatur, accidentia vero in
individuis accidunt. Necesse est differentias et ad accidentia praedicari.
Proprium vero quoniam semper unius speciei proprium est, et ad ullam speciem
praedicatur solam. Cuius est proprium. Risibile namque, quod proprium est ad
solam hominis speciem praedicatur. Quod si ad hominis speciem praedicatur.
Species vero ad individua dicitur. Non est dubium quin proprium quoque de
individuis praedicetur. Nam si homo risibile animal est, Cicero quoque et
Virgilius risibilia animalia recte dicuntur. Quodsi proprium ad individua recte
dicitur, recte etiam et de accidentibus praedicatur quae in ipsis accidunt
individuis. Accidentia vero ipsa et de speciebus et de aliis omnibus
praedicantur et de ipsis maxime individuis. Namque et albus equus et albus homo
dicitur et iterum niger equus et niger Aethiops. Quod si ita est, animal quoque
nigrum dicitur. Dicitur etiam rationale nigrum et irrationale nigrum, quippe si
equus et homo Aethiops nigri sunt. Dicitur etiam risibile nigrum, cum homo quis
niger fuerit. Dicitur etiam individuum nigrum, cum quis unus homo ex Aethiopia
nominatur. Quod cum ita sit, constat genus ad plurima praedicari, id est ƿ
speciem, differentias, accidentia propriaque et individua, nihilominus et
differentiam ad plurima praedicari, id est ad speciem, propria, individua et
accidentia, et proprium ad plurima, id est speciem, individua et accidentia, et
speciem ad plurima, id est proprium, individua et accidentia, accidens vero et
ad genus et ad speciem et ad proprium et ad differentiam at ad individua. Quod
si ita est, has quinque res constat ad plurima praedicari. At vero
individuum quoniam sub se nihil habet, ad singularitatem quandam et unitatem
praedicatur. Cicero enim unus est et ad unum nomen istud aptatur. Ita individua
quae ad unitatem dicuntur, cunctis superioribus supposita sunt, ut genus,
species, differentia, propria vel accidentia, quamvis ad se invicem dici
possunt, ad individua tamen aequaliter praedicantur, ut superius demonstratum
est. Individua vero quoniam sub se nihil habent ubi secari distribuique possint,
ad nihil aliud praedicantur nisi ad se ipsa, quae singula atque una sunt. Atque
hoc est quod ait: EORUM QUAE DICUNTUR, ALIA AD UNITATEM DICUNTUR, SICUT
OMNIA INDIVIDUA, UT EST SOCRATES ET HIC ET ILLUD, ALIA QUAE AD MULTITUDINEM, UT
SUNT GENERA ET SPECIES ET DIFFERENTIAE ET PROPRIA ET ACCIDENTIA. HAEC ENIM
COMMUNITER, NON UNIUS PROPRIE APPELLATIONIS SUNT. Simile est ac si
diceret: haec enim communiter ad plurima praedicantur, non ad unitatem sicut
individua. Et quid sint genera vel species vel differentiae vel propria ƿ vel
accidentia, exemplum supponit dicens: EST ENIM GENUS, UT ANIMAL, SPECIES, UT
HOMO -- quam dudum hominis speciem cum aliis animantibus sub animali posuimus
-- DIFFERENTIA, UT RATIONALE -- qua species scilicet hominis ab irrationali
distat animal -- PROPRIUM, UT RISIBILE, quod nullum aliud animal neque
rationale neque irrationale habet. Nullum enim animal ridet nisi solus homo.
Quare, cum quaedam caelestium potestatum animalia rationabilia sint, eorum
tamen proprium risibile non est, quoniam non rident. Recte igitur risibile
solius hominis proprium praedicatur. ACCIDENS, UT ALBUM, NIGRUM ET SEDERE: quia
ista in substantia hominum non sunt, merito accidentia vocantur. Nam si
substantiae cuiuscumque speciei inesset id quod accidens dicimus, interempto
accidenti periret etiam eius speciei substantia cui accidit. Nam quoniam
rationale in hominis substantia est, si rationalitas interimatur, hominis
quoque substantia necessarlo peritura est idcirco, quod in ipsius speciei
substantia naturaque nersatur. At vero nigrum et album vel quaecumque sunt
accidentia si interimas, species ipsa in qua illa accidebant, manet. Nam neque
omnis homo candidus neque omnis niger est, et cui alterutra defuerint, eius
species non peribit. Atque idcirco haec accidentia, veluti non innata in
substantia sed a foris venientia, recte nominata sunt. Nunc ergo, quoniam
quid sit genus ostendit et ea quae ƿ ad unitatem dicuntur, ab his quae de
plurimis praedicantur distinxit atque distribuit. Ipsius generis differentias
vel ab his quae ad unitatem dicuntur vel ab eis quae ad pluralitatem congruunt,
id est differentis, specie, proprio accidentique, declarat et dicit genus ab
illis quae ad sola individua prae dicantur, id est quae ad unitatem, hoc
differre, quod genus ad plurima praedicetur, individua vero ad singula. Sed
quoniam haec differentia generis ad individua communis erat differentiis
speciebusque, propriis et accidentibus, ab illis ipsis aliis differentiis genus
dividit atque disiungit. Quod ita demonstrat: AB HIS IGITUR QUAE AD UNITATEM
DICUNTUR, DIFFERT GENUS, QUOD GENUS EST HOC QUOD DE PLURIMIS PRAEDICATUR. AB
HIS VERO RELIQUIS GENUS DIFFERT, PRIMO AB SPECIE, QUONIAM SPECIES ETSI DE
PLURIBUS, NON TAMEN SPECIE DIFFERENTIBUS SED NUMERO PRAEDICATUR. Ac primum
generis specieique distantiam monstrat, quae propior est generi. Nam quamvis
differentia super speciem sit, super speciem specialissimam differentia
ponitur. Nam quamvis rationalis differentia super hominem ponatur, quae species
specialissima est, tamen ante speciem specialissimam ƿ ipsa differentia species
est eius generis, cui species snecialissima supponitur; nam sub animali ante
hominem rationale ponitur. Igitur cum genus et species utraque ad plurima
praedicentur, genus vero ad plurimas species in eo quod quid sit praedicetur,
species non iam ad plurimas species sed ad plurima individua praedicatur. Sunt
autem quaedam genera generalissima, ut dictum est, supra quae aliud genus
inveniri non possit. Sunt autem species sub quibus alia species inveniri non
possit, et integra species illa nominatur quae numquam genus est, id est sub
qua species nullae sunt. Nam si sub ea species essent, ipsa etiam genus esse
posset. Species ergo quae vere species est, alias sub se species non habebit,
nt est homo. Namque homo quoniam species est, singuli homines qui sub ipso
sunt, non eius species sed individua nominantur. Nam si homo genus esset
hominum singulorum, genus autem, sicut dictum est, ad plurimas res specie
differentes in eo quod quid sit appellatur, homo, id est species, si sicut genus
praedicaretur ad singulos homines, singuli homines specie ipsa differrent. Sed
quia singuli homines specie non differunt, quod autem specie non differt, si
quid ad hoc praedicatum fuerit, non praedicatur ut genus ad species, id est
homo non praedicatur ad singulos homines ut genus ad res plurimas specie
differentes, quid igitur? Ad res plurimas numero differentes; singuli enim
homines numero a se tantum, non specie distant. Atque ideo, quoniam genus
sic ad subiecta praedicatur, ut ad plurimas res specie differentes praedicetur,
species autem ad subiecta ita praedicatur, ut ad plurimas res numero
differentes praedicetur, genus in hoc ab specie distat, quoniam genus ad
plurimas res specie differentes praedicatur. Species autem ad plurimas res
numero differentes dicitur. Congruunt ergo sibi genus et species, quod genus et
species ad plurima praedicantur et utraque in eo quod quid sit. Nam si
interroges: quid est Cicero? Animal dicitur, id est genus. Et si interroges:
quid est Cicero? Homo dicitur, id est species distant autem, quod quamvis
utraque ad plurima praedicentur et in eo quod quid sit, genus praedicatur ad
res specie differentes, species vero dicitur ad res tantum numero differentes
quod Porphyrius sic demonstrat: AB HIS VERO RELIQUIS QUAE DE PLURIBUS
APPELLANTUR, GENUS DIFFERT, PRIMO AB SPECIE, QUONIAM SPECIES ETSI DE PLURIBUS
PRAEDICATUR, NON TAMEN SPECIE DIFFERENTIBUS SED NUMERO. HOMO ENIM SPECIES CUM
SIT, DE SOCRATE, PLATONE, CICERONE PRAEDICATUR, QUI NON SPECIE SED NUMERO
DIFFERUNT, ANIMAL VERO QUOD GENUS EST, ET BOVIS ET EQUI PRAEDICATIO EST QUAE
ETIAM DIFFERUNT SPECIE A SE INVICEM, NON NUMERO SOLO. Quod simile est ac
si diceret genus ab specie unam differentiam plus habere. Congruunt namque
genera speciebus, quod utraque in eo quod quid sit praedicantur, ut dictum est.
Congruit item et genus et species, quod utraque ad res plulimas praedicantur.
Congruit item genus ad species, quod utraque ad les numero differentes
praedicantur. Nam et singuli homines sta a se divisi sunt, quantum ad numerum,
ut homo ab equo vel a bove vel a coruo vel a quibuslibet aliis animantibus. At
vero distat ab specie genus, quod genus de pluribus rebus specie differentibus
praedicatur, quod species non habet. Nihil autem differre arbitrator, utrum ita
dicatur 'aliam rem ad aliam praedicari' an 'aliam de alia praedicari'. Utrumque
enim idem intellectus est. Nam si animal praedicatur ad hominem, idem etiam
animal de homine praedicatur. Nam cum interrogaveris: quid est homo? Respondeas
de hominis interrogatione hominem esse animal. Sed nunc oportet nos ea
quae secuntur aspicere. Quid ergo sequitur? A PROPRIO AUTEM GENUS DIFFERT,
QUOD PROPRIUM IUXTA UNAMQUAMQUE SPECIEM PROPRIUM APPELLATUR CUIUS EST PROPRIUM,
ET IUXTA EA QUAE SUB SPECIE SUNT, SCILICET INDIVIDUA; NAMQUE RISIBILE HOMINIS
SOLUM EST ET SINGULORUM UTIQUE HOMINUM. GENUS AUTEM NON AD UNAM SPECIEM SED AD
PLURES DIFFERENTES SEMPER APTATUR. Ergo hoc videtur hic dicere, quoniam omne
proprium si fuerit speciei unius, tunc vere est proprium. Nam si unius speciei
non fuerit sed duarum vel plurium, tunc duabus vel pluribus non proprium sed
erit in substantiae ratione commune. Constat ergo proprium ei cuius est
proprium soli speciei singulariter adhaerere. Unde quia hominis species sola
est quae ridet, risibile homini proprie et singulariter aptatur. Ad unam semper
igitur speciem proprietas adhibetur. Distat igitur proprium a genere, quod
genus semper ad plurimas species appellatur, proprium vero de una tantum specie
cuius est proprium. Nam si risibile dicas, ad unam tantum speciem hominis
appellatur. Congruit autem genus cum proprio in hoc, quod genus et proprium de
pluribus appellantur. Namque genus ad plures species appellatur, appellatur
etiam genus de his quae sub specie sunt individuis. Nam si homo et equus animal
est, erit etiam Cicero animal et quilibet equus singulariter animal nominatur.
Similiter et proprium ad plurima dicitur. Dicitur enim ad unamquamque speciem
et ad ea individua quae sunt sub specie praedicatur. Nam si homo risibilis est,
risibilis est etiam Cicero et Virgilius, et quicumque singulariter nominantur,
risibiles sunt. Congruunt etiam, quoniam utraque in eo quod quld sit
praedicantur. Nam genus de specie in eo quod quid sit praedicatur. Nam si
dicis: quid est homo? Animal appellabis. Item proprium in eo quod quid sit
praedicatur. Nam ƿ si dicis: quid est homo? Merito risibile praedicabis.
Congruunt autem, quod genus et proprium ad plurimas res numelo differentes
praedicantur. Nam ita a se differunt singula animalia, id est homo, equus et
coruus et caetera, ut singuli homines, quantum ad numerum. Distat autem a
genere, quod genus ad plurimas species praedicatur, proprium vero ad unam solam
cuius est proprium nominatur. Sed non est inter genus et proprium eadem
differentia, quae est inter speciem et genus. Nam species de nulla omnino
specie praedicatur, proprium vero licet non ad plures, ad unam tamen solam
speciem, cuius est proprium, semper aptabitur. Post hoc igitur de
differentiae accidentisque a genere distantia disserit dicens: A DIFFERENTIA
VERO ET AB ACCIDENTIBUS DIFFERT GENUS, QUONIAM ETSI ETIAM ISTA DE PLURIBUS
SPECIE DIFFERENTIBUS PRAEDICANTUR, DIFFERENTIAE SCILICET ET ACCIDENTIA QUAE
COMMUNITER ACCIDUNT, NON TAMEN IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICANTUR, CUM
INTERROGANTIBUS NOBIS FIT SECUNDUM EA RESPONSIO; MAGIS ENIM QUALE QUID SIT
OSTENDUNT. Differentiam vero et accidens idcirco posterius reservavit,
quod eorum unam differentiam erat distantiamque dicturus. Differentia enim et
accidens qualitatem cuiuscumque speciei demonstrant. Illa substantiae qualitatem,
id est differentia, illud, ƿ id est accidens, non substantiae. Ergo quoniam
genus super speciem est et species supposita generi, genus speciem, species
individuum quid sit ostendit. Porro autem solae possunt species differentiae
segregare quae qualitatibus eas substantialibus, id est substantias
declarantibus, seiungunt atque dispertiunt. Nam cum animal genus sit, homo vero
vel equus species, quales utraeque species sint monstrat differentiae
segregatio, ut dicamus speciem esse hominis rationalem, speciem vero equi
irrationalem. Si enim quis interroget: quid est homo? Animal dicitur. Si autem
quis dicat: qualis est homo? Rationalis respondetur. Ita semper differentia non
in eo quod quid sit sed in eo quod quale sit appellatur. De accidenti vero non
dubium est, cum ipsa qualitas in accidentis partibus componatur. Namque in
praedicamentis inter alias novem partes accidentis etiam qualitas nominatur.
Nam etiam si quis interroget qualis corui species sit, nigra continuo
respondetur. Congruunt ergo genera differentiis et accidentibus, quod de
speciebus pluribus praedicantur. Nam sicut genus plures sub se species habet,
ita differentia. Nam rationale dicimus deum et hominem. rursus etiam accidens
de pluribus speciebus praedicatur. Nam nigrum dicimus et hominem et equum et
coruum et hebenum et plurimas alias species. Rursus congruit genus
differentiae, quod, sicut genus, sic differentia aequaliter ad indiniduum
praedicatur. Nam si Cicero animal est, quod est genus, et rationale avimal est.
Quod est differentia. Congruunt etiam, quod de numero differentibus
praedicantur, quod ƿ superius de aliis monstratum est. Distant autem quod,
sicut dictum est, genus in eo quod quid sit appellatur, differentia vero vel
accidentia in eo quod quale sit praedicantur. Nam si dicas: quid est homo?
Appellabis genus et dicis animal esse hominem, si vero qualis sit ad
differentiam interrogaveris, rationale respondebis, vel <ad> accidens,
nigrum vel album vel qualis quisque sit de quo interrogatur. His igitur
distributis distantias ipsas a primordio rursus orditur dicens: UNDE HOC
QUOD DE PLURIBUS PRAEDICATUR GENUS DISTAT AB HIS QUAE DE SINGULIS PRAEDICANTUR,
HOC EST AB INDIVIDUIS; ILLO QUOD DE SPECIE DIFFERENTIBUS PRAEDICATUR, DISTAT AB
SPECIEBUS ET A PROPRIIS; ILLO ETIAM IN QUO QUID SIT APPELLATUR, SECERNITUR A
DIFFERENTIIS ET A COMMUNITER ACCIDENTIBUS, QUOD HAEC DUO QUALE QUID SIT
DECLARANT. Hoc dicit distare genus ab individuis, quod genus de pluribus,
ut dictum est, praedicatur. Colligit autem et in unum redigit proprii specieique
differentias. Nam quoniam species de pluribus non specie sed numero
differentibus praedicatur, proprium vero de una tantum specie et de his quae
sub eadem specie sunt individuis praedicatur, quamvis de una specie
praedicetur, tamen aequa est illi cum specie a genere differentia de pluribus
specie differentibus non praedicari. Nam neque species omnino de speciebus
aliquibus poterit praedicari ƿ neque proprium, quoniam proprium non de pluribus
speciebus sed de una tantum cuius est specie praedicatur. Quod si ita est, una
differentia a genere species et propria seiunguntur accidens vero et
differentia eadem quoque una a genere differentia separantur, quod genus in eo
quod quid sit dicitur, differentia vero vel accidentia in eo quod quale
appellantur. Has Porphyrius ad constituendam generis rationem differentias
quam parcissime potest colligit et ipsas differentias multis modis posterius
probaturus, nunc vero quantum sat est dicit se <neque deminutam neque>
abundantem generis constituisse rationem hoc dicens: HOC SI ITA EST, NULLO
MINUS AUT PLUS EFFECTA EST GENERIS DEFINITIO. Perfectam plenamque se
generis definitionem fecisse dicit, quoniam neque plus neque minus facta sit
definitio sed aequaliter ad genus pariterque composita. Quod unde sit, hoc modo
monstrandum est. Novimus quod quaedam res quae ad alia praedicantur, his de
quibus praedicantur, abundant, ut genera et species. Namque animal, quod genus
est, de homine, quod est species, hoc abundat, quod nomen generis etiam in
equum atque bovem atque in alia valet aptari. Ergo si quis ad quamlibet rem
abun dantem fecerit maioremque definitionem quam ipsa res fuerit quam definit,
non erit integra propriaque definitio, quoniam non solum illam rem amplectitur
quam definit, ƿ si maior fuerit definitio sed etiam alias quascumque res,
quibus ipsius definitionis terminus abundabit. maiorum igitur praedicamentorum
maior erit definitio, minorum vero minor erit etiam definitio; animal ergo,
quod maius est, ita definiunt: animal est substantia animata sensibilis,
hominem vero, quod ab animali minus est, ita definiunt: animal rationale,
mortale, risus et disciplinae perceptibile quoniam maius est animal ab homine,
maior etiam erit animalis definitio ab hominis definitione. Plus enim erit
dicere 'substantia animata sensibilis' quam 'animal rationale et mortale'. Nam
substantia animata sensibilis, sicut ipsum animal, non solum hominem
complectitur sed etiam equum vel bovem atque alias huiusmodi species. Si quis
ergo ad hominem maiorem definitionem aptaverit, quae est animalis, ut ita definiat
hominem: homo est substantia animata sensibilis, non est plena definitionis
ratio, cum equus atque bos substantia animata atque sensibilis esse possint,
quae species hominis non sunt. Si quis vero maiori rei minorem definitionem
aptaverit, curtam et deminutam quodammodo faciet rationem. Nam si quis animal
definire volens dicat: animal est res rationalis, risus et disciplinae
perceptibilis, non erit integra definitio, quoniam sunt quaedam animalia quae
istius definitionis rationem subterfugere atque euadere possunt. Est enim
animal bos, quod neque rationale sit neque risus perceptibile. Sola igitur
relinquuntur bene definiri quaecumque aequalibus definitionibus constituuntur.
Ubi autem aequalis definitio sit, hoc modo possumus reperire. Praedicamenta quaecumque
fuerint, si maius praedicamentum de minore aliquo praedicatur, converti non
potest, ut minus de maiore praedicetur. Semper enim maiora de minoribus,
numquam minora de maioribus praedicantur. Nam si quis dicat hominem esse
animal, non poterit convertere animal esse hominem. Nam homo nihil aliud,
quantum ad genus, nisi animal est, animal, quantum ad species, potest esse
etiam non homo. Paria vero praedicamenta semper sibi ipsa invicem convertuntur.
Nam quoniam risibile solius est hominis, risibile ad hominem praedicatum etiam
converti potest, ut homo ad risibile praedicetur dicitur enim: quid est homo?
Risibile. Quid est risibile? Homo. Ergo quascumque definitiones convertere
potes, illae verae atque pares sunt, quascumque vero convertere non potes, aut
maiores sunt aut minores, pares inveniri non possunt. Nam si dicas hominem
substantiam esse animatam atque sensibilem, verum est. Item si convertas et
dicas substantiam animatam atque sensibilem esse hominem, non omnino verum
dixeris potest enim et substantia animata esse atque sensibilis et homo non
esse. Item si dixeris rem rationalem, mortalem, risus et disciplinae capacem
esse animal, verum dixeris. Si autem dicas atque convertas animal esse rem
rationalem mortalem, risus et disciplinae perceptibilem, non omnino verum
dixeris. Potest enim esse animal et non esse rationale et risus capax. Ergo
quotiens est maior definitio quam id quod definitur si prius dicitur id quod
definitur et maior definitio adhibetur vera esse poterit definitio. Si enim
prius dixeris hominem, rem minorem, et ad ipsum posterius adbibueris
definitionem maiorem, ut prius dicas 'homo est', et post subiungas 'substantia
ƿ animata sensibilis', verum est. Homo enim necessario est substantia animata
sensibilis. Si vero prius dixeris definitionem et postea dixeris id quod
definies, vera esse non omnino potest. Nam si definitionem maiorem prius
dixeris dicens 'substantia animata sensibilis' et postea rem minorem intuleris,
ut dicas 'homo est', ut sit 'substantia animata sensibilis homo est', non
omnino verum est. Potest enim esse et substantia animata sensibilis, non tamen
homo. At vero si minor fuerit definitio quam illa ipsa res quae definitur,
si prius dicta sit definitio, vera est, posterius, falsa. Nam si dixeris
definitionem quae est minor 'res rationalis, mortalis, risus et disciplinae
capax' et post intuleris 'animal est', ut sit 'res rationalis, mortalis, risus
et disciplinae capax animal est', vera est. Omnis enim res quae rationalis et
mortalis est et risus et disciplinae capax, necessario animal est. At vero si
converteris et rem maiorem prius dixeris, post vero minorem definitionem
adhibueris, vera omnino esse non potest. Nam si dicas prius 'animal est',
postea autem iunxeris 'res rationalis, mortalis, risus et disciplinae perceptibilis',
non omnino verum est. Potest enim esse animal et rationale vel mortale non
esse. Itaque si maior est definitio quam res fuerit, si prius rem dixeris,
postea definitionem intuleris, vera est, si vero prius definitionem dixelis,
post rem intuleris, falsa est. In minoribus vero definitionibus et maioribus
rebus contra ƿ est. Nam si definitionem prius dixeris, postea rem subieceris
vera est, si vero rem prius dixeris, postea definitionem sub ieceris, vera
omnino esse non potest. At vero in aequalibus definitionibus converti
aequaliter potest. Nam quoniam solius hominis haec est definitio 'animal
rationale, mortale, risus et disciplinae perceptibile', aequalis est haec ad
hominem definitio, quoniam non est cui alii possit aptari. Itaque vel si prius
rem dixeris, postea definitionem subieceris, vera erit, ut est 'homo est animal
rationale, mortale, risus et disciplinae perceptibile', sin vero converteris et
prius definitionem, postea rem dixeris ut si dicas 'animal quod fuerit
rationale, mortale, risus et disciplinae perceptibile homo est', haec quoque
vera est. Ita semper ut definitiones verae sint, neque plus neque minus in
defini tionibus oportet aptari sed aequalitter definitiones convenienterque
disponi. Quod Porphyrius scilicet non ignorans ait se neque plus neque minus
effecisse generis definitionem. Et Fabius: Sequitur, inquit, te de specie
disputare. ÑDic, inquam, quid sequitur? ÑEt Fabius: Hic, ut opinor, ordo
est: SPECIES QUOQUE MULTIS DICITUR MODIS. NAM ET UNIUSCUIUSQUE HOMINIS
FORMA SPECIES APPELLATUR. RURSUS IGITUR ET PULCHRITUDO UULTUS, UNDE
PULCHERRIMOS QUOSQUE SPECIOSOS DICIMUS. DICITUR SPECIES ET EA QUAE ƿ SUPPOSITA
EST GENERI, UNDE ANIMALIS SPECIEM APPELLAMUS, CUM ANIMAL IPSUM GENUS SIT, ET
ALBUM COLORIS SPECIEM. Tunc ego: Speciei quoque nomen sicut generis
aequivocum puta. Nam et hoc quoque multifariam appellari designat. Dicitur
enim, inquit, species et figura corporis et fortasse alia plura. De quibus
quoniam nullus tractatus habebatur, iure praetermissa sunt. Hic tamen a
Victorino videtur erratum, quod cum idem sit cuiuscumque hominis species et
uultus, quasi in alia appellatione speciei uultus iterum pulchritudinem dixit,
quasi vero non proinde pulchlitudo uultus sit ac tota species fuerit; nam si
quispiam pulcher fuerit toto corpore, etiam uultu. Sed praemissis his ad illam
speciem quae sub genere ponitur atque genus efficit veniamus. Namque, ut dictum
est, substantiae ipsae nullo speciei nomine generisue censentur, nisi quadam ad
se invicem collatione sint comparationeque compositae. Nam quod animal est, non
idcirco est genus, quoniam animal est sed idcirco, quod hominis sub se atque
equi et caeterorum animantium species habet. Atque idcirco ait: UNDE ANIMALIS
SPECIEM APPELLAMUS, CUM ANIMAL IPSUM GENUS SIT; neque enim homo species diceretur,
si super ipsum animalis appellatio non praedicaretur. Sed ut monstraret non in
unis solis substantiis genera speciesque versari sed etiam in omnium
praedicamentorum nuncupationibus ƿ esse conexa, non solius substantiae dedit
exemplum sed etiam eius quod reliquum remanserat, accidentis. Quid enim ait et
album coloris speciem: quae sunt in accidentis divisione qualitatis. Sed
quoniam inter se quaedam conexio est et talis comparatio atque relatio, ut
praeter ad se invicem latitudinem genera et species esse non possint -- nihil
enim in eorum definitionibus concludi potest, nisi ad alterutrum nominata sint;
nam si substantia generis specie supposita species vero genere superposito et
ad ipsam praedicato perficitur, non est dubium quin cum genus definire necesse
it iure speciem, et cum speciem, iure nobis genus praedicare necesse sit --
haec igitur etiam in generis subscriptione servatur distinctio, cum generis
definitio habita est. Hoc enim dictum est tunc, esse genus quod ad distantes
species diceretur, nunc vero dicendum est id esse speciem quae sub genere
ponitur. Sed multiplex eius definitio haberi potest. Potest enim rursus dici id
esse speciem, ad quam genus in eo quod quid sit praedicatur. Quae res utraeque
id significant, speciem poni sub genere. Nam prima quidem definitia id aperte
designat, secunda vero talis est: quoniam semper ƿ maioribus minora
supponuntur, genus ab eo, ad quod in eo quod quid sit praedicatur, maius esse
non dubium est. Quod si ita est, nullus est obscuritatis error, quin species quae
minor est, maiori sibi generi supponatur. Nihil igitur haec secunda
definitionis significatio a priore differt; si enim species sub genere non
poneretur, genus ad speciem in eo quod quid sit non praedicaretur. Tertia vero
definitio speciei integra ratione collecta est et ipsius speciei vim naturamque
demonstrat. Dicit enim speciem esse quae ad plurima numero differentia in eo
quod quid sit praedicatur. Quae definitio etiam ex superiore genere debuit esse
planissima sed ego nunc quantum castigata permittit brevitas explicabo. Sed
prius de ipsis generibus speciebusque pauca dicenda sunt. Cum sint quaedam
genera quae species habeant atque ipsa aliis generibus species esse possint,
non est dubium ea gemina comparationis habitudine fungi, ut ad alia species, ad
alia genera nominentur. Sed si in uno filo atque ordine speculemur et
quodcumque genus alicuius rei repertum sit, eius rursus genus aliud requiramus
et rursus aliud atque aliud iterum, si nihil sit quod intellectus ratione
consistat, inesplicabilis ratio interminabilisque tractabitur. Sed quoniam
nulla sunt in his scientiae fundamenta quae nulla consideratione animi in
infinitum procedentia concluduntur, dicendum necessario est posse nos
ascendentes usque ad tale aliquid pervenire cuius, cum ipsum caeteris genus
sit, ƿ aliud genus invenire non possumus, quod genus primum et magis genus et
generalissimum nuncupetur. Sed si hoc in genere contingit, ut ascendentes
alicubi consistamus, non est dubium quin descendentes iterum per species ad
aliquem quodammodo calcem offenso termino consistamus. Igitur cum
descendentes per species usque ad illam speciem venerimus quae sub se species
nullas habet, illam speciem ultimam speciem et magis speciem et specialissimam
nuncupemus. Sed quoniam species aliquorum est continens, si aliquorum specie
differentiam continens esset, non magis species sed genus merito vocaretur. Sed
quoniam continet et non specie differentes res continet, similes necesse est
sibi contineat pluralitates. Sed si continet pluralitatem et maius semper est
id quod continet quam id quod continetur, de pluralitate illa species
praedicabitur. Appellabitur igitur species de pluribus rebus numero
differentibus in eo quod quid sit. Species enim cum appellatur de
subterioribus, superiorem speciem substantiamque declarat nam cum dicimus: quid
est Cicero? Homo continuo respondetur. Cum ergo tribus modis speciei facta sit
definitio, superiores duae non tantum sunt speciei sed etiam subalternae
speciei, quae et ipsa genus. generalissimum substantia et sub ea corpus
animatum, sub animato corpore animal et sub animali ƿ homo, sub homine
individua. Sed hanc divisionem plenius posterius exequemur, nunc autem hoc
nobis tantum sufficit. Substantia igitur magis genus est, homo magis species,
ita ut neque substantia species aliquando esse possit nec homo genus. Corpus
vero animatum vel animal ad superiora species, ad subteriora genera
nominantur. Si quis ergo corpus animatum vel animal vel hominem velit
exprimere et dicat: SPECIES EST QUOD PONITUR SUB GENERE ET AD QUAM GENUS IN EO
QUOD QUID SIT PRAEDICATUR, haec definitio et magis speciem, id est hominem, et
subalternam speciem continet, id est corpus animatum vel animal. Nam corpus
animatum et animal et homo sub genere sunt posita, et ad eas omnes in eo quod
quid sit appellatur, ut dictum est. Si quis vero illam speciem definitione
monstrare velit quae vere species est, id est specialissimam speciem, quae
tantum species, numquam et genus sit, hoc modo definiet, speciem esse quae ad
plurimas res numero differentes in eo quod quid sit praedicetur. Sed haec
definitio subalternis speciebus numquam conveniet. Illae enim quae subalternae
sunt species, possunt etiam pro generibus accipi, si ad subiecta praedicentur.
Quodsi possunt pro genelibus accipi, cum pro generibus acceptae fuerint, non
tantum ad plurimas res numero differentes praedicabuntur sed etiam ad plurimas
res specie differentes, quippe cum sint genera. Sed quia hoc in magis speciebus
non evenit, ut aliquando de specie differentibus praedicentur, haec definitio
posterior solius magis speciei definitio est et eam caeterae subalternae
species excludunt atque reiciunt. Quod Porphyrius ita demonstrat: SED HAEC
DEFINITIO EIUS SPECIEI EST QUAE MAGIS SPECIES DICITUR, ALIAE VERO DEFINITIONES
ERUNT ETIAM ILLARUM QUAE NON SUNT MAGIS SPECIES. Horum ergo ipsam
subscriptionem demonstrationemque clarius se ipsum dicere promittit cum dicit: MANIFESTIUS
AUTEM FIET HOC QUOD DICIMUS HOC MODO. IN OMNIBUS PRAEDICAMENTIS SUNT QUAEDAM
MAGIS GENERUM ET MAGIS SPECIERUM, SUNT ALIA MIXTA. MAGIS GENERA SUNT SUPRA QUAE
NULLUM ALIUD GENUS POTERIT INVENIRI, MAGIS SPECIES RURSUS, SUB QUA NULLA
SPECIES REPERITUR. HORUM INTERUALLA QUAE POSSIDENT, ET GENERA ET SPECIES SUNT,
SINGULA SUPERIORIBUS INFERIORIBUSQUE COLLATA, UT ALTERI GENUS, ALTERI SPECIES
APPELLENTUR Huiusmodi sunt, inquit, quaedam quorum genera inveniri non possunt,
haecque ipsa merito magis genera nominantur, quoniam maius ipsorum aliquid
inveniri non potest. Nam si ista sunt genera, genus autem omnibus sub se
positis maius est, quorum genus nullum est, nihil eorum maius poterit reperiri.
At quorum genus nihil poterit inveniri, merito ipsa magis genera vocitantur.
Sunt autem quaedam alia quae magis spe cies appellentur, sub quibus non aliae
species locatae sunt. nam plus videtur esse species ea et integrior vere
species est ƿ quae genus numquam est quam ea quae aliquando genus esse potest.
Quodsi verior species est quae sola species, numquam genus est, merito magis
species appellata est. Igitur inter magis speciem et magis genus quod est
interuallum, subalterna genera et subalternae species impleuerunt. Nam
subalterna vocamus quaecumque ad superiora species, ad inferiora pro generibus
accipiuntur, idcirco quoniam, si omnes res ad inferiora componas, genera, si ad
superiora, species, et si ad superiora et inferiora eadem ducas, genera et
species invenientur. Atque ideo subalterna genera et species nominata
sunt, quod filo quodam atque ordine ad inferiora composita genera et ad
superiora species agnoscuntur. Sed haec ita genera speciesque esse possunt, non
ut cui genus est, eidem iterum velut species supponatur. Nam si, ut prius
ostensum est, specie sua maius est genus, non est dubium quin maior res sub
minore poni non possit. Atque ideo ait ut alteri genus, alteri species
appellentur, quod nequaquam eandem rem et genus esse et speciem conveniret. Dat
igitur huius rei exemplum, quo quod dicit, facilius possit agnosci. Facit
igitur hanc divisionem. Ponit substantiam magis genus, supponitur substantiae
corpus et incorporeum, corpori animatum corpus et inanimatum, animato corpori
animal sensibile et insensibile -- ut sunt ostrea vel conchilia vel echini vel
arbores et alia huiusoemodi, quae vivendi animam habent, non etiam sentiendi --
sub animali animal rationale et irrationale, sub rationali mortale et inmortale,
sub mortali hominem, gub homine singulos homines, hoc est corpora individua,
Ciceronem et Virgilium scilicet et eos ƿ qui iam in partes sunt singuli.
Substantia ergo quae prior est magis generis accipitur loco; genus enim solum,
non etiam species est, quod numquam eius genus superius invenitur. Homo vero
solum species est, nullas enim alias species sub se cohercet; singuli enim
homines non specie, ut dictum est, numero differunt. Corpus vero, quod pridem
sub genere posuimus, id est substantia, ad substantiam quidem species, ad
animatum corpus genus accipitur. Animatum autem corpus ad corpus species est,
ad animal genus, animal autem ad animatum corpus species videtur, ad rationale
animal genus. Rationale item animal mortalis genus est, species animalis.
Mortale autem genus hominis est, species rationalis animalis. Homo autem quod
super individua est, nihil de generis natura sortitus est sed tantum sola
species appellatur. Sed hanc divisionem sicubi in aliis rebus transferri
et aptari placeat, ita considerandum est, ut quicquid fuerit cuius genus
inveniri non potest, magis id genus appelletur et quicquid cuius nulla species
fuerit, id est ut super individua collocetur, illam magis speciem esse. Oportet
enim, si quod genus sit. Super differentes specie res poni, quod autem magis
species non super specie res differentes ponitur, numquam digne genus poterit
appellari. Ergo quemadmodum quod ƿ superius genus super se nullum genus habet,
magis genus dicitur, ita et species quae sub se species non habet sed tantum
individua, merito magis species appellatur. Illa autem quae in medio posita
sunt, non eiusdem sunt habitudinis. Nam quoniam species esse possunt, non sunt
magis genera, et quoniam genera possunt esse, idcirco numquam magis species
praedicantur. Nam illis quae supersunt, species sunt, illis vero quae subsunt,
loco generis praeponuntur. Cum igitur duae formae sint omnium rerum, aut
ut genera praeponantur aut ut species supponantur, summitates, id est
generalissimum genus et specialissima species, singulas tantum continent
habitudines, illud, ut tantum genus, numquam species videatur, illud, ut sola
species, numquam etiam genus appelletur. Subalterna vero, quae media sunt, duas
formas habent, id est utrasque. Namque, ut frequentius inculcatum est, et generis
quodammodo parentelam et speciei derivationem sortita sunt. Nec hoc fortasse
nos turbet, quod species specialissima habet sub se aliquid. Namque homo cum
sit magis species, habet sub se singulos homines. Haec enim quamvis individuis
supersit, numquam formam specialitatis inmutat. Cum enim sub se individua
habeat, quod ea contineat quae sub una specie sint et nulla substantiae
proprietate discrepent, species eorum vocatur quae continet. Ita homo et
animalis species dicitur, quia continetur, et hominum singulorum species est,
quia eos continet qui nulla umquam specie discrepabunt. Definitio ergo magis
generum magisque specierum talis est: magis genus ƿ esse dicitur quod genus
semper sit, numquam species, et quo superius nullum genus sit; rursus magis
species est quae semper species sit, tumquam genus, et iterum, quae numquam
dividitur in species et quae ad plurima numero differentia in eo quod quid sit
praedicatur. Illa vero alia, ut saepe dictum est, et genera et species esse
possunt, superioribus scilicet inferioribusque collata. Hoc autem attentissime
respiciendum est, quod in diversis longe nationibus in eo genere ubi ex
sanguine aliqua cognatio deducitur, diversarum cognationum gens ad unum caput
generis duci potest. Nam quoniam Romani a Romulo sunt, Romulus autem a Marte,
Mars a Iove, poterit gens Romanorum ad Iovem duci. Item quoniam Athenienses a
Minerua, Minerua a Iove, potest Atheniensium gens ad eundem Iovem duci. Item
quoniam Persae a Sole, Sol autem a Iove, possunt Persae quoque ad eundem Iovem
velut ad originem propriam deduci. Ita diversissimae gentes ad unius
cognationem erigi possunt, quod idem speciebus generibusque non fit. Numquam
enim diversa genera sub uno genere poterunt accommodari. Aristoteles enim
primorum generum decem praedicamenta constituit, quae velut aliquis fons, ita
subterioribus omnibus ortum quodammodo nationemque profuderint. Haec igitur
decem genera quoniam generalissima sunt et superius eis nullum inveniri genus
potest, ad unum genus reduci non poterunt. Quodsi decem genera prima ad unum
genus ƿ reduci non poterunt, nec illa quae sunt sub eisdem generibus, id est
species subalternaque genera, ad unum genus aliquando poterunt applicari. Nam
si prima eorum genera ad unum superius duci non possunt, non est dubium quin ea
ipsa quae sub ipsis sunt, ab uno genere coherceri continerique non patiantur.
Nam si substantia, qualitas et quantitas et caetera sub alio communi genere
poni non possunt, quod ipsa magis sunt genera, nec quicquid sub substantia
fuerit, id est sub eodem genere, ut animal vel homo, vel item sub qualitate vel
quantitate, ad aliquod genus commune se poterunt applicare. Numquam enim
inveniri genus poterit quod haec decem genera solitario et proprio intellectu
intra se possit velut species continere. At dicat quis haec omnia decem genera
si vere sunt subsistentia, quodammodo vel entia dici posse. Flexus enim hic
sermo est ab eo quod est esse, et in participii abusionem tractum est propter
angustationem linguae Latinae compressionemque haec igitur, ut dictum est,
entia poterunt appellari, et ens hoc ipsum, id est esse, genus eorum fortasse
dici videbitur. Sed falso. Namque omnia quae inter se aequivoce nominantur,
numquam eiusdem continentiam generis sortiuntur, quippe quorum substantia
discrepat, non est dubium quin generis quoque ipsius definitio discrepabit;
haec autem ut entia nominentur, non univoce sed aequivoce praedicantur. Nam
quoniam substantia ens est et item qualitas ens, sed si quis rationem
definitionemque qualitatis dixerit, ƿ eadem natura utriusque non poterit
convenire, non est dubium quin substantia et qualitas non univoce sed aequivoce
praedicentur. Quodsi aequivoce praedicantur, sub eiusdem generis fonte poni non
poteront. Non est igitur in generibus speciebusque aliquod genus solum quod
possit diversa remm genera cohercere. Tunc Fabius: Abundanter haec,
inquit, omnia, et de his ipsis rebus frequentius inculcatum est. Sed perge ad
sequentia. Faciam, inquam. Haec enim, ut arbitror, secuntur: ERGO DECEM
GENERA CONSTITUIT ARISTOTELES IN PRAEDICAMENTIS QUAE MAGIS GENERA SUNT, AT VERO
ILLAE QUAE MAGIS SPECIES SUNT, SEMPER IN PLURIMO QUIDEM NUMERO SUNT, NON TAMEN
IN INFINITO. AT INDIVIDUA QUAE SUB MAGIS SPECIEBUS SUNT, INFINITA SUNT
SEMPER. Hoc enim dicere vult quod multo plures species sunt quam genera;
habet enim genus sub se plurimas species. Et quoniam decem genera rerum omnium
prima sunt, species specialissimae non solum decem sunt sed plures, non tamen
infinitae individua vero quae sub magis speciebus sunt, infinita sunt et eorum
intellegentia nulla umquam capi potest. Quae enim infinita sunt, nullo
scientiae termino concluduntur. Igitur omnis nobis divisio omnisque scientia a
magis generibus per subalterna genera usque ad magis species deducatur; ibi
enim consistentes integram, superiorum scientiam capere possumus ac retinere.
Si quis autem individua velit scientia disciplinaque comprehendere, frustra
laborat sed ita iubemur a magis generibus ƿ usque ad magis species per media
interualla decurrere, ut specificis differentiis dividentes subalterna genera a
magis generibus usque ad magis species descendamus. Specificae autem
differentiae sunt quae speciem quamcumque declarant. Declaratur autem species
differentiis hoc modo. Si quis enim dicat substantiam, ut ponat sub substantia
corpus, sub corpore animatum corpus, sub animato corpore animal, sub animali
rationale, sub rationali mortale, has omnes species, quae sunt substantiae, cum
pro differentiis posuerit, hominis scilicet species informabitur. Nam corpus
animatum ab inanimato corpore differentia est, porro autem animal ab
insensibilibus et rationale ab irrationalibus et mortale ab immortalibus
differentiae sunt. Haec igitur omnia cum iunxeris, unam speciem declarabis, id
est hominem. Nam cum dicis corpus animatum, animal rationale et mortale, quae
scilicet differentiae in subalterno ordine sibi suppositae sunt, hominem
demonstrasti. Sunt autem quaedam aliae differentiae, quae tales sunt ac si
dicas animal rhetoricum, quod solus homo rhetor esse possit. Sed haec
differentia non specifica differentia est et substantiam hominis naturamque non
perficit sed tantum artem quandam scientiamque esse commendat. Illae igitur in
divisionibus differentiae speciesque prosunt ex quibus illa quae dicitur magis
species informatur, et haec vocatur specifica differentia quae magis speciem
possit efficere. Ergo cum per haec descensum fuerit ad magis species,
relinquenda sunt sub magis speciebus individua nec eorum aliqua scientia
requirenda. Nam illa non ƿ solum infinita sunt sed etiam quaecumque in sese
continverint infinita fiunt. Rhetorica enim species est sed cum venerit in
singulos homines, tunc per singulos et infinitos divisa singula etiam fiet et
infinita. Si enim omnes quicumque sunt vel fuere numerentur rhetores, nullus
umquam huiusce numerationis finis erit, cum praesertim etiam per infinita
tempora in futurum singuli homines rhetores esse possint. Hic Fabius: Hoc
igitur, inquit, erat quod ait: PORRO AUTEM VEL ARTIUM VEL DISCIPLINARUM CUM
INDIVIDUA PER HOMINES SINGULOS ESSE COEPERINT, RATIONEM AD PERCIPIENDUM CAPERE
VEL HABERE OMNINO NON POSSUNT. Et ego: Hoc, inquam, est quod 'cum artes
vel disciplinae quae in sua specie una ante collecta fuerant, in individua
venerint', id est per singulos homines in infinitam multitudinem
innumerabilemque sese dispertiunt; hoc autem idcirco evenit, quod haec eadem
ratio est quam Porphyrius ipse dicere non neglexit. Genus enim cum unum sit,
plurimarum specierum progenitivum est; namque sub uno genere plures species
inveniuntur. Idcirco species genus illud unde profluunt. In plurima segregant
atque dispertiunt. Genus autem plurimas colligit res, sicut ipsum a plurimis
iterum speciebus dividitur. Namque homo, coruus et equus, quae sunt species,
quantum ad animal aequaliter animalia sunt. Ita nomen animalis omnes suas
species intra se continet. Quodsi et in homine animalis ƿ nomen est et in coruo
et in equo, non est dubium quoniam illud genus quod sub se ipsum ea continet,
species divisae inter se dividant multiplicentque. Colligit igitur genus
species in se, species vero genus ipsum suapte natura dispertiunt. Est igitur
genus collectivum specierum suarum et quodammodo adunativum, species vero
divisivae generis et quodammodo multiplicativae. Igitur quicumque ad magis
genera ascendit, omnem specierum multitudinem per genera colligit adunatque. Cum
vero a magis generibus usque ad magis species decurritur, omnis unitas generum
superiorum in multifidas ramosasque species segregabitur. Quod autem ait
multitudo capieuda, proinde est ac si diceret 'multitudo facienda' est; nam cum
dividis genus in species, easdem species multas esse accipis, quas tu idem
fecisti. Species quoque ab hac generis adunatione ac quodammodo collectione non
discrepant. Namque et ipsae infinitatem individuorum ad unam reuocant formam.
Singulorum enim hominum species, quae est homo, collectiva est hoc modo. Ad
hominis enim speciem cuncti singuli homines unus homo sumus, id est prima
species quae nos continet cohercetque. Porro autem ipsa species in nos multos
scissa dividitur. Omne enim quod singulum est atque individuum, illud unde
nascitur dividit, omne quod non est singulum atque individuum sed dividi
potest, non ipsum magis dividit subteriora quam colligit. His igitur expeditis
constat genus plurimarum esse specierum genus et speciem plurima sub se
individua cohercere. Nam si qua sunt subteriora, illa quae sunt superiora
dispertiunt et in multitudinem dissipant dividuntque; quare non est dubium quin
superiora semper inferioribus pauciora sunt. Praedicamenta vero aliud de alio
vel ad se invicem quae torquentur, hoc modo sunt. Omnis enim res alia aut maior
erit aut minor aut aequa. Omne quod est maius, de minore poterit praedicari;
nam cum animal sit maius ab homine, poterit animal de homine praedicari. Minus
vero de maiore non dicitur: nam quoniam animal est et homo et equus, ad animal
hominem si praedicare volueris, tantum haec convenit praedicatio, quantum
convenit animalis partem esse super hominem. Age enim, converte et dic hoc esse
animal quod hominem: quantum igitur pars est animalis, quae hominis speciem
contineat, tantum animal homo est. In illis autem aliis partibus animalis quae
aliud continent quam est species hominis, hominis appellatio non
convenit. Nam si dicas 'animal hoc est quod homo', in illa parte in qua
equus est animal et coruus, ista talis praedicatio non aptatur atque ideo
universaliter non convertuntur. Nam si dicis 'omnis homo animal', verum est, si
dixeris 'omne animal homo', falsum est. Quodsi maiora de minoribus idcirco
praedicantur, quia omne minus in se continent, et minora de maioribus idcirco
non praedicantur, quia maiora minoris definitionem superuadunt et ƿ quodammodo
exsuperant. Non est dubium quin illa quae sunt aequalia, sibi possint ipsa
converti. Aequalia autem illa sunt quae neque minora neque maiora sunt, id est,
ut si in quamlibet speciem apponantur, et omni illi speciei adsint et nulli
alii; nam omnis homo risibile est et nulla alia species risibili potest proprio
nuncupari, atque ideo quoniam aequalia sunt, convertuntur. Dicis enim: quid est
homo? Risibile. Quid est risibile? Homo. Et item: quid est hinnibile? Equus.
Quid est equus? Hinnibile. Quodsi semper maiora de minoribus praedicuntur,
superiora necesse est genera esse et omnia subalterna minora fiunt. Quodsi
subalterna omnia minora sunt, non est dubium quin, si quis per subdivisionem descendat
ad ultimam speciem. Quodcumque genus de vicinis sibi praedicabitur, etiam de
subalternis. Namque substantia habet sibi vicinum ad subteriora genus, ad se
vero speciem, quod est corpus; de hoc igitur substantia praedicatur. Si quis
enim interroget: quid est corpus? Dicitur substantia. Sub corpore vero est
animatum corpus et sub eo animal ergo quoniam substantia idcirco praedicatur de
corpore. Quia illi est superior, necesse est, quibus corpus superius fuerit,
eisdem etiam sit substantia superiol. Nam si corpus praedicatur de animato
corpore et de animali, praedicabitur etiam substantia de animato corpore et de
animali. Sic igitur quaecumque superiora fuerint, de subterioribus non solum
sibi vicinis sed etiam longe subterioribus praedicantur. Nam si maiora sunt his
quae sibi vicinae sunt speciebus, multo maiora erunt etiam illis quibus ƿ illae
vicinae species fuerint ampliores. Ergo de quibuscumque species
praedicatur, de ipsis praedicabitur et illius speciei genus. Nam si species
aliqua alicui maior est, multo genus speciei ipsius illa re qua species maior
est, maius erit. Atque ita ad id praedicabitur, quemadmodum ipsa species antea
praedicata est. Quod si ita est, non est dubium genus quoque generis illius
quod ad illud ad quod species praedicabatur, poterat praedicari, etiam id,
quoque de eo <ad> quod species et genus speciei praedicabatur, praedicari
posse. Nam si quis dicat Ciceronem esse hominem, cum animal hominis genus sit,
non erit absurdum Ciceronem animal praedicari. Et cum animalis ipsius substantia
genus sit, non erit inconveniens Ciceronem substantiam praedicari, quoniam quae
supersunt, de subterioribus praedicantor et ea quae subteriora sunt, si qua
alia sibi subteriora habeant, illud primum genus habebunt etiam ista subteriora
et de his non inconvenienter praedicabitur. Igitur species de individuo
praedicatur ut maius, magis genus vero de omnibus subalternis et de magis
specie praedicatur. Aequo enim modo dicitur et corpus substantia et animatum
corpus substantia et sensibile corpus substantia et rationale animal substantia
et mortale substantia et homo substantia. Et de ipsis etiam magis genus
individuis praedicatur. Potest enim Cicero dici substantia, species vero sola
de nullis aliis nisi de individuis praedicatur, ut dictum est, individua autem
ipsa de nullo alio praedicantur nisi de ipsis, id est singulis. Natura autem
individuorum haec est, quod ƿ proprietates individuorum in solis singulis
individuis constant et in nullis aliis transferuntur atque ideo de nullis aliis
praedicantur. Ciceronis enim proprietas cuiuslibet modi fuerit, neque in
Catonem neque in Brutum neque in Catulum aliquando conveniet. At vero
proprietates hominis quae sunt idem quod est rationale, mortale,
<sensibile>, risibile, in pluribus et in omnibus individuis possunt et
singulis convenire. Omnis enim homo et singulatim individuus et rationalis est
et mortalis et sensibilis et risibilis. Atque ideo illa quorum proprietates
possunt <in> aliis convenire, possunt de aliis praedicari, haec autem
quorum proprietas in aliis non convenit, nisi ipsis tantum singulariter, de
aliquibus aliis praeter se singulariter praedicari non possunt. Repetendum
est igitur quod omne individuum specie continetur. Species vero ipsa cohercetur
a genere et ullum quasi omnium corpus magis genus est et numquam est pars,
individuum vero pars semper est, numquam est totum. Species autem et pars et
totum merito nuncupatur, nam ad genus pars est, ad individua totum: dividit
enim genus, ut dictum est, et individua colligit. Sed species pars est alterius,
id est generis, totum vero non est partis sed partium. Namque genus unum est et
plures species unius rei, id est unius generis species pars est. Et quoniam
individua plura sunt et infinita sub una specie, quae illa individua colligit,
species illa non est unius totum, id est non est partis totum sed plurimorum,
id est partium; plures enim partes ƿ sub ea individuorum sunt, quarum totum
species, id est homo appellatur. Sed de genere et specie sufficienter
dictum. Et quoniam matutinae salutationes vocant, in futuras noctis vigilias
quod est reliquum transferamus. Multa nobis a parente natura excelsius
quam caeteris animantibus gravia illustliaque concessa sunt. Quae nos ita quasi
quaedam benigna artifex hllmanitatis excoluit, ut primum nobis reputandi considerandique
animos rationemque concederet, post vero ratione reperta proloquendi conferret
usus iussissetque nos non corpolis sensibus a beluis sed mentis divinitate
distare. Quae cum se sibi adiunxerit et a suae vivacitate naturae non
discesserit, tunc vero sicut ipsa est aeterni generis, ita quoque famam in
posteros vitamque gloriae infinitissimis temporibus coaequat. Sin vero se
pravis libidinibus corporis obnoxilam perdendam corrumpendamque permiserit,
naturam corporis sequitur. Nam nihil eius vivacitatis post corpora remanet cui
omnis labor et studium de rebus corporis atque in corpus impensum est. Quare
annitendum est, ut nos meliores curatioresque reddamus, non ea re qua pecudibus
nihil distare possumus sed quo caelestium virtutum similitudine aeternitatis
gloriam factis egregiis dictisque mereamur. Sed de his alias, nunc ad
propositum reuertar. Cum igitur alterius noctis consueta lucubratio
vigiliaeque venissent, credo hesternae rationis subtilitate captus vel qua ipse
est cupiditate discendi audiendique studio vigilantius quam umquam surrexerat,
Fabius ad me perrexit. Qui postquam consalutatus sequentis a me operis
plomissam continuationem reposceret, Faciam, inquam, non inuitus, quippe cum
nec mihi sit in vita quicquam melius agere et tu hanc mihi iucunditatem studio
tuo augeas, quod mihi perquam glatissimum est. Placuit igitur ut, quoniam
hesterna dissertio speciem explicuerat, alterius expositionis principium de
sequenti differentia sumeretur. ÐHic Fabius: Uberrime, inquit, a te hesternis
vigiliis de generibus et speciebus expositum est. Sed, ut dici audio, subtilior
de differentiis tenuiorque tractatus est. ÑNon, inquam, immerito. Nam varie
acceptae differentiae varias babebunt etiam potestates. Erunt namque alias
genera, alias species, alias vero differentiae. Sed hoc postea demonstrabitur,
nunc nero ita, ut arbitror, textus est: OMNIS DIFFERENTIA ET COMMUNITER ET
PROPRIE ET MAGIS PROPRIE DICITUR. Differentiam quoque, multis modis
appellari designat. Dicit autem tribus his modis fieri differentiam, cuius aut
communes sunt aut propriae aut magis propriae. Communes sunt quibus omnes aut
ab aliis differimus aut a nobis ipsis. Nam sedere vel ambulare vel stare
differentia est; nam si tu ambules, ego vero sedeam, in situ ipso atque
ambulatione differimus. Et item ego cum nunc sedeo, postea vero si ambulem,
communi a me ipso differentia discrepabo. Propriae vero sunt ƿ quae
uniuscuiusque individui formam aliqua naturali proprietate depingunt, ut si
quis sit caecis oculis vel crispo capillo; etenim propria uniuscuiusque singuli
hominis sunt quoquomodo ista nascuntur. Magis propriae sunt quae in substantia
ipsa permanent et totam speciem differentia descriptioneque permutant, ut est
rationalis vel mortalis hominis differentia. Harum autem communes et propriae differentiae
sub eadem specie singulos a se faciunt discrepare, illa propriis differentiis,
illa communibus, magis propriae vero totam naturam cuiuslibet speciei
substantiamque permutant et ab aliis speciebus segregant atque disiungunt.
Harum ergo communes et propriae differentiae, quoniam speciem non permutant sed
formam quodammodo et habitudinem solam faciunt discrepare, alteratum facere
dicuntur, id est non integrum alterum facere, id est non integre permutare sed
quodammodo discrepantiam distantiamque faciunt, atque ideo non vocantur alterum
facientes, id est permutantes sed magis alteratum, id est non integrum alterum
facientes. Illa vero tertia, id est magis propria, quoniam substantialis est et
ipsius speciei inserta naturae, alterum facit. Nam quoniam homo atque equus
quantum ad quod animalia erant, una illis erat substantia, veniens rationale
disgregavit omnino speciem et funditus alteram fecit. Ergo communes et propriae
differentiae alteratum facientes vocantur, magis propriae alterum facientes.
Constat igitur differentiarum alias facere alterum, alias alteratum. Illae quae
faciunt alterum, substantiales sunt et omnes naturam speciemque ƿ permutant et
specificae praedicantur; valent enim quamlibet speciem constituere et ab aliis
omnibus segregare et eius formam paturamque componere. Nam si dicas mortale et
rationale differentias et eas animali supponas, non est dubium quin hominis
speciem, facias et speciei huius sint perfectrices. Atque ideo specificae
nominantur, quod et permutant naturam et ipsam substantiam cuiuslibet illius
speciei constituunt illae vero aliae nihil aliud efficiunt nisi alteratum,
quippe cum aut proprietate quadam formae alius distet ab alio aut aliqua
habitudine et dispositione aliquid faciendi. Illa igitur magis propria
differentia, quam specificam nominamus, sola poterit in generis divisione
congruere. Etenim caeterae nihil ad substantiam sed ad quandam quodammodo
eiusdem similitudinis discrepantiam distantiamque ponuntur. Nihil enim in illis
praeter alteritatem solam reperire queas, quippe quae non constituunt species
sed constitutas iam et effectas magis propriis suis qualitatibus ipsae
discriminant. Quod autem dicit: REPETENTI NUNC A SUPERIORIBUS
DICENDUM EST DIFFERENTIARUM ALIAS ESSE SEPARABILES, ALIAS INSEPARABILES. hoc
est quod hic nunc divisio alia rursus assumitur. Nam cum prius differentiam in
tribus partibus separaret et postea tres illas in duarum tantum namerum
quantitatemque colligeret, ut alias alterum facientes esse diceret, alias
alterantes, ipsarum rursus trium tertia sumitur facienda divisio. Dicit enim
alias esse separabiles, alias vero inseparabiles, et sicut in priore divisione
alteratum facientes duae fuerant communes et propriae. Sola vero magis propria
remanserat quae alterum faciebat, eodem nunc etiam modo in separabilibus et in
inseparabilibus communis tantum separabilis differentia est, aliae vero
differentiae utraeque, ut caecitas oculorum vel flaua caesaries vel corporis
proceritas, quae sunt propriae differentiae, vel certe rationabilitas vel
mortalitas. Quae sunt magis propriae differentiae, possunt numquam ab hominis
specie segregari. Sedere vero vel currere, quae communes sunt, separantur a
singulis et item rursus adduntur. Earum vero quae sunt inse pal abiles, aliae
per se veniunt, aliae vero per accidens. Et illae quae per se veniunt, a magis
propriis manant, illae quae per accidens, a solis propriis effunduntur. Et
inseparabile accidens est quicquid per inseparabilem propriam differentia unim
cuique speciei contigerit. Sed quamquam propria et magis propria inseparabiles
differentiae sint, numquam tarnen illam superiorem formam naturamque commutant.
Nam magis propria semper alterum, propria vero solum semper efficit alteratum.
Huc accedit quod inseparabiles propriae possunt alicui plus minusue contingere,
inseparabiles magis propriae nec cumulis intentionis augentur nec imminutione
decrescunt. Potest enim alius procerior, alius fuscior, deductioribus alius
capillis, alius ƿ flavioribus nasci, quae sunt inseparabiles propriae
differentiae at vero magis propria, id est rationale, neque plus neque minus
admittit. Omnes enim homines in eo quod homines sunt, aequaliter sunt
rationales atque mortales. Nam si genus alicui plus minusue esse posset genus,
possent etiam differentiae vel intentione crescere vel remissione decrescere.
Nam quoniam animal non est plus homini quam equo neque equo quam caeteris, et
aequaliter subiectis omnibus genus est. Sic specierum differentiae quas
specificas appellamus, maius minusue non capiunt. Nam si animal rationale
mortale hominis definitio est et hominum nihilominus singulorum, non est dubium
quin haec definitio ad omnes homines singulos aequaliter semper aptetur et
nulli neque plus neque minus conveniat quod si ita est, partes quoque totius
definitionis, quae sunt differentiae, tales erunt, ut nulli neque plus neque
minus sed aequaliter semper et convenienter aptentur. Partes autem huius
definitionis sunt rationale et mortale. Rationale igitur et mortale, quae sunt
magis propriae differentiae, plus minusue non capiunt. Ab hac igitur, id
est separabilium inseparabiliumque differentiarum divisione tribus modis
differentias speculamur nam aut separabiles sunt aut inseparabiles,
inseparabilium vero aut per se veniunt aut per accidens. Quae per se veniunt,
aliae sunt quae genus dividunt, aliae quae speciem informant atque constituunt.
Sed de superioribus prius dictum est, nunc autem de his quae genus dividunt et
speciem constituunt. Disseramus. Omnis quaecumque fit generum divisio in
species, si earum specierum alia snbdivisio fiat et a magis generibus ƿ per
subalterna genera usque ad magis species decurratur, gemina in his erit
duplexque divisio. Namque si contrarias specierum differentias respicias.
Generum est divisio, si suba-ltemorum generum, fit specierum constitutio. Si
enim genus dividamus id est sublstantiam, ut iam speciei disputatione e divisa
est, et sit substantia, post substantiam animatum corpus et inanimatum, sub
animato corpore sensibile et insensibile, sub sensihili, id est animali,
rationale vel irrationale, sub rationali mortale vel immortale, hae igitur
differentiae eaedem species sunt, si contra se ipsas in divisione respiciantur.
Et dividunt genus hoc modo. Nam quoniam sub substantia animatum corpus et
inanimatum posuimus, si animatum corpus contra inanimatum respicias,
substantiam divisisti. Si vero subalterna genera in ipsis differentiis
aspicias, speciem constitues. Nam si animatum corpus et quod sub ipso est
sensibile corpus aspeseris, animal respexisti. Item si rationalem
differentiam contra hlrationalem acceperis, genus quod est utrorumque, id est
animal divisisti. Si vero sub eodem ordine rationalem differentiam et mortalem
accipias, hominis sine dubio speciem demonstrasti. Ita hae differentiae alio
modo acceptae fiunt generis divisibiles, id est genera dividentes, alio vero
modo fiunt constitutivae specierum, id est quae species declarent atque
constituant, nam si contrarias differentias respexeris, divides genus, si vero
subalternas, speciem constitues. Differentiarum igitur vis et separabilium et
inseparabilium caeteras tres res, id est genus, speciem aceidensque sic
retinet, ut permutata comparatione per haec eadem ipsa etiam permutentur. Nam
rationale et mortale differentias si contra irrationale et immortale
respexeris. Divisibiles sunt et generis differentiae, sin vero idem ipsum
rationale et mortale ad superiora comparaveris, species erunt eius quod eas
continet animalis. Si vero rationale atque mortale ad subiectum hominem
consideres, genera eius constitutivasque differentias contemplabere. At vero de
illis aliis inseparabilibus. Id est propriis, cadunt differentiae inseparabilis
accidentis. Inseparabile namque est accidens caecitas oculorum et, nasi
curuitas et alia huiusce modi. Et idem de separabilibus accidentibus, id est de
communibus. Separabile namque est accidens vigilare, dormire et currere vel
sedere. Quod autem dicit: SIC IGITUR COMPOSITA SIT SUPER OMNIA SUBSTANTIA ET
SINT EIUS DIFFERENTIAE DIVISIBILES ANIMATUM ET INANIMATUM, contrarias
differentias in species monstrat. Quod autem dicit: HAEC DIFFERENTIA
ANIMATA ATQUE SENSIBILIS SOCIATA SUBSTANTIAE PERFICIET
ANIMAL, constitutivas specierum diffetentias monstrat. Sic igitur variis
modis acceptae varias virtutes formasque sortitae sunt. Sed et divisibiles et
constitutivae utraeque specificae nominantur ƿ et in divisione generum
definitionibusque solae sunt utiles, caeterae vero inseparabiles per accidens
inutiles, et multo magis illae sunt inutiles quae separabili differentia
discretioneque formatae sunt. Has autem specificas differentias qui de differentiarum
definitione tractaverunt, tales esse declarant quibus species a genere
abundant. Quid autem sit, breviter explanandum est. Controversia est utrum
genus differentias specierum suarum in se habeat an minime, ut puta: animal sub
se habet species rationale et irrationale, id est hominem et verbi gratia
equum; rationabilitatem igitur et irrationabilitatem, id est hominis vel equi
differentias, quibus a se species sub animali positae differunt, utrum habeat
utrasque animal an non habeat. Nam si animal, quod genus est, neque rationale
neque immtionale est, species quae sub ipso sunt positae, istas differentias
non habebunt. Nam si genus istas differentias non habebit, unde erunt speciebus
differentiae, quibus a se ipsis differunt? Sed si quis dicat esse in genere
istas differentias, non enim haberent species, nisi prius genus habuisset,
aliud maius continget incommodum. Nam quoniam aeque sunt species quae sub
aliquo genere supponuntur, et aequaliter homo atque equus sub animali genere
ponuntur neque homo prius est neque equus sed uterque aequaliter animati
species nominantur. Igitur si rationale atque irrationale aequaliter sub
eodem genere sunt, ƿ erunt etiam uno tempore. Quodsi uno tempore et genus istas
differentias habet, ut genus suapte natura id est animal rationale sit et
irrationale, noo est dubium quod eadem res uno tempore duas contrarietates in
sese substantialiter retineat. Quod fieri nequit. Quid igitur? Dicendum est
quoniam genus actu quidem ipso, quod Graeci eineurgeian vocant, istas differentias
non habet, at vero potestate ab his ipsis differentiis, quas in suas species
fundit, non uacat. Quid autem sit actus et potestas, castigatius explicandum
est. tantum interest aotus a potestate, quantum homo ridens ab eo qui ridere
possit, non tamen rideat. Ille enim agit ipsam rem, ille tantum potest, non
etiam agit. Sic igitur et animal. Namque homo actu ipso rationalis est, semper
enim homo rationalis et nihil aliud est; et equus semper irrationalis, et eius
irrationabilitas in actu posita est. At vero ipsum animal rationale vel
irrationale non ipsum agit neque est in eorum actu positum sed in potestate.
Potest ellim es se rationale atque irrationale profundere. Quare quoniam
species actu differentias continent, genus vero potestate, species a genere merito
differentiis abundare dicuntur, quoniam quod genus potest, id est differentias
facere, species non solum possunt sed etiam agunt; in ipsis enim speciebus
positae informataeque sunt. Est autem alia differentiae definitio talis,
quae dicat differentiam esse quae ad plurimas species in eo quod quale sit
praedicetur. Differentia ad res plurimas dici potest, ut rationale dicitur ad
hominem -- homo enim rationalis -- dicitur ad deum; deus enim rationalis
dicitur sed non in eo ƿ quod quid sit sed in eo quod quale sit. Nam si qualis
homo sit interrogetur, rationalis continuo respondetur, qualis deus sit si
interroges, rationalem non absurde dixeris. Eodem modo etiam irrationabilitas.
Dicitur enim et ad equum et ad bovem et ad piscem et ad avem, quae omnia si qualia
sint interrogaveris, irrationabilia praedicantur. bona igitur et recta haec est
definitio, id est: DIFFERENTIA EST QUOD AD PLURIMAS RES SPECIE DISTANTES
IN EO QUOD QUALE SIT PRAEDICATUR. Et de mortali vero et de aliis
differentiis eadem est ratio. Sequitur locus perdifficilis sed
transferentis obscuritate Victorini magis quam Porphyrii proponentis, qui
huiusmodi est. Dicit omnem rem quaecumque est corporea, ex materia et forma
constare. Namque si statuam dicas, constat statua ex aere verbi gratia et figura
illa quam ei suus fictor imposuit, et est materia ex quo facta est aeris,
figura vero, id est forma, qua aes ipsum formatum est. Nam si hominem formabis
ex aere, erit hominis forma, aes vero materia. Eodem modo etiam genus. Namque
genus in modo materiae accipitur, differentia vero in modo formae. Etenim
quemadmodum quaecumque illa res ex materia et forma consistit, sic etiam omnis
species ex genere et differentia. Namque genus ita est hominis, ut est statuae
aes, differentia vero sic est hominis, ut est forma illa es qua aes effictum
est. Nam sicut ex aliqua figura quae es aeris materia efficta est, cuiuscumque
illius species statuae ƿ fit, sic etiam cum in genus, id est in animal venerit
differentia, id est rationale, hominis species fingitur. Ista igitur sibi
proportionaliter sunt. Proportio autem est cuiuscumque, illius rei similis ad
aliquam rem cognatam comparatio, ut puta si duo compares ad quattuor, dupla
proportio est, sin vero viginti ad quadraginta, eadem dupla. Sub eadem ergo
proportione sunt quattuor ad duo, sub quali quadraginta ad viginti quod utrique
duplex est numerorum! comparatio. Sic igitur qualis proportio est, id est
comparatio materiae et figurae talis est proportio generis et differentiae, et
ista quattuor sibi proportionaliter sunt. Eodem enim modo ex materia et figura
species cuiuscumque illius fictionis fortnata est, quemadmodum ex genere vel
differentiis species cuiuscumque illius animantis inanimantisue formatur. Quod
Victorinus scilicet intellexisse minus videtur. Nam quod Porphyrius ainaulogon
dixit, id est proportionale, ille sic accepit quasi a[logon diceret, id est
irrationale. Atque ideo in loco ubi habet hoc modo scriptum: OMNES NAMQUE
RES EX FORMA ET MATERIA CONSISTUNT IPSA AUTEM FORMA IRRATIONABILIS
EST, tollendum est irrationabilis est et dicendum proportionabilis est. Et
subterius paululum ubi habet: IAM OMNE GENUS SIMILE MATERIAE EST ET
CONSISTIT IRRATIONALE, tollendum irrationale et ponendum est
proportionale, ut sit et consistit proportionaliter. Nam quae proportio est
figurae ad materiam in efficienda cuiuslibet corporis fictione, eadem est
proportio diffelrentiae ad genus in efficienda cuiuslibet specie animati atque
inanimati. Sequitur item alia definitio, quae est huiusmodi. Dicunt enim esse
differentiam quod possit separare quicquid sub eodem genere est, et recte
dicunt. Nam dum syb eodem genere sit homo atque equus, quia utrumque est
animal, cum venerit rationale vel irrationale, equum atque hominem, quae sub
eodem genere sunt, dividunt atque discerllunt. Sunt igitur illae differentiae
quae possunt res sub eodem genere separare. Est autem alia definitio:
differentiae sunt quibus quidque ab alio distat. Nam homo atque equus rationali
atque irrationali differentia discrepant, cum unum sint quantum ad genus. Et
hoc est quod dicit: DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT SINGULA, QUIA PER SE
IPSUM GENUS EST ET ILLA QUAE RATIONABILIA SUNT, NOS SCILICET, ET ILLA QUAE
IRRATIONABILIA SUNT. NAMQUE ET HOMO ET EQUUS ET AVIS HAEC OMNIA GENUS UNUM
SUNT, ID EST ANIMAL. NAMQUE ANIMAL HORUM OMNIUM GENUS EST. Sed si de hoc
loco in quo positum est quia per se ipsum ƿ genus est, mutes et facias 'quia
per se ipsa animalia sunt', plenior sensus erit -- generis enim hic nomine pro
animalis abusus est -- et erit huiusmodi ordo: 'differentia est qua differunt
singula, quia per se ipsa animalia sunt et illa quae rationabilia sunt
animalia, nos scilicet, et illa quae irrationabilla sunt'. Quod si sic esset,
nullus esset error omnino. Nunc vero genus quod ait, pro animalis nomine
intellegendum est. Item dii atque homines cum utrique rationales sint,
mortalitatis tamen nomine adiecto differunt discrepantque. Sic igitur
differentia est qua singula differunt sed hoc non simpliciter sed illas tantum
differentias huiusmodi esse putandum est quae ad substantiam prosunt et quae ad
id quod est et quaecumque speciei possint esse aliqua pars. Quod huiusmodi est
si equus atque homo, quorum utrorumque unum genus est animal, a se differunt
rationali atque irrationali qualitate attamen ista rationabilitas et irrationabilitas
in substantia ipsarum specierum est hoc modo. Nam neque equus potest esse sine
irrationabilitate, neque homo sine rationabilitate. Atque ideo istae
differentiae prosunt ad aliquid esse speciei illi cui fuerint accommodatae et
substantiae ipsius partes sunt. Nam cum homo ex his differentiis constet, id
est ex rationali et mortali, rationale et mortale solum positum pars est
substantiae hominis. Nam si utraque simul unum hominem faciunt, non est dubium
quin ad substantiam hominis efficiendam unaquaeque earum res pars esse
videatur. Quare illae ƿ differentiae quaecumque non prosunt ad esse nec partes
substantiae cuiuslibet speciei sunt, specificae differentiae dici non habent,
quamvis sola hoc una species habeat. Nam si homo navigat, potest dici animal navigabile
sed navigare in substantiam hominis non convertitur. Neque enim homo inde
subsistit, quia navigat, quamvis hoc nullum aliud animal habere possit, id est
nullum possit animal navigare. Eodem modo et esse rhetorem vel grammaticum. Has
igitur differentias quae ad esse non prosunt sed tantum artem aliquam
scientiamque commemorant, non ponimus specificas esse, quamvis una quaelibet
animalis id species habeat. Ergo considerandum est, ut quotiens dicimus
definitionem differentiae illam, 'differentiam esse qua differant singula',
illam significari differentiam intellegamus quae ad aliquid esse prodest et
quae est alicuius pars substantiae speciei, illas vero quae ad esse non
prosunt, a in hoc genere differentiarum, quamvis singulae cuiusque sint, non ponamus. Sed
quoniam de differentia dictum est, de proprio explicemus. ÑTunc Fabius: Ut
arbitror, consequens est: PROPRIUM QUATTUOR DICITUR MODIS. DICITUR NAMQUE
PROPRIUM QUOD UNI SPECIEI ACCIDIT, ETIAMSI NON OMNIBUS. Et ego: Quattuor ergo
modis propria dividuntur. Est enim proprium quod uni accidit, etsi non omnibus,
ut est rhetor vel geometer vel grammaticus. Haec vero omnia uni soli speciei,
id est homini accidunt, non tamen omnibus. Neque ƿ enim omnes homines grammatici
vel rhetores vel geometres sunt, atque ideo vocabitur hoc proprium quod uni
sit, etiamsi non omnibus. Est item alia proprietas quae est omnibus etiamsi non
soli. Nam bipes omni homini accidit, omnis enim homo bipes est sed non soli
hominum speciei accidit sed etiam avibus. Est item tertium proprium quod omni
et soli et aliquo tempore accidit, ut est in pubertate pubescere et in senecta
canescere. Namque et umnibus hominibus evenit et nulli alii speciei nisi soli
hominum et aliquo tempore; constitutum enim tempus est vel adolescentibus
pubescendi vel senescentibus canescendi. Neque enim a sexto anno vel septimo
aliquis pubescit aut a vicesimo canescit, nisi forte aliquid accidit novi
quartum proprium est quod uni speciei accidit et omnibus sub eadem specie
individuis et omni tempore. Nam risibilem esse hominem et uni speciei solum, id
est homini, contingit et omnibus sub eadem specie individuis; omnes enim
singuli homines rident et omni tempore. Numquam enim tempus fuit ut quicumque
ridere non posset. Sed risibile dico potestate, non actu. Namque etsi non
rideat homo, tamen quia ridere potest, risibilis appellatur. Et sunt integre et
vere propria ista quae et uni et omnibus et omni tempore insunt, namque haec
speciebus suis converti possunt. Si enim dicas: quid est homo? Risibile. Si:
quid est risibile? interroges, homo praedicabis. Illa vero alia, bipes vel
grammaticus, propria quidem sunt sed converti non possunt. Nam grammaticus
semper homo, homo vero non semper grammatices, et e contrario homo ƿ semper
bipes est, non e contra bipes semper homo est. Et hinnibile similiter magis
proprium equi est. Nam eodem modo haec proprietas ad suam speciem converti
potest. Nam si dicas: quid est equus? hinnibile respondebis, si: quid est hinnibile?
equus praedicabitur. Sed quoniam de propriis dictum est, de accidentibus
sequens tractatus habeatur. Tum Fabius: Definit Porphyrius accidens
sic: ACCIDENS EST QUOD INFERTUR ET AUFERTUR SINE EIUS IN QUO EST
INTERITU. Hoc autem dicere videtur, illud esse accidens sine quo potest
constare illud cui accidit; ut puta si forte casu aliquo cuiquam facies
inrubuerit, abscedente rubore inlaesa facies permanebit, sicut eveniente non
laesa est. Dividit ergo accidens in separabile et in inseparabile. Namque
separabile accidens est, ut puta si quis sedeat vel ambulet, inseparabile est,
ut si dicas coruum nigrum, cygnum album; a quibus haec accidentia separari non
possunt. Nascitur autem huiusmodi dubietas, utrum superior definitio vera sit
et omnium accidentium nomen includat. Nam quoniam sunt quaedam, ut ipse ait,
accidentia inseparabilia, in his talis definitio videtur convenire non posse.
Nam si separari non possunt, non est in illis vera definitio quae dicit
accidens esse quod et inferri et auferri potest sine eius in quo est interitu.
Nam cum inseparabilia sunt, auferri non possunt. Sed haec tam uehemens quaestio
solvitur sic, quod haec ipsa definitio de accidentibus facta est potestate, non
ƿ actu, et intellegentia, non veritate, non quia Aethiops et coruus colorem
amittunt sed sine isto colore ad intellegentiam nostram possunt subsistere. Nam
verum est quoniam Aethiopem aut coruum color niger numquam deserit. Sed si quis
subintellegat colorem istum Aethiopem vel coruum posse amittere plumarum tantum
color in coruo mutabitur et erit avis alba specie et forma corui, si quis hoc intellegat,
at vero hominis, id est Aethiopis, amisso nigro colore, elit eius species
candida sicut etiam aliorum hominum. Ergo hoc non ideo quia fiat dicitur sed
ideo quia, si posset fieri, huius accidentis susceptrix substantia non periret.
Quod ipse hoc modo demonstrat: POTEST AUTEM SUBINTELLEGI ET CORVUS ALBUS ET
AETHIOPS COLOREM SUUM PERDITURUS SINE INTERITU SUO IN QUO COLOR FUIT. Nihil
enim ad speciem impedit, si Aethiops vel coruus amisso colore in propriae
substantiae natura permaneat. Est autem alia definitio, quae est
huiusmodi: ACCIDENS EST QUOD CONTINGIT ALICUI ET ESSE ET NON
ESSE. Nam quod in substantiam non convertitur, id accidens esse dicimus,
id est non in substantia insitum sed extrinsecus veniens. Ergo ea quae
contingunt et esse et non esse, ideo accidentia vocata sunt, quoniam in
substantiae ratione non accipiuntur. Si enim in substantiae ratione ponerentur,
numquam non essent, et si non essent, numquam esse possent. Nam quoniam verbi
gratia ratio in substantia hominis est, numquam homo esse potelit irrationalis,
quoniam irrationabilitas in substantia hominis non est. Ex hoc ergo venit etiam
alia definitio, ƿ accidens esse illud quod neque genus sit ueque species neque
differentia neque proprium. Nam quoniam genus, species, differentia et proprium
in substantia sunt et cuiuscumque illius rei substantiam monstrant, idcirco
quicquid horum aliquid non fuerit, id accidens merito
praedicatur. Explicitis igitur atque expeditis his quae proposuit, id est
genere, specie, propriis, differentiis accidentibusque, tractare a nunc
exequitur illa quae inter haec communia omnia vel quae differentiae sint. Et
primo omnium simul inter se communiones explicat, post etiam singulorum, et
dicit omnium esse commune de pluribus praedicari. Namque genus praedicatur de speciebus
et de individuis, eodem modo praedicatur et differentia de speciebus et de
individuis, etiam proprium et de speciebus et de individuis praedicatur, at
vero species de solis tantum individuis appellatur. Genus enim praedicatur de
equis, hominibus, bobus et canibus, id est speciebus, praedicatur item et de
his quae sub ipsis speciebus individua continentur; nam sicut species ipsae
canis vel equi vel hominis ƿ animalia sunt, sic et unusquisque equus vel homo
animalia praedicantur. Differentiae vero praedicantur de speciebus et de
individuis hoc modo. Namque homo et equus species sunt sed rationalis dicitur
et ad speciem hominis differentia praedicatur eodem modo et ad Ciceronem. Nam
cum sub hominis specie individuum sit, et ipse rationalis appellatur proprium
autem de specie praedicatur. Cum dicitur species; quod est homo, risibilis et
cum dicitur Cicero risibilis, quod est individuum, monstratur proprium de
individuis praedicari. Species vero de suis tantum solis individuis praedicatur
interrogatur enim: quid est Cicero? et homo respondetur. Accidens vero ante
praedicatur de individuis et postea de speciebus. Nam si quis dicat: homo
sedet, quod est accidens separabile, cum quicumque singulum hominem, id
est'individuum sedere viderit, tunc id et de specie praedicat, ut dicat:
quoniam Cicero sedet Cicero autem homo est, homo sedet. Eodem modo inseparabile
de speciebus et de individuis praedicatur. Expeditis ergo omnium
communionibus, generis et differentiae primum communiones differentiasque declarat.
Et primum dicit generi cum differentia esse commune quod ab utrisque species
continentur. Nam genus, quod est animal, continet speciem hominis atque equi.
Porro autem rationale, quod est differentia, continet et hominem et deum, et
irrationale, ƿ quod est differentia, continet equum, bovem atque avem sed ita
continet, ut genus semper plures species contineat quam continet differentia.
Namque genus et ipsas differentias continet. Genus enim, id est animal,
rationale atque irrationale continet illasque species quae sunt sub rationali;
etiam eas <quae sunt sub> irrationali, continet genus, lid est animal. At
vero differentia, id est rationale, in rationale non continet sed tantum
hominem atque deum. Plus igitur genus continet quam differentia. Est autem et
alia communio. Si quid enim ad quodlibet genus ita praedicatur, ut eius genus
sit, et de illis speciebus quae sunt sub illo genere ad quod praedicatur, illud
genus appellatur et de individuis quae sub illis speciebus sunt. Namque animal
genus est hominis, et de animali praedicatur ut genus substantia; genus enim
substantia animalis est. Ergo illa substantia quae ad hominis genus, id est
animal, ita praedicatur ut genus, praedicatur etiam et ad ipsum hominem;
dicitur enim homo substantia. Praedicatur item illud generis genus etiam de bis
quae sunt sub specie individuis; dicitur enim Cicero, quod est sub hominis
specie individuum, substantia. Differentia eodem modo. Nam si qua differentia
dicta fuerit de alia differentia, ut differentia intellegatur, praedicabitur et
ad speciem quae sub illa differentia est ad quam praedicatur, et de illis
individuis quae sub eadem specie sunt. Nam 'ratione uti' differentia ad
rationalem differentiam veluti cognata differentia praedicatur, rationabile
autem praedicatur ad hominem: ƿ ergo et ratione uti praedicatur ad hominem.
Idem etiam ratione uti praedicatur ad Ciceronem, quod est individuum sub illa
specie ad quam speciem illa differentia, id est rationalis, praedicabatur, de
qua praedicabatur ut cognata illa differentia, id est ratione uti. Igitur est
ista generis differentiaeque communitas, quod ea quae de genere speciei
praedicantur ut genus, et de sub eodem genere specie praedicantur et de
indiaiduis, et illa quae de differentia praedicatur ut differentia, et de sub
eadem differentia specie praedicatur et de individuis. Est autem alia communio,
quod quemadmodum interempto genere species interimuntur, sic interempta
differentia species sub eadem differentia interimuntur. Nam si interielit
animal, homo atque equus continuo periturus est, sin vero differentia, id est
rationale, dii atque homines interibunt et nihil eorum erit quod uti ratione possit.
Post demonstrationem igitur communium proprietates eorum differentiasque
designat et dicit differentiam primam eam qua genus non solum <a>
differentiis sed etiam speciebus vel propriis vel accidentibus differat. Namque
dicit genus multo de pluribus praedicari quam praedicetur differentia vel
species vel accidens vel proprium. Namque genus dicitur, id est animal, de
quadrupede, de bipede, <de> reptili, id est ƿ de serpentibus, vel de
natabili, id est de pisce. Quadrupes autem, quod est a bipede differentia, de
solis illis dicitur quae quattuor pedes habent, id est equus vel bos, de
caeteris autem aliis, id est bipede vel reptili vel natabili, unde genus
aequaliter praedicatur, appellari non potest. Plus autem genus ab speciebus
praedicatur, quod, cum hominis species sit et de solis individuis praedicetur,
idem tamen homo de equo vel bove vel cane non praedicatur. At vero animal, quod
est genus, de pluribus speciebus praedicatur, id est de homine et de equo et
cane et bove et de omnibus quae sunt sub ipsis posita individuis. Genus autem a
proprio praedicationibus abundat, quod proprium unius speciei semper est et de
sub eadem individuis, genus vero de multis speciebus et propriis praedicatur et
de sub eisdem individuis. Ab accidentibus vero genus magis de plurimis
praedicatur, quod, cum unius cygni inseparabile fortasse accidens sit album,
animal non solum de cygno praedicatur sed de omnibus animalibus, etiam non
albis, at vero accidens de solis tantum illis quibus inseparabiliter continetur
vel quibus separabiliter; nam principaliter de individuis dicitur. Quare
constat multo de pluribus praedicari genus quam accidentia praedicantur, quod
accidentia principaliter de individuis, genera vero de individuis et de
speciebus et de differentiis praedicantur. SED NUNC ILLAS DIFFERENTIAS
ACCIPIAMUS QUIBUS GENUS DIVIDITUR, NON QUIBUS SPECIES FORMANTUR. Hoc autem
tale est. Quoniam duas diximus differentiarum esse formas, ut aliae sint
divisibiles, aliae constitutivae, constitutivas illas diximus quae sub eodem
filo positae et a subalternis generibus descendentes speciem quandam informant
atque efficiunt, ut est rationale vel mortale; quae hominis speciem constituunt,
alias vero divisibiles, quae genus dividunt, non speciem informant, id est
rationale et irrationale, mortale et immortale. Nunc de illis differentiis iste
tractatus habetur quae genus dividunt, non quae speciem constituunt. Nam illae
quae genus dividunt, 1n differentiarum integro loco accipiuntur, illae vero
quae speciem constituunt, in generum specierumque substantia recipiuntur.
Namque rationale mortalis genus est, porro mortale hominis genus est, et istae
constituunt speciem, at vero rationale irrationalis species non est neque
genus, nec mortale immortalis neque genus neque species est. Atque ideo quoniam
propriam vim differentiarum ista retinent quae neque genera neque species sibi
invicem esse possunt, ipsas nunc differentias accipiamus in quibus nulla
quantum ad genus est speciemque communitas. Est etiam generis differentia.
Namque genus a propriis differentiis prius est. Namque si abstuleris genus,
omnes simul differentias abstulisti. Nam si abstuleris animal, rationale atque
irrationale non remanent. Porro autem si rationale abstuleris, remanet ƿ
animal. Sed si utrasque interemeris differentias, id est rationale vel
irrationale, potest tamen quiddam intellegi, quod sit substantia animata
sensibilis, id est animal. Ita genus sublatum omnes secum auferet differentias,
sublatae differentiae genus secum non interimunt, quod intellegentia genus
remanet, id est quoniam potest animal intellegi praeter differentias, ut eius
tantum definitionem animo capias et esse dicas substantiam animatam atque sensibilem.
Quae autem talia sunt, ut ipsa interempta interimant, non simul aliis
interemptis ipsa interimantur, priora sunt illis quae possunt interimere. Est
etiam alia differentia, quod genus semper in eo quod quid sit praedicatur, ut
dictum est, differentia vero in eo quod quale sit. Sed hoc frequentius
inculcatum est atque ideo a nobis praetermittendum est. Est etiam alia
differentia, quod ad omnem speciem unum semper genus aptatur. Homo enim unum
tantum genus habet, ut animal appelletur, in unam autem speciem plurimae
differentiae poterunt commodari. Namque homo et rationale est, quae differentia
est, et mortale, quae eadem differentia est, et sensibile, quibus scilicet
omnibus ab aliis differt. Differt enim his omnibus, quod sensibilis est ab
insensibilibus, quod rationalis ab irrationabilibus, quod mortalis ab
immortalibus. Est etiam alia differentia, quae superius dicta est. Nam genus
speciei ita est ut materies, differentia vero ut figura. Nam sicut in aeris
materiem veniens figura statuam efficit, ita animali, id est generi, veniens
differentia, id est rationale vel irrationale, facit hominis vel pecudis
speciem. Quae autem communitates ƿ vel proprietates generis <et
differentiae> fuerunt, hactenus dixit. Et fortasse erunt etiam aliae, quae propter
brevitatem supersedendae atque omittendae sunt. Nunc autem de generis vel
speciei communitatibus proprietatibusque tractatur. Et dicit genus et speciem
commune habere de pluribus praedicari, sicut dictum est. Nam genus et de
speciebus pluribus praedicatur et earum individuis et item species de sub se plurimis
individuis appellatur. Et hic quoque illae species accipiuntur quae magis
species sunt. Nam si subalternae accipiuntur, non magis species quam genera
videbuntur. Nam quae subalternae species sunt, etiam genera sunt, et erit
absurdum et huic propositioni inconveniens de generum inter se differentiis
communibusque tractare. Accipiantur illae tantum species quae vere species et
magis species appellantur. Est etiam alia eorum communio, quod sicut gentls ab
specie primum est, sic species ab individuis primae sunt. Nam si genus auferas,
species abstulisti, si species abstuleris, genera non peribunt. Porro si
species abstuleris, individua morientur, si individua interierint, species
manent. Est etiam his alia communio, quod quemadmodum genus quid sit totum
declarat, sic etiam species. Nam totum quod est rationale atque irrationale, a
genere declaratum est; dicitur enim quicquid fuerit rationale vel irrationale,
id esse animal. ƿ Sic igitur totum quid sit, a genere declaratur. Porro autem
quid sit tota hominum diversitas, id est individuorum, a sola specie
declaratur, cum dicitur homo. Nam et Scytha et Indus et totum quisquid in
individuis est, uno solo hominis, id est speciei nomine continetur. Dissertis
igitur generis specieique communibus ad proprietates eorum vel differentias
transitum fecit dicens differre inter se genus et species, quod genera species
continent, numquam rursus genera ab speciebus propriis continentur. Oportet
autem, ut dictum est, in hoc tractatu non subalternas sed magis species
considerari. Genus enim plurimarum specierum est continens et unum omnium et
totum et omnibus et singulis. Quod si ita est et genus a suis speciebus
singulis maius est atque ideo eas dicitur continere, non est dubium quin ea
ipsa genera quae continent species, ab his ipsis contineri non possint. Insuper
omnia genera praeiacent. Hoc videtur dicere quod omnia genera prius sint ab his
speciebus quae sub ipsis positae continentur. Nam sicuti materies prima est ab
illa re quae veniens in materiem formam constituerit atque figuravexit, sic
etiam prius est genus ab illa specie quam veniens differentia formabit atque
constituet. Nisi enim in generibus differentia venerit, species numquam
constituentur. Quare praeiacent, id est praesunt et antiquiora sunt genera
speciebus suis. Atque ideo si genera interimantur, ƿ species quoque peribunt;
nam si animal sustuleris, hominem pecudemque sustulisti. Si vero species
interimantur, non continuo genus interibit; nam si homo perierit, animal
continuo non interemptum est, alia enim remanebit species de qua ipsum animal,
id est genus praedicetur. Atque ideo genera ab speciebus suis priora dicuntur.
Et quod omnia genera univoce de speciebus praedicentur, species ipsae de
generibus numquam. Hoc, ut arbitror, in hesterna lucubratione iam dictum est.
Nam genera semper de speciebus univoce praedicantur. Homo enim et homo est et
animal. Porro autem animal genus est hominis et praedicatur animal de lmmine.
Quoniam ergo animal Ac homine praedicatur et dioitur homo animal, animal et
homo uno animalis nomine nuncupantur. Sed his ipsis definitio una conveniet.
Est enim animal snbstantia animata sensibilis, quod non absurdum est in homine
dici. Nam si homo ipse animal dicatur, non erit absurdum dici de homine
'substantia animata sensibilis'. Igitur genus de speciebus suis univoce
praedicatur, quod eodem nomine et eadem definitione conveniat. At vero species
non modo univoce non praedicantur de generibus suis sed nec omnino
praedicantur; nulla enim res minor de maiore poterit prxedicari. Atque ideo,
quoniam species minores sunt suis generibus, de generibus suis neque univoce
neque aliquo modo poterunt appellari. AMPLIUS OMNIA GENERA ABUNDANT COMPLEXIONE
SUB SE POSITARUM SPECIERUM, IPSAE SPECIES ABUNDANT GENERUM SUORUM PROPRIIS
DIFFERENTIIS. Quod dicit proinde est ac si diceret: Omne quod genus est,
plures sub se species continet, omne quod species, plures in se differentias
habet. Genus enim, id est animal, in hoc homine, id est specie, superabundat et
superest, quod homo solum homo est, animal vero non solum homo sed etiam bos
vel avis vel alia huiusmodi. Species vero in eo superant genera sua, quod eas
differentias quas species in actu habent, eas genera non habents nam, sicut
superius dictum est, genera differentias illas quas habent sub se species
positae, potestate continent, non etiam re. Atque ideo species quae est homo,
vel alia species, sicut est equus, a genere suo, animali, in hoc abundant et
supersunt, quod animal ipsum per se neque rationale neque irrationale est, at
vero homo vel equus hoc rationale. Illud vero rationis expers. ILLUD
ETIAM, QUOD SPECIES NUMQUAM MAGIS GENUS FIET, RURSUS ET GENUS NUMQUAM MAGIS
SPECIES FIT. Et ut sciremus hic non de subalternis speciebus. Sed de illis
magis speciebus specialissimisque tractari, quid ait? Quod ea quae sunt genera,
magis species fieri numquam possunt neque magis species aliquando fieri magis
genus. Nam species numquam genus est. Quicquid enim fuerit species, genus non
erit neque quicquid fuerit genus, species erit. Quare constat in his eum
tractatibus de speciebus solis, non etiam de subalternis disserere. Subalternae
enim possunt esse etiam genera. Magis species vero, ut ipse ait, numquam genera
esse possunt. Sed postquam de generum specierumque communitatibus
differentiisque tractatus est habitus, ad genera propriaque transgressus
est. GENERIS ET PROPRII COMMUNE HOC EST, ADHAERERE SPECIEBUS ET
AMPLECTI. Dicit geners et propria in hoc sibi esse consimilia, quod omne
genus a suis speciebus numquam recedit. Eodem modo et propria. Nam si dixeris
'homo', cum ipso homine continuo animal nominasti, quod ipsius hominis, id ost
speciei genus est. At vero etiam si hominem dixeris, eius etiam proprium
continuo cum bomine nominasti; omnis enim homo risihilis est. Ita semper genus
et propria suis speciebus inselta et quodammodo conglutinata
sunt. SIMILITER ET GENUS PRAEDICATUR DE SPECIEBUS ET PROPRIUM DE HIS QUAE
SUI PARTICIPANTIA SUNT. Et aequaliter, inquit, omnes species eidem generi
supponuntur et ad eas genus illud appellatur, sicut propria ad ea praedicantur
quae sui participare possunt. Namque aequaliter genus animal de homine dicitur
et de equo et de bove et de caeteris animantibus, quemadmodum et risibile, id
est proprium, de Hortensio dicitur et Cicerone et de singulis individuis quae
sub eadem specie continentur, ad quam speciem proprium, id est risibile,
poterit praedicari. Adhuc commune est ipsis univoce praedicari. Nam genus
ƿ de suis speciebus, ut dictum est, univoce praedicatur et risibile de ea
specie cuius est proprium, univoce praedicatur; namque et homo est et risibile.
Porro autem si quis dicat hominem esse animal rationale et mortale et dixerit
risibile esse animal rationale et mortale, non errabit. Aequaliter igitur et
genus de speciebus suis et propria de ea specie cuius sunt propria, univoce
praedicantur. Differt autem utrumque, quod genus primum et secundum est
proprium. Genus enim si ab specie primum est, proprium autem uni tantum speciei
adhaeret et eidem aequale est, non est dubium quoniam genus, quod specie maius
est, proprio etiam speciei maius sit. Nam ut sit risibile, animal prius est.
Namque ut aliqua species informetur, propriis et differentiis primo erit genus,
ubi illa conveniant, sicut *equentius inculcatum est. Accedit etiam quod genus
de plurimis speciebus praedicatur. Namque genus, id est animal, de pluribus, at
vero propriums id est risibile, de sola tantum hominis specie praedicatur. Unde
fit ut semper propria de speciebus suis conversim praedicari possint, species
autem de generibus numquam. Neque enim omne quod animal est, homo est neque
omne quod animal est, risibile est. Potest enim esse et equus et hinnibile id ƿ
quod animal nominatur. Porro autem omne quod est homo, id risibile est et omne
quod risibile est, id homo est. Possunt autem propria et species sibi ipsa
converti et conversim ad se invicem praedicari. Praeterea omni speciei quicquid
fuerit proprium, omni et soli est. Namque risibile et omnibus hominibus est et
solius hominis speciei evenit. At vero animal, qmld genus est, etsi uni speciei
inest, non tamen soli. Namque animal omni homini inest, non soli tamen homini,
quia inest etiam pecudi et caeteris animantibus. Oportet autem hic illa propria
intellegere quae magis propria sunt, id est quae integre propria nominantur; quae
sunt huiusmodi, ut et uni speciei et omnibus insint. Differunt ergo in hoc
quoque genera et propria, quod propria et uni speciei et omnibus individuis in
ea specie sunt, genera vero omnibus quidem individuis in ea specie sunt sub
eodem genere, non tamen uni soli speciei, quoniam genus semper de plurimis
praedicatur. Unde fit ut sublata propria non auferant genus, sublatis vero
generibus ipsa quoque propria auferantur. Nam si sustuleris proprium, id est
risibile, remanet hinnibile remanet natabile. Si vero genus snstuleris, simul
quoque species sustulisti si species sustuleris, propria etiam quae sunt
speciebus, simul interibunt. Itaque sublatis generibus propria sustuleris,
sublatis propriis simul genera non auferuntur Peractis igitur generum
propriorumque differentiis ad generum accidentiumque communitates vel
proprietates transitum ƿ fecit et unam eorum praedicat communitatem, quae est
quod de pluribus praedicantur. Namque sicut genus de plurimis speciebus
praedicatur, ita etiam separabile accidens vel inseparabile de plurimis
speciebus appellatur. Dicitur enim et de coruo et de homine Aethiope nigrum et
de equo et de homine moveri, quod illud est inseparabile accidens, illud vero
separabile. Et quoniam longius a se distant, idcirco unam eorum solam communionem
dixit et alias si quae forte essent quaerere supersedit. Differt autem
genus ab accidenti, quod genus ante species est, accidentia vero speciebus
posteriora sunt. Semper genera super species et his praeiacere et esse maiora
superius demonstratum est. Namque prius est animal ab homine, atque ideo
consumptum animal species quoque consumit, consumptae species non interimunt
genera. At vero accidens postea necesse est ut sit, quam sunt ipsae species.
Erit enim prius aliquid cui possit accidere. Omne enim accidens praeter illud
cui accidit, esse non potest. Atque ideo prius erit aliqua res ubi accidat,
quam est ipsum accidens. Necesse est igitur omne accidens post species
inveniatur et magis post individua, quibus principaliter possit accidere. Huc
accedit quod generis participantia aequaliter participant. Sicut omne genus
speciebus suis aequaliter genus est, ut saepius dictum est, ƿ et species omnes
aequaliter suo generi participant. Namque equus et homo aequaliter animalia
sunt neque equus homine plus neque homo equo. At vero accidentia non aequaliter
participant nam cum separabile accidens sit moveri, possunt aliae inter se
species eodem accidenti participantes tardius velociusque moveri. Et de
inseparabili accidenti eodem modo. Est enim ut aliquis nigrioribus oculis sit
et alius quamvis nigris, tamen purpureis. Atque ideo et intentionem et
remissionem recipit accidens. Nam et candidum quod dicitur, et magis et minus
dicitur et alia huiusmodi. Quare distant haec duo, quod genere quae
participant, aequaliter participant, accidenti fortasse non aequaliter. Huc
accedit quod genera non modo ante individua sed ante species sunt, accidentia
vero non modo post species sed etiam post individua sunt; ipsis enim
principaliter necidunt, ut dictum est. Est etiam differeutia quae iam superius
dicta est. Nam genus in eo quod quid sit praedicatur, accidens vero in eo quod
quale sit aut quomodo se habeat. Nam si quid sit Socrates interroges, 'homo'
atque 'animal' respondetur, si vero qualis sit, fortasse 'caluus' aut 'simus',
quae accidentia sunt inseparabilia. Sin vero quomodo se habeat, aut 'iacet'
respondetur aut 'sedet' aut quod aliud faciens contigerit. Ergo quoniam generis
ad speciem et differentiam, ad proprium et accidens divisa substantia est, nunc
vero posteriora persequitur. Sunt autem omnes differentiae viginti. Nam cum
quinque res sint et unaquaeque ipsarum ad alias quattuor quattuor item
differentias habeat, quinquies quaternis viginti differentiae efficiuntur. Nam
si genus differt ab specie, proprio, differentia, accidenti, quattuor
differentiae fiunt. Sin vero species differt a genere, proprio, differentia,
accidenti, item quattuor; quae iunctae cum superioribus octo fiunt. Et si
differentia distat ab specie, proprio, genere. Accidenti, aliae quattuor
supercresculat; quae iunctae cum octo prioribus duodecim faciunt. At vero si
proprium differt a genere, specie, differentia et accidenti, aliis quattuor
differentiis super duodecim positis omnes sedecim differentiae fiunt. Quodsi
accidentis quoque differentias ad quattuor reliqua duxeris, quattuor super
sedecim crescentibus viginti omnes differentiae perficiuntur. Quarum ita
viginti sunt, ut ad sufficientem doctrinae cumulum decem tantum differentiae
numerentur. Nam quod dictum est genus differre a differentia, specie, proprio
et accidenti, quattuor fuere differentiae. Si autem differentiam dicamus
differre <ab> specie, proprio et accidenti, superuacuum ƿ est
differentiae cum genere differentias commemorare, cum iam prius
commemoraverimus, quando generis ad differentiam differentias dicimus. Eisdem
enim, ut opinor, differt differentia a genere quibus differebat genus a
differentia. Itaque relinquenda est haec differentia qua distat differentia a
genere, quoniam iam superius dicta est, cum diceretur quid genus, distaret a
differentia. Remanent igitur tres differentiae, quibus ipsa differentia ab
specie, proprio et accidenti distat. Et cum superioris generis ad alia quattuor
differentiae fuerint. Nunc vero differentiae ad alia tres distantiae videantur,
septem hae distantiae fiunt. At vero species quid a genere distet, iam tunc
dictum est, cum dicebatur quid genus distet ab specie. Quid autem a differentia
discreparet, tunc demonstratum est, cum diceremus in quo differentia ab specie
discerneretur. Remanent igitur duae speciei, id est cum proprio et accidenti
differentiae, quae iunctae cum superioribus septem novem differentias
efficiunt. Restat igitur una proprii et accidentis differentia quae dicatur.
Nam quid a genere distet dictum est, cum quid genus distaret a proprio diceretur,
porro quid ab specie, dudum dicebatur, cum quid species a proprio differret
enumerabatur, porro autem quid a differentia, etiam id dictum est, cum a
proprio differentia separaretur. Sed nunc quemadmodum differentia ab
specie, proprio accidentique discernatur, videamus. Et est communio
differentiae et speciei quod aequaliter species sub se individuis se permittit
et aequaliter individua specie ipsa participant; namque omnes homines
aequaliter homines sunt et hominis participatione aeque participant. Eodem modo
etiam differentia; namque omnes homines aequaliter rationales sunt et
rationabilitate, quae est differentia, omnes qui ratione participant, aeque
participant. Est etiam alia communitas. Quod quemadmodum species numquam
deserit ea quorum species est et quibus superest, sic et differentia numquam ea
deserit quae distare ab aliis facit. Namque Socrates quoniam sub specie hominis
est, numquam ab hominis specie deseritur; semper enim Socrates homo est. At
vero differentia Socratem, quoniam Socrates rationalis est, numquam deserit;
semper enim Socrates rationale animal est. Differunt autem inter se
species et differentia, quod differentia semper in eo quod quale sit
praedicatur -- nam dicitur quale animal sit <Socrates>, ut rationale respondeatur.
Species vero in eo quod quid sit praedicatur; nam dicitur quid sit Socrates, ut
homo respondeatur. Namque hominis qualitas rationale est. Sed non simpliciter.
Illa enim qualitas pro differentia accipitur, quae veniens in ƿ genere speciem
constituit et de qualitate substantiali facta est substantialis et specifica
differentia. Ista igitur talis qualitas differentia nominatur et ea in eo quod
quale sit ad hominem praedicatur. Hoc etiam est in eorum differentiis. Namque
differentia frequenter in pluribus speciebus consideratur. Differentia enim
quadrupes in bovis et in equi et in canis specie est et differentia rationalis
hominis et dei. Species vero numquam aliis nisi solis sub se individuis
praeest. Numquam enim alia res homo est nisi quod est individuum, ut est
Socrates et Plato et Cicero. Unde fit ut sublata differentia species quoque
tollatur. Nam si sustuleris rationale, hominem sustuleris. Si vero sustuleris
speciem, differentia manet. Nam si sustuleris hominem, rationalis dei
differentia remanebit. Est vero etiam haec differentia, quod differentia cum
alia differentia iungi potest, ut aliqua ex his species informetur. Namque
rationalis differentia et mortalis differentia iunctae hominis unius speciem
reddiderunt, iunctae vero species numquam aliquam ex se speciem constituent. Si
enim iungas hominem bovi, nulla ex his species informabitur. Sed fortasse dicat
quis: asini atque equi coniunctione mulus nascitur. Sed non ita est: namque
individui coniunctione natum est aliquid individuum. Si autem sic simpliciter speciem
ipsam asini atque equi coniungas, nulla ex his umquam species constituitur.
Neque enim si se possunt individua commiscere, ideirco etiam species
individuorum in alterutram substantiam transeunt. ƿ Atque ideo constat iunctas
species unam speciem non posse componere, quod differentiae iunctae unius
speciei constitutivae sint. His itaque transactis ad differentiae et proprii
communia veniamus. Differentia et proprium commune habent quod quibus
differentia est et a quibus ipsa differentia participatur, aequaliter
participatur, sicut etiam et quibus proprium est, proprium ipsum participatur.
Nam rationalis differentia quoniam est hominibus et omnes homines rationali
differentia participant, non est dubium quia omnes homines aequaliter sint
rationales atque aequaliter rationabilitate participent. At vero proprium, quod
risibile est, aequaliter omnibus hominibus est; omnes enim homines aequaliter
risibiles sunt. Est etiam haec eorum communitas, quod sicut potestate risibile
dicitur, etiamsi non rideat, ita etiam potestate bipes dicitur, etiamsi quis
uno pede minuatur. Non enim quod est dicitur sed quod esse possit; nam quoniam
ille ridere potest, risibilis nominatur, quod ille duos pedes habere possit,
bipes. Atque ideo numquam ab illis in quibus sederint, proprium differentiaque
discedunt. Semper enim homo risibilis est, etiamsi non rideat, semper bipes,
etiamsi uno pede minuatur. In his enim differentiis et propriis, ut dictum est,
quod potestate esse possit, non quod vere sit consideratur. Differunt
autem inter se, quod differentia de pluribus speciebus praedicatur, proprium
vero de una. Namque differentia quae est mortalis, praedicatur de homine et de
bove et equo et caeteris animantibus et rationale praedicatur et de deo et de
homine, at vero risibile de sola tantum specie hominis praedicatur. Unde evenit
ut omnis differentia, quoniam plurimarum continens est specierum, a suis
speciebus maior sit, atque ideo ipsa de speciebus praedicari potest. Porro
autem de ipsa species praedicari non possunt, neque conversim dini potest. Nam
quoniam homo dicitur rationalis, non contra dicitur 'quod rationale est, id
homo est'; potest enim esse etiam non homo sed deus. At vero proprium, quoniam
aequaliter et ad unam speciem semper aptatur, aequa vice atque appellatione convertitur.
Dicitur enim: quid est homo? risibile; quid est risibile? homo. Quibus
pertractatis ad differentiam et accidens transgressa disputatio
est. Differentia et accidens commune habent de pluribus praedicari. Namque
differentia dicitur et de homine et de deo, quoniam utrique rationales sunt, et
accidens dicitur de homine et de equo, ut homo Aethiops niger et equus niger.
Est etiam ista communio, quod inseparabile accidens, cuicumque speciei fuerit,
inseparabiliter et omnibus inest ut differentia. ƿ Namque inseparabile accidens
quod est nigrum coruo, inseparabiliter accidit coruo et omnibus coruis. Eodem
modo etiam differentia. Nam quoniam accidit homini ut bipes sit, semper et
omnibus hominibus est esse bipedibus. Differunt autem inter se, quod omnis
differentia species continet, non contra ipsa ab speciebus continetur. Nam si
differentia plures sub se species habet, ut dictum est, maior erit sub se
positis speciebus, si maior etit, numquam eam quaelibet species continet; maior
enim a minori numquam continetur. Namque quod est rationale, continet hominem
et deum homo vero rationale non continet. Accidentia vero aliquotiens
continent, aliquotiens continentur. Namque continent; quoniam frequenter unum
accidens duas sub se species habet. Ut nigrum habet Aethiopem, habet et coruum,
continentur vero. Quoniam species una habet duo vel tria vel quamlibet plurima
accidentia. Si quis enim sit glaucus vel crispus vel candidus vel procerus,
haec omnia accidentia ille unus cui accesserunt complectitur et continet. Atque
ideo species illa quae illud individuum continet quod individuum plura in se
accidentia suscepit, accidentis illius complexiva est. DEHINC DIFFERENTIA
NUMQUAM INTENDITUR NEQUE RELAXATUR. Quod dicit hoc est. Rationale in
unaquaque specie neque plus neque minus est. Nullus enim homo alio homine ad
substantiam ƿ plus rationalis est neque minus. At vero accidens et intenditur
et relaxatur. Dicitur enim quicumque procerior, dicitur quicumque velocior,
dicitur quicumque crispior, quae omnia accidentia esse non dubium
est. PRAETEREA IMMIXTAE SEMPER SUNT CONTRARIAE DIFFERENTIAE. Immixtae ait,
id est immixtibiles, quae misceri non possunt. Neque enim rationale cum
irrationali misceri potest neque in una specie convenire. At vero contraria
accidentia manifestum est in una specie posse congruere. Namque nigrum vel
album potest in una non modo specie sed etiam individuo congruere. Potest enim
quicumque homo, cum ipse sit candidus, nigros tamen capillos habere. Ergo
<quoniam> quemadmodum species differat a genere vel differentia dictum
est, cum de generis ad speciem et differentiae ad speciem distantia diceremus.
Nunc dicemus, id quod reliquum est, de speciei propriique communibus. Et est
una eorum communio, quod de se ipsa invicem praedicantur. Nam quoniam aequa
sibi sunt, neque species hominis alii proprio convenit nisi risibili neque
risibile alii convenit speciei nisi horhini, atque ideo dicitur: ƿ quid homo?
quod risibile; quid risibile? quod homo. Commune est etiam illud, quod omne
proprium aequaliter ad sub se posita praedicatur, namque omnes homines
aequaliter risibiles sunt, et species aequaliter ad sub se posita praedicatur,
namque omnes homines individni aequaliter uno nomine homines nuncupantur. Differunt
autem a se, quoniam species potest etiam genus alteri esse, proprium esse non
potest. Sed hic illam speciem intellegamus quae subalterna est, non illam quae
magis species est et genus esse numquam potest. Atque ideo nos illam modo solam
quae subalterna species est intellegamus, quae scilicet poterit esse et genus:
namque mortale cum rationalis generis species sit, hominis genus est, at vero
risibile de nulla umquam specie alia poterit praedicari neque alii esse
proprium, sicut est hominis. Illa enim semper, ut dictum est, propria sunt quae
nulli alii nisi ad unam speciem semper aptantur. DEINDE SPECIES PRAECEDIT
ET SIC PROPRIUM SEQUITUR. Quod dicit tale est. Omnis species ut habeat
proprium, primo eam esse et constare necesse est. Oportet enim prius esse
hominem, ut sit risibilis, non prius esse risibile, ut sit homo. Nam quoniam
proprium dicitur, per se proprium non constat, nisi alicuius speciei sit. Atque
ideo prius esse necesse est illud cuius est proprium, quam sit
proprium. Huc accedit quod species semper in opere intellegitur
cuiuscumque subiecti. Species enim semper in actu est, non solum potestate.
Homo enim re vera et opere et actu homo est, id est numquam poterit esse non
homo. At vero risibile, quod est proprium, potestate tantum dicitur, etiamsi in
actu non sit. Potest enim quilibet ille non ridere, tamen quia ridere potest,
risibile nominatur. Distant igitur in hoc, quod semper species in actu est et
in opere, proprium vero aliquotiens potestate. Deinde quorum definitiones
diversae sunt, necessario etiam ipsa quoque diversa sunt. Omnis definitio
substantiam definit. Ergo si qua eiusdem substantiae fuerint, eadem etiam
definitione monstrantur, si qua eadem definitione fuerint, eadem substantia
praedicantur. At vero si qua definitionibus differant, differunt etiam
substantiis, quae substantiis difforunt, longe a se ipsis alia sunt. Nunc
igitur quoniam definitiones proprii et speciei differunt, species quoque ipsa
et propriurn a se differunt. Est autem speciei definitio sub genere esse et ad
plurima numero differentia in eo quod quid sit praedicari, at vero proprii uni
tantum inesse speciei et sub ipsa de omnibus individuis praedicari. Sed quoniam
et definitiones differunt, ipsa quoque species a proprio distabit. Post
haec ad communitates speciei et accidentis disputationem transtulit et dicit
eorum raras esse alias communitates ƿ nisi has solas, quod de pluribus
praedicantur. longe enim a se distare videntur in substantia sui et in
potestate patiendi atque faciendi id quod alicui accidit et id cui accidit.
Namque illud cui accidit, quasi quoddam accidentis est fundamentum, illud vero
quod accidit, praeter id cui accidit, esse in sui substatltiÇ non
potest. Propria vero singulorum sunt haec, quod species in eo quod quid
sit praedicatur, accidens vero in eo quod quale sit et quodammodo se habens.
Nam si quis dicat: quid Socrates est? homo dicitur; si quis dicat, qualis sit,
caluus vel simus appellatur, si quis vero, quomodo se habens sedens aut iacens
appellabitur. Item quod unaquaeque substantia unam speciem habet. Namque
hominis substantia unam solam hominis speciem habet, substantia vero equi unam
solius equi speciem habet. At vero una substantia plura frequenter accidentia
continebit. Nam et in eodem equo quaedam pars frequenter nigra, quaedam alba et
est in eo proceritas, est altitudo, est aquilum caput et alia huiusmodi. Habet
etiam non solum inseparabile accidens eadem substantia sed etiam separabile.
Nam fortasse quidam velos est et idem etiam corpore validus eat, idem etiam
sagittator et caetera. Huc accedit quod species praenoscuntur, ƿ id est
praeintelleguntur, hoc est ante esse cognoscuntur quam accidentia. Et prius
erit aliqua res ubi accidat, quam illa quae accidat. Et quoniam species est
subiectum accidentis ubi accidens accidat, ideoque ante species intellegitur
esse quam accidens. Accidentia vero postnativa sunt, id est a foris venientia
et estranea a qualibet illa substantia, etiamsi inseparabilia sunt. Haec quoque
est eorum separatio, quod semper omnia quae participant specie, aequaliter
participant; aequaliter enim et Socrates et Cicero et Plato homines sunt. At
vero illa quae participant accidenti, etiamsi inseparabile accidens sit, tamen
non aequaliter participant. Namque quamvis inseparabile sit accidens
Aethiopibus nigros esse, tamen est aliquis inter ipsos nigrior nec omnes illa
nigredine aequaliter participant. Relinquitur igitur de communibus proprii
accidentisque tractare; nam proprium quid distaret vel ab specie vel a genere
vel a differentia, superius demonstratum est. Proprium autem et
inseparabile accidens commune habent, quod sine his numquam consistunt ea quae
ƿ eorum participant et in quibus ipsa considerantur. Nam neque homo amittit
risibile esse nec Aethiops aut coruus nigrum. Atque ideo sine his ipsis, id est
propriis et accidentibus, quae eorum participant, constare non possunt, ne
forte contra superiorem definitionem accidentis venire videatur ista communio
-- est enim ita definitum: accidens est quod infertur et aufertur sine eius in
quo est interitu -- quod nunc dici videtur sine his constare non posse, cum superius
sine eorum interitu posse dicerentur auferri. Sed hoc modo dicitur, non quod,
si auferatur hoc accidens inseparabile, intereat illud cui accidit sed quoniam
separari non potest, idcirco sine hoc constare non possit. Est etiam in
separabilis accidentis et proprii alia communio, quod sicut et omni et semper
inest proprium cui inest, id est homini -- semper enim et omnis homo risibile
est -- sic etiam quodlibet accidens inseparabile et semper et omni est accidens
inseparabile; namque et omnis coruus et semper niger est. Sola autem
separabilibus accidentibus illa communio est, quod quemadmodum de multis
individuis proprium praedicatur, ita etiam accidens de multis individuis potest
praedicari. Plures etiam currunt, plures ambulant, quae scilicet accidentia separabilia
sunt, quemadmodum plures possunt esse risibiles. Differunt autem ista,
quod proprium semper uni speciei inest, accidens vero et pluribus. Namque
accidens ƿ pluribus speciebus et animatis et inanimatis evenit, ut est hebeno
nigrum, coruo nigrum, homini Aethiopi nigrum, risibile vero nulli nisi soli
homini. Atque ideo conversim proprium praedicatur, quia unius speciei continens
est et illi speciei soli aequalis est, at vero accidens conversim praedicari
non potest, quia plures sub se species habet. Non enim potes dicere id esse
nigrum quod hebenum, cum dicas hoc esse hebenum quod nigrum; potest enim esse
nigrum et non esse hebenum. Deinde omne proprium aequaliter se his rebus quae
sub se fuelint dat et ab his aequaliter participatur -- Socrates enim et Cicero
et Vergilius aequaliter et risibili participant et aequaliter risibiles sunt --
at vero accidens non semper aequaliter; potest enim quicumque esse procerior et
alius esse velocior, quod scilicet illud separabile est accidens, illud
inseparabile. Et fortasse aliae eorum quaedam proprietates vel communiones
esse videantur sed nunc quantum introductioni sat est, ista
sufficiant. Sed iam tibi, mi Fabi, omnia quaecumque ad Introductionem
Porphyrii pertinent, plenius uberiusque tractata sunt. Post vero si quid umquam
mei egueris, studiis praesertim tuis, quae nulla umquam honestate caruerunt,
libens animo hortatorque ad easdem cupiditates parebo. Hic Fabius: Tu, inquit,
paterno haec mihi animo polliceris, verum ego numquam deficiam ab his studiis,
te praesertim docente, ƿ a quo totam fortasse logicae Aristotelis, si vita
suppetet, capiam disciplinam. Et ego: Faciam, inquam, libentissime. Sed quoniam
iam matutinus, ut ait Petronius, sol tectis arrisit, surgamus, et si quid illud
est, diligentiore postea consideratione tractabitur. Secundus hic
arreptae expositionis labor nostrae seriem translationis expediet, in qua
quidem vereor ne subierim fidi interpretis culpam, cum verbum verbo espressum
comparatumque reddiderim. Cuius incepti ratio est quod in his scriptis in
quibus rerum cognitio quaeritur, non luculentae orationis lepos sed incorrupta
veritas exprimenda est. Quocirca multum profecisse videor, si philosophiae
libris Latina oratione compositis per integerrimae translationis sinceritatem
nihil in Graecorum litteris amplius desideretur. Et quoniam humanis animis
excellentissimum bonum philosophiae comparatum est ƿ ut via et filo quodam
procedat oratio, ex animae ipsius efficientiis ordiendum est. Triplex omnino
animae vis in vegetandis corporibus deprehenditur. Quarum una quidem vitam
corpori subministrat ut nascendo crescat alendoque subsistat; alia vero
sentiendi iudicium praebet; tertia vi mentis et ratione subnixa est. Quarum
quidem primae id officium est ut creandis nutriendis alendisque corporibus praesto
sit, nullum vero rationis praestet sensusue iudicium. Haec autem est herbarum
atque arborum et quicquid terrae radicitus affixum tenetur. Secunda vero
composita atque coniuncta est ac primam sibi sumens et in partem constituens
varium de rebus capere potest ac multiforme iudicium. Omne enim animal quod
sensu viget, idem et nascitur et nutritur et alitur. Sensus vero diversi sunt
et usque ad quinarium numerum crescunt. Itaque quicquid tantum alitur non etiam
sentit, quicquid vero sentire potest ei prima quoque animae vis, nascendi
scilicet atque nutriendi, probatur esse subiecta. Quibus vero sensus adest non
tantum eas rerum capiunt formas quibus sensibili corpore feriuntur praesente,
sed abscedente quoque sensu sensibilibusque se positis cognitarum sensu
formarum imagines tenent memoriamque conficiunt, et prout quodque animal valet
longius breviusque custodit. Sed eas imaginationes confusas atque inevidentes
sumunt ut nihil ex earum coniunctione ac compositione ƿ efficere possint. Atque
idcirco meminisse quidem possunt nec aeque omnia, admissa vero oblivione
memoriam recolligere ac reuocare non possunt. Futuri vero his nulla cognitio
est. Sed vis animae tertia, quae secum priores alendi ac sentiendi trahit
hisque velut famulis atque oboedientibus utitur, eadem tota in ratione
constituta est eaque vel in rerum praesentium firmissima conceptione vel in
absentium intellegentia vel in ignotarum inquisitione versatur. Haec tantum
humano generi praesto est, quae non solum sensus imaginationesque perfectas et
non inconditas capit sed etiam pleno actu intellegentiae quod imaginatio
suggessit, explicat atque confirmat. Itaque, ut dictum est, huic divinae
naturae non ea tantum cognitione sufficiunt quae subiecta sensibus
comprehendit, verum etiam et insensibilibus imaginatione concepta et absentibus
rebus nomina indere potest, et quod intellegentiae ratione comprehendit
vocabulorum quoque positionibus aperit. Illud quoque ei naturae proprium est,
ut per ea quae sibi nota sunt ignota uestiget et non solum unumquodque an sit
sed quid sit etiam et quale sit necnon cur sit, optet agnoscere. Quam triplicis
animae vim sola, ut dictum est, hominum natura sortita est. Cuius animae vis
intellegentiae motibus non caret, quia in his quattuor propriae vim rationis
exercet. Aut enim aliquid an sit inquirit aut si esse constiterit, quid sit
addubitat. Quodsi etiam utriusque scientiam ratione possidet, quale sit ƿ
unumquodque uestigat atque in eo caetera accidentium momenta perquirit, quibus
cognitis cur ita sit quaeritur et ratione nihilominus uestigatur. Cum igitur
hic actus sit humani animi ut semper aut in <rerum> praesentium
comprehensione aut in absentium intellegentia aut in ignotarum inquisitione
atque inventione versetur, duo sunt in quibus omnem operam vis animae
ratiocinantis impendit, unum quidem ut rerum naturas certa inquisitionis
ratione cognoscat, alterum vero ut ad scientiam prius veniat quod post gravitas
moralis exerceat. Quibus inquirendis permulta esse necesse est quae uestigantem
animum a recti itinere non minimum progressione deducant, ut in multis evenit
Epicuro qui atomis mundum consistere putat et honestum voluptate metitur. Hoc
autem idcirco huic atque aliis accidisse manifestum est quoniam per imperitiam
disputandi quicquid ratiocinatione comprehenderant, hoc in res quoque ipsas
evenire arbitrabantur. Hic vero magnus est error; neque enim sese ut in numeris
ita etiam in ratiocinationibus habet. In numeris enim quicquid in digitis recte
computantis euenerit, id sine dubio in res quoque ipsas necesse est evenire, ut
si ex calculo centum esse contigerit, centum quoque res illi numero subiectas
esse necesse est. Hoc vero non aeque in disputatione servatur: neque enim
quicquid sermonum decursus invenerit, ƿ id natura quoque fixum tenetur. Quare
necesse erat eos falli qui abiecta scientia disputandi de rerum natura
perquirerent. Nisi enim prius ad scientiam venerit quae ratiocinatio veram
teneat disputandi semitam quae veri similem, et agnoverit[1] quae fida quae
possit esse suspecta, rerum incorrupta veritas ex ratiocinatione non potest
inveniri. Cum igitur ueteres saepe multis lapsi erroribus falsa quaedam et
sibimet contraria in disputatione colligerent -- atque id fieri impossibile
videretur ut de eadem re contraria conclusione facta utraque essent vera quae
sibi dissentiens ratiocinatio conclusisset, cuique ratiocinationi credi
oporteret esset ambiguum -- visum est prius disputationis ipsius veram atque
integram considerare naturam, qua cognita tum illud quoque quod per
disputationem inveniretur, an vere comprehensum esset, posset intellegi. Hinc
igitur profecta est logicae peritia disciplinae, quae disputandi modos atque
ipsas ratiocinationes internoscendi ias parat, ut quae ratiocinatio nunc quidem
falsa nunc autem vera sit, quae vero semper falsa quae numquam falsa, possit
agnosci. Huius autem vis duplex esse perpenditur, una quidem in inveniendo,
altera in iudicando. Quod Marcus etiam Tullius in eo libro cui Topica titulus
est, evidenter espressit dicens Cum omnis ratio diligens disserendi duas habeat
partes, unam inveniendi alteram iudicandi, utriusque princeps, ut mihi quidem
videtur, Aristoteles fuit. Stoici ƿ autem in altera elaboraverunt; iudicandi
enim vias diligenter persecuti sunt ea scientia quam *dialektiken* appellant,
inveniendi artem, quae *topike*; dicitur quae et ad usum potior erat et ordine
naturae certe prior, totam reliquerunt. Nos autem, quoniam in utraque summa
utilitas est et utramque, si erit otium, persequi cogitamus, ab ea quae prima
est ordiemur. Cum igitur tantus huius considerationis fructus sit danda est
huic tam sollertissimae disciplinae tota mentis intentio, ut primis firmati in
disputandi veritate uestigiis facile ad rerum ipsarum certam comprehensionem
venire possimus. Et quoniam qui sit ortus logicae disciplinae praediximus,
reliquum videtur adiungere: an omnino pars quaedam sit philosophiae an (ut
quibusdam placet) supellex atque instrumentum per quod philosophia cognitionem
rerum naturamque deprehendat. Cuius quidem rei has e contrario video esse
sententias. Hi enim qui partem philosophiae putant logicam considerationem his
fere argumentis utuntur. Dicentes philosophiam indubitanter habere partes
speculativam atque activam, de hac tertia rationali quaeritur an sit in parte
ponenda. Sed eam quoque partem esse philosophiae non potest dubitari. Nam sicut
de naturalibus caeterisque sub speculativa positis solius philosophiae
uestigatio est itemque de moralibus ac ƿ reliquis quae sub activam partem
cadunt sola philosophia perpendit, ita quoque de hac parte tractatus, id est de
his quae logicae subiecta sunt, sola philosophia iudicat. Quodsi speculativa
atque activa idcirco philosophiae partes sunt quia de his philosophia sola
pertractat, propter eandem causam erit logica philosophiae pars, quoniam
philosophiae soli haec disputandi materia subiecta est. Iam vero inquiunt:
cum in his tribus philosophia versetur cumque activam et speculativam
considerationem subiecta discernant, quod illa de rerum naturis, haec de
moribus quaerit, non dubium est quin logica disciplina a naturali atque morali
suae materiae proprietate disiuncta sit. Est enim logicae tractatus de
propositionibus atque syllogismis et caeteris huiusmodi, quod neque ea quae non
de oratione sed de rebus speculatur neque activa pars quae de moribus inuigilat
aeque praestare potest. Quodsi in his tribus (id est speculativa, activa, atque
rationali) philosophia consistit quae proprio triplicique a se fino disiuncta
sunt, cum speculativa et activa philosophia partes esse dicuntur, non dubium
est quin rationalis quoque philosophia pars esse conuincatur. Qui vero non
partem sed philosophiae instrumentum putant haec fere afferunt argumenta. Non
esse inquiunt similem logicae finem speculativae atque activae partis extremo.
Utraque enim illarum ad suum proprium terminum spectat ut speculativa ƿ quidem
rerum cognitionem, activa vero mores atque instituta perficiat; neque altera
refertur ad alteram. Logicae vero finis esse non potest absolutus sed
quodammodo cum reliquis duabus partibus colligatus atque constrictus est. Quid
enim est in logica disciplina quod suo merito debeat optari nisi quod propter
investigationem rerum huius effectio artis inventa est? Scire enim quemadmodum
argumentatio concludatur vel quae vera sit quae veri similis, ad hoc scilicet
tendit, ut vel ad rerum cognitionem referatur haec scientia rationum vel ad
invenienda ea quae in exercitium moralitatis adducta beatitudinem pariunt.
Atque ideo quoniam speculativae atque activae suus certusque finis est, logicae
autem ad duas reliquas partes refertur extremum, manifestum est non eam esse
philosophiae partem sed potius instrumentum. Sunt vero plura quae ex alterutra
parte dicantur quorum nos ea quae dicta sunt strictim notasse sufficiat. Hanc
litem vero tali ratione discernimus. Nihil quippe dicimus impedire ut eadem
logica partis vice simul instrumentique fungatur officio. Quoniam enim ipsa
suum retinet finem isque finis a sola philosophia consideratur, pars philosophiae
esse ponenda est. Quoniam vero finis ille logicae quem sola speculatur
philosophia ad alias eius partes suam operam pollicetur, instrumentum esse
philosophiae non negamus. Est autem finis logicae inventio iudiciumque
rationum. Quod scilicet non esse mirum videbitur quod eadem pars, eadem quoddam
ponitur instrumentum, si ad partes corporis animum reducamus quibus et fit
aliquid ut his quasi quibusdam instrumentis utamur, et in toto tamen corpore
partium obtinent locum. Manus enim ad tractandum, oculi ad videndum,
caeteraeque corporis partes proprium quoddam videntur habere officium. Quod
tamen si ad totius utilitatem corporis referatur, instrumenta quaedam corporis
esse deprehenduntur quae etiam partes esse nullus abnuerit. Ita quoque logica
disciplina pars quidem philosophiae est, quoniam eius philosophia sola magistra
est, supellex vero quod per eam inquisita philosophiae veritas uestigatur. Sed
quoniam, quantum mihi quoque brevitas succincta largita est, ortum logicae et
quid ipsa logica esset explicui, nunc de eo nobis libro pauca dicenda sunt quem
in praesens sumpsimus exponendum. Titulo enim proponit Porphyrius
introductionem se in Aristotelis Praedicamenta conscribere. Quid vero valeat
haec introductio vel ad quid lectoris animum praeparet breviter explicabo. Aristoteles
enim librum qui De decem praedicamentis inscribitur hac intentione composuit ut
infinitas rerum diversitates quae sub scientiam cadere non possent paucitate
generum comprehenderet, atque ita quod per incomprehensibilem multitudinem sub
disciplinam venire non poterat per generum, ut dictum est, paucitatem animo fieret
scientiaeque subiectum. Decem igitur genera rerum esse omnium consideravit --
id est unam substantiam et accidentia novem (quae sunt qualitas, quantitas,
relatio, ubi, quando, facere et pati, situs, habere) -- quae quoniam genera
essent suprema et quibus nullum aliud superponi genus posset, omnem necesse est
multitudinem rerum horum decem generum species inveniri. Quae quidem genera a
se omnibus differentiis distributa sunt nec quicquam videntur habere commune
nisi tantum nomen, quoniam omnia esse praedicantur. Quippe substantia est,
qualitas est, quantitas est, et de aliis omnibus 'est' verbum communiter
praedicatur sed non est eorum communis una substantia vel natura sed tantum
nomen. Itaque decem genera ab Aristotele reperta omnibus a se differentiis
distributa sunt. Sed quae aliquibus differentiis disiunguntur necesse est ut
habeant proprium quiddam quod ea in singularem solitariamque vindicet formam.
Non est autem idem proprium quod accidens: accidentia enim et venire et abesse
possunt, propria ita sunt insita ut absque his quorum sunt propria esse non
possint. Quae cum ita sint cumque Aristoteles decem rerum genera repperisset
quae vel intellegendo mens caperet vel loquendo disputator efferret (quicquid
enim intellectu capimus id ad alterum sermone uulgamus), evenit ut ad horum
decem praedicamentorum intellegentiam quinque harum rerum tractatus incurreret,
scilicet generis, speciei, differentiae, proprii, accidentis. Generis quidem
quoniam oportet ante praediscere quid sit genus ut decem illa quae Aristoteles
caeteris anteposuit rebus genera esse possimus agnoscere. Speciei vero cognitio
plurimum valet ut quae cuiusque generis sit species possit agnosci. Si enim
quid sit species intellegimus, nihil impediti errore turbamur. Fieri enim
potest ut per speciei inscientiam saepe quantitatis species in relatione
ponamus et cuiuslibet primi generis species alteri cuilibet ƿ generi subdamus
atque ita fiat permixta rerum atque indiscreta confusio; quod ne accidat quae
sit natura speciei ante noscendum est. Nec vero in hoc tantum prodest speciei
cognoscenda natura ne priorum generum species invicem permutemus, verum etiam
ut in eodem quolibet genere proximas species generi noverimus eligere, ut ne
substantiae mox animal dicamus esse speciem potius quam corpus aut corporis
hominem potius quam animatum corpus. At vero differentiarum scientia in his
maximum retinet locum. Qui enim omnino qualitatem a substantia vel caetera a se
genera distare cognoscimus nisi eorum differentias viderimus? Quomodo autem
discernere eorum differentias possumus si quid ipsa sit differentia nesciamus?
Nec hunc solum nobis inscientia differentiae offundit errorem, verum etiam
specierum quoque tollit omne iudicium. Nam omnes species differentiae
informant; ignorata differentia species quoque necesse est ignorari. Quomodo
vero fieri potest ut quamlibet differentiam possimus agnoscere si omnino quae
sit nominis huius significatio nesciamus? Iam vero proprii tantus usus est ut
Aristoteles quoque singulorum praedicamentorum propria perquisiverit. Quae
propria esse quis deprehenderit antequam quid omnino sit proprium discat? Nec
in his tantum propriis haec cognitio valet quae singulis nominibus efferuntur,
ut hominis risibile, verum etiam in his quae in locum definitionis adhibentur.
Omnia enim propria rem subiectam quodam termino descriptionis includunt, quod
suo quoque loco ƿ oportunius commemorabo. Accidentis quoque cognitio quantum
afferat quis dubitare queat, cum videat inter decem praedicamenta novem
accidentis naturas? Quae quomodo accidentia esse putabimus si omnino quid sit
accidens ignoremus, cum praesertim nec differentiarum nec proprii scientia nota
sit nisi accidentis naturam firmissima consideratione teneamus? Fieri enim
potest ut differentiae loco vel proprii per inscientiam accidens apponatur.
Quod esse vitiosissimum etiam definitiones probant, quae cum ipsae ex
differentiis constent et fiant uniuscuiusque definitiones propriae, accidens
tamen non videntur admittere. Cum igitur Aristoteles rerum genera collegisset
quae nimirum diversas sub se species continerent, quae species numquam diversae
forent nisi differentiis segregarentur, cumque omnia in substantiam atque
accidens, accidens vero in alia novem praedicamenta solvisset, cumque aliquorum
praedicamentorum fere sit propria persecutus -- de his ipsis quidem
praedicamentis docuit. Quid vero esset genus, quid species, quid differentia,
quid illud accidens de quo nunc dicendum est, vel quid proprium, velut nota
praeteriit. Ne igitur ad Praedicamenta Aristotelis venientes quid significaret
unumquodque eorum quae superius dicta sunt ignorarent, hunc librum Porphyrius
de earum quinque rerum cognitione perscripsit, quo perspecto et considerato
quid unumquodque eorum quae supra praeposuit designaret, facilior intellectus
ea quae ab Aristotele proponerentur addisceret. Haec quidem intentio est huius
libri, quem Porphyrius ad introductionem Praedicamentorum se conscripsisse
ipsa, ut ƿ dictum est, tituli inscriptione signavit. Sed licet ad hoc unum
huius libri referatur intentio, non tamen simplex eius utilitas est verum
multiplex et in maxima quaeque diffusa est. Quam idem Porphyrius in principio huius
libri commemorat dicens: CUM SIT NECESSARIUM, CHRYSAORI, ET AD EAM QUAE EST
APUD ARISTOTELEM PRAEDICAMENTORUM DOCTRINAM, NOSSE QUID GENUS SIT ET QUID
DIFFERENTIA QUIDQUE SPECIES ET QUID PROPRIUM ET QUID ACCIDENS, ET AD
DEFINITIONUM ASSIGNATIONEM ET OMNINO AD EA QUAE IN DIVISIONE VEL DEMONSTRATIONE
SUNT UTILIA, HAC ISTARUM RERUM SPECULATIONE COMPENDIOSAM TIBI TRADITIONEM
FACIENS TEMPTABO BREVITER VELUT INTRODUCTIONIS MODO EA QUAE AB ANTIQUIS DICTA
SUNT AGGREDI; ALTIORIBUS QUIDEM QUAESTIONIBUS ABSTINENS, SIMPLICIORES VERO
MEDIOCRITER CONIECTANS. Utilitas huius libri quadrifariam spargitur. Namque ad
illud etiam ad quod eius dirigitur intentio, magno legentibus usui ƿ est et ad
caetera: quae cum extra intentionem sint, non tamen minor ex his legentibus
utilitas comparatur. Est enim per hoc opusculum et praedicamentorum facilis
cognitio et definitionum integra assignatio et divisionum recta perspectio et
demonstrationum veracissima conclusio. Quae res quanto difficiles atque arduae
sunt tanto perspicaciorem studiosioremque animum lectoris expectant. Dicendum
vero est quod in omnibus libris evenit. Nam primum si quae sit intentio
cognoscatur, quanta quoque utilitas inde provenire possit expenditur; et licet
extra multa, ut fit, huiusmodi librum sequantur, tamen illam proxime utilitatem
videtur habere ad quod eius refertur intentio ipso libro quem sumpsimus
exponente. Cum eius intentio sit ad Praedicamenta intellectum facilem
comparandi, non dubium quin haec eius principalis probetur utilitas, licet non
minores sint comites definitio, divisio, ac demonstratio, quorum nobis quaedam
hic principia suggeruntur. Sensus vero totus huiusmodi est Cum sit, inquit,
utilis generis, speciei, differentiae, proprii accidentisque cognitio ad
Praedicamenta Aristotelis eiusque doctrinam, ad definitionum etiam
assignationem, ad divisionem et demonstrationem, quae sit harum rerum utilis
uberrimaque cognitio, compendiosam, inquit, traditionem ƿ faciens ea quae ab
antiquis large ac diffuse dicta sunt, temptabo breviter aperire. Neque enim
esset compendiosa nisi totum opus brevitate constringeret. Et quoniam
introductionem scribebat: Altiores, inquit, quaestiones sponte refugiam,
simpliciores vero mediocriter coniectabo -- id est simpliciorum quaestionum
obscuritates habita in eis quadam coniecturae ratiocinatione tractabo. Tota
quidem sententia huiusce prooemii talis est quae et utilitate uberrima et
facilitate incipientis animo blandiatur; sed dicendum videtur quidnam celet
amplius altitudo sermonum. NECESSARIUM in Latino sermone, sicut in Graeco
*anagkoion*, plura significat. Diversa enim significatione Marcus Tullius dicit
necessarium suum esse aliquem atque nos cum nobis necessarium esse dicimus ad
forum descendere, qua in voce quaedam utilitas significatur. Alia quoque
significatio est qua dicimus solem necessarium esse moveri, id est necesse
esse. Et illa quidem prima significatio praetermittenda est, omnino enim ab eo
necessario quod hic Porphyrius ponit aliena est. Hae vero duae huiusmodi sunt
ut inter se certare videantur quae huius loci obtineat significationem in quo
dicit Porphyrius: CUM SIT NECESSARIUM, CHRYSAORI; namque, ut dictum est,
necessarium ƿ et utilitatem significat et necessitatem. Videntur autem huic
loco utraque congruere. Nam et summe utile est ad ea quae superius dicta sunt
de genere et specie et caeteris disputare, et summa est necessitas quia nisi
sint haec ante praecognita illa ad quae ista praeparantur non possunt cognosci.
Nam neque praeter generis vel speciei cognitionem praedicamenta discuntur, nec
definitio genus relinquit et differentiam, et in caeteris quam sit utilis iste
tractatus, cum de divisione et demonstratione disputabitur, apparebit. Sed
quamquam necesse sit haec quinque de quibus hic disputandum est, prius ad
cognitionem venire quam ea quibus illa praeparantur, non tamen ea
significatione hic a Porphyrio positum est qua necessitatem significari vellet
ac non potius utilitatem. Ipsa enim oratio contextusque sermonum id clarissima
intellegentiae ratione significat. Neque enim quisquam ita utitur ratione ut
aliquam necessitatem referri dicat ad aliud. Necessitas enim per se est,
utilitas vero semper ad id quod utile est refertur, ut hic quoque. Ait enim:
CUM SIT NECESSARIUM, CHRYSAORI, ET AD EAM QUAE EST APUD ARISTOTELEM
PRAEDICAMENTORUM DOCTRINAM. Si igitur hoc necessarium 'utile' intellegamus et
id nomine ipso vertamus dicentes: Cum sit utile, Chrysaori, et ad eam quae est
apud Aristotelem praedicamentorum ƿ doctrinam, nosse quid genus sit... etc. recte
se habebit ordo sermonum; sin vero id ad 'necesse' permPombaur atque dicamus: Cum
sit necesse, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum
doctrinam, nosse quid genus sit... etc. rectae intellegentiae sermonum ordo non
convenit. Quocirca hic diutius immorandum non est. Quamquam enim sit summa
necessitas his ignoratis non posse ad ea ad quae hic tractatus intenditur
perveniri, non tamen de necessitate hic dictum est NECESSARIUM sed potius de
utilitate. Nunc vero, licet idem superius dictum sit, tamen breviter quid ad
praedicamenta generis, speciei, differentiae, proprii atque accidentis prosit
agnitio, disputemus. Aristoteles enim in praedicamentis decem genera constituit
rerum quae de cunctis aliis praedicarentur, ut quicquid ad significationem
venire posset, id si integram significationem teneret, cuilibet eorum
subiceretur generi de quibus Aristoteles tractat in eo libro qui De decem
praedicamentis inscribitur. Hoc ipsum vero referri ad aliquid velut ad genus
tale est, quale si quis speciem supponat generi. Hoc vero neque praeter
cognitionem speciei ullo modo fieri potest. Nec vero ipsae species quid sint
vel cuius magis sint possunt perspici nisi earum differentiae cognoscantur. Sed
differentiarum natura incognita, quae uniuscuiusque ƿ speciei sint differentiae
modis omnibus ignorabitur. Quare sciendum est quoniam si de generibus
Aristoteles tractat in Praedicamentis, et generum natura cognoscenda est, cuius
cognitionem speciei quoque comitatur agnitio. Sed hoc cognito quid sit
differentia non potest ignorari, quamquam in eodem libro plura sint ad quae
nisi maximam peritiam et generis et speciei et differentiae lector attulerit,
nullus omnino intellectus patebit ut cum ipse Aristoteles dicit: Diversorum
generum et non subalternatim positorum diversae secundum species et
differentiae sunt quod his ignoratis intellegi impossibile est. Sed idem
Aristoteles proprium uniuscuiusque praedicamenti diligentissima inquisitione
uestigat, ut cum substantiae proprium post multa dicit esse quod idem numero
contrariorum susceptibile sit, vel rursus quantitatis, quod in ea sola aequale
atque inaequale dicatur, qualitatis etiam, quod per eam simile et dissimile
aliud alii esse proponimus, et in caeteris eodem modo, ut quae sit proprietas
contrarii, quae secundum relationem oppositionis, quae privationis et habitus,
quae affirmationis et ƿ negationis. In quibus ita tractat tamquam iam peritis
scientibusque quae sit proprietatis natura; quam si quis ignorat, frustra ea
quae de his dispusantur aggreditur. Iam vero illud manifestum est quod accidens
maximum praedicamentorum obtineat locum, quod proprio nomine novem
praedicamenta circumdat. Et ad praedicamenta quidem quanta sit huius libri utilitas
ex his manifestum est. Quod vero ait ET AD DEFINITIONUM ASSIGNATIONEM facile
cognosci potest si prius substantiae rationum divisio fiat. Substantiae ratio
alia quidem in descriptione ponitur, alia vero in definitione. Sed ea quae in
descriptione est, proprietatem quandam colligit eius rei cuius substantiae
rationem prodit -- ac non modo proprietate id quod monstrat informat, verum
etiam ipsa fit proprium, quod in definitionem quoque venire necesse est; si
quis enim quantitatis rationem reddere velit, dicat licebit: Quantitas est
secundum quam aequale atque inaequale dicitur. Sicut igitur proprietatem quidem
quantitatis in ratione posuit quantitatis et ipsa tota ratio ipsius quantitatis
propria est, ita descriptio et proprietatem colligit et propria fit ipsa
descriptio. Definitio vero ipsa quidem propria non colligit sed ipsa quoque fit
propria. Definitio namque substantiam monstrat, genus differentiis iungit et ea
quae per se sunt communia atque multorum in unum redigens uni speciei quam
definit reddit aequalia. Ita igitur ad descriptionem utilis est proprii
cognitio, quoniam sola proprietas in descriptione colligitur et ipsa fit
propria sicut definitio quoque, ad definitionem vero genus (quod primum ƿ
ponitur), et species (ad quam genus illud aptatur), et differentiae (quibus
iunctis cum genere species definitur). Sed si cui haec pressiora quam
expositionis modus postulat videbuntur, eum hoc scire convenit, nos, ut in
prima editione dictum est, hanc expositionem nostro reservasse iudicio ut ad
intellegentiam simplicem huius libri editio prima sufficiat, ad interiorem vero
speculationem confirmatis paene iam scientia nec in singulis vocabulis rerum
haerentibus haec postelior colloquatur. Ad divisionem vero faciendam tam hic
liber est utilis ut praeter earum scientiam rerum de quibus in hac libri serie
disputatur, casu fiat potius quam ratione partitio. Hoc autem manifestum erit
si divisionem ipsam dividamus, id est si nomen ipsum divisionis in ea quae
significat partiamur. Est namque divisio generis in species, ut cum dicimus:
Coloris aliud est album, aliud nigrum, aliud vero medium. Rursus divisio est
quotiens vox plura significans aperitur et quam multa sint quae ab ea
significantur ostenditur, ut si quis dicat: Nomen canis plura significat, et
hunc latrabilem quadrupedemque et caeleste sidus et marinam bestiam quae omnia
a se definitione disiuncta sunt. Dividi autem dicitur et quotiens totum in
partes proprias separatur, ut cum dicimus: Domus aliud sunt fundamenta, aliud
parietes, aliud tectum. Et haec quidem triplex divisio secundum se partitio
nuncupatur. Est autem ƿ alia quae secundum accidens dicitur. Ea quoque fit
tripliciter aut cum accidens in subiecta dividimus, ut cum dico: Bonorum alia
sunt in animo, alia in corpore vel rursus cum subiectum in accidentia, ut
Corporum alia sunt alba, alia nigra, alia medii coloris rursus cum accidens in
accidentia separamus, ut cum dicimus: Liquentium alia sunt alba, alia nigra,
alia medii coloris et rursus: Alborum alia sunt dura, alia liquentia quaedam
mollia. Cum igitur ita omnis sit divisio aut secundum se aut per accidens,
utraque vero partitio tripliciter fiat cumque in superiore secundum se triplici
partitione sit una divisionis forma genus in species separare, id neque praeter
generum scientiam fieri ullo modo potest neque vero praeter differentiarum,
quas necesse est in specierum divisione sumi manifestum est igitur, quanta
utilitas huius libri ad hanc divisionem sit quae primo aditu genus ac species
et differentias tractat. Secunda vero ea divisio quae est secundum se in vocis
significantias, nec haec quidem ab huius libri utilitate discreta est. Uno enim
modo cognosci poterit utrum vox cuius divisionem facere quaerimus, aequivoca
esse videatur an genus si ea quae significat definiantur. Et si ea quae sub
communi nomine sunt definitione clauduntur, species esse necesse est, et illud
commune eorum genus. Quodsi illa quae proposita ƿ vox designat non possunt una
definitione concludi, nemo dubitat quin illa vox sit aequivoca neque ita sit
communis his de quibus praedicatur ut genus, quandoquidem ea quae sub se posita
significat, secundum commune nomen non possunt una definitione comprehendi. Si
igitur ex definitione manifestum fit quid genus sit, quid vero nomen
aequivocum, definitio vero per genera differentiasque discurrit, quisquamne
dubitare potest aeque in hac divisionis forma plurimum huius libri auctoritatem
valere? Illa vero secundum se divisio quae est totius in partes, quemadmodum
discernitur ac non potius generis in species divisio esse putabitur, nisi sint
genus et species et differentiae earumque vis ante disciplinae ratione
tractata? Cur enim non quisquam dicat domus species potius esse quam partes
fundamenta, parietes, et tectum? Sed cum occurrit generis nomen in unaquaque
specie totum posse congruere, totius vero in unaquaque parte sua nomen
convenlre non posse, manifestum fit aliam divisionem esse generis in species,
aliam totius in partes. Convenire autem nomen generis singulis speciebus ostenditur
per id, quod et homo et equus singuli animalia nuncupantur. Neque tectum vero
neque parietes aut fundamenta singillatim domus nomine appellari solent sed ƿ
cum fuerint iunctae partes, tunc recte totius nomen excipiunt. De ea vero
divisione quae secundum accidens fit, nullus ignorat quin incognito accidenti
incognitaque vi generis ac differentiarum facile evenire possit, ut accidens
ita in subiecta solvatur quasi genus in species, et postremo omnem hunc ordinem
partitionis foedissime permiscebit inscientia. Et quoniam quid hic liber ad
divisionem prosit ostendimus, nunc de demonstratione dicemus, ne per ardua
atque difficilia haereat qui in tanta hac disciplina vigilantissimo ingenio et
sollertissimo labore sudaverit. Fit enim demonstratio, id est alicuius quaesitae
rei certa rationis collectio, ex ante cognitis naturaliter, ex convenientibus,
ex primis, ex causa, ex necessaliis, ex per se inhaerentibus. Sed genera
speciebus propriis priora naturaliter sunt; ex generibus enim species fluunt. Item
species sub se positis vel speciebus vel individuis priores naturaliter esse
manifestum est. Quae vero priora sunt, ea et praenoscuntur et notiora sunt
sequentibus naturaliter. Duobus enim modis primum aliquid et notum dicitur,
secundum nos scilicet et secundum naturam. Nobis enim illa magis cognita sunt
quae sunt proxima, ut individua, dehinc species, postremo genera, at vero
natura converso modo ea sunt magis cognita quae nobis minime proxima. Atque
ideo quamlibet se longius ƿ a nobis genera protulerint, tanto magis erunt
lucida et naturaliter nota. Differentiae vero substantiales illae sunt quas per
se inesse his rebus quae demonstrantur agnoscimus. Praecedere autem debet
generum ac differentiarum cognitio ut in unaquaque disciplina quae sint eius
rei quae demonstratur convenientia principia possit intellegi. Necessaria vero
esse ea ipsa quae genera et differentias dicimus, nullus dubitat qui speciem
sine genere et differentia intellegit esse non posse. Genera vero et
differentiae sunt causae specierum. Idcirco enim species sunt quia genera earum
et differentiae sunt quae in syllogismis posita demonstrativis non rei solum,
verum conclusionis etiam causae sunt, quod postremi Resolutorii locupletius
dicent. Cum igitur perutile sit et definitione quodlibet illud circumscribere
et divisio ne dissoluere et demonstrationibus comprobare, haec autem praeter
earum rerum scientiam de quibus in hoc libro disputabitur, neque intellegi
neque exerceri valeant, quis umquam poterit dubitare quin hic liber maximum
totius logicae adiumentum sit, praeter quem caetera quae in ea magnam vim
tenent, nullum doctrinae aditum praebent? Sed meminit Porphyrius introductionem
sese conscribere neque ultra quam institutionis modus est formam tractatus
egreditur. Ait enim se altiorum quaestionum nodis abstinere, simplices vero mediocri
coniectura perstringere. Quae vero sint altiores quaestiones quas se differre
promittit ita proponit: MOX, INQUIT, DE GENERIBUS AC SPECIEBUS ILLUD QUIDEM
SIVE SUBSISTUNT SIVE IN SOLIS NUDISQUE INTELLECTIBUS POSITA SUNT SIVE
SUBSISTENTIA CORPORALIA SUNT AN INCORPORALIA ET UTRUM SEPARATA A SENSIBILIBUS
AN IN SENSIBILIBUS POSITA ET CIRCA EA CONSTANTIA, DICERE RECUSABO. ALTISSIMUM
ENIM EST HUIUSMODI NEGOTIUM ET MAIORIS EGENS INQUISITIONIS. Altiores, inquit,
quaestiones praetereo ne eis intempestive lectoris animo ingestis initia eius
primitiasque perturbem. Sed ne omnino faceret neglegentem ut nihil praeterquam
quod ipse dixisset lector amplius putaret occultum, id ipsum cuius exequi
quaestionem se differre promisit addidit ut de his minime obscure penitusque
tractando nec lectori quicquam obscuritatis offunderet et tamen scientia
roboratus quid quaeri iure posset agnosceret. Sunt autem quaestiones quas sese
reticere ƿ promittit et perutiles et secretae et temptatae quidem a doctis viris
nec a pluribus dissolutae. Quarum prima est huiusmodi. Omne quod intellegit
animus aut id quod est in rerum natura constitutum intellectu concipit et
sibimet ratione describit aut id quod non est uacua sibi imaginatione depingit.
Ergo intellectus generis et caeterorum cuiusmodi sit quaeritur -- utrumne ita
intellegamus species et genera ut ea quae sunt et ex quibus verum capimus
intellectum, an nosmet ipsi nos ludimus cum ea quae non sunt animi nobis cassa
cogitatione formamus. Quodsi esse quidem constiterit et ab his quae sunt
intellectum concipi diserimus, tunc alia maior ac difficilior quaestio
dubitationem parit cum discernendi atque intellegendi generis ipsius naturam
summa difficultas ostenditur. Nam quoniam omne quod est aut corporeum aut
incorporeum esse necesse est, genus et species in aliquo horum esse oportebit.
Quale erit igitur id quod genus dicitur -- utrumne corporeum an vero
incorporeum? Neque enim quid sit diligenter intenditur nisi in quo horum poni
debeat agnoscatur. Sed neque cum haec soluta fuerit quaestio omne excludetur
ambiguum. Subest enim aliquid quod, si incorporalia esse genus ac species
dicantur, obsideat intellegentiam atque detineat exsolvi postulans: utrum circa
corpora ipsa subsistant an et praeter corpora subsistentiae incorporales esse
videantur. Duae quippe incorporeorum formae sunt: ut alia praeter corpora esse
ƿ possint et separata a corporibus in sua incorporalitate perdurent (ut deus,
mens, anima); alia vero cum sint incorporea, tamen praeter corpora esse non
possint (ut linea vel superficies vel numerus vel singulae qualitates), quas
tametsi incorporeas esse pronuntiamus quod tribus spatiis minime distendantur,
tamen ita in corporibus sunt ut ab his divelli nequeant aut separari aut si a
corporibus separata sint, nullo modo permaneant. Quas licet quaestiones arduum
sit ipso interim Porphyrio renuente dissoluere, tamen aggrediar ut nec anxium
lectoris animum relinquam nec ipse in his quae praeter muneris suscepti seriem
sunt tempus operamque consumam. Primum quidem pauca sub quaestionis ambiguitate
proponam, post vero eundem dubitationis nodum absoluere atque explicare
temptabo. Genera et species aut sunt atque subsistunt aut intellectu et sola
cogitatione formantur. Sed genera et species esse non possunt. Hoc autem ex his
intellegitur. Omne enim quod commune est uno tempore pluribus, id unum esse non
poterit. Multorum enim est quod commune est, praesertim cum una eademque res in
multis uno tempore tota sit. Quantaecumque enim sunt species in omnibus genus
unum est, non quod de eo singulae species quasi partes aliquas carpant sed
singulae uno tempore totum genus habent. Quo fit ut totum genus in pluribus
singulis uno tempore positum unum esse non possit; neque enim fieri potest ut
cum in pluribus totum uno sit tempore in semet ipso sit unum ƿ numero. Quod si
ita est, unum quiddam genus esse non poterit. Quo fit ut omnino nihil sit; omne
enim quod est, idcirco est quia unum est. Et de specie idem convenit dici. Quodsi
est quidem genus ac species sed multiplex neque unum numero, non erit ultimum
genus sed habebit aliud superpositum genus quod illam multiplicitatem unius vi
nominis includat. Ut enim plura animalia quoniam habent quiddam simile, eadem
tamen non sunt, idcirco eorum genera perquiruntur, ita quoque quoniam genus
quod in pluribus est atque ideo multiplex habet sui similitudinem quod genus
est; non est vero unum quoniam in pluribus est -- eius generis quoque genus
aliud quaerendum est, cumque fuerit inventum eadem ratione quae superius dicta
est, rursus genus tertium uestigatur. Itaque in infinitum ratio procedat
necesse est cum nullus disciplinae terminus occurrat. Quodsi unum quiddam
numero genus est commune multorum esse non poterit. Una enim res si communis
est aut partibus communis est et non iam tota communis sed partes eius propriae
singulorum; aut in usus habentium etiam per tempora transit ut sit commune ut
seruus communis vel equus; aut uno tempore omnibus commune fit, non tamen ut
eorum quibus commune est substantiam constituat, ut est theatrum vel
spectaculum aliquod, quod spectantibus omnibus commune est. Genus vero secundum
nullum horum modum commune esse speciebus potest, nam ƿ ita commune esse debet
ut et totum sit in singulis et uno tempore et eorum quorum commune est
constituere valeat et formare substantiam. Quocirca si neque unum est quoniam
commune est, neque multa quoniam eius quoque multitudinis genus aliud
inquirendum est, videbitur genus omnino non esse. Idemque de caeteris
intellegendum est. Quodsi tantum intellectibus genera et species caeteraque
capiuntur, cum omnis intellectus aut ex re fiat subiecta ut sese res habet aut
ut sese res non habet (nam ex nullo subiecto fieri intellectus non potest) -- Si
generis et speciei caeterorumque intellectus ex re subiecta veniat ita ut sese
res ipsa habet quae intellegitur, iam non tantum in intellectu posita sunt sed
in rerum etiam veritate consistunt, et rursus quaerendum est quae sit eorum
natura quod superior quaestio uestigabat. Quodsi ex re quidem generis
caeterorumque sumitur intellectus neque ita ut sese res habet quae intellectui
subiecta est, uanum necesse est esse intellectum qui ex re quidem sumitur, non
tamen ita ut sese res habet; id est enim falsum quod aliter atque res est
intellegitur. Sic igitur quoniam genus ac species nec sunt nec cum
intelleguntur verus eorum est intellectus, non est ambiguum quin omnis haec sit
deponenda de his quinque propositis disputandi cura, quandoquidem neque de ea
re quae sit ƿ neque de ea de qua verum aliquid intellegi proferrive possit,
inquiritur. Haec quidem est ad praesens de propositis quaestio, quam nos
Alexandro consentientes hac ratiocinatione soluemus. Non enim necesse esse
dicimus omnem intellectum qui ex subiecto quidem fit, non tamen ut sese ipsum
subiectum habet, falsum et uacuum videri. In his enim solis falsa opinio ac non
potius intellegentia est quae per compositionem fiunt. Si enim quis componat
atque coniungat intellectu id quod natura iungi non patitur, illud falsum esse
nullus ignorat -- ut si quis equum atque hominem iungat imaginatione atque
effigiet centaurum. Quodsi hoc per divisionem et per abstractionem fiat, non
quidem ita res sese habet ut intellectus est, intellectus tamen ille minime
falsus est. Sunt enim plura quae in aliis esse suum habent ex quibus aut omnino
separari non possunt aut, si separata fuerint, nulla ratione subsistunt. Atque
ut hoc nobis in peruagato exemplo manifestum sit, linea in corpore quidem est
aliquid et id quod est corpori debet, hoc est esse suum per corpus retinet.
Quod docetur ita: si enim separata sit a corpore, non subsistit; quis enim
umquam sensu ullo separatam a corpore lineam cepit? Sed animus cum confusas res
permixtasque in se a sensibus cepit, eas propria vi et ƿ cogitatione
distinguit. Omnes enim huiusmodi res incorporeas in corporibus esse suum
habentes sensus cum ipsis nobis corporibus tradit, at vero animus, cui potestas
est et disiuncta componere et composita resoluere, quae a sensibus confusa et
corporibus coniuncta traduntur ita distinguit ut incorpoream naturam per se ac
sine corporibus in quibus est concreta speculetur et videat. Diversae enim
proprietates sunt incorporeorum corporibus permixtorum, etsi separentur a
corpore. Genera ergo et species caeteraque vel in incorporeis rebus vel in his
quae sunt corporea reperiuntur. Et si ea in rebus incorporeis invenit animus,
habet ilico incorporeum generis intellectum. Si vero corporalium rerum genera
speciesque perspexerit, aufert, ut solet, a corporibus incorporeorum naturam et
solam puramque ut in se ipsa forma est contuetur. Ita haec cum accipit animus
permixta corporibus, incorporalia dividens speculatur atque considerat. Nemo
ergo dicat falso nos lineam cogitare, quoniam ita eam mente capimus quasi
praeter corpora sit, cum praeter corpora esse non possit. Non enim omnis qui ex
subiectis rebus capitur intellectus aliter quam sese ipsae res habent, falsus
esse putandus est sed, ut superius dictum ƿ est, ille quidem qui hoc in
compositione facit falsus est, ut cum hominem atque equum iungens putat esse
centaurum, qui vero id in divisionibus et abstractionibus assumptionibusque ab
his rebus in quibus sunt efficit, non modo falsus non est, verum etiam solus id
quod in proprietate verum est invenire potest. Sunt igitur huiusmodi res in
corporalibus atque in sensibilibus, intelleguntur autem praeter sensibilia ut
eorum natura perspici et proprietas valeat comprehendi. Quocirca cum genera et
species cogitantur, tunc ex singulis in quibus sunt eorum similitudo colligitur
-- ut ex singulis hominibus inter se dissimilibus humanitatis similitudo, quae
similitudo cogitata animo veraciterque perspecta fit species; quarum specierum
rursus diversarum similitudo considerata, quae nisi in ipsis speciebus aut in
earum individuis esse non potest, efficit genus. Itaque haec sunt quidem in
singularibus, cogitantur vero universalia. Nihilque aliud species esse putanda
est nisi cogitatio collecta ex individuorum dissimilium numero substantiali
similitudine, genus vero cogitatio collecta ex specierum similitudine. Sed haec
similitudo cum in singularibus est fit sensibilis; cum in universalibus fit
intellegibilis -- eodemque modo cum sensibilis est in singularibus permanet;
cum intellegitur fit universalis. Subsistunt ergo circa sensibilia, intelleguntur
autem praeter corpora. Neque enim interclusum est ut duae res eodem in subiecto
sint ratione diversae, ut linea curua atque caua, quae ƿ res cum diversis
definitionibus terminentur diversusque earum intellectus sit, semper tamen in
eodem subiecto reperiuntur; eadem enim linea caua, eadem curua est. Ita quoque
generibus et speciebus, id est singularitati et universalitati, unum quidem
subiectum est; sed alio modo universale est cum cogitatur, alio singulare cum
sentitur in rebus his in quibus esse suum habet. His igitur terminatis omnis,
ut arbitror, quaestio dissoluta est. Ipsa enim genera et species subsistunt
quidem alio modo, intelleguntur vero alio. Et sunt incorporalia sed
sensibilibus iuncta subsistunt in sensibilibus. Intelleguntur vero ut per semet
ipsa subsistentia ac non in aliis esse suum habentia. Sed Plato genera et
species caeteraque non modo intellegi universalia, verum etiam esse atque
praeter corpora subsistere putat, Aristoteles vero intellegi quidem
incorporalia atque universalia sed subsistere in sensibilibus putat. Quorum
diiudicare sententias aptum esse non duxi, altioris enim est philosophiae.
Idcirco vero studiosius Aristotelis sententiam executi sumus, non quod eam
maxime probaremus sed quod hic liber ad Praedicamenta conscriptus est quorum
Aristoteles est auctor. ILLUD VERO QUEMADMODUM DE HIS AC DE PROPOSITIS
PROBABILITER ANTIQUI TRACTAVERUNT ET HORUM MAXIME PERIPATETICI, TIBI NUNC
TEMPTABO MONSTRARE. Praetermissis his quaestionibus quas altiores esse
praedixit, ƿ exoptat mediocrem introductorii operis tractatum. Sed ne haec ipsa
sibi harum quaestionum omissio vitio daretur, apposuit quemadmodum de
propositis tractaturus est, ex quorumque hoc opus auctoritate subnixus
aggrediatur ante denuntiat. Cum mediocritatem quidem tractatus promittit
detracta obscuritatis difficultate, animum lectoris inuitat, ut vero acquiescat
ac sileat ad id quod dicturus est, Peripateticorum auctoritate confirmat. Atque
ideo ait DE HIS, id est de generibus et speciebus de quibus superiores
intulerat quaestiones, AC DE PROPOSITIS, id est de differentiis, propriis atque
accidentibus, sese PROBABILITER disputaturum. PROBABILITER autem ait veri
similiter, quod Graeci *logikos* vel *endoxos* dicunt. Saepe enim et apud
Aristotelem *logikos* veri similiter ac probabiliter dictum invenimus et apud
Boethum et apud Alexandrum. Porphyrius quoque ipse in multis hac significatione
hoc usus est verbo quod nos scilicet in translatione, quod ait *logikos* ita
interpretari ut rationabiliter diceremus, omisimus. Longe enim melior ac verior
significatio ea visa est ut probabiliter sese dicere promitteret, id est non
praeter opinionem ingredientium atque lectorum, quod introductionis est
proprium. Nam cum ab imperitorum hominum mentibus doctrinae secretum altioris
abhorreat, talis esse introductio debet ut praeter opinionem ingredientium non
sit. Atque ideo melius ƿ probabiliter quam rationabiliter, ut nobis videtur,
interpretati sumus. Antiquos autem ait de eisdem disputasse rebus sed
<se> eorum illum maxime tractatum insequi quem Peripatetici Aristotele
duce reliquerint, ut tota disputatio ad Praedicamenta conveniat. Quaeri in ei
positionum principiis solet, cur unumquodque caeteris in disputationis ordine
praeponatur, velut nunc in genere dubitari potest, cur genus speciei,
differentiae, proprio accidentique praetulerit; de eo enim primitus tractat.
Respondebimus itaque iure factum videri; omne enim quod universale est, intra
semet ipsum caetera concludit, ipsum vero non clauditur. Maioris itaque meriti
est ac principalis naturae quod ita caetera cohercet, ut ipsum naturae magnitudine
nequeat ab aliis contineri. Genus igitur et species intra se positas habet et
earum differentias propriaque, nihilominus etiam accidentia, atque ita de
genere inchoandum fuit, quod caetera naturae suae magnitudine cohercet et
continet. Praeterea illa semper priora putanda sunt quae si auferat quis,
caetera perimuntur, illa posteriora quibus positis ea quae caeterorum
substantiam perficiunt, consequuntur, ut in genere et caeteris. Nam si animal
auferas, quod est hominis genus, homo quoque, quod species est, et rationale,
quod differentia, et risibile, quod proprium, et grammaticum, quod accidens,
non manebit et ƿ interemptum genus cuncta consumit. Si vero hominem esse
constituas vel grammaticum vel rationale vel risibile, animal quoque esse
necesse est. Sive enim homo est, animal est, sive rationale, sive risibile,
sive grammaticum, ab animalis substantia non recedit. Sublato igitur genere et
caetera consumuntur, positis caeteris sequitur genus; prior est igitur natura
generis, posterior caeterorum. Iure est igitur in disputati*one praepositum. Sed
quoniam generis nomen multa significat -- hoc est enim quod ait: VIDETUR AUTEM
NEQUE GENUS NEQUE SPECIES SIMPLICITER DICI. Ubi enim non est simplex dictio,
illic multiplex significatio est -- prius huius nominis significationes
discernit ac separat, ut de qua significatione generis tractaturus est, sub
oculis ponat. Sed cum neque genus neque species neque differentia nec proprium
nec accidens significatione simplici sint, cur de his tantum duobus, genere
inquam ac specie, dixit non simpliciter dici, cum proprium, differentia atque
accidens ipsa quoque sint significatione multiplici? Dicendum est quoniam
longitudinem vitans tantum speciem nominavit eamque idcirco, ne solum genus
significationis esse multiplicis putaretur. Enumerat autem primam quidem generis
significationem hoc modo: GENUS ENIM DICITUR ET ALIQUORUM QUODAMMODO SE
HABENTIUM AD UNUM ALIQUID ET AD SE INVICEM COLLECTIO, SECUNDUM QUAM
SIGNIFICATIONEM ROMANORUM DICITUR GENUS AB UNIUS SCILICET HABITUDINE, DICO
AUTEM ROMULI, ET MULTITUDINIS HABENTIUM ALIQUO MODO AD INVICEM EAM QUAE AB ILLO
EST COGNATIONEM SECUNDUM DIVISIONEM AB ALIIS GENERIBUS DICTAE. Una, inquit,
generis significatio est quae in multitudinem venit a quolibet uno principium
trahens, ad quem scilicet ita illa multitudo coniuncta est, ut ad se invicem
per eiusdem unius principium copulata sit, ut cum Romanorum dicitur genus;
multitudo enim Romanorum ab uno Romulo vocabulum trahans et ipsi Romulo et ad
se invicem quasi quadam nominis hereditate coniuncta est. Eadem enim quae a
Romulo societas descendit, Romanos inter se omnes uno generis nomine devincit
et colligat. Videtur autem secuisse hanc generis significationem in duas
partes, cum copulativam coniunctionem admiscuit dicens: GENUS DICITUR ET
ALIQUORUM QUODAMMODO SE HABENTIUM AD UNUM ALIQUID ET AD SE INVICEM COLLECTIO,
tamquam et illud genus dicatur ad unum se aliquo modo habere et hoc rursus
genus dicatur, quod ad se invicem unius generis significatione coniuncti sint.
Hoc vero minime; eadem enim a quolibet uno propagata societas et ad illum qui
princeps est generis, totam multitudinem refert et ipsam ƿ inter se
multitudinem uno generis nomine conectit et continet. Quocirca non est putandus
divisionem fecisse sed omne quicquid in hac generis significatione
intellegendum fuit, aperuisse. Ordo autem verborum ita sese habet (qui est
hyperbaton intellegendus): 'genus enim dicitur et aliquorum ad unum se aliquo
modo habentium collectio et ad se invicem aliquo modo habentium' -- rursus
'collectio' subaudienda; est enim zeugma -- cuius significationis adiecit
exemplum: SECUNDUM QUAM SIGNIFICATIONEM ROMANORUM DICITUR GENUS AB UNIUS
SCILICET HABITUDINE, DICO AUTEM ROMULI, ET MULTITUDINIS RURSUS HABITUDINE
HABENTIUM ALIQUO MODO AD INVICEM COGNATIONEM, EAM SCILICET QUAE AB ILLO EST, ID
EST ROMULO, SECUNDUM DIVISIONEM AB ALIIS GENERIBUS DICTAE, scilicet
multitudinis. Haec enim multitudo aliquo modo ad unum et ad se invicem habens
genus dicta est, ut ab aliis discerneretur, ut Romanorum genus ab Atheniensium
caeterorumque separatur, ut sit integer verborum ordo: 'genus enim dicitur et
aliquorum collectio ad unum se quodammodo habentium et ad se invicem, secundum
quam significationem Romanorum dicitur genus ab unius scilicet habitudine, dico
autem Romuli, et multitudinis secundum divisionem ab aliis generibus dictae,
habentium scilicet hominum aliquo modo ad invicem eam quae ab illo est, id est
Romulo, cognationem.' ƿ Atque haec hactenus; nunc de secunda generis
significatione dicendum est. DICITUR AUTEM ET ALITER RURSUS GENUS, QUOD EST
UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS PRINCIPIUM VEL AB EO QUI GENUIT VEL A LOCO IN QUO
QUIS GENITUS EST. SIC ENIM ORESTEM QUIDEM DICIMUS A TANTALO HABERE GENUS,
HYLLUM AUTEM AB HERCULE, ET RURSUS PINDARUM QUIDEM THEBANUM ESSE GENERE, PLATONEM
VERO ATHENIENSEM; ETENIM PATRIA PRINCIPIUM EST UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS,
QUEMADMODUM ET PATER. HAEC AUTEM VIDETUR PROMPTISSIMA ESSE SIGNIFICATIO; ROMANI
ENIM SUNT QUI EX GENERE DESCENDUNT ROMULI, ET CECROPIDAE, QUI A CECROPE, ET
HORUM PROXIMI. Quattuor omnino sunt principia quae unumquodque principaliter
efficiunt. Est enim una causa quae effectiva dicitur, velut pater filii, est
alia quae materialis, velut lapides domus, tertia forma, velut hominis
rationabilitas, quarta, quam ob rem, velut pugnae victoria. Duae vero sunt quae
per accidens uniuscuiusque ƿ dicuntur esse principia, locus scilicet ac tempus.
Quoniam enim omne quod nascitur vel fit, in loco ac tempore est, quicquid loco
vel tempore natum factumue fuerit, eum locum vel id tempus accidenter dicitur
habere principium. Horum omnium in hac secunda generis significatione duo
quaedam ex alterutris assumit, quae ad significationem generis videbuntur
accommoda, ex his quidem quae principalia sunt, effectivum,; ex his vero quae
accidentia, locum. Ait enim 'genus dicitur et a quo quis genitus est', quod est
effectiva principalium causa, 'et in quo quis loco est procreatus', quae est
accidens causa principii. Itaque haec secunda significatio duo continet, eum a
quo quis procreatus est, et locum in quo quis editus, ut exempla quoque
demonstrant. Orestem enim dicimus a Tantalo genus ducere; Tantalus quippe
Pelopem, Pelops Atreum, Atreus Agamemnonem, Agamemnon genuit Orestem. Itaque a
procreatione genus hoc dictum est. At vero Pindarum dicimus esse Thebanum,
scilicet quoniam Thebis editus tale generis nomen accepit. Sed quoniam diversum
est illud, a quo quis procreatus est, locusque in quo quis editus, videtur
diversa esse generis significatio procreantis et loci, quam in secunda scilicet
parte enumerans unam fecit. Sed ne videretur duplex, per similitudinem
coniunxit dicens: ETENIM PATRIA PRINCIPIUM EST UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS, ƿ
QUEMADMODUM ET PATER. Sed quoniam in significationibus evenit fere, ut sit
aliquid quod intellectui significatae rei propinquius esse videatur, quoniam
duas generis apposuit significationes, multitudinis scilicet et procreantis,
cui generis nomen convenientius aptetur, iudicat atque discernit dicens hanc
esse promptissimam generis significationem quae a procreante deducta sit; hi
enim maxime Cecropidae sunt qui a Cecrope descendunt, hi Romani, qui a Romulo.
Quae cum ita sint, confundi rursus generis significationes videntur. Si enim hi
sunt maxime Romani qui a Romulo originem trahunt, et haec significatio illa est
quae a procreante deducitur, ubi est reliqua, quam primam quoque enumeravit,
quae est 'multitudinis ad unum et ad se invicem quodammodo se habentium
collectio'? Sed acutius intuentibus plurimae admodum differentiae sunt. Aliud
est enim a quolibet primo procreante genus ducere, aliud unum genus esse
plurimorum. Illud enim et per rectam sanguinis lineam fieri potest et non in
multa diffundi, ut si per unicos familia descendat, huic enim aptabitur secunda
illa generis significatio, quae a procreante deducitur; prima vero illa non
nisi in multitudine consistit. Illud quoque est, quod prima procreationis
principium non requirit sed, ut ipse ait, sufficit aliquo modo se habere ad id
unde huiusmodi generis principium sumitur, secunda vero significatio nullam vim
nisi procreante sortitur. Item in illa primae significationis multitudine huius
secundae particularitas continetur, ut in ƿ Romanorum genere Scipiadarum genus;
nam cum sint Romani, Scipiadae sunt. Quoniam enim ad Romulum et ad caeteros
Romanos secundum Romuli habitudinem iuncti sunt, Romani sunt, Seipiadae vero
dicuntur ad secundam generis significationem, quia eorum familiae Scipio et
sanguinis principium fuit. ET PRIUS QUIDEM APPELLATUM EST GENUS UNIUSCUIUSQUE
GENERATIONIS PRINCIPIUM, DEHINC ETIAM MULTITUDO EORUM QUI SUNT AB UNO
PRINCIPIO, UT A ROMULO; NAMQUE DIVIDENTES ET AB ALIIS SEPARANTES DICEBAMUS
OMNEM ILLAM COLLECTIONEM ESSE ROMANORUM GENUS. Sensus facilis et expeditus, si
tamen ambiguitas una solvatur. Cum enim prius multitudinis significationem
retulerit ad generis nomen, post autem ad procreationis initium, nunc contrario
modo illam prius a se enumeratam significationem dicere videtur quae est
procreationis, illam vero posteriorem quae est multitudinis; quod contrarium
videri potest, si quis ad ordinem superius digestae disputationis aspexerit.
Sed hic non de se loquitur sed de humani consuetudine sermonis, in quo prius
eam significationem generis fuisse dicit quae a procreante sit tracta,
accedente vero aetate loquendi usu nomen generis etiam ad multitudinem habentem
se quodammodo ad aliquem fuisse translatum, hoc vero idcirco, quoniam ƿ
superius dixerat: haec enim videtur promptissima esse significatio, ut ab hac,
id est secunda, quam promptissimam significationem esse dixit, illa quoque
nuncupata videretur, quae est multitudinis. Prius enim genus inter homines
appellatum est quod quis a generante deduceret, post autem factum est, ut per
loquendi usum etiam multitudinis ad aliquem quodammodo se habentis genus
diceretur propter divisionem scilicet gentium, ut esset inter eas nominis
societatisque discretio. His igitur expletis venit ad tertium genus quod inter
philosophos tractatur cuiusque ad dialecticam facultatem multus usus est. Horum
quippe generum historia magis vel poesis tractat exordium, tertium vero genus
apud philosophos consideratur. De quo hoc modo loquitur: ALITER AUTEM RURSUS
GENUS DICITUR CUI SUPPONITUR SPECIES, AD HORUM FORTASSE SIMILITUDINEM DICTUM.
ETENIM PRINCIPIUM QUODDAM EST HUIUSMODI GENUS EARUM QUAE SUB IPSO SUNT
SPECIERUM, VIDETUR ETIAM MULTITUDINEM CONTINERE OMNEM QUAE SUB EO EST. Duplicem
significationem generis supra posuit, nunc tertiam monstrare contendit, hanc
autem ad superiorum similitudinem ƿ dictam esse arbitratur. Superius autem
dictae significationes sunt una quidem, cum nomen generis quadam principii
antiquitate ad se iunctam multitudinem contineret, alia vero, cum genus ab
unoquoque procreante duceretur, quod eorum quae procreantur principium est. Cum
igitur sint superius duae generis propositae significationes, tertium nunc
addit de quo inter philosophos sermo est, illud scilicet cui supponitur
species, quod idcirco genus vocatum esse sub opinionis credit ambiguo, quoniam
habet aliquam similitudinem superiorum. Nam sicut illud genus quod ad
multitudinem dicitur, uno suo nomine multitudinem claudit, ita etiam genus
plurimas species cohercet et continet. Item ut genus illud quod secundum
procreationem dicitur, principium quoddam est eorum quae ab ipso procreantur,
ita genus speciebus suis est principium. Ergo quoniam utrisque est simile,
idcirco nomen quoque generis etiam in hac significatione a superioribus mutuatum
esse veri simile est. TRIPLICITER IGITUR CUM GENUS DICATUR, DE TERTIO APUD
PHILOSOPHOS SERMO EST; QUOD ETIAM DESCRIBENTES ASSIGNAVERUNT ƿ GENUS ESSE
DICENTES QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE IN EO QUOD QUID SIT
PRAEDICATUR, UT ANIMAL. Iure tertium genus philosophi ad disputationem sumunt;
hoc enim solum est quod substantiam monstrat, caetera vero aut unde quid
existat aut quemadmodum a caeteris hominibus in unam quasi populi formam
dividatur ostendunt. Nam illud quod multitudinem continet genus, illius
multitudinis quam continet substantiam non demonstrat sed tantum uno nomine
collectionem populi facit, ut ab alterius generis populo segregetur. Item illud
quod secundum procreationem dictum est, non rei procreatae substantiam monstrat
sed tantum quod eius fuerit procreationis initium. At vero genus id cui
supponitur species, ad speciem accommodatum speciei substantiam informat. Et
quia inter philosophos haec maxima est quaestio, quid unumquodque sit -- tunc
enim unumquodque scire videmur, quando quid sit agnoscimus -- idcirco reiectis
caeteris de hoc genere quam maxime apud philosophos sermo est, quod etiam
describentes assignaverunt ea descriptione quam subter annexuit. Diligenter
vero ait describentes, non definientes; definitio enim fit es genere, genus
autem aliud genus habere non poterit. Idque obscurius est quam ut primo aditu
dictum pateat. Fieri autem potest ut res quae ƿ alii genus sit, alii generi
supponatur, non quasi genus sed tamquam species sub alio collocata. Unde non in
eo quod genus est, supponi alicui potest sed cum supponitur, ilico species fit.
Quae cum ita sint, ostenditur genus ipsum in eo quod genus est, genus habere
non posse. Si igitur voluisset genus definitione concludere, nullo modo
potuisset; genus enim aliud quod ei posset praeponere, non haberet, atque
idcirco descriptionem ait esse factam, non definitionem. Descriptio vero est,
ut in priore volumine dictum est ex proprietatibus informatio quaedam rei et
tamquam coloribus quibusdam depictio. Cum enim plura in unum convenerint, ita
ut omnia simul rei cui applicantur aequentur, nisi ex genere vel differentiis haec
collectio fiat, descriptio nuncupatur. Est igitur descriptio generis haec:
genus est quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quid sit
praedicatur. Tria haec requiruntur in genere, ut de pluribus praedicetur, ut de
specie differentibus, ut in eo qund quid sit de qua re quoniam ipse posterius
latius disputat, nos breviter huius rei intellegentiam significemus exemplo.
Sit enim nobis in forma generis animal. Id de aliquibus sine dubio praedicatur,
homine scilicet, equo, bove et caeteris. Sed haec plura sunt. Animal igitur de
pluribus praedicatur, homo vero, equus atque bos talia sunt, ut a se
discrepent, nec qualibet mediocri re sed tota specie, id est tota forma suae
substantiae. De quibus dicitur animal; homo enim et equus et bos animalia
nuncupantur. Praedicatur ergo animal de pluribus specie differentibus. Sed
quonam modo fit ƿ haec praedicatio? Non enim quicquid interrogaveris, mox
animal respondetur: non enim si quantus sit homo interrogaveris, 'animal'
respondebitur, ut opinor; hoc enim ad quantitatem pertinet, non ad substantiam.
Item si 'qualis' interrogess ne huic quidem responsio convenit animalis,
caeterisque omnibus interrogationibus hanc animalis responsionem ineptam atque
inutilem semper esse reperies, nisi ei tantum apta est quae quid sit
interroget. Interrogantibus enim nobis quid sit homo, quid sit equus, quid sit
bos, 'animalia' respondebitur. Ita nomen animalis ad interrogationem 'quid sit'
de homine, equo atque bove ac de caeteris praedicatur, unde fit ut animal
praedicetur de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit. Et quoniam
generis haec definitio est, animal hominis, equi, bovis genus esse necesse est.
Omne autem genus aliud est quod in semet ipso atque in re intellegitur, aliud
quod alterius praedicatione. Sua enim proprietas ipsum esse constituit, ad
alterum relatio genus facit, ut ipsum animal, si eius substantiam quaeras,
dicam substantiam esse animatam atque sensibilem. Haec igitur definitio rem
monstrat per se sicut est, non tamquam referatur ad aliud. At vero cum dicimus
animal genus esse, non, ut arbitror, tunc de re ipsa hoc dicimus sed de ea
relatione qua potest animal ad caeterorum quae sibi subiecta ƿ sunt
praedicationem referri. Itaque character est quidam ac forma generis in eo quod
referri praedicatione ad eas res potest, quae cum sint plures et specie
differentes, in earum tamen substantia praedicatur. Huius autem definitionis
rationem per exempla subiecit dicens: EORUM ENIM QUAE PRAEDICANTUR, ALIA QUIDEM
DE UNO DICUNTUR SOLO, SICUT INDIVIDUA UT SOCRATES ET HIC ET HOC, ALIA VERO DE
PLURIBUS, QUEMADMODUM GENERA ET SPECIES ET DIFFERENTIAE ET PROPRIA ET
ACCIDENTIA COMMUNITER SED NON PROPRIE ALICUI. EST AUTEM GENUS QUIDEM UT ANIMAL,
SPECIES VERO UT HOMO, DIFFERENTIA AUTEM UT RATIONALE, PROPRIUM UT RISIBILE, ACCIDENS
UT ALBUM, NIGRUM SEDERE. Omnium quae praedicantur quolibet modo, facit
Porphyrius divisionem idcirco, ut ab reliquis omnibus praedicationem generis
seiungat ac separet, hoc modo. Omnium, inquit, quae praedicantur, alia de
singularitate, alia de pluralitate dicuntur. ƿ De singularitate vero, inquit,
praedicantur quaecumque unum quodlibet habent subiectum de quo dici possint, ut
ea quibus singula subiecta sunt individua, ut Socrates, Plato, ut hoc album
quod in hac proposita nive est, ut hoc scamnum in quo nunc sedemus, non omne
scamnum -- hoc enim universale est -- sed hoc quod nunc suppositum est, nec
album quod in nive est -- universale est enim album et nix -- sed hoc album
quod in hac nive nunc esse conspicitur; hoc enim non potest de quolibet alio
albo praedicari quod in hac nive est, quia ad singularitatem deductum est atque
ad in dividuam formam constrictum est individui participatione. Alia vero sunt
quae de pluribus praedicantur, ut genera, species, differentiae et propria et
accidentia communiter sed non proprie alicui. Genera quidem de pluribus
praedicantur speciebus suis, species vero de pluribus praedicantur individuis;
homo enim, quod est animalis species, plures sub se homines habet de quibus
appellari possit. Item equus, qui sub animali est loco speciei, plurimos habet
individuos equos de quibus praedicetur. Differentia vero ipsa quoque de
pluribus speciebus dici potest, ut rationale de homine ac de deo corpolibusque
caelestibus, quae, sicut Platoni placet, animata sunt et ratione vigentia.
Proprium item etsi de una specie praedicatur, de multis tamen individuis
dicitur, quae sub convenienti specie collocantur, ut risibile de Platone,
Socrate et caeteris individuis quae homini supponuntur. Accidens etiam ƿ de
multis dicitur; album enim et nigrum de multis omnino dici potest quae a se
genere specieque seiuncta sunt. Sedere etiam de multis dicitur; homo enim
sedet, simia sedet, aves quoque, quorum species longe diversae sunt. Accidens
autem quoniam communiter accidens esse potest et proprie alicui, idcirco
determinavit dicens et accidentia communiter sed non proprie alicui. Quae enim
proprie alicui accidunt, individua fiunt et de uno tantum valentia praedicari,
ea quae communiter accipiuntur, de pluribus dici queunt. Ut enim de nive dictum
est, illud album quod in hac subiecta nive est, non est communiter accidens sed
proprie huic nivi quae oculis ostensionique subiecta est. Itaque ex eo quod
communiter praedicari poterat -- de multis enim album dici potest, ut albus
homo, albus equus, alba nix -- factum est, ut de una tantum nive praedicari
illud album: possit cuius participatione ipsum quoque factum est singulare. Omnino
autem omnia genera vel species vel differentiae vel propria vel accidentia, si
per semet ipsa speculemur in eo quod genera vel species vel differentiae vel
propria vel accidentia sunt, manifestum est quoniam de pluribus praedicantur.
At si ea in his speculemur in quibus sunt, ut secundum subiecta eorum formam et
substantiam metiamur, evenit ut ex pluralitate praedicationis ad singularitatem
videantur adduci. Animal enim, ƿ quod genus est, de pluribus praedicatur sed
cum hoc animal in Socrate consideramus -- Socrates enim animal est -- ipsum
animal fit individuum, quoniam Socrates est individuus ac singularis. Item homo
de pluribus quidem hominibus praedicatur sed si illam humanitatem quae in
Socrate est individuo consideremus, fit individua, quoniam Socrates ipse
individuus est ac singularis. Item differentia ut rationale de pluribus dici
potest sed in Socrate individua est. Risibile etiam cum de pluribus hominibus
praedicetur, in Socrate fit unicum. Communiter quoque accidens, ut album, cum
de pluribus dici possit, in unoquoque singulari perspectum individuum est.
Fieri autem potuit commodior divisio hoc modo. Eorum quae dicuntur, alia quidem
ad singularitatem praedicantur, alia ad pluralitatem, eorum vero quae de
pluribus praedicantur, alia secundum substantiam praedicantur, alia secundum
accidens. Eorum quae secundum substantiam praedicantur, alia in eo quod quid
sit dicuntur, alia in eo quod quale sit, in eo quod quid sit quidem, genus ac
species, in eo quod quale sit, differentia. Item eorum quae in eo quod quid sit
praedicantur, alia de speciebus praedicantur pluribus, alia minime; de
speciebus pluribus praedicantur genera, de nullis vero species. Eorum autem
quae secundum accidens praedicantur, alia quidem sunt quae de pluribus
praedicantur, ut accidentia, ƿ alia quae de uno tantum, ut propria. Posset
autem fieri etiam huiusmodi divisio. Eorum quae praedicantur, alia de singulis
praedicantur, alia de pluribus. Eorum quae de pluibus, alia in eo quod quid sit,
alia in eo quod quale sit praedicantur. Eorum quae in eo quod quid sit, alia de
differentibus specie dicuntur, ut genera, alia minime, ut species, eorum autem
quae in eo quod quale sit de pluribus praedicantur, alia quidem de
differentibus specie praedicantur, ut differentiae et accidentia, alia de una
tantum specie, ut propria. Eorum vero quae de differentibus specie in eo quod
quale sit praedicantur, alia quidem in substantia praedicantur, ut
differentiae, alia in communiter evenientibus, ut accidentia. Et per hanc
divisionem quinque barum rerum definitiones colligi possunt hoc modo. Genus est
quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Species
est quod de pluribus minime specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur.
Differentia est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit in
substantia praedicatur. Proprium est quod de una tantum specie in eo quod quale
sit non in substantia praedicatur. Accidens est quod de pluribus specie
differentibus in eo quod quale sit non in substantia praedicatur. Et nos quidem
has divisiones fecimus, ut omnia a semet ipsis separaremus, Porphyrio vero alia
fuit intentio. Non enim omnia nunc a semet ipsis disiungere festinabat sed
tantum ut caetera a generis forma et proprietate separaret. Idcirco divisit
quidem omnia quae praedicantur aut in ea quae de singulis praedicantur, aut in
ea quae de pluribus, ea vero quae de pluribus praedicantur, aut genera esse
dilit aut species aut caetera, horumque exempla subiciens adiungit: AB HIS ERGO
QUAE DE UNO SOLO PRAEDICANTUR, DIFFERUNT GENERA EO QUOD DE PLURIBUS ASSIGNATA
PRAEDICENTUR, AB HIS AUTEM QUAE DE PLURIBUS, AB SPECIEBUS QUIDEM, QUONIAM
SPECIES ETSI DE PLURIBUS PRAEDICANTUR SED NON DE DIFFERENTIBUS SPECIE SED
NUMERO; HOMO ENIM CUM SIT SPECIES, DE SOCRATE ET PLATONE PRAEDICATUR, QUI NON
SPECIE DIFFERUNT A SE INVICEM SED NUMERO, ANIMAL VERO CUM GENUS SIT, DE HOMINE
ET BOVE ET EQUO PRAEDICATUR, QUI DIFFERUNT A SE INVICEM ET SPECIE QUOQUE, NON
NUMERO SOLO. A PROPRIO VERO DIFFERT GENUS, QUONIAM PROPRIUM QUIDEM DE UNA SOLA
SPECIE, CUIUS EST PROPRIUM, PRAEDICATUR ET DE HIS QUAE SUB UNA SPECIE SUNT
INDIVIDUIS, QUEMADMODUM ƿ RISIBILE DE HOMINE SOLO ET DE PARTICULARIBUS
HOMINIBUS, GENUS AUTEM NON DE UNA SPECIE PRAEDICATUR SED DE PLURIBUS ET
DIFFERENTIBUS SPECIE. A DIFFERENTIA VERO ET AB HIS QUAE COMMUNITER SUNT
ACCIDENTIBUS DIFFERT GENUS, QUONIAM ETSI DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE
PRAEDICANTUR DIFFERENTIAE ET COMMUNITER ACCIDENTIA SED NON IN EO QUOD QUID SIT
PRAEDICANTUR SED IN EO QUOD QUALE QUID SIT INTERROGANTIBUS ENIM NOBIS ILLUD DE
QUO PRAEDICANTUR HAEC, NON IN EO QUOD QUID SIT DICIMUS PRAEDICARI SED MAGIS IN
EO QUOD QUALE SIT. INTERROGANTI ENIM QUALIS EST HOMO, DICIMUS RATIONALIS, ET IN
EO QUOD QUALIS EST CORUUS, DICIMUS QUONIAM NIGER. EST AUTEM RATIONALE QUIDEM
DIFFERENTIA, NIGRUM VERO ACCIDENS. QUANDO AUTEM QUID EST HOMO INTERROGAMUR,
ANIMAL RESPONDEMUS; ERAT AUTEM HOMINIS GENUS ANIMAL. Nunc genus a caeteris
omnibus quae quolibet modo praedicantur ƿ separare contendit hoc modo. Quoniam
enim genus de pluribus praedicatur, statim differt ab his quidem quae de uno
tantum praedicantur quaeque unum quodlibet habent individuum ac singulare
subiectum; sed haec differentia generis ab his quae de uno praedicantur,
communis ei est cum caeteris, id est specie, differentia, proprio atque
accidenti idcirco, quoniam ipsa quoque de pluribus praedicantur. Horum igitur
singulorum differentias a genere colligit, ut solum intellegendum genus quale
sit sub animi deducat aspectum, dicens: AB HIS AUTEM QUAE DE PLURIBUS
PRAEDICANTUR, DIFFERT GENUS, AB SPECIEBUS QUIDEM PRIMUM, QUONIAM SPECIES ETSI
DE PLURIBUS PRAEDICANTUR, NON TAMEN DE DIFFERENTIBUS SPECIE SED NUMERO. Species
enim sub se plurimas species habere non poterit, alioquin genus, non species
appellaretur. Si enim genus est quod de pluribus specie differentibus in eo
quod quid sit praedicatur, cum species de pluribus dicatur et in eo quod quid
sit, huic si adiciatur ut de specie differentibus praedicetur, speciei forma
transit in generis; id quoque exemplo intellegi fas est. Homo enim praedicatur
de Socrate, Platone et caeteris quae a se non specie disiuncta sunt, sicut homo
atque equus sed numero: quod quidem habet dubitationem quid sit boc quod
dicitur numero differre. Numero enim differre aliquid videbitur quotiens
numerus a numero differt, ut grex boum qui fortasse continet triginta boves,
differt numero ab alio boum grege, si centum in se contineat boves; in eo enim
quod grex est, non differunt, in eo quod boves, ne eo quidem: numero igitur differunt,
quod illi plures, illi vero sunt pauciores. Quomodo igitur Socrates et Plato
specie non differunt sed numero, cum et Socrates unus sit et Plato unus, unitas
vero numero ab unitate non differat? Sed ita intellegendum quod dictum est
numero differentibus, id est in numerando differentibus, hoc est dum numerantur
differentibus. Cum enim dicimus 'hic Socrates est, hic Plato', duas fecimus
unitates, ac si digito tangamus dicentes 'hic unus est' de Socrate, rursus de
Platone 'hic unus est', non eadem unitas in Socrate numerata est quae in
Platone. Alioquin posset fieri ut secundo tacto Socrate Plato etiam
monstraretur. Quod non fit. Nisi enim tetigeris Socratem vel mente vel digito
itemque tetigeris Platonem, non facies duos, dum numerantur ergo differunt qute
sunt numero differentia. Cum igitur species de numero differentibus, non de
specie praedicetur, genus de pluribus et differentibus specie dicitur, ut de
bove, de equo et de caeteris quae a se specie invicem differunt, non numero
solo. Tribus enim modis unumquodque vel differre ab aliquo dicitur vel alicui
idem esse, genere, specie, numero. Quaecumque igitur genere eadem sunt, non
necesse est eadem esse specie, ut si eadem sint genere, differant specie. Si
vero eadem sint specie, genere quoque eadem esse necesse est, ut cum homo atque
equus idem sint genere -- uterque enim animal nuncupatur -- differunt specie,
quoniam alia est hominis species, alia equi. Socrates vero atque Plato cum idem
sint specie, idem quoque sunt genere; utrique enim et sub hominis et sub
animalis praedicatione ponuntur. Si quid vero vel genere vel specie idem sit,
non necesse est idem esse numero, quod si idem sit numero, idem et specie et
genere esse necesse est; ut Socrates et Plato, cum et genere animalis et specie
hominis idem sint, num ero tam en reperiuntur esse disiuncti. Gladius vero
atque ensis idem sunt numero, nihil enim omnino aliud est ensis quam gladius.
Sed nec specie diversi sunt, utrumque enim gladius est, nec genere, utrumque
enim instrumentum est, quod est gladii genus. Quoniam igitur homo, bos atque
equus, de quibus animal praedicatur, specie differunt, numero ergo etiam eos
differre necesse est. Idcirco hoc plus habet genus ab specie, quod de specie
differentibus praedicatur. Nam si integram generis definitionem demus, dabimus
hoc modo: genus est quod de pluribus ƿ specie et numero differentibus in eo
quod quid sit praedicatur, at vero speciei sic: species est quod de pluribus
numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur. A PROPRIO VERO DIFFERT
GENUS, QUONIAM PROPRIUM QUIDEM DE UNA SOLA SPECIE, CUIUS EST PROPRIUM,
PRAEDICATUR ET DE HIS QUAE SUB UNA SPECIE SUNT INDIVIDUIS. Proprium semper uni
speciei adesse potest neque eam relinquit nec transit ad aliam, atque idcirco
proprium nuncupatum est, ut risibile hominis; itaque et de ea specie cuius est
proprium praedicatur et de his individuis quae sub illa sunt specie, ut risibile
de homine dicitur et de Socrate et Platone et caeteris quae sub hominis nomine
continentur. Genus vero non de una tantum specie, ut dictum est sed de
pluribus. Differt igitur genus a proprio eo quod de pluribus speciebus
praedicatur, cum proprium de una tantum de qua dicitur appelletur et de his quae
sub illa sunt individuis. A DIFFERENTIA VERO ET AB HIS QUAE COMMUNITER SUNT
ACCIDENTIBUS DIFFERT GENUS. Differentiae atque accidentis discrepantiam a
genere una separatione concludit. Omnino enim quia haec in eo quod quid sit
minime praedicantur, eo ipso segregantur a genere; nam in caeteris quidem
propinqua sunt generi, nam et ƿ de pluribus praedicantur et de specie
differentibus sed non in eo quod quid sit. Si quis enim interroget: qualis est
homo? respondetur rationalis, quod est differentia; si quis: qualis est coruus?
dicitur niger, quod est accidens. Si autem interroges: quid est homo? animal
respondebitur, quod est genus. Quod vero ait: HAEC NON IN EO QUOD QUID SIT
DICIMUS PRAEDICARI SED MAGIS IN EO QUOD QUALE SIT, hoc magis quaestioni
occurrit huiusmodi. Aristoteles enim differentias in substantis putat oportere
praedicari. Quod autem in substantia praedicatur, hoc rem de qua praedicatur,
non quale sit sed quid sit ostendit. Unde non videtur differentia in eo quod
quale sit praedicari sed potius in eo quod quid sit. Sed solvitur hoc modo.
Differentia enim ita substantiam demonstrat, ut circa substantiam qualitatem
determinet, id est substantialem proferat qualitatem. Quod ergo dictum est
magis, tale est tamquam si diceret: videtur quidem substantiam significare
atque idcirco in eo quod quid sit praedicari sed magis illud est verius, quia tametsi
substantiam monstret, tamen in eo quod quale sit praedicatur. QUARE DE PLURIBUS
PRAEDICARI DIVIDIT GENUS AB HIS QUAE DE UNO SOLO EORUM QUAE SUNT INDIVIDUA
PRAEDICANTUR, DIFFERENTIBUS VERO SPECIE SEPARAT AB HIS QUAE ƿ SICUT SPECIES
PRAEDICANTUR VEL SICUT PROPRIA; IN EO AUTEM QUOD QUID SIT PRAEDICARI DIVIDIT A
DIFFERENTIIS ET COMMUNITER ACCIDENTIBUS, QUAE NON IN EO QUOD QUID SIT SED IN EO
QUOD QUALE SIT VEL QUODAMMODO SE HABENS PRAEDICANTUR DE QUIBUS PRAEDICANTUR. Tria
esse diximus quae significationem hanc tertiam generis informarent, id est de
pluribus praedicari, de specie differentibus et in eo quod quid sit. Quae
singulae partes genus a caeteris quae quomodolibet praedicantur distribuant ac
secernunt, quod ipse breviter colligens dicit; id, enim quod' de pluribus
praedicatur, genus ab his dividit quae de uno tantum praedicantur individuo.
Individuum autem pluribus dicitur modis. Dicitur individuum quod omnino secari
non potest, ut unitas vel mens; dicitur individuum quod ob soliditatem dividi
nequit, ut adamans; dicitur individuum cuius praedicatio in reliqua similia non
convenit, ut Socrates: nam cum illi sint caeteri homines similes, non convenit
proprietas et praedicatio Socratis in caeteris. Ergo, ab his quae de uno tantum
praedicantur, genus differt eo quod de pluribus praedicatur restant igitur
quattuor, species et proprium, differentia et accidens, ƿ quorum a genere
differentias colligamus. Singulis igitur differentiis ab his rebus segregabitur
genus. Ea quidem differentia qua de specie differentibus genus dicitur, separat
ab his quae sicut species praedicantur vel sicut propria. Species enim omnino
de nulla specie dicitur, proprium vero de una tantum specie praedicatur atque
ideo non de specie differentibus. Item genus a differentia et accidenti differt,
quod in eo quod quid sit praedicatur; illa enim in eo quod quale sit
appellantur, ut dictum est. Itaque genus quidem ab his quae de uno praedicantur
differt in quantitate praedicationis, ab speciebus vero et proprio in
subiectorum natura, quoniam genus de specie differentibus dicitur, proprium
vero et species minime. Item genus in qualitate praedicationis a differentia
accidentique dividitur. Qualitas enim praedicationis quaedam est vel in eo quod
quid sit vel in eo quod quale sit praedicari. NIHIL IGITUR NEQUE SUPERFLUUM
NEQUE MINUS CONTINET GENERIS DICTA DESCRIPTIO. Omnis descriptio vel definitio
debet ei quod definitur aequari. Si enim definitio definito non sit aequalis et
si quidem maior sit, etiam quaedam alia continebit et non necesse est ut semper
definiti substantiam monstret; si minor, ad omnem definitionem ƿ substantiae
non pervenit. Omnia enim quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, ut animal
de homine, minora vero de maioribus minime; nemo enim vere dicere potest 'omne
animal homo est'. Atque idcirco si sibi praedicatio convertenda est, aequalis
oportebit sit. Id autem fieri potest, si neque superfluum quicquam habet neque
diminutum, ut in ea ipsa generis descriptione. Dictum est enim esse genus quod
de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicetur, quae
descriptio cum genere converti potest, ut dicamus quicquid de pluribus specie
differentibus in eo quod quid sit praedicetur, id esse genus. Quodsi converti
potest, ut ait, nec plus neque minus continet generis facta descriptio. Superior
de genere disputatio videatur forsitan omnem etiam speciei consumpsisse
tractatum. Nam cum genus ad aliquid praedicetur, id est ad speciem, cognosci
natura generis non potest, si speciei quae sit intellegentia nesciatur. Sed
quoniam diversa est in suis naturis eorum consideratio atque discretio, diversa
in permixtis, idcirco sicut singula in prooemio proposuit, ita dividere cuncta
persequitur. Ac primum post generis disputationem de specie tractat. De qua
quidem dubitari potest. Si enim haec fuit ratio praeponendi generis reliquis
omnibus, quod naturae suae magnitudine caetera contineret, non aequum erat
speciem differentiae in ordine tractatus anteponere, quod differentia speciem
contineret, cum praesertim differentiae ipsas species informent. Prius autem
est quod informat quam id quod eius informatione perficitur. Posterior igitur
est species a differentia, prius igitur de differentia tractandum fuit. Etenim
prooemio etiam consentiret, in quo eum ordinem collocavit quem naturalis ordo
suggessit, dicens utile esse nosse quid genus sit et quid differentia. Huic
respondendum est quaestioni, quoniam omnia quaecumque ƿ ad aliquid
praedicantur, substantiam semper ex oppositis sumunt. Ut igitur non potest esse
pater, nisi sit filius, nec filius, nisi praecedat pater, alteriusque nomen
pendet ex altero, ita etiam in genere ac specie videre licet. Species quippe
nisi generis non est rursusque genus esse non potest, nisi referatur ad
speciem; nec vero substantiae quaedam aut res absolutae esse putandae sunt
genus ac species, ut superius quoque dictum est sed quicquid illud est quod in
naturae proprietate consistat, id tunc fit genus ac species, cum vel ad
inferiora vel ad superiora referatur. Quorum ergo relatio alterutrum
constituit, eorum continens factus est iure tractatus. De specie igitur
inchoans ait hoc modo: SPECIES AUTEM DICITUR QUIDEM ET DE UNIUSCUIUSQUE FORMA,
SECUNDUM QUAM DICTUM EST: 'PRIMUM QUIDEM SPECIES DIGNA IMPERIO'. DICITUR AUTEM
SPECIES ET EA QUAE EST SUB ASSIGNATO GENERE, SECUNDUM QUAM SOLEMUS DICERE
HOMINEM QUIDEM SPECIEM ANIMALIS, CUM SIT GENUS ANIMAL, ALBUM AUTEM COLORIS
SPECIEM, TRIANGULUM VERO FIGURAE SPECIEM. Sicut generis supra significationes
distinxit aequivocas, ita idem in specie facit dicens non esse speciei
simplicem significationem. Et ponit quidem duas, longe autem plures esse ƿ
manifestum est, quas idcirco praeteriit, ne lectoris animum prolixitate
confunderet. Dicit autem primum quidem speciem vocali uniuscuiusque formam,
quae ex accidentium congregatione perficitur. Cautissime autem dictum est
uniuscuiusque, hoc enim secundum accidens dicitur. Quae enim unicuique
individuo forma est, ea non ex substantiali quadam forma species sed ex
accidentibus venit. Alia est enim substantialis formae species quae humanitas
nuncupatur, eaque non est quasi supposita animali sed tamquam ipsa qualitas
substantiam monstrans; haec enim et ab bac diversa est quae uniuscuiusque
corpori accidenter insita est, et ab ea quae genus deducit in partes.
Postremumque plura sunt quae cum eadem sint, diversis tamen modis ad aliud
atque aliud relata intelleguntur, ut hanc ipsam humanitatem in eo quod ipsa est
si perspexeris, species est eaque substantialem determinat qualitatem; si sub
animali eam intellegendo locaveris, deducit animalis in sese participationem
separaturque a caeteris animalibus ac fit generis species. Quodsi uniuscuiusque
proprietatem consideres, id est quam virilis uultus, quam firmus incessus
caeteraque quibus individua conformantur et quodammodo depinguntur, haec est
accidens species secundum quam dicimus quemlibet illum imperio esse aptum
propter formae ƿ eximiam dignitatem. Huic aliam adiungit speciei
significationem, id est eam quam supponimus generi. Nos vero triplicem speciei
significationem esse subicimus, unam quidem substantiae qualitatem, aliam
cuiuslibet individui propriam formam, tertiam s de qua nunc loquitur, quae sub
genere collocatur. Credendum vero est propter obscuritatem eius quam nos
adiecimus, quia nimirum altiorem atque eruditiorem quaereret intellectum, ea,
tacita praetermissaque caeteras edidisse. Cuius quidem speciei haec exempla
subiecit, ut hominem quidem animalis speciem, album, autem coloris, triangulum
vero figurae; haec enim omnia species nuncupantur eorum quae sunt genera animal
quidem hominis, albi autem color, trianguli figura. QUODSI ETIAM GENUS
ASSIGNANTES SPECIEI MEMINIMUS DICENTES QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE
IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR, ET SPECIEM DICIMUS ID QUOD SUB GENERE EST. Dudum
cum generis description em assignaret, in generis definitione speciei nomen
iniecit dicens id esse genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod
quid sit praedicaretur, ut scilicet per speciei nomen definiret genus. Nunc
vero cam speciem definire contendat, generis utitur nuncupatione dicens speciem
esse quae sub genere ponatur. Cui quidem dicto illa quaestio iure videtur
opponi. Omnis enim definitio rem declarare debet quam definitio concludit,
eamque apertiorem reddere quam suo nomine monstrabatur. Ex notioribus igitur
fieri oportet definitionem quam res illa sit quae definitur. Cum igitur per
speciei nomen describeret vel definiret genus, abusus est vocabulo speciei
velut notiore quam generis atque ita ex notioribus descripsit genus. Nunc vero
cum speciem vellet termino descriptionis includere, generis utitur nomine
rerumque convertit notionem, ut in generis quidem sit notius speciei vocabulum,
in speciei autem descriptione sit notius generis, quod fieri nequit. Si enim
generis vocabulum notius est quam speciei, in definitione generis speciei nomine
uti non debuit. Quodsi speciei nomen facilius intellegitur quam generis, in
definitione speciei nomen generis non fuit apponendum. Cui quaestioni occurrit
dicens: NOSSE ASTEM OPORTET <QUOD>, QUONIAM ET GENUS ALICUIUS EST GENUS
ET SPECIES ALICUIUS EST SPECIES, IDCIRCO NECESSE EST ET IN UTRORUMQUE
RATIONIBUS UTRISQUE UTI. Omnia quaecumque ad aliquid praedicantur, ex his de
quibus praedicantur, substantiam sortiuntur; quodsi definitio uniuscuiusque
substantiae proprietatem debet ostendere, iure ex alterutro fit descriptio in
his quae invicem referuntur. Ergo quoniam genus speciei genus est et
substantiam suam et ƿ vocabulum genus ab specie sumit, in definitione generis
speciei nomen est aduocandum, quoniam vero species id quod est sumit el genere,
nomen generis in speciei descriptione non fuit relinquendum. Quoniam vero
diversae sunt specierum qualitates -- aliae enim sunt species, quae et genera
esse possunt, aliae, quae in sola speciei permanent proprietate neque in
naturam generis transeunt -- idcirco multiplicem speciei definitionem dedit
dicens: ASSIGNANT ERGO ET SIC SPECIEM: SPECIES EST QUOD PONITUR SUB GENERE ET
DE QUO GENUS IN EO QUOD QUID SIT PRAEDIAATUR. AMPLIUS AUTEM SIC QUOQUE: SPECIES
EST QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS NUMERO IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR.
SED HAEC QUIDEM ASSIGNATIO SPECIALISSIMAE EST ET QUAE SOLUM SPECIES EST, ALIAE
VERO ERUNT ETIAM NON SPECIALISSIMARUM. Tribus speciem definitionibus
informavit, quarum quidem duae omni speciei conveniunt omnesque quae quolibet
modo species appellantur, sua conclusione determinant, tertia vero non ita. Cum
enim duae sint specierum formae, una quidem, cum species alicuius aliquando
etiam alterius genus esse potest, altera, cum tantum species est neque in
formam generis ƿ transit, priores quidem duae, illa scilicet in qua dictum est
id esse speciem quod sub genere ponitur, et rursus in qua dictum est id esse
speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, omni speciei conveniunt.
Id enim tantum hae definitiones monstrant quod sub genere ponitur. Nam et ea
quae dicit id esse speciem quod sub genere ponitur, eam vim significat speciei
qua refertur ad genus, et ea quae dicit id esse speciem de quo genus in eo quod
quid sit praedicatur, eam rursus significat speciei formam quam retinet ex generis
praedicatione. Idem est autem et poni sub genere et de eo praedicari genus,
sicut idem est supponi generi et ei genus praeponi. Quodsi omnis species sub
genere collocatur, manifestum est omnem speciem hoc ambitu descriptionis
includi. Sed tertia definitio de ea tantum specie loquitur quae numquam genus
est et quae solum species restat. Haec autem species ea est quae de
differentibus specie minime praedicatur. Nam si id habet genus plus ab specie,
quod de differentibus specie praedicatur, si qua species praedicetur quidem de
subiectis sed non de specie differentibus, ea solum erit superioris generis
species, subiectorum vero non erit genus. Igitur praedicatio ea quam species
habet ad subiecta, si talis sit, ut de differentibus specie non praedicetur,
distinguit eam ab his speciebus ƿ quae genera esse possunt et monstrat eam
solum speciem esse nec generis praedicationem tenere. Illa igitur tertia
descriptio speciei quae magis species ac specialissima dicitur, definitur hoc
modo: SPECIES EST QUOD DE PLURIBUS NUMERO DIFFERENTIBUS IN EO QUOD QUID SIT
PRAEDICATUR, UT HOMO; praedicatur enim de Cicerone ac Demosthene et caeteris
qui a se, ut dictum est, non specie sed numero discrepant. Ex tribus igitur
definitionibus duae quidem et specialissimis et non specialissimis aptae sunt,
haec vero tertia solam ultimam speciem claudit. Ut autem id apertius liqueat,
rem paulo altius orditur eamque congruis inlustrat exemplis: PLANUM AUTEM ERIT
QUOD DICITUR HOC MODO. IN UNOQUOQUE PRAEDICAMEUTO SUNT QUAEDAM GENERALISSIMA ET
RURSUS ALIA SPECIALISSIMA ET INTER GENERALISSIMA ET SPECIALISSIMA SUNT ALIA.
EST AUTEM GENERALISSIMUM QUIDEM SUPER QUOD NULLUM ULTRA ALIUD SIT SUPERVENIENS
GENUS, SPECIALISSIMUM AUTEM, POST QUOD NON ERIT ALIN INFERIOR SPECIES, INTER
GENERALISSIMUM AUTEM ET SPECIALISSIMUM ET GENERA ET SPECIES SUNT EADEM, AD
ALIUD ƿ QUIDEM ET AD ALIUD SUMPTA. SIT AUTEM IN UNO PRAEDICAMENTO MANIFESTUM
QUOD DICITUR. SUBSTANTIA EST QUIDEM ET IPSA GENUS, SUB HAC AUTEM EST CORPUS,
SUB CORPORE VERO ANIMATUM CORPUS, SUB QUO ANIMAL, SUB ANIMALI VERO RATIONALE
ANIMAL, SUB QUO HOMO, SUB HOMINE VERO SOCRATES ET PLATO ET QUI SUNT
PARTICULARES HOMINES. SED HORUM SUBSTANTIA QUIDEM GENERALISSIMUM EST ET QUOD
GENUS SIT SOLUM, HOMO VERO SPECIALISSIMUM ET QUOD SPECIES SOLUM SIT, CORPUS
VERO SPECIES QUIDEM EST SUBSTANTIAE, GENUS VERO CORPORIS ANIMATI; ET ANIMATUM
CORPUS SPECIES QUIDEM EST CORPORIS, GENUS VERO ANIMALIS. ANIMAL AUTEM SPECIES
QUIDEM EST CORPORIS ANIMATI, GENUS VERO ANIMALIS RATIONALIS SED RATIONALE
ANIMAL SPECIES QUIDEM EST ANIMALIS, GENUS AUTEM HOMINIS, HOMO VERO SPECIES
QUIDEM EST RATIONALIS ANIMALIS, NON AUTEM ETIAM GENUS PARTICULARIUM HOMINUM SED
SOLUM SPECIES. ET OMNE QUOD ANTE INDIVIDUA PROXIMUM EST, SPECIES ERIT SOLUM,
NON ETIAM GENUS. Praediximus ab Aristotele decem praedicamenta esse disposita,
ƿ quae idcirco praedicamenta vocaverit, quoniam de caeteris omnibus
praedicantur. Quicquid vero de alio praedicatur, si non potuerit praedicatio
converti, maior est res illa quae praedicatur ab ea de qua praedicatur. Itaque
haec praedicamenta maxima rerum omnium, quoniam de omnibus praedicantur,
ostensa sunt. In unoquoque igitur horum praedicamentorum quaedam generalissima
sunt genera et est longa series specierum atque a maximo decursus ad minima. Et
illa quidem quae de caeteris praedicantur ut genera neque ullis aliis
supponuntur ut species, generalissima genera nuncupantur, idcirco quia his
nullum aliud superponitur genus, infima vero quae de nullis speciebus dicuntur,
specialissimae species appellantur, idcirco quoniam integrum cuiuslibet rei
vocabulum illa suscipiunt quae pura inmixtaque in ea de qua quaeritur
proprietate sunt constituta. At quoniam species id quod species est ex eo habet
nomen, quia supponitur generi, ipsa erit simplex species, si ita generi
supponatur, ut nullis aliis differentiis praeponatur ut genus. Species enim
quae sic supponitur alii, ut alii praeponatur, non est simplex species sed
habet quandam generis admixtionem, illa vero species quae ita supponitur
generi, ut minime speciebus aliis praeponatur, illa solum species simplexque
est species atque idcirco et maxime species et specialissima nuncupatur. Inter
genera igitur quae sunt generalissima et species, quae specialissimae sunt, in
medio ƿ sunt quaedam quae superioribus quidem collata species sunt. Inferioribus
vero genera. Haec subalterna genera nuncupantur. Quod ita sunt genera, ut
alterum sub altero collocetur. Quod igitur genus solum est, id dicitur
generalissimum genus, quae vero ita sunt genera, ut esse species possint, vel
ita species, ut sint genera nonnumquam, subalterna genera vel species
appellantur. Quod vero ita est species, ut alii genus esse non possit, specialissima
species dicitur. His igitur cognitis sumamus praedicamenti unius exemplum. Ut
ab eo in caeteris quoque praedicamentis atque in a caeteris speciebus in uno
filo atque ordine quid eveniat possit agnosci. Substantia igitur generalissimum
genus est; haec enim de cunctis aliis praedicatur. Ac primum huius species
duae, corporeum, incorporeum; nam et quod corporeum est, substantia dicitur et
item quod incorporeum est, substantia praedicatur. Sub corporeo vero animatum
atque inanimatum corpus ponitur, sub animato corpore animal ponitur; nam si
sensibile adicias animato corpori, animal facis, reliqua vero pars, id est
species, continet animatum insensibile corpus. Sub animali autem rationale
atque irrationale, sub rationali homo atque deus; nam si rationali mortale
subieceris, hominem feceris, si immortale, deum, deum vero corporeum; hunc enim
mundum ueteres deum vocabant et Iovis eum appellatione ƿ dignati sunt deumque
solem caeteraque caelestia corpora, quae animata esse cum Plato, tum plurimus
doctorum chorus arbitratus est. Sub homine vero individui singularesque homines
ut Plato, Cato, Cicero et caeteri, quorum numerum pluralitas infinita non
recipit. Cuius rei subiecta descriptio sub oculos ponat exemplum: incorporea
corpus animatum | inanimatum animatum corpus sensibile | insensibile animal
rationale | irrationale rationale animal mortale | immortale homo | Plato Cato
Cicero Superius posita descriptio omnem ordinem a generalissimo usque ad
individua praedicationis ostendit. In qua quidem substantia generalissimum
dicitur genus, quoniam praeposita est omnibus, nulli vero ipsa supponitur, et
solum genus propter eandem scilicet causam, homo autem species solum, quoniam
Plato, ƿ Cato et Cicero, quibus est ipsa praeposita, non differunt specie sed
numero tantum. Corporeum vero, quod secundum a substantia collocatur, et
species esse probatur et genus, substantiae species, genus animati. At vero animatum
genus est animalis, corporei species. Est enim animatum genus sensibilis,
animatum vero sensibile animal est; ipsum igitur animatum propter propriam
differentiam, quod est sensibile, recte genus esse dicitur animalis. Animal
vero rationalis genus est et rationale mortalis. Cumque rationale mortale nihil
sit aliud nisi homo, rationale fit animalis species. Hominis genus. Homo vero
ipse Platonis, Catonis, Ciceronis non erit, ut dictum est, genus sed est solum
species. Nec solum differentiae rationalis species est homo, verum etiam
Platonis et Catonis caeterorumque species appellatur, propter diversam scilicet
causam. Nam rationalis idcirco est species, quoniam rationale per mortale atque
immortale dividitur, cum sit homo mortale. Idem vero homo species est Platonis
atque caeterorum; forma enim eorum omnium homo erit substantialis atque ultima
similitudo. Est autem communis omnium regula eas esse species specialissimas
quae supra sola individua collocantur, ut homo, equus, coruus -- sed non avis;
avium enim multae sunt species sed hae tantum species esse dicuntur -- quorum
subiecta ita sibi sunt consimilia, ut substantialem differentiam habere non
possint. In omni autem hac dispositione priora genera cum inferioribus
coniunguntur, ut posteriores efficiant species; nam ƿ ut sit corpus substantia,
cum corporalitate coniungitur et est substantia corporea corpus. Item ut sit
animatum, corporeum atque substantia animato copulatur et est animatum
substantia corporea habens animam. Item ut sit sensibile, eidem tria illa
superiora iunguntur. Nam quod est sensibile, tantum est, quantum substantia
corporea animata retinens sensum, quod totum animal est. Item superiora omnia
rationi iuncta efficiunt rationale postremumque hominem superiora omnia
nihilominus terminant; est enim homo substantia corporea, animata. Sensibilis,
rationalis, mortalis. Nos vero definitionem hominis reddimus dicentes animal
rationale, mortale, in animali scilicet includentes et substantiam et corporeum
et animatum atque sensibile. Et in caeteris quidem speciebus atque generibus ad
hunc modum vel genera dividuntur vel species describuntur. QUEMADMODUM IGITUR
SUBSTANTIA, CUM SUPREMA SIT, EO QUOD NIHIL SIT SUPRA EAM, GENUS ERAT
GENERALISSIMUM, SIC ET HOMO, CUM SIT SPECIES POST QUAM NON SIT ALIA SPECIES
NEQUE ALIQUID EORUM QUAE POSSUNT DIVIDI SED SOLUM INDIVIDUORUM -- INDIVIDUUM
ENIM EST SOCRATES ET PLATO -- SPECIES ERIT SOLA ET ULTIMA SPECIES ƿ ET, UT
DICTUM EST, SPECIALISSIMA. QUAE VERO SUNT IN MEDIO, EORUM QUIDEM QUAE SUPRA
IPSA SUNT, ERUNT SPECIES, EORUM VERO QUAE POST IPSA SUNT, GENERA. QUARE HAEC
QUIDEM HABENT DUAS HABITUDINES, EAM QUAE EST AD SUPERIORA, SECUNDUM QUAM
SPECIES IPSORUM ESSE DICUNTUR, ET EAM QUAE EST AD POSTERIORA, SECUNDUM QUAM
GENERA IPSORUM ESSE DICUNTUR. EXTREMA VERO UNAM HABENT HABITUDINEM. NAM ET
GENERALISSIMUM AD EA QUIDEM QUAE POSTERIORA SUNT, HABET HABITUDINEM, CUM GENUS
SIT OMNIUM ID QUOD EST SUPREMUM, EAM VERO QUAE EST AD SUPERIORA, NON HABET, CUM
SIT SUPREMUM ET PRIMUM PRINCIPIUM, SPECIALISSIMUM AUTEM UNAM HABET HABITUDINEM,
EAM QUAE EST AD SUPERIORA, QUORUM EST SPECIES, EAM VERO QUAE EST AD POSTERIORA,
NON DIVERSAM HABET SED ETIAM INDIVIDUORUM SPECIES DICITUR SED SPECIES QUIDEM
INDIVIDUORUM VELUT EA CONTINENS, SPECIES AUTEM SUPERIORUM, VELUT QUAE AB EIS
CONTINEATUR. Ex proportione speciei nomen et generis ostendit. Nam ut genus,
quoniam non habet genus supra se, generalissimum genus dicitur, ut substantia,
ita species, quoniam non habet sub se speciem sed individua, specialissima
species dicitur, ut homo. Quid est autem species non habere? His praeesse quae
neque in dissimilia dividi possunt, ut genera dividuntur, neque in similia
secantur, ut species. Quae vero inter genera generalissima speciesque
specialissimas constituta sunt, ea et species et genera nuncupantur, quoniam et
ipsa aliis supponuntur et his alia subiciuntur, quorum vel in dissimilia vel in
similia possit esse partitio. Cumque duae sint habitudines et quasi
comparationes oppositae, quae in omnibus generibus speciebusque versentur, una
quidem quae ad superiora respiciat, ut specierum, quae suis generibus
supponuntur, alia vero quae ad inferiora, ut generum, cum speciebus propriis
praeponuntur, generalissima quidem genera unam tantum retinent habitudinem, eam
scilicet quae inferiora complectitur, illam vero quae ad praeposita comparatur,
non habent. Generalissimum enim genus nulli supponitur. Item species
specialissima unam possidet habitudinem, per quam scilicet ad sola gellera
comparatur, illam vero quae ad inferiora committitur, non habet; nullis enim
speciebus ipsa praeponitur. At vero quae subalterna sunt genera, utraque
habitudine funguntur. ƿ Nam et illam possident quae ad superiora respicit,
quoniam quae subalterna sunt, habent superpositum genus, et illam quae de
inferioribus praedicatur; habent enim subalterna genera suppositas species, ut
corporeum ad substantiam quidem eam retinet habitudinem qua potest poni sub
genere, ad animatum vero eam qua potest de specie praedicari. Specialissimae
vero species licet ipsae individuis praeponantur, tamen praepositi habitudinem
non habebunt, idcirco quoniam illa quae speciei ultimae supponuntur, talia
sunt, ut quantum ad substantiam unum quiddam sint non habentia substantialem
differentiam sed accidentibus efficitur, ut numero saltem distare videantur, ut
paene dici possit et pluribus praeesse speciem et quodammodo nulli omnino esse
praepositam. Nam cum species substantiam monstret unam, quae omnium
individuorum sub specie positorum substantia sit, quodammodo nulli praeposita
est, si ad substantiam quis velit aspicere. At si accidentia quis consideret,
plures de quibus praedicetur species fiunt, non substantiae diversitate sed
accidentium multitudine itaque fit ut genus quidem semper plurimas sub ƿ se
habeat species; de differentibus enim specie praedicatur, differentia vero nisi
pluralitati non convenit. At vero species etiam uni aliquando individuo
praeesse potest. Si enim unus, ut perhibetur, est phoenix, phoenicis species de
uno tantum individuo praedicatur; solis etiam species unum solem intellegitur
habere subiectum. Ita nullam multitudinem species per se continet, cum etiam si
unum sit tantum individuum, speciei tamen non pereat intellectus; quibusdam
enim suis quasi similibus partibus praeest, ut si aeris virgulam dividas,
secundum id quod aes dicitur, idem et partes esse intellegitur et totum.
Idcirco dictum est speciem, licet sit individuis praeposita, unam tamen
habitudinem possidere, unam scilicet qua species est. Quoniam enim praepositis
subditur, species nuncupatur, et est superiorum species tamquam subiecta inferiorum
quoque species, idcirco quoniam eorum substantiam monstrat. Speciem vero
substantiam nuncupamus, nec ita est species substantia individuorum,
quemadmodum speciei genus; illud enim pars substantiae est, ut animalis homo.
Reliquae enim partes rationale sunt atque mortale, homo vero Socratis atque
Ciceronis tota substantia est; nulla enim additur differentia substantialis ad
hominem, ut Socrates fiat aut Cicero, ƿ sicut additur animali rationale atque
mortale, ut homo integra definitione claudatur. Idcirco igitur species
specialissima tantum species est atque hanc solam possidet habitudinem ad
superiora quidem, quoniam ab his continetur, ad inferiora vero, quoniam eorum
substantiam format et continet. DETERMINANT ERGO GENERALISSIMUM ITA, QUOD CUM
GENUS SIT, NON EST SPECIES, ET RURSUS, SUPRA QUOD NON ERIT ALIUD SUPERVENIENS
GENUS, SPECIALISSIMUM VERO, QUOD CUM SIT SPECIES, NON EST GENUS ET QUOD CUM SIT
SPECIES, NUMQUAM DIVIDITUR IN SPECIES ET QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS
NUMERO IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR. EA VERO QUAE IN MEDIO SUNT EXTREMORUM,
SUBALTERNA VOCANT GENERA ET SPECIES, ET UNUMQUODQUE IPSORUM SPECIEM ESSE ET
GENUS PONUNT, AD ALIUD QUIDEM ET AD ALIUD SUMPTA. EA VERO QUAE SUNT ANTE
SPECIALISSIMA USQUE AD GENERALISSIMUM ASCENDENTIA, ET GENERA DICUNTUR ET
SPECIES ET SUBALTERNA GENERA, UT AGAMEMNON ATRIDES ET PELOPIDES ET TANTALIDES
ET ULTIMUM IOVIS. Posteaquam naturam generum ac specierum diversitatemque
monstravit, eorum ordinem definitionis descriptionisque commemorat. Ac primum
quidem generalissimi generis terminum ƿ inducit, id esse generalissimum genus
quod cum ipsum genus sit, non habet superpositum genus, hoc est speciem non
esse, et rursus, supra quod non erit aliud superveniens genus. Si enim haberet
aliud genus, minime ipsum generalissimum vocaretur. Specialissima vero species
hoc modo: quod cum sit species, non est genus, ex opposito, quoniam opposita ex
oppositis describuntur interdum. Nam quoniam praepositio opposita est
suppositioni, genus autem praeponitur, species vero supponitur, si idcirco erit
primum genus, quia ita superponitur, ut minime supponatur, idcirco erit ultima
species, quia ita supponitur, ut praeponi non possit, oppositorum igitur recte
ex oppositis facta est definitio. Est alia rursus descriptio: quod cum sit
species, numquam dividatur in species, id est genus esse non possit. Si enim
omne genus specierum genus est, si quid non dividitur in species, genus esse
non poterit. Est rursus alia definitio: quod de pluribus et differentibus
numero in eo quod quid sit praedicatur. De qua definitione saepe est superius
demonstratum. Nunc illud attendendum est. Si, ut paulo superius dictum est,
speciei unum individuum potest esse subiectum, ut phoenici atomum suum, ut soli
corpus hoc lucidum, ut mundo vel lunae, quorum species singulis suis individuis
superponuntur, qui convenit dicere speciem esse quae de pluribus numero
differentibus in eo quod quid sit praedicatur? Sunt enim quaedam quae de numero
differentibus minime dicuntur, ut phoenix, sol, luna, mundus. Sed de his illa
ratio est de qua etiam superius pauca reddidimus, quae paululum inflexa
commodissime nodum quaestionis absolvit. Omnia enim quae sub speciebus
specialissimis sunt, sive infinita sint sive finito numero constituta sive ad
singularitatem deducantur, dum est aliquod individuum, semper species
permanebit neque individuorum deminutione, dum quodlibet unum maneat, species
consumitur. ut enim dictum est, tametsi plura sint individua, substantiales
differentias non habebunt. Id vero in genere dici non convenit, quod his
praeest quae substantiali a se differentia disgregata sunti praeest enim
speciebus quae diversis differentiis informantur. ƿ Si igitur earum una
perierit et ad unitatem speciei reducta sit ratio, genus esse non poterit, quia
de differentibus specie praedicatur. Non ita in speciebus. Si enim omnium
individuorum natura consumpta sit et ad unius singularitatem individul
superpositae speciei praedicatio peruenerit, est tamen species ac permanet.
Talia enim sunt illa quae pereunt ac desunt, quale est id quod permansit et
subiacet quod vero dicimus de pluribus numero differentibus speciem praedicari,
duobus id recte explicabitur modis, uno quidem, quia multo plures sunt species
quae de numerosis individuis praedicantur, quam hae quibus unum tantum
individuum videtur esse suppositum, dehinc hoc, quia multa secundum potestatem
dicuntur, cum actu non semper ita sint, ut risibilis homo dicitur; etiamsi
minime rideat, quoniam ridere potest. Ita igitur species de numero
differentibus praedicatur; nihilo enim minus phoenix de pluribus phoenicibus
praedicaretur, si plures essent, quam nunc, quando unus esse perhibetur. Item
solis species de hoc uno sole quem novimus, nunc dicitur, at si animo plures
soles et cogitatione fingantur, nihilominus de pluribus solibus in dividuis
nomen solis quam de hoc uno praedicabitur. Idcirco igitur species de pluribus
numero differentibus dicitur praedicari cum sint aliquae quae de singulis
individuis appellentur. Illa vero quae subalterna vocantur ita definiri queunt:
subalternum ƿ genus est quod et genus esse poterit et species, ad eumque modum
est ut in familiis, quae procreant et procreantur, ut etiam subiectum monstrat
exemplum: UT AGAMEMNON ATRIDES ET PELOPIDES ET TANTALIDES ET ULTIMUM IOVIS.
Atreus enim Pelopis filius tamquam eiusdem species quasi Agamemnonis genus est.
Item Agamemnon Pelopides et Tantalides, cum Pelops ad Tantalum comparatus
Tantalusque ad Iovem quasi species itemque Tantalus ad Pelopem, Pelops ad
Atreum tamquam genera esse videantur, cum Iuppiter veluti sit horum
generalissimum genus. SED IN FAMILIIS QUIDEM PLERUMQUE AD UNUM REDUCUNTUR
PRINCIPIUM, VERBI GRATIA AD IOVEM, IN GENERIBUS AUTEM ET SPECIEBUS NON SE SIC
HABET. NEQUE ENIM EST COMMUNE UNUM GENUS OMNIUM ENS NEC OMNIA EIUSDEM GENERIS
SUNT SECUNDUM UNUM SUPREMUM GENUS, QUEMADMODUM DICIT ARISTOTELES. SED SINT
POSITA, QUEMADMODUM ƿ IN PRAEDICAMENTIS, PRIMA DECEM GENERA QUASI PRIMA DECEM
PRINCIPIA; VEL SI OMNIA QUIS ENTIA VOCET, AEQUIVOCE, INQUIT, NUNCUPABIT, NON
UNIVOCE. SI ENIM UNUM ESSET COMMUNE OMNIUM GENUS ENS, UNIVOCE ENTIA DICERENTUR;
CUM VERO DECEM SINT PRIMA, COMMUNIO SECUNDUM NOMEN EST SOLUM, NON ETIAM
SECUNDUM RATIONEM, QUAE SECUNDUM NOMEN EST. Cum de subalternis generibus
diceret, familiae cuiusdam posuit exemplum, quae ab Agamemnone pervenit ad
Iovem, quem quidem pro numinis reuerentia ultimum posuit. Quantum enim ad
ueteres theologos, refertur Iuppiter ad Saturnum, Saturnus ad Caelum, Caelus
vero ad antiquissimum Ophionem ducitur, cuius Ophionis nullum principium est.
Ne igitur quod in familiis est, id in rebus quoque esse credatur, ut res omnes
possint ad unum sui nominis redire principium, idcirco determinat hoc in
generibus ac speciebus esse non posse; neque enim sicut familiae cuiuslibet,
ita etiam omnium rerum unum esse principium potest. Fuere enim qui hac opinione
tenerentur, ut rerum omnium quae sunt umlm putarent esse genus quod ens
nuncupant, tractum ab eo quod dicimus 'est'; omnia enim ƿ sunt et de omnibus
esse praedicatur. Itaque et substantia est et qualitas est itemque quantitas
caeteraque esse dicuntur; nec de his aliquid tractaretur, nisi haec quae
praedicamenta dicuit tur, esse constaret. Quae cum ita sint, ultimum omnium
genus ens esse posuerunt, scilicet quod de omnibus praedicaretur. Ab eo autem
quod dicimus 'est' participium inflectentes Graeco quidem sermone *on* Latine
ens appellaverunt. Sed Aristoteles sapientissimus rerum cognitor reclamat huic
sententiae nec ad unum res omnes putat duci posse primordium, sed decem esse
genera in rebus, quae cum a semet ipsis diversa sint, tum ad nullum commune
principium reducantur. Haec autem decem genera statuit substantiam, qualitatem,
quantitatem, ad aliquid, ubi, quando, situm, facere, pati, habere. Quod vero
occurrebat quoniam de his omnibus esse praedicaretur -- omnia enim quae
superius enumerata sunt genera, esse dicuntur -- ita discussit ac reppulit
dicens non omne commune nomen communem etiam formare substantiam nec ex eo
debere genus esse commune arbitrari, quod de aliquibus nomen commune
praedicaretur. Quibus enim definitio communis nominis convenit, illa communis
nominis iure species iudicabuntur et communi illo vocabulo univoce
praedicantur, quibus vero non convenit, vox his communis tantum est, nulla vero
substantia. Id autem manifestius declaratur exemplis hoc modo. Animal hominis
atque equi genus esse praedicamus; demus igitur ƿ animalis definitionem, quae
est substantia animata sensibilis; hanc si ad hominem reducamus, erit homo
substantia animata sensibilis, nec ulla falsitate definitio maculatur. Rursus
si ad equum, erit equus substantia animata sensibilis; id quoque verum est.
Convenit igitur haec definitio et animali, quod commune est homini atque equo,
et eidem equo atque homini, quae species ponuntur animalis. Ex quo fit ut homo
atque equus utraque animalia univoce nuncupentur. At si quis hominem pictum
hominemque vivum communi animalis nomine nuncupaverit, definiat si libet animal
hoc modo, substantiam animatam esse atque sensibilem. Sed haec definitio ei
quidem homini qui vivus est convenit, ei vero qui pictus est, minime; neque
enim est animata substantia. Igitur homini vivo atque picto, quibus communis
nominis definitio, id est animalis, non potest convenire, non est animal
commune genus sed tantum commune vocabulum diciturque hoc nomen animalis in
vivo homine atque picto non genus sed vox plura significans; vox autem plura
significans aequivoca nuncupatur, sicut vox ea quae genus ostendit, univoca
dicitur. Itaque id quod dicitur ens, etsi de omnibus dicitur praedicamentis,
quoniam tam en nulla eius definitio inveniri potest quae omnibus praedicamentis
possit aptari, idcirco non dicitur univoce de praedicamentis, id est ut genus
sed aequivoce, id est ut vox plura significans. Conuincitur etiam hac quoque
ratione id quod dicimus, ens praedicamentorum genus esse non posse. ƿ Unius
enim rei duo genera esse non possunt, nisi alterum alteri subiciatur, ut
hominis genus est animal atque animatum, cum animal animato velut species
supponatur. At si duo sint sibimet ita aequalia, ut numquam alterum alteri
supponatur. Haec utraque eiusdem speciei genera esse non possunt. Ens igitur
atque unum neutrum neutri supponitur; neque enim unius dicere possumus genus
ens nec eius quod dicimus ens, unum. Nam quod dicimus ens, unum est et quod
unum dicitur, ens est; genus autem et species sibi minime convertuntur. Si
igitur praedicatur ens de omnibus praedicamentis, praedicatur etiam unum. Nam
substantia unum est, qualitas unum est. Quantitas unum est caeteraque ad hunc
modum. Si igitur, quoniam esse de omnibus praedicatur, omnium genus erit, et
unum, quoniam de omnibus praedicatur, erit omnium genus. Sed unum atque ens, ut
demonstratum est, minime alterum alteri praeponitur; duo igitur aequalia
singulorum praedicamentorum genera sunt, quod fieri non potest. Cum haec igitur
ita sint, id Porphyrius determinavit dicens non ita in rebus, ut in familiis
omnia ad unum principium posse reduci nec omnium rerum commune esse genus
posse, ut Aristoteli placet; SED SINT POSITA, inquit, QUEMADMODUM IN
PRAEDICAMENTIS dictum est, PRIMA DECEM GENERA QUASI DECEM PRIMA PRINCIPIA,
scilicet ut nulla interim ratio perquiratur sed auctoritati Aristotelis
concedentes haec decem genera nulli ƿ alii generi esse credamus subiecta, quae
si quis entia nuncupat, aequivoce nuncupabit, non univoce; neque enim una eorum
omnium secundum commune nomen definitio poterit adhiberi. Quae res facit, ut
non univoce de his aliquid praedicetur. Si enim univoce praedicaretur, genus
esset eorum commune nomen quod de omnibus praedicaretur; at si genus esset.
Definitio generis conveniret in species. Quod quia non fit, commune his id quod
dicimus ens, vocabulum est vocis significatione, non ratione substantiae. DECEM
QUIDEM GENERALISSIMA SUNT, SPECIALISSIMA VERO IN NUMERO QUIDEM QUODAM SUNT, NON
TAMEN INFINITO, INDIVIDUA AUTEM QUAE SUNT POST SPECIALISSIMA, INFINITA SUNT.
QUAPROPTER USQUE AD SPECIALISSIMA A GENERALISSIMIS DESCENDENTEM IUBET PLATO
QUIESCERE, DESCENDERE AUTEM PER MEDIA DIVIDENTEM SPECIFICIS DIFFERENTIIS;
INFINITA, INQUIT, RELINQUENDA SUNT; NEQUE ENIM HORUM POSSE FIERI DISCIPLINAM. Quoniam
specierum nosse naturam ad sectionem generum pertinet quoniamque scientia
infinita esse non potest -- nullus enim intellectus infinita circumdat --
idcirco de multitudine generum, specierum atque individuorum rectissima
raitione persequitur dicens supremorum generum numerum notum -- decem enim
praedicamenta ab Aristotele esse reperta quae rebus omnibus generis loco
praeferenda sint -- species vero multo plures esse quam genera. Nam cum decem
suprema sint genera cumque uni generi non una sed multae species supponantur
proximaeque species supremis generibus subalterna sint genera usque dum ad
ultimas species descendatur, nimirum unius generis multas species esse necesse
est utrobique diffusas, specialissimas vero multo plures esse quam subalterna,
quoniam per multitudinem generum subalternorum ad specialissimas descenditur
species. Quas multo plures esse quam genera subalterna hoc maxime ostenditur,
quod inferiores sunt; semper enim genera in plura subiecta dividuntur. Decem
vero generum species multo plures quam unius existere manifestum est, verum
tamen etsi plures sunt, certo tamen numero continentur; quem facile si quis
discutiat omniumque generum species persequatur, possit agnoscere. Individua
vero quae sub unaquaque sunt specie, infinita sunt vel quod tam multa ƿ sunt
diversisque locis posita, ut scientia numeroque includi comprehendique non
possint, vel quod in generatione et corruptione posita nunc quidem incipiunt
esse, nunc vero desinunt. Atque idcirco suprema quidem genera et subalterna et
species eas quae specialissimae nuncupantur, quoniam finitae sunt numero,
potest scientiae terminus includere, individua vero nullo modo idcirco igitur
Plato a magis generibus usque ad magis species id est specialissimas
praecipiebat facere sectionem; per ea enim quae finita essent numero, iubebat
descendere dividentem, ubi autem ad individua veniretur, standum esse suadebat,
ne, quod natura non ferret, infinita colligeret. Ita vero genera in species
dividi comprobabat, ut specificis differentiis soluerentur. De specificis autem
differentiis melius in eo tituro ubi de differentia disputatur, ac largius
disseremus. Hic enim hoc tantum dixisse sufficiat, eas esse specificas
differentias quibus species informantur, ut rationale vel mortale hominis. Cum
igitur dividimus animal, rationali atque irrationali, mortali immortalique
separamus. <Hoc ergo> caeteraque genera talibus differentiis quae
subiectas species informent, Plato censuit esse dividenda usque dum ad
specialissima ƿ veniretur, dehinc consistere nec infinita sequi, quoniam
individuorum numquam esset nec disciplina nec numerus. DESCENDENTIBUS IGITUR AD
SPECIALISSIMA NECESSE EST DIVIDENTEM PER MULTITUDINEM IRE, ASCENDENTIBUS VERO
AD GENERALISSIMA NECESSE EST COLLIGERE MULTITURDINEM. COLLECTIVUM ENIM MULTORUM
IN UNAM NATURAM SPECIES EST ET MAGIS ID QUOD GENUS EST, PARTICULARIA VERO ET
SINGULARIA E CONTRARIO IN MULTITUDINEM SEMPER DIVIDUNT QUOD UNUM EST;
PARTICIPATIONE ENIM SPECIEI PLURES HOMINES UNUS, PARTICULARIBUS AUTEM UNUS ET
COMMUNIS PLURES; DIVISIVUM EST ENIM SEMPER QUOD SINGULARE EST, COLLECTIVUM
AUTEM ET ADUNATIVUM QUOD COMMUNE EST. Dividere est in multitudinem quod unum
fuerat ante dis soluere, omoisque divisio e contrario compositionem
coniunctionemque meditatur. Quod enim, cum sit unum, dispertiendo dividitur, id
ipsum ex pluribus rursus partibus adunando componitur. ut igitur superius
dictum est, individuorum quidem similitudinem species colligunt, specierum vero
genera; similitudo vero nihil est aliud nisi quaedam unitas qualitatis. Ergo
substantialem similitudinem individuorum species colligere manifestum est,
substantialem vero similitudinem specierum genera contrahunt et ad se ipsa
reducunt. Rursus ƿ generis adunationem differentiae in species distribuunt,
specieique adunationem in singulares individuasque personas accidentia
partiuntur. Cum igitur haec ita sint, necesse est semper cum a genere descendis
ad speciem, dividendo semper facere multitudinem, cum vero ab speciebus
ascendis ad genera, componendo colligere et plura quae in specierum differentiis
fuerant similitudine qualitatis adunare. In speciebus etiam idem considerari
potest. ut enim ipsae individua, quae sunt infinita, una similitudine
substantiali colligunt, ita individua speciem propria infinitate distribuunt Omnia
enim individua disgregativa sunt et divisiva, species vero et genera
collectiva, species quidem individuorum collectiva atque adunativa, specierum
vero genera, ut ita dicendum sit: genus quidem species distribuunt et species
ab individuis in multitudinem deducuntur, rursus autem genus quidem multas
species colligit, species autem particularem singularemque multitudinem ad
singularitatis deducit unitatem. Igitur plus genus adunativum est quam species.
Species namque sola individua colligit, genus vero tam species quam ipsarum
quoque specierum individuas contrahit singularesque personas. Sed in hoc
convenienti utitur exemplo dicens quoniam PARTICIPATIONE SPECIEI, id est
hominis, Cato, Plato et Cicero PLURESQUE RELIQUI HOMINES UNUS, id est milia
hominum ƿ in eo quod sunt homines, unus homo est; at vero unus homo, qui
specialis est, si ad homivum multitudinem qui sub ipso sunt consideretur,
plures fiunt. Ita et plures homines in speciali homine unus est et specialis
unus in pluribus infinitus sic igitur quod singulare quidem est, divisivum est,
quod vero commune, quoniam multorum unum est, ut genus ac species, collectivum
atque adunativum. ASSIGNATO AUTEM GENERE ET SPECIE, QUID EST UTRUMQUE, ET
GENERE QUIDEM UNO, SPECIEBUS VERO PLURIBUS -- SEMPER ENIM IN PLURES SPECIES
DIVISIO GENERIS EST -- GENUS QUIDEM SEMPER DE SPECIE PRAEDICATUR ET OMNIA
SUPERIORA DE INFERIORIBUS, SPECIES AUTEM NEQUE DE PROXIMO SIBI GENERE NEQUE DE
SUPERIORIBUS; NEQUE ENIM CONVERTITUR. OPORTET AUTEM AUT AEQUA DE AEQUIS
PRAEDICARI, UT HINNIBILE DE EQUO, AUT MAIORA DE MINORIBUS, UT ANIMAL DE HOMINE,
MINORA VERO DE MAIORIBUS MINIME; NEQUE ENIM ANIMAL DICES ESSE HOMINEM,
QUEMADMODUM HOMINEM DICES ESSE ANIMAL. DE QUIBUS AUTEM SPECIES PRAEDICATUR, ƿ
DE HIS NECESSARIO ET SPECIEI GENUS PRAEDICABITUR ET GENERIS GENUS USQUE AD
GENERALISSIMUM; SI ENIM verUM EST SOCRATEM HOMINEM DICERE, HOMINEM AUTEM
ANIMAL, ANIMAL VERO SUBSTANTIAM, VERUM EST ET SOCRATEM ANIMAL DICERE ATQUE
SUBSTANTIAM. SEMPER IGITUR SUPERIORIBUS DE INFERIORIBUS PRAEDICATIS SPECIES
QUIDEM DE INDIVIDUO PRAEDICABITUR, GENUS AUTEM ET DE SPECIE ET DE INDIVIDUO,
GENERALISSIMUM AUTEM ET DE GENERE ET DE GENERIBUS, SI PLURA SINT MEDIA ET
SUBALTERNA, ET DE SPECIE ET DE INDIVIDUO. DICITUR ENIM GENERALISSIMUM QUIDEM DE
OMNIBUS SUB SE GENERIBUS SPECIEBUSQUE ET DE INDIVIDUIS, GENUS AUTEM QUOD ANTE
SPECIALISSIMUM EST, DE OMNIBUS SPECIALISSIMIS ET DE INDIVIDUIS, SOLUM AUTEM
SPECIES DE OMNIBUS INDIVIDUIS, INDIVIDUUM AUTEM DE UNO SOLO PARTICULARI.
INDIVIDUUM AUTEM DICITUR SOCRATES ET HOC ALBUM ET HIC VENIENS, UT SOPHRONISCI FILIUS,
SI SOLUS EI SIT SOCRATES FILIUS. Breviter quaecumque superius dicta sunt
commemorat hoc modo. Cum, inquit, assignaverimus quid sit genus et quid
species, cumque suis ea definitionibus comprehenderimus docuerimusque unum
genus semper in plurimas species solvi, illud, inquit, adiungimus quoniam omnia
superiora de inferioribus praedicantur, inferiora vero de superioribus minime.
Et ea quae sunt utilia de praedicationis modo rite pertractat. Ostendit autem
genus in plurimas species semper solvi assignata generis definitione. Quod enim
de pluribus rebus specie differentibus in eo quod quid sit praedicaretur, esse
definivit genus. Nihil autem sunt plurimae res specie differentes nisi plurimae
species; de quibus autem praedicatur genus, in ea ipsa dissolvitur. Ostensum
est igitur es definitionis assignatione unius generis esse species plures. Quae
cum ita sint, genus quidem de specie praedicatur, species vero de individuis
omniaque superiora de inferioribus, inferiora de superioribus nullo modo. Id
quare eveniat paucis absolvam. Quae superiora sunt, substantialiter ea genera
esse praediximus, qua vero sunt genera, ampliora sunt quam unaquaeque species.
Neque enim in plurima divideretur genus, nisi ab unaquaque specie maius
existeret. Id cum ita sit, nomen generis toti convenit speciei; non enim
coaequatur solum speciei generis magnitudo, verum etiam speciem superuadit.
Idcirco igitur omnis homo animal est, quoniam intra animalis vocabulum et homo
et caetera continentur. At vero nullus dixerit: omne animal homo est; non enim
pervenit ad totum animal hominis nomen, quia, cum sit minus, nullo modo generis
vocabulo coaequatur. Itaque quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, quae
minora, non convertuntur, ut de maioribus praedicentur. At vero si qua sint
aequalia, ea secundum naturae parilitatem converti necesse est, ut hinnibile
atque equus, quoniam ita sibimet ƿ coaequantur, ut neque equus non sit
hinnibilis neque quod sit hinnibile, non sit equus. Fit ergo ut omne hinnibile
equus sit et omnis equus hinnibilis. Quae cum ita sint, ea quae superiora sunt,
non modo de sibi proximis inferioribus praedicantur, verum etiam de inferiorum
inferioribus. Nam si illud recipitur, ut ea quae superiora sunt, de
inferioribus praedicentur, inferiorum inferiora superioribus multo magis
inferiora sunt, velut substantia praedicatur de animali, quod est inferius; sed
animali inferius est homo, praedicabitur igitur etiam substantia de homine.
Rursus Socrates inferius est homine, praedicabitur igitur substantia de
Socrate. Itaque species quidem de individuis praedieantur, genera vero et de
speciebus et de individuis. Quod converti non potest; nam neque individua de
speciebus aut generibus praedicantur nec species de generibus. Ita fit ut genus
quod est generalissimum, de omnibus subalternis generibus praedicari et de
speciebus et de individuis possit, de ipso nihil. Ultimum vero genus id est
quod ante specialissimas species collocatur et de solis speciebus
specialissimis dici potest, species vero de individuis, ut dictun est, individua
autem de singulis praedicantur, ut Socrates et Plato, eaque maxime sunt ƿ
individua quae sub ostensionem indicationemque digiti cadunt, ut hoc scamnum,
hic veniens atque quae ex aliqua proprie accidentium designantur nota, ut, si
quis Socratem significatione velit ostendere, non dicat 'Socrates', ne sit
alius qui forte hoc nomine nuncupetur sed dicat 'Sophronisci filius', si unicus
Sophronisco fuit. Individua enim maxime ostendi queunt, si vel tacito nomine
sensui ipsi oculorum digito tactuue monstrentur, vel el aliquo accidenti
significentur vel nomine proprio, si solus illud adeptus est nomen, vel ex
parentibus, si illorum est unicus filius, vel ex quolibet alio accidenti
singularitas demonstratur. Eo quod ad esse unam praedicationem habeat eiusque
dictio non transeat ad alterum, sicut generis quidem ad species, specierum vero
ad individua. INDIVIDUA ERGO DICUNTUR HUIUSMODI, QUONIAM EX PROPRIETATIBUS
CONSISTIT UNUMQUODQUE EORUM, QUARUM COLLECTIO NUMQUAM IN ALIO EADEM ERIT.
SOCRATIS ENIM PROPRIETATES NUMQUAM IN ALIO QUOLIBET ERUNT ƿ PARTICULARIUM, HAE
VERO QUAE SUNT HOMINIS, DICO AUTEM EIUS QUI EST COMMUNIS, PROPRIETATES ERUNT
EAEDEM IN PLURIBUS, MAGIS AUTEM IN OMNIBUS PARTICULARIBUS HOMINIBUS IN EO QUOD
HOMINES SUNT. Quoniam superius individuum appellavit, huius nominis rationem
conatur ostendere. Ea enim sola dividuntur quae pluribus communia sunt; his
enim unumquodque dividitur quorum est commune quorumque naturam ac
similitudinem continet. Illa vero in quae commune dividitur, communi natura
participant proprietasque communis rei his quibus communis est convenit. At
vero individuorum proprietas nulli communis est. Socratis enim proprietas, si
fuit caluus, simus, propenso aluo caeterisque corporis lineamentis aut morum
institutione aut forma vocis, non conveniebat in alterum; hae enim proprietates
quae ex accidentibus ei obuenerant eiusque formam figuramque coniunxerant, in
nullum alium conveniebant. Cuius autem proprietates in nullum alium conveniunt,
eius proprietates nulli poterunt esse commones, cuius autem proprietas nulli
communis est, nihil est quod eius proprietate participet. Quod vero tale est,
ut proprietate eius nihil participet, ƿ dividi in ea quae non participant, non
potest; recte igitur haec quorum proprietas in alium non convenit, individua nuncupantur.
At vero hominis proprietas, id est specialis, convenit et in Socratem et in
Platonem et in caeteros, quorum proprietates ex accidentibus venientes in
quemlibet alium singularem nulla ratione conveniunt. CONTINETUR IGITUR
INDIVIDUUM QUIDEM SUB SPECIE, SPECIES AUTEM SUB GENERE. TOTUM ENIM QUIDDAM EST
GENUS, INDIVIDUUM AUTEM PARS, SPECIES vero ET TOTUM ET PARS SED PARS QUIDEM
ALTERIUS, TOTUM AUTEM A NON ALTERIUS SED ALIIS; PARTIBUS ENIM TOTUM EST. DE
GENERE QUIDEM ET SPECIE ET QUID GENERALISSIMUM ET QUID SPECIALISSIMUM ET QUAE
GENERA EADEM ET SPECIES SUNT, QUAE ETIAM INDIVIDUA, ET QUOT MODIS GENUS ET
SPECIES DICITUR, SUFFICIENTER DICTUM EST. Hic retractat omnia breviter quae
supra latius absolvit dicens individuum ab specie contineri, species vero ipsas
a genere, huiusque causam reddens ait: OMNE ENIM GENUS TOTUM EST, INDIVIDUUM
PARS. Totum enim genus in eo quod genus est. Continet, tametsi species esse
potest; totum enim non ut genus species est sed ut ea quae supponitur generi.
Genus igitur in eo quod genus est, totum est speciebus, semper enim continet
eas. At vero individuum pars semper est, numquam ƿ enim ipsum aliquid sua
proprietate concludit. Species vero et totum est et pars, pars quidem generis,
totum vero individuis. Et cum pars est, ad singularitatem refertur, cum totum,
ad pluralitatem. Quoniam enim unum genus pluribus speciebus superest, una
quaelibet species pars est generis, id est unius, quoniam autem species
pluribus individuis praeest, non est uni individuo totum sed plurimis. Idcirco
enim totum dicitur, quia plura continet et cohercet. Nam ut pars sit aliquid,
una ipsa unius pars esse poterit, ut vero totum sit, unum ipsum unius totum
esse non poterit. Idcirco alterius quidem pars est species, aliis vero totum. Et
de genere quidem et specie dictum est et quid sit generalissimum genus, quoniam
id cui nullum aliud superponitur genus, et quid specialissima species, quoniam
ea cui species nulla supponitur, et quae genela eadem sunt, eadem et speries
scilicet subalterna quibus aliquid superponitur, aliquid vero supponitur, quae
etiam individua, ea scilicet quorum proprietates alteri nequeunt convenire, et
quot modis genus vel species dicitur, genus quidem aut in multitudine aut in
procreatione aut in participatione substantiae. Species vero aut ex figura aut
ex generis suppositione, sufficienter dictum est. Quibus absolutis modum
voluminis terminabo, ut quarti area libri differentiae reseruetur. De
differentia disputanti non aeque illud debet occurrere quod in generis
specieique tractatu de collocationis ordine quaerebatur. Illic enim meminimus
inquisitum, cur esset omnibus praepositum genus, ut id primum ad disputationem
veniret, cur post genus species esset iniecta, nunc vero superuacuum est
dicere, cur post speciem differentia sumpta sit, cum illud iam fuerit
inquisitum, cur non ante speciem collocata sit. Quodsi mirum videbatur speciem
differentiae in disputationis loco fuisse praepositam, quod differentia
continentior et magis amplior esset specie, quid est quod possit quisque
mirari, si eandem differentiam ante proprium atque accidens collocaverit, cum
proprium unius semper sit speciei, ut posterius demonstrabitur, accidens vero
exteriorem quandam ostendat naturam nec omnino in substantia praedicetur,
differentia vero utrumque contineat, et de pluribus speciebus et in substantia
praedicari? sed haec hactenus, nunc ad ipsa Porphyrii verba veniamus. DIFFERENTIA
VERO COMMUNITER ET PROPRIE ET MAGIS ƿ PROPRIE DICITUR. COMMUNITER QUIDEM
DIFFERRE ALTERUM AB ALTERO DICITUR, QUOD ALTERITATE QUADAM DIFFERT QUOCUMQUE
MODO VEL A SE IPSO VEL AB ALIO. DIFFERT ENIM SOCRATES A PLATONE ALTERITATE ET
IPSE A SE VEL PUERO VEL IAM viRO ET FACIENTE ALIQUID VEL QUIESCENTE ET SEMPER
IN ALIQUO MODO HABENDI ALTERITATIBUS. PROPRIE AUTEM DIFFERRE ALTERUM AB ALTERO
DICITUR, QUANDO INSEPARABILI ACCIDENTI AB ALTERO DIFFERT. INSEPARABILE VERO
ACCIDENS EST UT NASI CURUITAS, CAECITAS OCULORUM, CICATRIX, CUM ES UULNERE
OBCALLUERIT. MAGIS PROPRIE DIFFERRE ALTERUM AB ALTERO DICITUR, QUANDO SPECIFICA
DIFFERENTIA DISTITERIT, QUEMADMODUM HOMO AB EQUO SPECIFICA DIFFERENTIA DIFFERT
RATIONALI QUALITATE. Tribus modis aliud ab alio distare praediximus, genere,
specie, numero, in quibus omnibus aut secundum substantiales quasdam
differentias alia res distat ab alia aut secundum accidentes. Nam quae genere
vel specie distant, substantialibus quibusdam differentiis disgregata sunt,
idcirco quoniam genera et species quibusdam differentiis informantur. Nam quod
homo ab arbore genere distat, animalis sensibilis qualitas in eo differentiam
facit. Addita enim sensibilis qualitas ƿ animato animal facit, eidem detracta
facit animatum atque insensibile, quod virgulta sunt. Igitur homo atque arbor
genere differunt -- utraque enim sub animalis genere poni non possunt --
differentia sensibili secundum genus discrepant, quae unius ex propositis
tantum genus, id est hominis informat, ut dictum est. Illa vero quae specie
distant manifestum est quod ipsa quoque differentiis substantialibus
discrepant, ut homo atque equus differentiis substantialibus discrepant,
rationabilitate atque irrationabilitate. Ea vero quae individua sunt et solo
numero discrepant, solis accidentibus distant. Haec autem sunt vel separabilia
vel inseparabilia, separabilia quidem, ut moveri, dormire; distat enim alius ab
alio, quod ille somno prematur, hic vigilet. Distat item inseparabilibus
accidentibus, quod hic staturae sit longioris, hic minimae. Quae cum ita sint,
in ternarium numerum has differentiarum diversitates Porphyrius colligit hisque
ipse nomina quibus post utatur, apponit dicens: OMNIS DIFFERENTIA VEL
COMMUNITER VEL PROPRIE VEL MAGIS PROPRIE NUNCUPATUR, communiter quidem eam
differentiam sumens quae quodlibet accidens monstret, quae in quadam alteritate
consistit, ut si Plato a Socrate differat, quod ille sedeat, hic ambulet, vel
quod ille sit senex, hic ƿ ivvenis. A se ipso etiam saepe aliquis differre
potest, ut si nunc quidem faciat aliquid, cum ante quieuerit, vel si nunc
adulescens iam factus sit, cum prius tenera vixisset infantia. Communes autem
differentiae nuncupatae sunt, quoniam nullius propriae esse possunt
differentiae sed separabilia accidentia sola significant. Nam et stare et
sedere et facere aliquid ac non facere multorum atque adeo omnium et
separabilia esse accidentia manifestum est. Quibus si qui differunt, communibus
differentiis distare dicuntur. Praeterea puerum esse atque adulescentem vel
senem, ea quoque separabilia sunt accidentia. Nam ex pueritia ad adulescentiam
atque hinc ad senectutem, ab hac denique ad decrepitam usque aetatem naturae
ipsius necessitate progredimur. Illud forsitan sit dubitabile de uniuscuiusque
forma corporis, an ullo modo separari queat. Sed ea quoque est separabilis,
nullius enim diuturna ac stabilis forma perdurat. Idcirco nec peregrinus pater
relictum domi puerum, si adulescentem redux viderit, possit agnoscere; forma
enim semper quae ante fuerat, permutatur atque ipsa alteritas qua distamus ab
altero, semper diversa est. Constat igitur hanc communem differentiam
separabilibus maxime accidentibus applicari, propria vero est quae
inseparabilia significat accidentia. Ea huiusmodi sunt, ut si quis caecis
nascatur oculis, si quis incuruo naso; dum enim adest nasus atque oculi, ille
caecus, ille erit semper incuruus. Atque haec per naturam. Sunt vero alia quae
per accidens corporibus fiunt, ut si cui uulnus ƿ inflictum cicatrice fuerit
obductum, haec si obcalluerit. Propriam differentiam facit; distabit enim alter
ab altero, quod hic cicatricem habeat, ille vero minime. Postremoque in his
omnibus vel separabilibus accidentibus vel inseparabilibus alia sunt
naturaliter accidentia, alia extrinsecus, naturaliter quidem ut pueritia vel
ivuentus et totius conformatio corporis, sic caeci oculi et curuitas nasi. Et
superiora quidem exempla separabilis accidentis per naturam sunt, posteriora vero
inseparabilis. Item extrinsecus vel ambulare vel currere; id enim nou natura
sed sola affert voluntas, natura vero posse tantum dedit, non etiam facere. Atque
haec sunt separabilis accidentis extrinsecus venientis exempla, illa vero
inseparabilis, ut si qua cicatrix obducta uulneri obcalluerit. Magis propriae
autem differentiae praedicantur, quae non accidens sed substantiam formant, ut
hominis rationabilitas; differt enim homo a caeteris, quod rationalis est vel
quod mortalis. Hae sunt igitur magis propriae, quae monstrant uniuscuiusque
substantiam. Nam si illae quidem idcirco communes dicuntur, quia separabiles
atque omnium sunt, aliae autem propriae. Quoniam separari non possunt, quamvis
sint in accidentium numero, illae iure magis propriae praedicantur, quae non
modo a subiecto separari non possunt, verum subiecti ipsius speciem
substantiamque perficiunt. Ex his igitur tribus differentiarum diversitatibus,
id est communibus, propriis ac magis propriis, fiunt secundum genus vel speciem
vel numerum discrepantiae. Nam ex communibus et propriis secundum numerum
distantiae nascuntur, ex magis propriis vero secundum genus ac speciem. UNIVERSALITER
ERGO OMNIS DIFFERENTIA ALTERATUM FACIT CUILIBET ADVENIENS SED EA QUAE EST
COMMUNITER ET PROPRIE, ALTERATUM FACIT, ILLA AUTEM QUAE EST MAGIS PROPRIE,
ALIUD. DIFFERENTIARUM ENIM ALIAE QUIDEM ALTERATUM FACIUNT, ALIAE VERO ALIUD.
ILLAE QUIDEM QUAE FACIUNT ALIUD, SPECIFICAE VOCANTUR, ILLAE VERO QUAE
ALTERATUM, SIMPLICITER DIFFERENTIAE. ANIMALI ENIM DIFFERENTIA ADVENIENS RATIONALIS
ALIUD FECIT ET SPECIEM ANIMALIS FECIT, ILLA VERO QUAE EST MOVENDI, ALTERATUM
SOLUM A QUIESCENTE FECIT; QUARE HAEC QUIDEM ALIUD, ILLA VERO ALTERATUM SOLUM
FECIT. Omnis differentia alterius ab altero distantiam facit. Sed haec vel est
communis et continens vel cum quodam proprio et magis proprio differentiarum
modo. Quare quicquid qualibet ratione ab alio diversum est, alteratum esse
dicitur. Si vero accesserit illi diversitati ut etiam specifica quadam
differentia sit diversum, non alteratum solum, verum etiam aliud esse
praedicatur. Alteratio igitur continens est, aliud vero intra alterationis
spatium continetur; nam et quod aliud est, alteratum est sed nou omne quod
alteratum est, aliud dici potest. Itaque si accidentibus aliquibus fuerit facta
diversitas, alteratum ƿ quidem effectum est, quoniam quidem quolibet modo vel
ex quibuslibet differentiis considerata diversitas alterationem facit
intellegi, aliud vero non fit, nisi substantiali differentia alterum ab altero
fuerit dissociatum. Itaque communes et propriae differentiae, quoniam
accidentium, ut dictum est, sunt, solum efficiunt alteratum. Aliud vero minime,
magis propriae autem, quoniam substantiam tenent et in subiecti forma
prnedicantur, non modo alteratum, quod est commune vel substantiali vel
accidenti differentiae sed etiam aliud faciunt, quod ea sola retinet
differentia quae substantiam continet formamque suhiecti. Atque ilae quidem
differentiao quae faciunt aliud, specificab nuncupantur idcirco, quod ipsae
efficiunt speciem; quam cum substantialibus differentiis informaverint, faciunt
ab aliis ita esse diversam, ut non aiterata solum sit, verum etiam tota alia
praedicetur. Itaque fit huiusmodi divisio, differentiarum ut aliae alteratum
faciant, aliae vero aliud. Et illae quidem quae faciunt alteratum, simpliciter
pro nomine differentiae nuncupantur, illae vero quae aliud, specificae differentiae
praedicantur. Atque, ut planius liqueat quid sit alteratum, quid aliud, tali
describuntur termino vel declarantur exemplo: aliud est quod tota speciei
ratione diversum est, ut equus ab homine, quoniatll rationalis differentia
animali advenieus hominem fecit aliudque eum quam equum esse constituit. Item
si unus homo sedeat, alter assistat, non efficietur homo diversus ab homine sed
eos alteratio sola disiungit, ut eum qui assistit ab eo qui ƿ sedet faciat
alteratum. Item si ille sit nigris oculis, ille caesiis, nihil, quantum ad
formam humanitatis attinet, permutatum est. Ita secundum has differentias
alteratio sola consistit. At si equus quidem iaceat, homo vero ambulet, et
aliud est equus ab homine et alteratum, dupliciter quidem alteratum, semel vero
aliud. Alteratum est enim, vel quod omnino specie diversum est -- et est aliud;
omne enim aliud, ut dictum est, etiam alteratum est -- vel quod accidentibus
distat, quod ille iaceat, hic ambulet, semel vero est aliud, quod rationabili
atque irrationabili differentiis disgregatur, quae specificae sunt et
substantiales dicuntur. Est igitur alteratum quod ab alio qualibet ratione
diversum est. SECUNDUM IGITUR ALIUD FACIENTES DIVISIONES FIUNT A GENERIBUS IN
SPECIES ET DEFINITIONES ASSIGNANTUR, QUAE SUNT EX GENERE ET HUIUSMODI
DIFFERENTIIS, SECUNDUM AUTEM EAS QUAE SOLUM ALTERATUM FACIUNT, ALTERATIO SOLA
CONSISTIT ET ALIQUO MODO SE HABENDI PERMUTATIONES. Quoniam in principio operis
huius generis, speciei, differentiae, ƿ proprii accidentisque notitiam ad
divisionem atque ad definitionem utilem esse praedixit, idcirco nunc
differentiarum ipsarum facta divisione easdem partitur et segregat, quaenam
differentiae divisionibus ac definitionibus accommodentur, quae vero minime.
Quoniam igitur divisio generis ita in species facienda est, ut illae a se
species omni substantiae ratione diversae sint, idcirco non probat assumendas
esse eas ad divisionem differentias quae vel separabilis vel inseparabilis
accidentis significationem tenent, idcirco quoniam, ut dictum est, solum
faciunt alteratum, aliud vero perficere et informare non possunt. Inutiles
igitur sunt ad divisionem hae differentiae quae faciunt alteratum. Segregandae
igitur sunt communes et propriae a generis divisione, illae assumendae tantum
quae sunt magis propriae. Illae enim faciunt aliud, quod generis divisio
videtur exposcere. Ad definitionem quoque eaedem magis propriae plurimum
valent, communes et propriae velut inutiles segregantur; communes enim et
propriae, quoniam accidens diversi generis ferunt, nihil substantiae ratione
conformant, definitio vero omnis substantiam conatur ostendere. Specificae vero
differentiae illae sunt quae, ut superius dictum est, speciem informant
substantiamque perficiunt; hae sunt magis propriae. Eaedem igitur sicut in
divisionem, ita etiam in definitionem assumuntur. ut enim dictum est, eaedem
differentiae ƿ nunc quidem constitutivae ad definitionem specierum sunluntur,
nunc divisivae ad partitionem generis accommodantur. Ita igitur cum divisivae
sunt generis, aliud constituunt. In substantiae vero definitione speciei
informationem faciunt, cumque magis propriae et aliud faciant et specificae
sint, eo quidem quo aliud faciunt. Divisionibus aptae sunt. Eo vero quo speciem
informant. Definitionibus accommodatae sunt. Communes autem et propriae quoniam
neque aliud faciunt sed alteratum, neque omnino substantiam monstrant, aeque a
divisione ut a definitione disiunctae sunt. A SUPERIORIBUS ERGO RURSUS
INCHOANTI DICENDUM EST DIFFERENTIARUM ALIAS QUIDEM ESSE SEPARABILES, ALIAS VERO
INSEPARABILES. MOVERI ENIM ET QUIESCERE ET SANUM ESSE ET AEGRUM ET QUAECUMQUE
HIS PROXIMA SUNT, SEPARABILIA SUNT, AT VERO AQUILUM ESSE VEL SIMUM VEL RATIONALE
VEL IRRATIONALE INSEPARABILIA. IN SEPARABILIUM AUTEM ALIAE QUIDEM SUNT PER SE,
ALIAE ƿ VERO PER ACCIDENS; NAM RATIONALE PER SE INEST HOMINI ET MORTALE ET
DISCIPLINAE ESSE PERCEPTIBILE, AT VERO AQUILUM ESSE VEL SIMUM SECUNDUM ACCIDENS
ET NON PER SE. Superius differentias triplici divisione partitus est dicens aut
communes esse aut proprias aut magis proprias, dehinc easdem alia divisione in
duas secuit partes dicens has quidem aliud facere, illas vero alteratum. Nunc
tertiam earum quidem facit divisionem dicens alias esse separabiles, alias
inseparabiles, posse autem de unoquoque cuius multae sunt differentiae,
plurimas fieri divisiones ex ipsa differentiarum natura manifestum est. Nam si
omnis divisio differentiis distribuitur quorum multae sunt differentiae, multas
etiam divisiones esse necesse est. Fit autem ut animal dividatur quidem hoc
modo: animalis alia quidem sunt rationabilia, alia irrationabilia, item alia
mortalia, alia immortalia; item alia pedes habentia, alia minime; rursus alia
herbis uescentia, alia carnibus, alia seminibus. Ita nihil mirum videri debet,
si multiplex differentiae est facta partitio. Ac primum quidem cum in ternarium
numerum differentiae membra secuisset, communes et proprias et magis proprias
nuncupavit. Secunda vero divisio communes et proprias intra nomen alteratum
facientis inclusit, magis proprias vero intra aliud facientis. Haec vero tertia
divisio, quae ait DIFFERENTIARUM ALIAS ESSE SEPARABILES, ALIAS INSEPARABILES, unam
quidem ex alteratum facientibus separabilibus differentiis adiungit, caeteras
vero intra inseparabilis differentiae vocabulum claudit. Una quidem ex
alteratum facientibus, id est propria differentia, et reliqua quae aliud facere
demonstrata est, id est magis propria, inseparabiles differentiae esse dicuntur.
F quarum subdivisio fit. Inseparabilium differentiarum aliae sunt per se, aliae
secundum accidens, per se quidem magis propriae, secundum accidens vero
propriae. Per se autem aliquid inesse dicitur quod alicuius substantiam
informat. Si enim idcirco quaelibet species est, quoniam substantiali
differentia constituitur, illa differentia per se subiecto adest neque per
accidens aut per quodlibet aliud medium sed sui praesentia speciem quam tuetur
informat, ut hominem rationabilitas, homini enim huiusmodi differentia per se
inest, idcirco enim homo est, quia ei rationabilitas adest; quae si
discesserit, species hominis non manebit. Et has quidem quae substantiales
sunt, inseparabiles esse nullus ignorat; separari enim a subiecto non poterunt,
nisi interempta sit natura subiecti. Secundum accidens vero inseparabiles
differentiae sunt hae quae propriae nuncupantur, ut aquilum esse vel simum;
quae idcirco per accidens nuncupantur, quoniam iam constitutae speciei
extrinsecus accidunt nihil subiecti substantiae commodantes. ILLAE IGITUR QUAE
PER SE SUNT, IN SUBSTANTIAE ƿ RATIONE ACCIPIUNTUR ET FACIUNT ALIUD, ILLAE VERO
QUAE SECUNDUM ACCIDENS, NEC IN SUBSTANTIAE RATIONE DICUNTUR NEC FACIUNT ALIUD
SED ALTERATUM. ET ILLAE QUIDEM QUAE PER SE SUNT, NON SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS,
ILLAE vero QUAE PER ACCIDENS, VEL SI INSEPARABILES SINT, INTENTIONEM RECIPIUNT
ET REMISSIONEM; NAM NEQUE GENUS MAGIS AUT MINUS PRAEDICATUR DE EO CUIUS FUERIT
GENUS, NEQUE GENERIS DIFFERENTIAE, SECUNDUM QUAS DIVIDITUR; IPSAE ENIM SUNT
QUAE UNIUSCUIUSQUE RATIONEM COMPLENT, ESSE AUTEM UNI CUIQUE UNUM ET IDEM NEQUE
INTENTIONEM NEQUE REMISSIONEM SUSCIPIENS EST, AQUILUM AUTEM ESSE VEL SIMUM VEL
COLORATUM ALIQUO MODO ET INTENDITUR ET REMITTITUR. Differentiis rite partitis
earum inter se distantiam monstrat atque unam quidem repetit quam superius
dixit. Cum enim tres esse dixisset differentias, communes, proprias, magis
proprias, alteratum facere dixit proprias, sicut etiam communes, aliud mimme
sed hoc solis magis propriis reservavit. Nunc igitur idem repetit dicens
quoniam inseparabiles differentiae quae substantiam monstrant, id est quae per
se subiectis speciebus insunt easque perficiunt, aliud faciunt, illae vero ƿ
quae sunt propriae, id est secundum accidens inseparabiles differentiae, neque
in substantia insunt nec aliud faciunt sed tantum, ut superius dictum est,
alteratum. Item alia distantia est earum differentiarum quae secundum
substantiam sunt, ab his quae secundum accidens, quoniam quae substantiam
monstrant, intendi aut remitti non possunt, quae vero sunt secundum accidens,
et intentione crescunt et remissione decrescunt. Id autem probatur hoc modo.
Unicuique rei esse suum neque crescere neque deminui potest; nam qui homo est,
humanitatis suae nec crementa potest nec detrimenta suscipere. Nam neque ipse a
se plus aut minus hodie vel quolibet alio tempore homo esse potest nec homo
rursus ab alio homine plus homo potest esse vel animal. Utrique enim aequaliter
animalia, aequaliter homines esse dicuntur. Quodsi uni cuique esse suum nec
cremento ampliari potest nec inminutione decrescere, quod per id facile
monstrari potest, quoniam quae genera sunt vel species. Nulla intentione vel
remissione variantur, non est dubium quin differentiae quoque, quae
uniuscuiusque speciei substantiam formant, nec remissionis detrimenta
suscipiant nec intentionis augmenta. Itaque substantiales differentiae neque
intentionem neque remissionem suscipiunt. Huius causa haec est. Quoniam esse
unicuique unum et idem est, et intentionem remissionemue non suscipit huius
exemplum. Genus ƿ enim dici non potest plus minusue cuilibet genus; omnibus
enim genus aequaliter superponitur. Differentiae quoque quae dividunt genus et
informant speciem, quoniam speciei essentiam complent, nec intentionem
recipiunt nec remissionem. Quae vero secundum accidens differentiae sunt
inseparabiles, ut aquilum esse vel simum vel coloratum aliquo modo, et
intentionem suscipiunt et remissionem. Fieri enim potest ut hic paulo sit
nigrior, hic vero amplius simus, ille minus aquilus, at vero quod non omnes
homines aequaliter rationales mortalesque sint nec specierum nec differentiarum
natura videtur admittere. CUM IGITUR TRES SPECIES DIFFERENTIAE CONSIDERENTUR ET
CUM HAE QUIDEM SINT SEPARABILES, ILLAE VERO INSEPARABILES, ET RURSUS INSEPARABILIUM
CUM HAE QUIDEM SINT PER SE, ILLAE VERO PER ACCIDENS, RURSLLS EARUM QUAE SUNT
PER SE DIFFERENTIARUM ALIAC QUIDEM SUNT SECUNDUM QUAS DIVIDIMUS GENERA IN
SPECIES, ALIAE VERO SECUNDUM QUAS EA QUAE DIVISA SUNT SPECIFICANTUR, UT CUM PER
SE DIFFERENTIAE OMNES HUINSMODI SINT, ANIMATI ET INANIMATI, ƿ SENSIBILIS ET
INSENSIBILIS, RATIONALIS ET IRRATIONALIS, MORTALIS ET IMMORTALIS, EA QUIDEM
QUAE EST ANIMATI ET SENSIBILIS DIFFERENTIA. CONSTITUTIVA EST SUBSTANTIAE
ANIMALIS -- EST ENIM ANIMAL SUBSTANTIA ANIMATA SENSIBILIS -- EA VERO QUAE EST
MORTALIS ET IMMORTALIS DIFFERENTIA ET RATIONALIS ET IRRATIONALIS, DIVISIVAE
SUNT ANIMALIS DIFFERENTIAE; PER EAS ENIM GENERA IN SPECIES DIVIDIMUS. Fit nunc
differentiarum plena et suprema divisio, quae est huiusmodi. Differentiarum
aliae sunt separabiles, aliae inseparabiles, inseparabilium aliae sunt secundum
accidens, aliae substantiales. Substantialium aliae sunt divisibiles generis,
aliae constitutivae specierum. Quod vero ait: CUM IGITUR TRES SPECIES
DIFFERENTIAE CONSIDERENTUR, ad hoc retulit, quod in prima differentiarum
divisione partim eas communes esse, partim proprias, partim magis proprias
disit, quas rursus tres differentias alias separabiles esse monstravit, alias
inseparabiles, separabiles quidem commlmes, inseparabiles vero proprias ac
magis proprias. Inseparabilium vero fecit divisionem dicens alias esse secundum
accidens, quae propriae nuncupantur, magis proprias vero secundum substantiam
considerari. Earum vero quae secundum substantiam sunt, subdivisionem facit, quod
ƿ aliae earum genus dividant, aliae speciem informent. Ad cuius rei facilem
cognitionem illa tertii libri specierum generumque dispositio transcribatur.
Sitque primum substantia, sub hac corporeum atque incorporeum, sub corporeo
animatum atque inanimatum, sub animato sensibile atque insensibile, sub quo
animal, sub animali rationale atque irrationale, sub rationali mortale atque
immortale et sub mortali species hominis, quae solis deinceps individuis
praeponatur. In hac igitur divisione omnes hae differentiae specificae
nuncupantur, generum enim specierumque differentiae sunt sed generum quidem
divisivae, specierum autem constitutivae. Id autem probatur hoc modo.
Substantiam quippe corporei atque incorporei differentiae partiuntur, corporeum
vero animati atque inanimati, animatum sensibilis atque insensibilis. Ita
igitur genera substantiales differentiae partiuntur et dicuntur generum divisivae.
At velo si eaedem differentiae quae a genere descendentes genus dividunt,
colligantur et in unum quae possunt iungi copulentur, species informatur. Nam
cum animal species sit substantiae -- omnia enim superiora de inferioribus
praedicantur et quicquid inferius fuerit, species erit etiam superioris --
animatum tamen atque ƿ sensibile quae sunt differentiae, si referantur ad
genera, divisivae sunt, constitutivae vero fiunt animalis eiusque substantiam
formant atque constituunt definitionemque conformant, ut sit animal substantia
animata sensibilis. Substantia quidem genus, animatum vero atque sensibile
eiusdem differentiae constitutivae. Item animal rationabilitas atque
irrationabilitas dividit, mortali etiam atque immortali dividitur sed iuncta
rationabilitas atque mortalitas, quae animalis divisivae fuerant, fiunt hominis
constitutivae eiusque perficiunt speciem atque omnem eius rationem definitionis
informant atque perficiunt. At si irrationabilitas cum mortalitate iungatur,
fiet equus aut quodlibet animal, quod ratione non utitur, rationabilitas vero
atque immortalitas copulatae dei substantiam informant. Ita eaedem differentiae
cum referuntur ad genera, divisivae generum fiunt, si vero ad inferiores
species considerentur, informant species earumque substantiam convenienti
copulatione constituunt. In hoc quaesitum est, quemadmodum dicerentur esse hae
differentiae ƿ specierum constitutivae, cum irrationabilis differentia atque
immortalis nullam speciem videantur efficere. Respondemus primum quidem placere
Aristoteli caelestia corpora animata non esse: quod velo animatum non sit,
animal esse non posse; quod vero non sit animal, nec rationale esse concedi.
Sed eadem corpora propter simplicitatem et perpetuitatem motus aeterna esse
confirmat. Est igitur aliquid quod ex duabus his differentiis conficiatur,
irrationabili scilicet atque immortali. Quodsi magis cedendum Platoni est et
caelestia corpora animata esse credendum, nullum quidem his differentiis potest
esse subiectum -- quicquid enim irrationabile est corruptioni subiacens et
generationi, immortale esse non poterit -- sed tamen hae differentiae, quoniam
substantialium differentiarum in numero sunt, si iungi ullo modo potuissent,
earum naturam et speciem quoque possent efficere. Atque ut intellegatur, quae
sit haec potentia effieiendae substantiae specieique formandae respiciamus ad
proprias atque communes, quae tametsi iungantur, speciem substantiamque nulla
ratione constituunt. Si quis enim loquatur ambulans, quae sunt duae communes
differentiae, vel si albus ac longus, num idcirco isdem eius substantia
constituitur? Minime. Cur? Quia non eiusdem sunt generis, quae alicuius possint
constituere et conformare substantiam. ƿ Ita igitur hae, id est irrationale
atque immortale, etiamsi subiectum aliquod habere non possunt, possent tamen
substantiam efficere, si ullo modo iungi copularique potuissent. Praeterea
irrationale iunctum cum mortali substantiam pecudis facit: est igitur
constitutiva irrationalis differentia. Item immortale ac rationale coniuncta
efficiunt deum: est igitur immorlale quod speciem formet. Quodsi inter se iungi
nequeunt, non idcirco quod in natura earum est, abrogatur. SED HAE QUIDEM QUAE
DIVISIVAE SUNT DIFFERENTIAE GENERUM, COMPLETIVAE FIUNT ET CONSTITUTIVAE
SPECIERUM; DIVIDITUR ENIM ANIMAL RATIONALI ET IRRATIONALI DIFFERENTIA ET RURSUS
MORTALI ET IMMORTALI DIFFERENTIA. SED EA QUAE EST RATIONALIS DIFFERENTIA ET
MORTALIS, CONSTITUTIVAE FIUNT HOMINIS, RATIONALIS VERO ET IMMORTALIS. DEI,
ILLAE vero QUAE SUNT IRRATIONALIS ET MORTALIS, IRRATIONABILIUM ANIMALIUM. SIC
ETIAM ET SUPREMAE SUBSTANTIAE CUM DIVISIVA SIT ANIMATI ET INANIMATI DIFFERENTIA
ET SENSIBILIS ET INSENSIBILIS, ANIMATA ET SENSIBILIS CONGREGATAE AD SUBSTANTIAM
ANIMAL PERFECERUNT. Geminum differentiarum usum esse demonstrat, unum quidem
quo genera dividuntur, alium vero quo species informantur; neque enim hoc solum
differentiae faciunt, ut genera partiantur, verum etiam dum genera dividunt,
species in quas genera deducuntur efficiunt. Itaque quae divisivae sunt
generum, fiunt constitutivae specierum, huiusque rei illud exemplum est quod
ipse subiecit: animalis quippe differentiae sunt divisivae rationale atque
irrationale, mortale atque immortale, his enim praedicatio diniditur animalis.
Omne enim quod animal est, aut rationale aut irrationale aut mortale aut
immortale est. Sed istae differentiae quae dividunt genus quod est animal
speciei substantiam formam quae constituunt. Nam cum sit homo animal, efficitur
rationali mortalique differentiis, quae dudum animal partiebantur. Item cum sit
equus animal, irrationali mortalique differentiis constituitur, quae dudum
animal dividebant. Deus autem cum sit animal, ut de sole dicamus. Rationali
immortalique efficitur differentiis, quas dividere genus habita partitio paulo
ante monstravit. Sed hic, ut diximus deum corpoleum intellegi oportet, ut solem
et caelum caeteraque huiusmodi, quae cum animata et rationabilia Plato esse
confirmat, tum in deorum vocabulum antiquitatis veneratione probantur assumpta,
de primo quoque genere, id est substantia demonstrantur venire. Nam cum eius
divisivae sint differentiae ƿ animatum atque inanimatum, sensibile atque
insensibile, iunctae differentiae sensibilis atque animati efficiunt
substantiam animatam atque sensibilem, quod est animal. Iure igitur dictum est,
quae divisivae sunt differentiae generum, easdem esse constitutivas specierum. QUONIAM
ERGO EAEDEM ALIQUO MODO QUIDEM ACCEPTAE FIUNT CONSTITUTIVAE, ALIQUO MODO AUTEM
DIVISIVAE, SPECIFICAE OMNES VOCANTUR. ET HIS MAXIME OPUS EST AD DIVISIONES
GENERUM ET DEFINITIONES SED NON HIS QUAE SECUNDUM ACCIDENS INSEPARABILES SUNT,
NEC MAGIS HIS QUAE SUNT SEPARABILES. Omnes a genere differentias procedentes
genus ipsum a quo procedunt, dividere nullus ignorat. Ipsae autem quae dividunt
genus, si ad posteriores species applicentur, informant substantias easque
perficiunt. Eaedem igitur sunt constitutivae specierum, eaedem divisibiles generum,
alio tamen modo atque alio consideratae, ut si ad genus relatae quidem in
contrariam divisionem spectentur, divisibiles generis inveniuntur, si vero
iunctae aliquid efficere possint, specierum constitutivae sunt. Quae cum ita
sint, hae differentiae quae genus dividunt, rectissime divisivae
nominanturÑquae enim constitumlt speciem, specificae sunt sed constituunt
speciem hae differentiae quae ƿ sunt generis divisivae Ñ eaedemque sunt
specierum constitutivae. Quare iure quae generum divisivae sunt et quae
specierum constitutivae, specificae nuncupantur. Has igitur in divisione
generis et in definitione specierum accipi oportere manifestum est. Quoniam
enim divisivae sunt, per eas dividi oportet genus, quoniam autem constitutivae,
per eas species definiri; quibus enim unumquodque constituitur, isdem etiam
definitur. Constituitur autem species per differentias generis divisivas, quae
sunt specificae. Iure igitur specificae solae et in generis divisione et in
specierum definitione ponuntur. Et de specificis quidem haec ratio est, de his
autem quae vel separabilia vel inseparabilia continent accidentia, nihil in
generum divisione vel definitione specierum poterit assumi, idcirco quoniam
quae divisibiles sunt, substantiam generis dividunt, et quae constitutivae
sunt. Substantiam speciei constituunt. Quae vero sunt inseparabilia accidentia,
nullius substantiam informant. Unde fit ut multo minus separabilia accidentia
ad divisiones generum vel specierum definitiones accommodentur; omnino enim
dissimiles sunt substantialibus differentiis. Nam inseparabilia accidentia hoc
fortasse habent commune cum specificis, hoc est substantialibus differentiis,
quod aeque subiectum non relinquunt, sicut nec specificae differentiae.
Separabilia autem accidentia ne hoc quidem; separari ƿ enim possunt, nec tantum
potestate et mentis ratiocinatione sed actus etiam praesentia, et omnino
veniendi vel discedendi varietatibus permutantur. QUAS ETIAM DETERMINANTES
DICUNT: DIFFERENTIA EST QUA ABUNDAT SPECIES A GENERE. HOMO ENIM AB ANIMALI PLUS
HABET RATIONALE ET MORTALE: ANIMAL ENIM NEQUE IPSUM NIHIL HORUM EST -- NAM UNDE
HABEBUNT SPECIES DIFFERENTIAS? -- NEQUE ENIM OMNES OPPOSITAS HABET -- NAM IN
EODEM SIMUL HABEBUNT OPPOSITA -- SED, QUEMADMODUM PROBANT, POTESTATE QUIDEM
OMNES HABET SUB SE DIFFERENTIAS, ACTU VERO NULLAM. AC SIC NEQUE EX HIS QUAE NON
SUNT, ALIQUID FIT NEQUE OPPOSITA CIRCA IDEM SUNT. Specificas differentias
definitione concludit dicens substantiales differentias a quibusdam tali
descriptionis ratione finiri: DIFFERENTIA SPECIFICA EST QUA ABUNDAT SPECIES A
GENERE. Sit enim genus animal, species homo: habet igitur homo differentias in se,
quae eum constituunt, rationale atque mortale; omnis enim species constitutivas
formae suae differentias in se retinet nec praeter illas esse potest, quarum
congregatione perfecta est. Si igitur animal quidem solum genus est, homo vero
est animal rationale mortale, plus habet homo ab animali id quod rationale est
atque mortale. Quo igitur abundat species ƿ a genere, id est quo superat genus
et quo plus habet a genere, hoc est specifica differentia. Sed huic definitioni
quaedam quaestio videtur occurrere habens principium ex duabus per se
propositionibus votis, una quidem, quoniam duo contraria in eodem esse non
possunt, alia vero, quoniam ex nihilo nihil fit. Nam neque contraria pati sese
possunt, ut in eodem simul sint, nec aliquid ex nihilo fieri potest; omne enim
quod fit, habet aliquid unde effici possit atque formari. Quae propositiones
talem faciunt quaestionem. Dictum est differentiam esse id qua plus haberet
species a genere. Quid igitur? Dicendum est genus eas differentias quas habent
species, non habere? Et unde habebit species differentias quas genus non habet?
Nisi enim sit unde veniant, differentiae in speciem venire non possunt. Quodsi
genus quidem has differentias non habet, species autem habet, videntur ex
nihilo differentiae in speciem comlenisse et factum esse aliquid ex nihilo,
quod fieri non posse superius dicta propositio monstravit. Quod si differentias
omnes genus continet, differentiae autem in contraria dissoluuntur, fiet ut
rationabilitatem atque irrationabilitatem, mortalitatem atque immortalitatem
simul habeat animal, quod est genus, et erunt in eodem bina contraria, quod
fieri non potest. Neque enim sicut in corpore solet esse alia pars alba, alia
nigra, ita fieri in genere potest; genus enim per se consideratum partes non
habet, nisi ad species referatur. Quicquid igitur habet, non partibus sed tota
sui magnitudine retinebit. Nec illud dubium est, quin in partibus suis genus
habeat ƿ contrarietates, ut animal in homine rationabilitatem, in bove
contrarium. Sed nunc non de speciebus quaerimus, de quibus constat sed an ipsum
per se genus eas differentias quas habent species, habere possit atque intra
suae substantiae ambitum continere. Hanc igitur quaestionem tali ratione
dissolvimus. Potest quaelibet illa res id quod est non esse sed alio modo esse,
alio vero non esse, ut Socrates cum stat, et sedet et non sedet sedet quidem
potestate, actu vero non sedet. Cum enim stat, manifestum est eum pon agere
sessionem sed potius standi immobilitatem. Sed rursus cum stat sedet, non quia
iam sedet sed quia sedere potest; ita actu quidem non sedet, potestate vero
sedet. Et ouum animal est et non est animal. Non est quidem animal actu, adhuc
namque ouum est nec ad animalis processit vivificationem sed idem tamen est
animal potestate, quia potest effici animal, cum formam ac spiritum
vivificationis acceperit. Ita igitur genus et habet has differentias et non
habet, non habet quidem actu sed habet potestate. Si enim ipsum per se animal
consideretur, differentias non habebit; si autem ad species reducatur, habere
potest sed distributim atque ut eius speciebus separatim nihil possit evenire
contrarium. Ita ipsum genus si per se consideretur, ƿ differentiis caret; quod
si ad species referatur, per distributas species vel in partibus suis contraria
retinebit, atque ita nec ex nihilo venerunt differentiae quas genus retinet
potestate nec utraque contraria in eodem sunt, cum contrarias differentias in
eo quod dicitur genus, actu non habet: impossibilitas enim eius propositionis
quae dicit contraria in eodem esse non posse, in eo consistit quod contraria
actu in eodem esse non possunt. Nam potestate et non actu duo contraria in
eodem esse nihil impedit. Quae vero nos contraria diximus, Porphyrius opposita
nuncupavit. Est enim genus contrarii oppositum; omnia enim contralia, si
sibimet ipsis considerantur, opposita sunt. DEFINIUNT AUTEM EAM ET HOC MODO:
DIFFERENTIA EST QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE IN EO QUOD QUALE SIT
PRAEDICATUR; RATIONALE ENIM ET MORTALE DE HOMINE PRAEDICATUM IN EO QUOD QUALE
QUIDDAM EST HOMO DICITUR SED NOLL IN EO QUOD QUID EST. QUID EST ENIM HOMO
INTERROGATIS NOBIS CONVENIENS EST DICERE ANIMAL, QUALE AUTEM ANIMAL INQUISITI,
QUONIAM RATIONALE ET MORTALE EST, CONVENIENTER ASSIGNABIMUS. Tres sunt
interrogationes ad quas genus, species, differentia, proprium atque accidens
respondetur, haec autem sunt: quid sit, quale sit, quomodo se habeat. Nam si
quis interroget: quid est Socrates? Responderi per genus ac speciem convenit
aut animal aut homo. Si quis quomodo se habeat Socrates interroget, iure
accidens respondebitur, id est aut sedet aut legit aut caetera. Si quis vero
qualis sit Socrates interroget, aut differentia aut proprium aut accidens
respondebitur, id est vel rationalis vel risibilis vel caluus. Sed in proprio
quidem illa est observatio, quod illud proprium dici potest quod de una specie
praedicatur, accidens vero tale est quod qualitatem designet quae non
substantiam significet, differentia vero talis est quae substantiam demonstret.
Interrogati igitur qualis unaquaeque res sit, si volumus reddere substantiae
qualitatem, differentiam praedicamus. Quae differentia numquam de una tantum
specie praedicatur, ut mortale vel rationale sed de pluribus. Quod igitur de
pluribus speciebus inter se differentibus praedicatur ad eam interrogationem,
quae quale sit id de quo quaeritur interrogat, ea est differentia cuius talem
posuit definitionem: DIFFERENTIA EST QUOD DE PLURIBUS ƿ SPECIE DIFFERENTIBUS IN
EO QUOD QUALE SIT PRAEDICATUR. Cuius definitionis causam rationemque
pertractans ait: REBUS ENIM EX MATERIA ET FORMA CONSTANTIBUS VEL AD
SIMILITUDINEM MATERIAE ET FORMAE CONSTITUTIONEM HABENTIBUS, QUEMADMODUM STATUA
EX MATERIA EST AERIS, FORMA AUTEM FIGURA. SIC ET HOMO COMMUNIS ET SPECIALIS EX
MATERIA QUIDEM SIMILITER CONSISTIT GENERE, EX FORMA AUTEM DIFFERENTIA, TOTUM
AUTEM HOC ANLMAL RATIONALE MORTALE HOMO EST, QUEMADMODUM ILLIC STATUA. Dixit
superius differentias esse quae in qualitate speciei praedicarentur, nunc autem
causas exequitur, cur speciei qualitas differentia sit. Omnes, inquit, res vel
ex materia formaque consistunt vel ad similitudinem materiae atque formae
substantiam sortiuntur. Ex materia quidem formaque subsistunt ƿ omnia
quaecumque sunt corporalia; nisi enim sit subiectum corpus quod suscipiat
formam, nihil omnino esse potest. Si enim lapides non fuissent. Muri
parietesque non essent, si lignum non fuisset, omnino nec mensa quidem, quae ex
ligni materia est, esse potuisset. Igitur supposita materia ac praeiacente cum
in ipsam figura superuenerit, fit quaelibet illa res corporea ex materia
formaque subsistens, ut Achillis statua ex aeris materia et ipsius Achillis
figura perficitur. Atque ea quidem quae corporea sunt, manifestum est ex
materia formaque subsistere, ea vero quae sunt incorporalia, ad similitudinem
materiae atque formae habent suppositas priores antiquioresque naturas, super
quas differentiae venientes efficiunt aliquid quod eodem modo sicut corpus
tamquam ex materia ac figura consistere videatur, ut in genere ac specie
additis generi differentiis species effecta est. Ut igitur est in Achillis
statua aes quidem materia, forma vero Achillis qualitas et quaedarn figura, ex
quibus efficitur Achillis statua, quae subiecta sensibus capitur, ita etiam in
specie, quod est homo, materia quidem eius genus est, quod est animal, cui
superveniens qualitas rationalis animal rationale, id est speciem fecit. Igitur
speciei materia quaedam est genus, forma vero et quasi qualitas differentia.
Quod est igitur in statua aes, hoc est in specie genus, quod in statua figura
conformans, id in specie differentia, quod in statua ipsa statua, quae ex aere
ƿ figuraque conformatur, id in specie ipsa species, quae ex genere differentiaque
coniungitur. Quodsi materia quidem speciei genus est, forma autem differentia,
omnis vero forma qualitas est, iure omnis differentia qualitas appellatur. Quae
cum ita sint, iure in eo quod quale sit interrogantibus respondetur. DESCRIBUNT
AUTEM HUIUSMODI DIFFERENTIAS ET HOC MODO: DIFFERENTIA EST QUOD APTUM NATURA EST
DIVIDERE QUAE SUB EODEM SUNT GENERE; RATIONALE ENIM ET IRRATIONALE HOMINEM ET
EQUUM, QUAE SUB EODEM SUNT GENERE, QUOD EST ANIMAL, DIVIDUNT. Haec quidem
definitio cum sit usitata atque ante oculos exposita, eam tamen plenius
dilucideque declaravit. Omnes enim differentiae idcirco differentiae
nuncupantur, quia species a se differre faciunt, quas unum genus includit, ut
homo atque equus propriis discrepant differentiis; nam sicut homo animal est,
ita etiam equus, ergo secundum genus nullo modo distant. Quae igitur secundum
genus minime discrepant, ea differentiis distribuuntur. Additum enim rationale
quidem homini, irrationale vero equo equus atque homo, quae sub eodem fuerant
genere; distribuuntur et discrepant, additis scilicet differentiis. ASSIGNANT
AUTEM ETIAM HOC MODO: DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT A SE SINGULA; NAM SECUNDUM
GENUS NON DIFFERUNT. SUMUS ENIM MORTALIA ANIMALIA ET NOS ET IRRATIONABILIA SED
ADDITUM RATIONABILE SEPARAVIT NOS AB ILLIS, ET RATIONABILES SUMUS ET NOS ET DII
SED MORTALE APPOSITUM DISIUNXIT NOS AB ILLIS. Vitiosa ratione et non sana quod
uult explicat definitio quorundam. Id enim esse dicunt differentiam qua
unaquaeque res ab alia distet. In qua definitione nihil interest quod ita dixit
an ita concluserit: differentia est id quod est differentia. Etenim
differentiae nomine in eiusdem differentiae usus est ƿ definitione dicens:
DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT A SE SINGULA. Quodsi adhuc differentia nescitur,
nisi definitione clarescat, differre quoque quid sit qui poterimus agnoscere?
Ita nihil amplius attulit ad agnitionem qui differentiae nomine id eiusdem usus
est definitione. Est autem communis et uaga nec includens substantiales
differentias sed quaslibet etiam accidentes hoc modo: DIFFERENTIA EST QUA A SE
DIFFERUNT SINGULA; quae enim genere eadem sunt, differentia discrepant, ut cum
homo atque equus idem sint in animalis genere, quoninm utraque sunt animalia,
differunt tamen differentia rationali, et cum dii atque homines sub
rationalitate sint positi, differunt mortalitate. Rationale igitur hominis ad
equum differentia est, mortale hominis ad deum, atque hoc quidem modo
substantiales differentiae colliguntur. Quodsi Socrates sedeat, Plato vero
ambulet, erit differentia ambulatio vel sessio, quae substantialis non est.
Namque istam quoque differentiam definitio videtur incllldere, cum dicit:
DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT SINGULA; quocumque enim Socrates a Platone
distiterit -- nullo autem alio distare nisi accidentibus potest -- id erit
differentia secundum superioris terminum definitionis. Quam rem scilicet
viderunt etiam hi qui definitionis huius uagum communemque finem reprehendentes
certae conclusionis terminum subiecerunt. INTERIUS AUTEM PERSCRUTANTES DE
DIFFERENTIA DICUNT, NON QUODLIBET EORUM QUAE SUB EODEM SUNT GENERE DIVIDENTIUM
ESSE DIFFERENTIAM SED QUOD AD ESSE CONDUCIT ET QUOD EIUS QUOD EST ESSE REI PARS
EST; NEQUE ENIM QUOD APTUM NATUM EST NAVIGARE ERIT HOMINIS DIFFERENTIA, ETSI
PROPRIUM SIT HOMINIS. DICIMUS ENIM 'ANIMALIUM HAEC QUIDEM APTA NATA SUNT AD
NAVIGANDUM, ILLA VERO MINIME', DINIDENTES AB ALIIS SED APTUM NATUM ESSE AD
NAVIGANDUM NON ERAT COMPLETIVUM SUBSTANTIAE NEC EIUS PARS SED APTITUDO QUAEDAM
EIUS EST, IDCIRCO, QUONIAM NON EST TALIS QUALES SUNT QUAE SPECIFICAE DICUNTUR
DIFFERENTIAE. ERUNT IGITUR SPECIFICAE DIFFERENTIAE QUAECUMQUE ALTERAM FACIUNT
SPECIEM ET QUAECUMQUE IN EO QUOD QUALE EST ACCIPIUNTUR. -- ET DE DIFFERENTIIS
QUIDEM ISTA SUFFICIUNT. Sensus propositionis huiusmodi est. Quoniam superius
disit determinasse quosdam differentiam esse qua a se singllla discreparent,
ait alios diligentius de differential perscrutantes non ƿ fuisse arbitratos
recte esse superius propositam definitionem. Neque enim omnia quaecumque sub
eodem posita genere differre faciunt, differentiae hae de quibus nunc
tractatur, id est specificae, numerari queunt. Plura enim sunt quae ita
dividunt species sub uno genere positas, ut tamen eorum substantiam minime
conforment, quia non videntur esse differentiae specificae nisi illae tantum
quae ad id quod est esse proficiunt et quae in definitionis alicuius parte
ponuntur. Hae autem sunt nt rationale hominis. Nam et substantiam hominis
conformat et ad esse hominis proficit et definitionis eius pars est. Ergo nisi
ad id quod est esse conducit et eius quod est esse rei pars sit, specifica
differentia nullo modo poterit nuncupari quid est autem esse rei? Nihil est
aliud nisi definitio. Unicuique enim rei interrogatae 'quid est?' si quis quod
est esse monstrare voluerit, definitionem dicit. Ergo si qua definitionis pars
fuerit, eius erit pars quae uniuscuiusque rei quid esse sit designet. Definitio
est quidem quae quid unaquaeque res ƿ sit, ostendit ac profert, demonstraturque
quid uni cuique rei sit esse per definitionis assignationem. Illae vero
differentiae quae non ad substantiam conducunt sed quoddam quasi extrinsecus
accidens afferunt, specificae non dicuntur, licet sub eodem genere positas
species faciant discrepare, ut si quis hominis atque equi hanc differentiam
dicat, aptum esse ad navigandum. Homo enim aptus est ad navigandum, equus vero
minime, et cum sit equus atque homo sub eodem genere animalis, addita
differentia 'aptum esse ad navigandum' equum distinxit ab homine. Sed aptum
esse ad navigandum non est huiusmodi, quale quod possit hominis formare
substantiam sed tantum quandam quodammodo aptitudinem monstrat et ad faciendum
aliquid vel non faciendum oportunitatem. Idcirco ergo specifica differentia
esse non dicitur. Quo fit ut non omnis differentia quae sub eodem genere
positas species distribuit, specifica esse possit sed ea tantum quae ad
substantiam speciei proficit et quae in parte definitionis accipitur. Concludit
igitur esse specificas differentias quae alteras a se species faciunt per
differentias substantiales. Nam si uni cuique id est esse quodoumque
substantialiter fuerit, quaecumque differentiae substantialiter diversae sunt,
illas species quibus assunt, omni substantia faciunt alteras ac discrepantes,
atque hae in definitionis parte sumuntur. Nam si definitio substantiam monstrat
ƿ et substantiales differentiae species efficiunt, substantiales differentiae
erunt partes definitionum. PROPRIUM VERO QUADRIFARIAM DIVIDUNT. NAM ET ID QUOD
SOLI ALICUI SPECIEI ACCIDIT, ETSI NON OMNI, UT HOMINI MEDICUM ESSE VEL
GEOMETREM, ET QUOD OMNI ACCIDIT, ETSI NON SOLI, QUEMADMODUM HOMINI ESSE BIPEDEM
ET QUOD SOLI ET OMNI ET ALIQUANDO, UT HOMINI IN SENECTUTE CANESCERE, QUARTUM
VERO, IN QUO CONCURRIT ET SOLI ET OMNI ET SEMPER, QUEMADMODUM HOMINI ESSE
RISIBILE. NAM ETSI NON SEMPER RIDEAT, TAMEN RISIBILE DICITUR, NON QUOD IAM
RIDEAT SED QUOD APTUS NATUS SIT; HOC AUTEM EI SEMPER EST NATURALE ET EQUO
HINNIBILE. HAEC AUTEM PROPRIE PROPRIA PERHIBENT ESSE, QUONIAM ETIAM
CONVERTUNTUR. QUICQUID ENIM EQUUS, HINNIBILE, ET QUICQUID HINNIBILE, EQUUS. Superius
dictum est omnia propria ex accidentium genere descendere. Quicquid enim de
aliquo praedicatur, aut substftntiam informat aut secundum accidens inest.
Nihil vero est quod cuiuslibet rei substantiam monstret nisi genus, species et
differentia, genus quidem et differentia speciei, species vero individuorum.
Quicquid ergo reliquum est, in accidentium numero ponitur. Sed quoniam ipsa
accidentia habent inter se aliquam differentiam, idcirco alia quidem propria,
alia priore atque antiquiore nomine accidentia nunlcupantur. Et de accidentibus
paulo post, nunc de propriis. Quae quadrifariam dividuntur, non tamquam genus
aliquod proprium in quattuor species dividi secarique possit sed hoc quod ait
dividunt, ita intellegendum est, tamquam si diceret 'nuncupant', id est propria
quadrifariam dicunt. Cuius quadrifariae appellationis significationes enumerat,
ut quae sit conveniens et congrua nuncupatio proprietatis ostendat. Dicit ergo
proprium accidens quod ita uni speciei adest, ut tamen nullo modo coaequetur ei
sed infra subsistat ac maneat, ut hominis dicitur proprium medicum esse,
idcirco quoniam nulli alii inesse animalium ƿ potest. Nec illud attendimus, an
hoc de omni homine praedicari possit sed illud tantum, quod de nullo alio nigi
de homine dici potest medicum esse. Et haec quidem significatio proprii dicitur
inesse SOLI, ETSI NON OMNI; soli enim speciei, etsi non omni coaequatur, ut
medicina soli quidem inest homini sed non omnibus hominibus ad scientiam adest.
Aliud proprium est quod huic e contrario dicitur omni, etsi non soli; quod
huiusmodi est, ut omnem quidem speciem contineat eamque transcendat. Et quoniam
quidem nihil est subiectae speciei quod illo proprio non utatur, dicimus omni,
quoniam vero transcendit in alias, dicimus non soli: hoc huiusmodi est quale
homini esse bipedem, proprium est enim bomini esse bipedem. Omnis enim homo
bipes est etiamsi non solus, aves enim bipedes sunt. Geminae igitur
significationes proprii quae superius dictae sunt, habent aliquid minus, prima
quidem quia non omni, secunda vero quia non soli. Quas si iungimus, facimus
omni et soli. Sed demimus aliquid secundum tempus, si ei adiciatur aliquando,
ut sit haec tertia proprii nuncupatio 'omni et soli sed aliquando', ut est in
senectute canescere vel in ivuentute pubescere; omni enim homini adest in
ivuentute pubescere, in senectute canescere, et soli. Pubescere enim solius
hominis est sed aliquando, ƿ neque enim omni tempore sed in sola tantum
ivuentute. Haec igitur determinatio proprii in eo quidem modo quod omni et soli
inest, absoluta est sed ex eo minuit aliquid vel contrahit, cum dicimus
ALIQUANDO. Quod si auferamus, fit proprii integra simplexque significatio hoc
modo: proprium est quod omni et soli et semper adest. Omni autem et soli
speciei et semper intellegendum est ut hornini risibile, equo hinnibile; omnis
enim et solus homo risibilis est et semper. Neque illud nos ulla dubitatione
perturbet, quod semper homo non rideat; non enim ridere est proprium hominis
sed esse risibile, quod non in actu sed in potestate consistit. Ergo etiamsi
non rideat, quia ridere tamen posse soli et omni homini semper adesse dicitur,
convenienter proprium nuncupatur. Nam si actus separatur ab specie, potestas
nulla ratione disiungitur. Quattuor igitur significationes proprii dixit. Nam
prima quidem, quando accidens ita subiectae speciei adest, ut soli ei adsit,
etiamsi non omni, ut homini medicina; secunda vero, ƿ cum soli quidem non
adest, omni vero semper adiungitur, ut homini esse bipedem; tertia vero, cum
omni et soli sed aliquando, ut omni homini in ivuentute pubescere; quarta, cum
omni et soli et semper adest, ut esse risibile. Atque ideo caetera quidem
converti non possunt: neque enim coaequatur quod soli sed non omni speciei
adest. Species quidem de ipso dici potest, ipsum vero de specie minime. Qui
enim medicus est, potest dici homo, homo vero qui est, medicus esse non
dicitur. Rursus quod ita est alii proprium, ut omni adsit etiamsi non soli,
ipsum quidem de specie praedicari potest, species vero de eo minime. Nam bipes
praedicari de homine potest, homo vero de bipede nullo modo. Rursus quod ita
adest, ut omni et soli sed aliquando assit, quoniam de tempore, habet aliquid
deminutum nec simpliciter semper adest, reciprocari non poterit. Possumus enim
dicere 'omnis qui pubescit homo est', non 'omnis homo pubescit': potest enim
minime ad inllentutem nenire atque ideo nec pubescere; nisi forte non sit
pubescere hominis proprium sed in ivuentute pubescere, aut, etiam cum nondum
est in ivuentute aut etiam praeteriit, tamen sit ei proprium non tale quale
tunc fieri possit, cum praeter ivuentutem est sed quale cum in ivuentnte
consistit. Atque ideo hoc ƿ quod non in omne tempus tenditur, etiamsi tale est,
ut omni speciei assit, quod tamen in tempus aliquod differatur, integrum atque
absolutum proprium esse von dicitur. Quartum est quod ita alicui adest, ut et
solam teneat speciem et omni assit et absolutum sit a temporis conditione, ut
risibile quod a superiore plurimum distat; nam qui risibilis est, semper ridere
potest. Rursus qui potest in ivuentute pubescere, cum ipsa ivuentus non sit
semper, non ei adest semper ut in ivuentute pubescat. Haec autem quarta proprii
significatio quoniam nulla temporis definitione constringitur, absoluta est
atque ideo etiam convertitur et de se invicem proprium atque species
praedicantur; homo enim risibilis est et risibile homo. ACCIDENS VERO EST QUOD
ADEST ET ABEST PRAETER SUBIECTI CORRUPTIONEM. DIVIDITUR AUTEM IN DUO, IN
SEPARABILE ET IN INSEPARABILE. NAMQUE DORMIRE EST SEPARABILE ACCIDENS, NIGRUM
VERO ESSE INSEPARABILITER CORUO ET AETHIOPI ACCIDIT, POTEST AUTEM SUBINTELLEGI
ET CORUUS ALBUS ET AETHIOPS AMITTENS COLOREM PRAETER SUBIECTI CORRUPTIONEM.
DEFINITUR AUTEM SIC QUOQUE: ACCIDENS EST ƿ QUOD CONTINGIT EIDEM ESSE ET NON
ESSE, VEL QUOD NEQUE GENUS NEQUE DIFFERENTIA NEQUE SPECIES NEQUE PROPRIUM,
SEMPER AUTEM EST IN SUBIECTO SUBSISTENS. OMNIBUS IGITUR DETERMINATIS QUAE
PROPOSITA SUNT, DICO AUTEM GENERE, SPECIE, DIFFERENTIA, PROPRIO, ACCIDENTI,
DICENDUM EST QUAE EIS COMMUNIA ADSINT ET QUAE PROPRIA. Quoniam, ut superius
dictum est, quae de aliquo praedicantur, vel substantialiter vel accidentaliter
dicuntur cumque ea quae substantialiter praedicantur, eius de quo dicuntur
substantiam definitionemque contineant et sint eo antiquiora atque maiora, quod
ex substantialibus praedicatis efficiuntur, cum ea quae substantialiter
dicuntur pereunt, necesse est ut simul etiam ea interimantur quorum naturam
substantiamque formabant. Quae cum ita sint, necesse est ut quae accidenter
dicuntur, quoniam substantiam minime informant, et adesse et abesse possint
praeter subiecti corruptionem. Ea enim tantum cum absunt subiectum corrumpere
poterunt, quae efficiunt atque conformant quae sunt substantialia, quae vero ƿ
non efficiunt substantiam, ut accidentia, ea cum adsunt vel absunt, nec
informant substantiam nec corrumpunt. Est igitur accidens quod adest et abest
praeter subiecti corruptionem. Id autem dividitur in duas partes. Accidentis
enim aliud est separabile, aliud inseparabile, separabile quidem dormire
sedere. Inseparabile vero ut Aethiopi atque coruo color niger. In qua re talis
oritur dubitatio. Ita enim est definitum: accidens est quod adesse et abesse
possit praeter subiecti corruptionem. Idem tamen accidens aliquando
inseparabile dicitur; quod si inseparabile est, abesse non poterit. Frustra
igitur positum est accidens esse quod adesse et abesse possit, cum sint quaedam
accidentia quae a subiecto non valeant separari. Sed fit saepe ut quae actu
disiungi non valeant, mente et cogitatione separentur. Sed si animi ratione disiunctae
qualitates a subiectis non ea perimunt sed in sua substantia permanent atque
perdurant, accidentes esse intelleguntur. Age igitur, quoniam Aethiopi color
niger auferri non potest. Animo emn atque cogitatione separemus. Erit igitur
color albus Aethiopi. uum idcirco species consumpta sit? minime. Item etiam
coruus, si ab eo colorem nigrum imaginatione separemus, permanet tamen avis nec
interit species. Ergo quod dictum est et adesse et abesse, non re sed animo
intellegendum est. Alioquin et substantialia, quae omnino separari non possunt,
si animo et cogitatione disiungimus, ut si ab homine rationabilitatem auferamus
-- ƿ quam licet actu separare non possumus, tamen animi imaginatione
disiungimus -- statim perit hominis species quod idem in accidentibus non fit:
sublato enim accidenti cogitatione species manet. Est alia quoque accidentis
definitio caeterorum omnium privatione, ut id dicatur esse accidens quod neque
genus sit neque species nec differentia nec proprium; quae definitio plurimum
uaga est valdeque communis sic enim etiam genus definiri potest, quod neque
species neque differentia nec proprium sit nec accidens, eodemque modo species
ac differentia et proprium. Cum autem eadem similitudine definitionis plura
definiri queant, non est terminans et circumclusa descriptio, praesertim cum
longe sit a definitionis integritate seiunctum quod cuiuslibet rei formam aliarum
rerum negatione demonstrat. Quibus omnibus expeditis, id est genere, specie,
differentia, proprio atque accidenti, descriptisque eorum terminis quantum
postulabat institutionis brevitas, ea ipsa communiter pertractanda persequitur,
ut quas inter se habeant differentias haec quinque, de quibus superius
disputatum est, quas vero communiones, mediocri consideratione demonstret, ut
non solum ƿ quid ipsa sint, verum etiam quemadmodum inter se comparentur,
appareat. Expeditis per se omnibus quae proposuit et quantum in uniuscuiusque
consideratione poterat, ad scientiae terminum breviter adductis nunc iam non de
singulorum natura, id est vel generis vel differentiae vel speciei vel proprii
vel accidentis sed de ad se invicem relatione pertractat. Nam qui communiones
ac differentias rerum colligit, non ut sunt per se res illae considerat sed ut
ad alias comparentur. Id autem duplici modo, vel similitudine, dum communitates
sectatur, vel dissimilitudine, dum differentias. Quae cum ita sint, nos quoque,
ut adhuc fecimus, propter planiorem intellectum philosophi uestigia
persequentes ordiemur de his communionibus quae assunt generi et speciei et
differentiae vel proprio et accidenti. COMMUNE QUIDEM OMNIBUS EST DE PLURIBUS
PRAEDICARI, ƿ SED GENUS QUIDEM DE SPECIEBUS ET DE INDIVIDUIS, ET DIFFERENTIA
SIMILITER, SPECIES AUTEM DE HIS QUAE SUB IPSA SUNT INDIVIDUIS, AT VERO PROPRIUM
ET DE SPECIE CUIUS EST PROPRIUM ET DE HIS QUAE SUB SPECIE SUNT INDIVIDUIS,
ACCIDENS AUTEM ET DE SPECIEBUS ET DE INDIVIDUIS. NAMQUE ANIMAL DE EQUIS ET
BOBUS [ET CANIBUS] PRAEDICATUR, QUAE SUNT SPECIES, ET DE HOC EQUO ET DE HOC
BOVE, QUAE SUNT INDIVIDUA, IRRATIONALE VERO ET DE EQUIS ET DE BOBUS PRAEDICATUR
ET DE HIS QUI SUNT PARTICULARES, SPECIES AUTEM, UT HOMO, SOLUM DE HIS QUI SUNT
PARTICULARES PRAEDICATUR, PROPRIUM AUTEM, QUOD EST RISIBILE, ET DE HOMINE ET DE
HIS QUI SUNT PARTICULARES, NIGRUM AUTEM ET DE SPECIE CORUORUM ET DE HIS QUI
SUNT PARTICULARES, QUOD EST ACCIDENS INSEPARABILE, ET MOVERI DE HOMINE ET DE
EQUO, QUOD EST ACCIDENS SEPARABILE SED PRINCIPALITER QUIDEM DE INDIVIDUIS,
SECUNDUM POSTERIOREM VERO RATIONEM DE HIS QUAE CONTINENT INDIVIDUA. Antequam
singulorum ad unumquodque habitudinem tractet, illam prius respicit quam omnes
ad se invicem habere videantur. Haec est autem una communio quae propositarum
quinque rerum numerum pluralitate praedicationis includit omnia enim de
pluribus praedicantur. In hoc ergo sibi cuncta communicant. Nam et genus de
pluribus praedicatur, itemque species ac differentia et proprium et accidens.
Quae cum ita sint, est eorum una atque indiscreta communio de pluribus
plaedicari. Disgregat autem ipsam de pluribus praedicationem, quemadmodum in
singulis fiat, quod unumquodque propositorum de quibus pluribus praedicetur
ostendit. Ait enim genus quidem de pluribus praedicari, id est speciebus ac
specierum individuis, ut animal praedicatur de homine atque equo ac de his
individuis quae sub homine sunt atque sub equo. Item genus praedicatur de
differentiis specierum atque id iure. Quoniam enim species differentiae
informant, cum genus de speciebus praedicetur, consequens est ut etiam de his
dicatur quae specierum substantiam formamque efficiunt. Quo fit ut genus etiam
de differentiis praedicetur ac non de una sed de pluribus; dicitur enim quod
rationabile est, esse animal et rursus quod irrationabile est, esse animal. Ita
genus de speciebus ac differentiis praedicatur ac de his quae sub ipsis sunt
individuis. Differentia vero de speciebus dicitur pluribus ac de earum
individuis, ut irrationabile et de equo praedicatur ac bove, quae sunt plures
species, et de his quae sub ipsis sunt individuis eodem modo dicitur; nam quod
de universali praedicatur, praedicatur et de individuo. Quodsi differentia de
speciebus dicitur, praedicabitur etiam de eiusdem speciei subiectis. Species
vero de suis tantum individuis praedicatur; neque enim fieri potest, ut quae
species est ultima quaeque vere species ac magis species nuncupatur, haec alias
deducatur in species. Quod si ita est, sola post speciem individua restant.
Iure igitur species de suis tantum individuis praedicantur, ut homo de Socrate,
Platone, Cicerone et caeteris. Proprium item de specie praedicatur cuius est
proprium, neque enim esset proprium alicuius, si de alio diceretur; de quo enim
unaquaeque res 'et soli et omni et semper' dicitur, eiusdem proprium esse
monstratur. Quae cum ita sint proprium de specie dicitur, ut risibile de
homine; omnis enim homo risibilis est. Dicitur etiam de individuis speciei de
qua praedicatur; est enim Socrates, Plato et Cicero risibilis. Accidens vero et
de speciebus pluribus dicitur et de diversarum specierum individuis. Dicuntur
enim coruus atque Aethiops nigri et hic coruus et hic Aethiops, qui sunt
individui, nigri secundum nigredinis qualitatem vocantur. Atque hoc quidem est
accidens inseparabile. Sed multo magis separabilia accidentia pluribus
inhaerescunt, ut moveri homini et bovi -- uterque enim movetur -- et rursus ea
quae sub homine sunt atque bove individua, moveri saepe praedicantur. Sed
advertendum est auctore Porphyrio quod ea quae accidentia sunt, principaliter
quidem de his dicuntur in quibus sunt individuis, secundo vero loco ad
universalia individuorum referuntur. Atque ita praedicatio ƿ superiorum
redditur, ut quoniam nigredo singulis coruis adest accidentis nigredinis
inficit, idcirco eam de specie quoque praedicamus dicentes coruum, ipsam
speciem, nigrum esse. In quibus omnibus mirum videri potest, cur genus de
proprio praedicari non dixerit nec vero speciem de eodem proprio nec
differentiam de proprio sed tantum genus quidem de speciebus ac differentiis,
differentiam vero de speciebus atque individuis, speciem de individuis,
proprium de specie atque individuis, accidens de speciebus atque individuis.
Fieri enim potest ut quae maioris praedicationis sint, ea de cunctis minoribus
praedicentur, et quae aequalia sunt, sibimet convertuntur, eoque fit ut genus
de differentiis, de speciebus, de propriis, de accidentibus praedicetur, ut cum
dicimus 'quod rationale est, animal est', genus de differentia, 'quod homo est,
animal est', genus de specie, 'quod risibile est, animal est,' genus de
proprio, 'quod nigrum est', si forte coruum vel Aethiopem demonstremus, 'animal
est,' genus de accidenti praedicamus. Rursus 'quod homo est, rationale est',
differentia de specie, 'quod risibile est, rationale est,' differentia de
proprio, 'quod nigrum est, rationale est', si Aethiopem demonstremus,
differentia de accidenti; item 'quod risibile est, homo est', species de
proprio, 'quod nigrum est, homo est,' si Aethiopem designemus, species de
accidenti. Qua in re etiam 'quod nigrum est, risibile est' in Aethiopis
demonstratione ut proprium de accidenti praedicatur. Converti autem ad totum
accidens potest, ut quoniam in individuis singulorum esse proponitur, idcirco
de superioribus etiam praedicetur, ut quoniam Socrates animal est, rationalis
est, risibilis est et homo est, cumque in Socrate sit caluitium, quod est
accidens, praedicetur idem accidens de animali, de rationali, de risibili, de
homine, ut accidens de quattuor reliquis praedicetur. Sed horum profundior
quaestio est nec ad soluendum satis est temporis, hoc tantum ingredientium
intellegeutia expectet, quod alia quidem recto ordine praedicantur, alia vero
obliquo, quoniam moveri hominem rectum est, id quod movetur hominem esse
conversa locutione proponitur. Quocirca rectam Porphyrius in omnibus
propositionem sumpsit. Quodsi quis vim praedicationis et solutionis attenderit
in singulis praedicationibus comparans, eas quidem ƿ prolationes quae rectae
sunt, inveniet a Porphyrio esse enumeratas, eas vero quae converso ordine
praedicantur, fuisse sepositas. COMMUNE EST AUTEM GENERI ET DIFFERENTIAE
CONTINENTIA SPECIERUM. CONTINET ENIM ET DIFFERENTIA SPECIES, ETSI NON OMNES
QUOT GENERA. RATIONALE ENIM ETIAMSI NON CONTINET EA QUAE SUNT IRRATIONABILIA
QUEMADMODUM ANIMAL SED CONTINET HOMINEM ET DEUM, QUAE SUNT SPECIES. ET
QUAECUMQUE PRAEDICANTUR DE GENERE UT GENERA, ET DE HIS QUAE SUB IPSO SUNT
SPECIEBUS PRAEDICANTUR, ET QUAECUMQUE DE DIFFERENTIA PRAEDICANTUR UT
DIFFERENTIAE, ET DE EA QUAE EX IPSA EST SPECIE PRAEDICABUNTUR. NAM CUM SIT
GENUS ANIMAL, NON SOLUM DE EO PRAEDICANTUR UT GENERA SUBSTANTIA ET ANIMATUM SED
ETIAM DE HIS QUAE SUNT SUB ANIMALI SPECIEBUS OMNIBUS PRAEDICANTUR HAEC USQUE AD
INDIVIDUA. CUMQUE SIT DIFFERENTIA RATIONALIS, PRAEDICATUR DE EA UT DIFFERENTIA
ID QUOD EST RATIONE UTI. NON SOLUM AUTEM DE EO QUOD EST RATIONALE SED ETIAM DE
HIS QUAE SUNT SUB RATIONALI SPECIEBUS PRAEDICABITUR RATIONE UTI. COMMUNE AUTEM
EST ET PEREMPTO GENERE VEL DIFFERENTIA SIMUL PERIMI QUAE SUB IPSIS SUNT;
QUEMADMODUM ELLIM SI NON SIT ANIMAL, NON EST EQUUS NEQUE HOMO, ITA SI NON SIT
RATIONALE. NULLUM ERIT ANIMAL QUOD UTATUR RATIONE. Post eam quae cunctis adesse
visa est communitatem, singulorum ad se similitudines ac dissimilitudines
quaerit. Et quoniam inter quinque proposita genus ac differentia universalioris
praedicationis sunt, siquidem genus species continet ac differentias,
differentiae vero species continent neque ab his ullo modo continentur, primum
generis ac differentiarum similitudines colligit. Ac primam quidem ponit hanc.
Dicit enim commune esse generi ac differentiae, ut species claudant; ƿ nam
sicut genus sub se habet species, ita etiam differentia tametsi non tantas quot
habet genus. Etenim genus quoniam differentiam etiam claudit et non unam tantum
sub se differentialn cohercet ac retinet, plures necesse est habeat sub se
species, quam quaelibet una earum differentiarum quas claudit. ut animal
praedicatur de rationabili et irrationabili. Quodsi ita est, praedicabitur et
de his quae sub rationali sunt positae speciebus et de his quae sub
irrationali. Est ergo commune animali et rationali, id est generi et
differentiae, quod sicut genus de homine et de deo praedicatur, ita etiam
rationale. Quod est differentia, de deo ac de homine dicitur. Sed non in tantum
haec praedicatio funditur quantum animalis, id est generis. Animal enim non de
deo solum atque homine sed de equo et bove praedicatur, ad quae rationalis
differentia non pervenit. Sed quandocumque deum supponimus animali, secundum
eam opinionem facimus quae solem stellasque atque hunc totum millium animatum
esse confirmat, quos etiam deorum nomine, ut saepe dictum est, appellaverunt.
Secunda item communio est generis ac differentiae, quoniam quaecumque
praedicantur de genere ut genera, eadem de his quae sub ipso sunt speciebus
praedicantur; ad hanc similitudinem ƿ quaecumque de differentia praedicantur ut
differentiae, et de his quae sub differentia sunt ut differentiae praedicantur.
Cuius sententiae talis est expositio. Sunt plura quae de generibus praedicantur
ut genera, ut de animali dicitur animatum, dicitur substantia, atque haec ut
genera. Haec igitur praedicantur et de his quae sub animali sunt, ut genera
rursus; nam hominis et animatum et substantia genus est, sicut ante fuerat
animalis. Item in ipsis differentiis quaedam differentiae inveniuntur quae de
ipsis differentiis praedicantur, ut de rationali duae differentiae dicuntur.
Quod enim rationale est, utitur ratione vel habet rationem. Aliud est autem uti
ratione, aliud habere rationem, ut aliud est habere sensum, aliud uti sensu.
Habet quippe sensum et dormiens sed minime utitur, ita quoque dormiens habet
rationem sed minime utitur. Ergo ipsius rationabilitatis quaedam differentia
est ratione uti sed sub ratioaabilitate homo positus est: praedicatur igitur de
homine ratione uti ut quaedam differentia. Differt enim a caeteris animalibus
homo, quia ratione utitur. Demonstratum igitur est quia sicut ea quae de genere
praedicantur, dicuntur de generi subiectis, ita etiam ea quae de differentia
praedicantur, dicuntur de his quae differentiae supponuntur. Tertium commune
est quod ƿ sicut absumptis generibus species interimuntur, ita absumptis
differentiis species de quibus differentiae praedicantur, intereunt. Commune
enim est hoc, universalium in substantia pereuntium perire subiecta. Sed prima
communio demonstravit genera de speciebus praedicari, sicut etiam differentias.
Propter hanc igitur similitudinem si auferantur genera, species pereunt, sicut
etiam species perire necesse est quae sub differentiis sunt, si universales
earum differentiae consumantur. Cuius exemplum est: si enim auferas animal,
hominem atque equum sustuleris, quae sunt species positae sub animali, si
auferas rationale, hominem deumque sustuleris, qui sunt sub rationali
differentia collecti. Et de communitatibus quidem hactenus, nunc de generis et
differentiae dissimilitudine perpendit. PROPRIUM AUTEM GENERIS EST DE PLURIBUS
PRAEDICARI QUAM DIFFERENTIA ET SPECIES ET PROPRIUM ET ACCIDENS; ANIMAL ENIM DE
HOMINE ET EQUO ET AVE ET SERPENTE, QUADRUPES VERO DE SOLIS QUATTUORPEDES
HABENTIBUS, HOMO vero DE SOLIS INDIVIDUIS ET HINNIBILE DE EQUO ET DE HIS QUI
SUNT PARTICULARES, ET ACCIDENS SIMILITER DE PAUCIORIBUS. OPORTET AUTEM
DIFFERENTIAS ACCIPERE QUIBUS DIVIDITUR GENUS, NON EAS QUAE COMPLENT SUBSTANTIAM
GENERIS. AMPLIUS GENUS CONTINET DIFFERENTIAM POTESTATE; ANIMALIS ENIM HOC
QUIDEM RATIONALE EST, ILLUD VERO IRRATIONALE. AMPLIUS GENERA QUIDEM PRIORA SUNT
HIS QUAE SUNT SUB SE POSITAE DIFFERENTIIS, PROPTER QUOD SIMUL QUIDEM EAS
AUFERUNT, NON AUTEM SIMUL AUFERUNTUR; SUBLATO ENIM ANIMALI AUFERTUR RATIONALE
ET IRRATIONALE. DIFFERENTIAE VERO NON AUFERUNT GENUS; NAM SI OMNES INTERIMANTUR,
TAMEN SUBSTANTIA ANIMATA SENSIBILIS SUBINTELLEGITUR, QUAE EST ANIMAL. AMPLIUS
GENUS QUIDEM IN EO QUOD QUID EST, DIFFERENTIA vero IN EO QUOD QUALE QUIDDAM
EST, QUEMADMODUM DICTUM EST, PRAEDICATUR. AMPLIUS GENUS QUIDEM UNUM EST
SECUNDUM UNAMQUAMQUE SPECIEM, UT HOMINIS ID QUOD EST ANIMAL, DIFFERENTIAE VERO
PLURIMAE, UT RATIONALE, MORTALE. MENTIS ET DISCIPLINAE PERCEPTIBILE, QUIBUS AB
ALIIS DIFFERT. ET GENUS QUIDEM CONSIMILE EST MATERIAE, FORMAE VERO DIFFERENTIA.
CUM AUTEM SINT ET ALIA COMMUNIA ƿ ET PROPRIA GENERIS ET DIFFERENTIAE, NUNC ISTA
SUFFICIANT. Proprium quidem quid sit, convenienti atque integro vocabulo
definitum est. Sed per abusionem illa etiam propria quorumlibet dicuntur quae
in unaquaque re ab aliis continent differentiam, licet cum aliis sint ea ipsa
communia. Per se quippe proprium est homini quod ei omni et soli et semper
adest, ut risibilitas, per usurpatam vero locutionem etiam proprium hominis
rationabilitas dicitur non per se proprium quippe quod ei cum deorum est natura
commune sed homini rationabilitas proprium dicitur ad discretionem pecudis,
quod rationale non est; id vero propter hanc causam, quoniam id proprium
uniuscuiusque dicitur quod habet suum. Quo igitur quis ab alio differt,
proprium eius non absurda usurpatione praedicatur. Sed nunc quod dicit proprium
generis esse de pluribus praedicari quam caetera quattuor, id ipsum generis
tale proprium est, quale per se proprium dici solet, id est quod semper
<et> omni et soli adsit generi. Generi enim soli adest, ut differentia,
specie, proprio, accidenti uberius atque affluentius praedicetur. Sed de his
differentiis, speciebus, propriis, atque accidentibus id dici potest quae sub
quolibet ƿ genere sunt, id est differentiae quidem quae quodlibet dividunt
genus, species vero quae divisibilibus generis differentiis informatur,
proprium autem illius speciei quae sub illo genere est quod differentiis est
divisum, accidentiaque quae his haereant individuis quae sub ea specie sunt
quam designatum genus includit. Hoc facilius exempla declarant. Sit enim genus
animal, quadrupes ac bipes differentiae sub animalis positae continentia, homo
atque equus species sub eodem genere constitutae, risibile atque hinnibile
propria earundem specierum, velox vero vel bellator accidentia quae his individuis
accidunt quae sub speciebus equi atque hominis continentur: animal igitur, quod
est genus, praedicatur et de quadrupede et bipede, quae sunt differentiae,
quadrupes vero de bipede non dicitur sed tantum de his animalibus quae quattuor
pedes habent; plus igitur praedicatur genus quam differentia. Rursus homo de
Platone ac Socrate praedicatur, animal vero non modo de hominibus individuis,
verum etiam de caeteris irrationabilibus individuis dicitur; plus igitur genus
quam species praedicatur. Sed cum sit proprium hinnibile equi speciei cumque ƿ
genus quam species uberius praedicetur, praedicatio quoque generis proprii
supergreditur praedicationem. Accidens quoquo etsi pluribus inesse potest,
tamen saepe genere contractius invenitur, ut bellator non proprie nisi homo
dicitur, ut velocitas in paucis animalibus invenitur. Quo fit, ut genus
differentia, specie, proprio et accidentibus amplius praedicetur. Atque haec
est una proprietas generis quae genus ab aliis omnibus disiungat ac separet.
Oportet autem, inquit, nunc eas differentias intellegere quibus dividitur
genus, non quibus informatur. Illae enim quibus informatur genus plus quam
ipsum genus sine dubio praedicantur, ut animatum et corporeum ultra animal
tenditur, cum sint differentiae animalis sed non divisivae sed potius
constitutivae; omnia enim superiora de inferioribus praedicantur. Quae vero de
inferioribus praedicantur neque converti possunt, haec ab eis quae inferiora
sunt amplius praedicantur. Post hoc aliud proprium generis ostendit quo ab his
differentiis quae sub eodem sunt positae, segregatur. Omne enim genus continet
differentias potestate, differentia vero genus non potest continere. Animal
enim rationale atque irrationale continet potestate; neque enim
irrationabilitas neque rationabilitas animal poterit continere. Potestate autem
ait continere animal differentias quia, ut superius dictum est, ƿ genus quidem
omnes sub se habet differentias potestate, actu vero minime. Ex quo fit ut alia
proprietas oriatur. Sublato enim genere perit differentia, veluti sublato
animali interimitur rationabilitas, quod est differentia. At si rationale
interimas, irrationale animal manet. Sed obici potest: quid? Si utrasque
differentias simul abstulero, num poterit remanere genus? Dicimus: potest.
Unumquodque enim non ex his de quibus praedicatur sed ex his ex quibus
efficitur, substantiam sumit. Itaque fit ut genus sublatis divisivis
differentiis permanere possit, dum tamen maneant illae quae ipsius generis
formam substantiamque constituunt. Quoniam enim animal animata atque sensibilis
differentiae constituunt, hae si maneant atque iungantur, perire animal non
potest, licet ea pereant de quibus animal praedicatur, rationale scilicet atque
irrationale. unumquodque enim, ut dictum est, ex his substantiae proprietatem
sumit ex quibus efficitur non ab his de quibus praedicatur. Amplius si utrasque
differentias genus potestate continet, ipsum per se neutram earum intra se
positam collocatamque concludit. Quodsi actu quidem eas non continet sed
potestate, actu etiam ab his poterit separari; hoc ipsum enim, potestate eas
continere, id erat actu non continere. Genus vero, quod quaslibet differentias
actu non continet, actu ab eisdem etiam separatur. Rursus aliud est proprium
generis, quod ex proprietate ƿ praedicationis agnoscitur. Omne enim genus ad
interrogationem 'quid est unumquodque?' responderi convenit, ut animal in eo
quod quid est de homine praedicatur, differentia vero minime sed in eo quod
quale sit; omnis enim differentia in qualitate consistit. Sed hoc proprium tale
est quale superius diximus, non per se sed secundum alicuius differentiam
dictum. Alioquin commune est hoc generi cum specie, ut in eo quod quid sit
praedicetur. Sed quia hoc genus a differentia discrepat, quoniam differentia
quidem in eo quod quale est, genus vero in eo quod quid est praedicatur,
generis proprium dicltur non per se sed ad differentiae comparationem. Et in
omnibus reliquis eandem rationem conveniet speculari; quodcumque enim ita
generi proprium dicitur, ut nulli sit alii commune sed tantum hoc habeat genus
ut omne genus et semper, id secundum se proprium nuncupatur, quicquid vero cum
quolibet alio commune est, id non per se sed ad alterius differentiam proprium
dicitur. Alia rursus generis et differentiae separatio est, quod genus quidem
speciei unum semper adest, scilicet proximum -- plura enim possunt esse
superiora, velut hominis animal atque substantia sed proximum eiusdem hominis
animal tantum -- differentiae vero plures uni speciei ƿ adesse poterunt, ut
rationale atque mortale homini. Itaque fit definitio ex uno quidem genere sed
pluribus differentiis, ut hominis animal rationale mortale. Rursus alia
discretio est, quod genus quidem quasi subiecti locum tenet, differentia vero
formae, ita ut illud sit materia quaedam quae figuram suscipiat, haec vero sit
forma quao superveniens speciei substantiam rationemque perficiat. Idcirco vero
pluribus differentiis a genere differentiam segregavit, quia haec maxime
generis quandam similitudinem contineat, quia est universalis et praeter genus inter
caeteras maxima. Sed cum alia plura: communia pluraque propria generis inter se
ac differentiae valeant inveniri, nunc, inquit, ista sufficiant. Satis est enim
ad discretionem quaslibet differentias assumere, etiamsi non quae dici possunt
omnia colligantur.DE COMMUNIBUS GENERIS ET SPECIEI GENUS AUTEM ET SPECIES
COMMUNE QUIDEM HABENT DE PLURIBUS, QUEMADMODUM DICTUM EST, PRAEDICARI. SUMATUR
AUTEM SPECIES UT SPECIES ET NON ETIAM UT GENUS, SI FUERIT IDEM ET SPECIES ET
GENUS. ƿ COMMUNE AUTEM HIS EST ET PRIORA ESSE EORUM DE QUIBUS PRAEDICANTUR, ET
TOTUM QUIDDAM ESSE UTRUMQUE. Generis et speciei enumerat tria communia, unum
quidem, de pluribus praedicari; genus enim et species de pluribus praedicantur
sed genus de speciebus, ut dictum est, species vero de individuis. Sed nunc de
illa specie loquitur quae tantum species est, id est quae non etiam genus est
sed ultima species. Quodsi talem speciem ponamus quae etiam genus esse potest,
ac de ea dicamus quoniam commune habet cum genere de pluribus praedicari, nihil
interest an ita dicamus, ipsum genus id secum habere commune de pluribus
plaedicari. Talis enim species quae non est solum species, ea etiam genus est.
Est autem commune his quoque quod utraque priora sunt his de quibus
praedicantul. Omne enim quod de aliquibus praedicatur, si recto, ut dictum est
superius, ordine dicatur, prius est his de quibus praedicatur. Praeterea est
illis hoc etiam commune, quod genus ac species totum sunt eorum quae intra suum
ambitum continent et cohercent; omnium enim specierum totum est genus et omnium
in dividuorum totum species. Aeque enim genus et species adunativa sunt
plurimorum, quod vero multorum adunativum est, id eorum quae ad unitatis formam
reducit, recte dicitur totum. Ƿ DIFFERT AUTEM EO QUOD GENUS QUIDEM CONTINET
SPECIES SUB SE, SPECIES vero CONTINENTUR ET NON CONTINENT GENERA; IN PLURIBUS
ENIM GENUS QUAM SPECIES EST. GENERA ENIM PRAEIACERE OPORTET ET FORMATA
SPECIFICIS DIFFERENTIIS PERFICERE SPECIES; UNDE ET PRIORA SUNT NATURALITER
GENERA ET SIMUL INTERIMENTIA SED QUAE NON SIMUL INTERIMANTUR. ET SPECIES QUIDEM
CUM SIT, EST ET GENUS, GENUS VERO CUM SIT, NON OMNINO ERIT ET SPECIES. ET
GENERA QUIDEM UNIVOCE DE SPECIEBUS PRAEDICANTUR, SPECIES vero DE GENERIBUS
MINIME. AMPLIUS GENERA QUIDEM ABUNDANT EARUM QUAE SUB IPSIS SUNT SPECIERUM
CONTINENTIA, SPECIES VERO A GENERIBUS ABUNDANT PROPRIIS DIFFERENTIIS. AMPLIUS
NEQUE SPECIES FIET UMQUAM GENERALISSIMUM NEQUE GENUS SPECIALISSIMUM. Expeditis
communibus generis ac speciei nunc de eorum discretione pertractat. Differre
enim dicit genus ab specio, quoniam genus continet species, ut animal hominem,
species ƿ vero non continet genera; neque enim homo de animali praedicatur.
Itaque fit ut species quidem contineantur a generibus numquam vero contineant
genera. Omne enim quod amplius praedicatur, illius est continens quod minus
dicitur. Quodsi genus amplius praedicatur quam species, necesse est ut species
quidem contineatur a genere, genus vero speciei nullo ambitu praedicationis
includatur. Huius autem ratio est quoniam genus semper suscipiens differentiam
speciem facit, hoc est. Genus quod habebat latissimam praedicationem, coartatum
differentia et contractum speciem facit; omnino enim generi iuncta differentia
speciem reddit et ex universalitate atque latissima praedicatione in angustum
speciei terminum contrahit. Animal enim, cuins praedicatio per se longe lateque
diffusa est, si arripiat rationalis differentiam, si etiam mortalis deminuit
atque contrahit in unum hominis speciem. Unde fit ut minor sit semper species
quam genus atque ideo contineatur sed non contineat, sublatoque genere
auferatur et species; si enim totum auferas, pars non erit. Quodsi species
auferatur, genus manet, veluti cum animal sustuleris, interimitur etiam homo,
si hominem auferas, animal restat. Haec etiam causa est, ut genus de specie
univoce praedicetur, id est ut species suscipiat definitionem generis et nomen
sed ƿ non e converso. Definitionem quippe speciei genus suscipere non videtur;
substantiam enim priorum inferiora suscipiunt. Si enim definias animal et dicas
sub stanti am esse animatam atque sensibilem aut si praedices de homine
'animal', verum dixeris. Si etiam animalis definitionem de homine praedicaveris
dicasque hominem esse substantiam animatam atque sensibilem, nihil fuerit in
propositione falsi. Sed si hominis definitionem reddas 'animal rationale
mortale', ea animali non conveniunt; neque enim quod animal est, id dici
poterit animal rationale mortale. Fit igitur, ut sicut species generis nomen
suscipit, ita etiam capiat definitionem, et sicut genus nomen speciei non
suscipit, ita nec eiusdem definitione monstretur sed cuius nomen et definitio
de aliquo praedicatur, id univoce dicitur. Cum igitur generis et nomen et
definitio de specie praedicetur; genus de specie univoce dicitur. Quoniam vero speciei
de genere neque nomen neque definitio praedicatur, non comlertitur univoca
praedicatio. Differunt genera <ab> speciebus hoc quoque modo, quod genera
superuadunt species suas aliarum continentia specierum, species vero genera
differentiarum pluralitate. Animal enim, quod est genus, superuadit hominem,
quod est species, quia non hominem solum continet, verum etiam bovem, equum
aliasque species, quas suae spatio praedicationis includit. Species vero, ut
homo, superuadit genus, ut animal, multitudine differentiarum. Nam quod actu
genus ƿ non habet rationale vel mortale -- nullas quippe actu genus retinet
differentias -- easdem species suae substantiae inhaerentes atque insitas
tenet. Homo enim rationalis est atque mortalis, quod genus minime est; animal
enim neque mortale est per se neque rationale. Quodsi genus quidem plus unam
continet speciem, at vero species multis differentiis infor mantur, superat
quidem genus speciem continentia specierum species vero vincit genus
differentiarum pluralitate. Illa quoque est differentia, quod genus quoniam
omnium primum est, numquam in tantum descendere poterit, ut fiat ultimum,
species vero, quae cunctis est inferior, in tantum ascendere non poterit, ut
suprerna omnium fiat; numquam igitur nec species generalissimum fiet nec genus
specialissimum. Sed ex his quae dictae sunt differentiae aliae sunt quae genus
ab specie propriae coniunctaeque disterminant, aliae vero quae non solum genus
ab specie, verum etiam a caeteris diducunt ac disterminant. Neque in his tantum
differentiae quae sunt dictae, verum etiam in caeteris considerentur oportet,
si proprie normam quaerimus discretionis agnoscere. GENERIS AUTEM ET PROPRII
COMMUNE QUIDEM EST SEQUI SPECIES -- NAM SI HOMO EST, ANIMAL EST, ET SI HOMO
EST, RISIBILE EST -- ET AEQUALITER PRAEDICARI GENUS DE SPECIEBUS ET PROPRIUM DE
HIS QUAE ILLO PARTICIPANT; AEQUALITER ENIM ET HOMO ET BOS ANIMAL ET CATO ET
CICERO RISIBILE. COMMUNE AUTEM ET UNIVOCE PRAEDICARI GENUS DE PROPRIIS
SPECIEBUS ET PROPRIUM QUORUM EST PROPRIUM. Tria intelim generis ac proprii
dicit esse communia. Quorum primum illud est, quoniam ita genus sequitur
species ut proprium. Posita enim specie necesse est intellegi genus ac
proprium; neutrum enim species proprias derelinquit. Nam si homo est, animal
est, si homo est, risibile est; ita quemadmodum genus, sic proprium ab ea
specie cuius est proprium, non recedit. Illud quoque, quod aequalis est generis
participatio, sicut etiam proprii. Omne enim genus aequaliter speciebus
participatur, proprium vero individuis omnibus aequaliter adhaerescit.
Manifestum vero est participationem esse generis aequalem; neque enim plus homo
animal est quam equus ƿ atque bos sed in eo quod sunt animalia, aequaliter
animalis, id est generis ad se vocabulum trahunt. Cato etiam et Cicero aequaliter
risibiles sunt, etiamsi aequaliter non rideant; in eo enim quod apti ad
ridendum sunt, dici risibiles possunt, non quod iam rideant. Aequaliter ergo ea
quae sub genere sunt, suscipiunt genus, sicut ea quae sub propriis, propria.
Tertium illud, quod sicut genus de speciebus propriis univoce praedicatur, itn
etiam proprium de sua specie univoce dicitur. Genus enim quoniam substantiam
speciei continet, non modo eius nomen de specie, verum etiam definitio
praedicatur. Proprium vero quia speciem non relinquit eamque semper sequitur
nec in aliam speciem transgreditur nec infra subsistit, definitionem quoque
propriam speciebus tradit; cuius enim nomen uni tantum convenit speciei cui
coaequatur, dubitari non potest quin eius quoque definitio speciei conveniat.
Quo fit ut sicut genus de speciebus, ita proprium de sua specie univoce
praedicetur. DIFFERT AUTEM, QUONIAM GENUS QUIDEM PRIUS EST, POSTERIUS VERO
PROPRIUM; OPORTET ENIM ESSE ANIMAL, DEHINC DIVIDI DIFFERENTIIS ET PROPRIIS. ET
GENUS QUIDEM ƿ DE PLURIBUS SPECIEBUS PRAEDICATUR, PROPRIUM VERO DE UNA SOLA
SPECIE CUIUS EST PROPRIUM. ET PROPRIUM QUIDEM CONVERSIM PRAEDICATUR DE EO CUIUS
EST PROPRIUM, GENUS VERO DE NULLO CONVERSIM PRAEDICATUR. NAM NEQUE SI ANIMAL
EST, HOMO EST, NEQUE SI ANIMAL EST, RISIBILE EST; SIN VERO HOMO EST, RISIBILE
EST, ET E CONVERSO. AMPLIUS PROPRIUM OMNI SPECIEI INEST CUIUS EST PROPRIUM, ET
SOLI ET SEMPER, GENUS VERO OMNI QUIDEM SPECIEI CUIUS FUERIT GENUS, ET SEMPER,
NON AUTEM SOLI. AMPLIUS SPECIES QUIDEM INTEREMPTAE NON SIMUL INTERLIMUNT GENERA,
PROPRIA VERO INTEREMPTA SIMUL INTERIMUNT EA QUORUM SUNT PROPRIA. ET HIS QUORUM
SUNT PROPRIA INTEREMPTIS ET IPSA SIMUL INTERIMUNTUR. Rursus tale proprium
sumit, quod ad alterius comparationem proprium nuncupetur. Dicit enim proprium
esse generis prius esse quam propria. Oportet enim prius esse genus, quod
veluti materia differentiis supponatur, venientibusque differentiis fieri
speciem, cum quibus propria nascuntur. Si igitur prius est ƿ genus quam
differentiae, prius etiam differentiae quam species et speciebus propria
coaequantur, non est dubium quin propria generibus posteriora sint, ac per hoc
quod dictum est, proprium esse generis prius esse quam propria, commune est hoc
generi cum differentia. Differentiae enim species conformantes priores considerantur
esse quam propria, siquidem speciebus ipsis priores sunt, quas propria ratione
determinant. Sed ut dictum est, hoc proprium ad differentiam proprii
intellegendum est, non quale superius per se proprium constitutum est. Rursus
differt genus a proprio, quod genus quidem de pluribus praedicatur speciebus,
proprium vero minime; nam neque genus est, nisi plures ex se species proferat,
nec proprium, si alteri cuilibet speciei possit esse commune. Fit igitur ut
genus quidem plurimas sub se species habeat, ut animal hominem atque equum,
proprium vero unam tantum, sieut risibile hominem. Quo fit ut illa quoque
differentia nascatur: genus enim praedicatur quidem de speciebus, ipsum vero in
nulla praedicatione supponitur, proprium vero et species alterna praedicatione
mutantur. Fit enim praedicatio aut a maioribus ad minora aut ab aequalibus ad
aqqualia. Genus igitur, quod maius est, de speciebus omnibus praedicahlr,
species vero, quoniam minores sunt, de generibus non dicuntur, ut animal de
homine dicitur, homo vero de animali nullo modo praedicatur. At vero proprium,
quoniam speciei aequale est, aeque ƿ praedicatur atque supponitur, ut risibile
de homine dicitur -- omnis enim homo risibilis est -- eodemque convertitur
modo; omne enim risibile homo est. Differt etiam proprium a genere, quod
proprium uni et omni et semper speciei adest, genus vero ex his duo quidem
retinet, in uno vero diversum est. Nam speciebus suis et semper adest et
omnibus, non vero solis; hoc enim haeret propriis, quod singulas tantum species
continent, hoc generibus, quod plures. Igitur propria quidem singulas optinent
species, genera vero non singulas. Adest igitur proprium uni soli speciei et
semper et omni, genus vero omni quidem et semper sed non soli, ut risibile
homini soli, animal vero eidem homini sed non soli; praeest enim caeteriss quae
irrationabilia nuncupamus. Praeterea si auferatul genus, species interimuntur
-- nam si non sit animal, non erit homo -- si auferas species, non interimitur
genus; nam si non sit homo, animal non peribit. Species vero et propria quoniam
sunt aequalia, alterna sese vice consumunt; nam si non sit risibile, homo non
erit, si homo non sit, risibile non manebit. Consumunt igitur genera sub se
positas species, non vero ab his invicem consumuntur, species vero et proprium
invicem perimuutur et perimunt. GENERIS VERO ET ACCIDENTIS COMMUNE EST DE
PLURIBUS, QUEMADMODUM DICTUM EST, PRAEDICARI, SIVE SEPARABILIUM SIT SIVE
INSEPARABILIUM; ETENIM MOVERI DE PLURIBUS ET NIGRUM DE CORUIS ET DE HOMINIBUS
AETHIOPIBUS ET ALIQUIBUS INANIMATIS. Nihil est quod inter caetera ita sit a
generis ratione disiunctum. Sicut est accidens. Nam cum genus cuiuslibet
substantiam monstret, accidens vero a substantia longe disiunctum sit et
extrinsecus veniens, nihil fere notius commune potest habere cum genere quam de
pluribus praedicari. Genus enim de plaribus praedicatur speciebus, accidens
vero de pluribus non modo speciebus, verum etiam generibus animatis atque
inanimatis, ut nigrum dicitur de rationabili homine, de irrationabili coruo et de
inanimato hebeno, album etiam de cygno et marmore, moveri de homine, de equo et
de stellis ac de sagitta, quae sunt separabilis accidentis exempla. DIFFERT
AUTEM GENUS AB ACCIDENTI, QUONIAM GENUS ANTE SPECIES EST, ACCIDENTIA VERO
SPECIEBUS POSTERIORA SUNT; NAM SI ETIAM INSEPARABILE SUMATUR ACCIDENS SED TAMEN
PRIUS EST ILLUD CUI ACCIDIT QUAM ACCIDENS. ET GENERE QUIDEM QUAE PARTICIPANT,
AEQUALITER PARTICIPANT, ACCIDENTI VERO NON AEQUALITER; INTENTIONEM ENIM ET
REMISSIONEM SUSCIPIT ACCIDENTIUM PARTICIPATIO, GENERUM VERO MINIME. ET
ACCIDENTIA QUIDEM IN INDIVIDUIS PRINCIPALITER SUBSISTUNT, GENERA NERO ET
SPECIES NATURALITER PRIORA SUNT INDIVIDUIS SUBSTANTIIS. ET GENERA QUIDEM IN EO
QUOD QUID SIT PRAEDICANTUR DE HIS QUAE SUB IPSIS SUNT, ACCIDENTIA VERO IN EO QUOD
QUALE ALIQUID SIT VEL QUOMODO SE HABEAT UNUMQUODQUE; QUALIS EST ENIM AETHIOPS
INTERROGATUS DICES 'NIGER', ET QUEMADMODUM SE SOCRATES HABEAT, DICES QUONIAM
SEDET VEL AMBULAT. Differentiam generis et accidentis hanc primam proponit,
quod genus quidem ante species sit, quippe quod mateliae loco est et
differentiis informatum species gignit, at vero accidens post species
invenitur. Oportet enim prius esse cui aliquid accidat, post vero ipsum
accidens supervenire; nam si subiectum non sit quod suscipiat, accidens esse
non poterit. Quodsi genus quidem speciebus subiectum est nec possunt esse
species, nisi eis genus veluti materia supponatur, accidentia vero esse non
possunt, nisi eis species supponantur, manifestum est genus quidem esse ante
species, accidentia vero post species. Rursus alia differentia, quoniam genus
neque intentionem neque remissionem suscipere potest. Quo fit ut quae
participant genere, aequaliter eius nomen definitionemque suscipiant; omnes
enim homines aequaliter animalia sunt eodernque modo equi, necnon inter se homo
atque equus et caetera animalia comparata aeque animalia praedicantur.
Accidentis vero participatio et intenditur et remittitur. Invenies enim
quemlibet paulo diutius ambulantem, paulo amplius nigrum et in ipsis
Aethiopibus considerabis omnes non aeque nigro colore obductos. Alia quoque
differentia est, quoniam omne accidens in individuis principaliter subsistit,
genera vero et species individuis priora sunt; nisi enim singuli corui ƿ
nigredine infecti essent, corui species nigra esse minime diceretur. Ita fit ut
accidentia post individua esse videantur. Nam si prius est id cui aliquid
accidit quam illud quod accidit, non est dubium prius esse individua, posterius
vero accidens. Genera vero et species supra individua considerantur; hoc
idcirco, quoniam de his omnibus praedicantur eorumque substantiam propria
praedicatione constituunt. Sed dici potest genera quoque ipsa et species
posteriora individuis inveniri; nam nisi sint singuli homines singulique equi,
hominis atque equi species esse non possunt, et nisi singulae species sint,
eorum genus animal esse non poterit. Sed meminisse debemus superius dictum
esse genus non ex his sumere substantiam de quibus praedicatur sed de eo
potius, quod differentiis constitutivis eorum substantia formaque perficitur.
Itaque si genus quidem divisivis differentiis interemptis non perimitur sed
manet in his quae eius constitutivae sunt eiusque formam definitionemque
perficiunt, cumque differentiae divisivae generis speciebus sint priores --
ipsas enim species conformant atque constituunt -- non est dubium quin genus
etiam pereuntibus speciebus possit in propria manere substantia. Idem de
speciebus dictum sit; species enim superioribus differentiis, non posterioribus
individuis informantur. Quae cum ita sint, species quoque ante individua
subsistunt. Accidentia vero nisi sint ƿ quibus accidant, esse non possunt,
nullis vero prius accidunt quam individuis; haec enim generationi et
corruptioni supposita variis semper accidentibus permutantur. Illam quoque
adnumerat differentiam quae est superius dicta, quod genus quidem, quia rem
demonstrat et de substantia praedicatur, in eo quod quid est dicitur, accidens
vero in eo quod quale est aut in eo quod quomodo sese habet res. Nam si
qualitatem interroges, accidens respondebitur, ut si qualis est coruus,
'niger', si quomodo sese habeat, aliud rursus accidens, aut 'sedet' aut 'uolat'
aut 'crocitat'. Nam cum accidens in novem praedicamenta dividatur, qualitatem,
quantitatem, ad aiiquid, ubi, quando, situm, habitum, facere, pati, caetera
quidem omnia in {quomo do se habeat' in terrogatione pomlntur, qualitas vero in
qualitatis sciscitatione responderi solet. Nam si interrogemur qualis est
Aethiops, respondebimus accidens, id est 'niger', si quomodo se habeat Socrates,
tunc dicemus aut 'sedet' aut 'ambulat' aut superiorum aliquid accidentium.GENUS
VERO QUO AB ALIIS QUATTUOR DIFFERAT, DICTUM EST. CONTINGIT AUTEM ETIAM
UNUMQUODQUE ALIORUM DIFFERRE AB ALIIS QUATTUOR, UT CUM QUINQUE QUIDEM SINT,
UNUMQUODQUE AUTEM AB ALIIS QUATTUOR DIFFERAT. QUATER QUINQUE, viGINTI FIANT
OMNES DIFFERENTIAE SED SEMPER POSTERIORIBUS ENUMERATIS ET SECUNDIS QUIDEM UNA
DIFFERENTIA SUPERATIS, PROPTEREA QUIA IAM SUMPTA EST, TERTIIS VERO DUABUS,
QUARTIS VERO TRIBUS, QUINTIS VERO QUATTUOR, DECEM OMNES FIUNT, QUATTUOR, TRES,
DUAE, UNA. GENUS ENIM DIFFERT A DIFFERENTIA ET SPECIE ET PROPRIO ET ACCIDENTI;
QUATTUOR IGITUR SUNT OMNES DIFFERENTIAE. DIFFERENTIA VERO QUO DIFFERAT A GENERE
DICTUM EST, QUANDO QUO DIFFERRET GENUS AB EA DICEBATUR; RELINQUITUR IGITUR QUO
DIFFERAT AB SPECIE ET PROPRIO ET ACCIDENTI DICERE, ET FIUNT TRES. RURSUS
SPECIES QUO ƿ QUIDEM DIFFERAT A DIFFERENTIA DICTUM EST, QUANDO QUO DIFFERRET
DIFFERENTIA AB SPECIE, DICEBATUR; QUO AUTEM DIFFERAT SPECIES A GENERE, DICTUM
EST, QUANDO QUO DIFFERRET GENUS AB SPECIE DICEBATUR; RELIQUUM EST IGITUR, UT
QUO DIFFERAT A PROPRIO ET ACCIDENTI DICATUR DUAE IGITUR ETIAM ISTAE SUNT
DIFFERENTIAE. PROPRIUM AUTEM QUO DIFFERAT AB ACCIDENTI RELINQUITUR; NAM QUO AB
SPECIE ET DIFFERENTIA ET GENERE DIFFERAT, PRAEDICTUM EST IN ILLORUM AD IPSUM
DIFFERENTIA. QUATTUOR IGITUR SUMPTIS GENERIS AD ALIA DIFFERENTIIS, TRIBUS VERO
DIFFERENTIAE, DUABUS AUTEM SPECIEI, UNA AUTEM PROPRII AD ACCIDENS, DECEM ELUNT
OMNES, QUARUM QUATTUOR, QUAE ERANT GENERIS AD RELIQUA, SUPERIUS DEMONSTRAVIMUS.Quoniam
differentias atque communitates generis ad differentiam, ad speciem, ad
proprium atque accidens persecutus est, idem quoque ad caeteras facere
contendens praedicit, quot omnes differentiae possint esse quae inter se
comparatis commixtisque ƿ rebus his quae supra propositae sunt efficiantur.
Sunt autem viginti. Nam cum quinque sint res, unaquaeque res earum si a
quattuor aliis differat, quinquies quater, viginti differentiae fiunt, quod
appositarum litterarum manifestatur exemplo. Sint quinque res veluti quinque
litterae A B C D E. Differat igitur A quidem ab aliis quattuor, id est B C D E,
fient quattuor differentiae. Rursus B differat ab aliis quattuor, id est A C D
E, erunt rursus quattuor; quae superioribus iunctae octo coniungunt. C vero
tertia ab reliquis differt quattuor, scilicet A B D E; quae quattuor
differentiae superioribus octo copulatae duodecim reddunt. Quarta D reliquis
quattuor comparetur differatque ab eisdem, id est A B C E, fient igitur rursus
quattuor; quae superioribus duodecim appositae sedecim copulant. Quodsi ultima
B ab aliis quattuor differat, scilicet A B C D, fient aliae quattuor
differentiae; quae compositae prioribus viginti perficiunt. Et sit quidem
huiusmodi descriptio: A --> B C D E B --> A C D E C --> A B D E D
--> A B C E E --> A B C D. Quae cum ita sint, in generibus quoque et
speciebus et caeteris idem considerabitur. Erunt ergo quattuor differentiae,
quibus genus a differentia, specie, proprio accidentique disiungitur; aliae
rursus quattuor, quibus differentia a genere, specie, proprio atque accidenti
discrepat; rursus quattuor speciei ad genus ac differentiam, proprium atque
accidens; quattuor etiam proprii ad genus, differentiam, speciem atque
accidens; quattuor in super accidentis ad genus, differentiam, speciem atque
proprium. Quae coniunctae omnes viginti explicant differentias. Sed hoc, si ad
numeri refelatur naturam comparationisque alternationem; nam si ad ipsas
differentiarum naturas vigilans lector aspiciat, easdem saepe differentias inveniet
sumptas. Quo enim genus differt a differentia, eodem differentia distat a
genere, et quo differentia distat ab specie, eodem species a differentia
disgregatur, et in caeteris eodem modo. In hac igitur dispositione
differentianlm, quam supla disposui, easdem saepius adnumeravi. Atque si
differentiarum similitudines detrahamus, decem fiunt omnino differentiae, quas
ad praesentem tractatum velut diversas atque dissimiles oportet assumere. Age
enim differat genus a differentia, specie, proprio ƿ atque accidenti, quattuor
differentiis, quas supra iam diximus. Item sumamus differentiam, distabit haec
a genere primum, dehinc ab specie, proprio atque accidenti. Sed quo discrepet a
genere, iam superius explicatum est, cum diceremus quo genus a differentia
discreparet. Detracta igitur hac comparatione, quoniam supra commemorata est,
relinquuntur tres distantiae quibus differentia ab specie, proprio accidentique
disiungitur; quae iunctae cum superioribus quattuor septem differentias
reddunt. Post hanc species si sumatur, quattuor quidem eius essent differentiae
secundum numeri diversitatem, cum ad genus, a differentiam, proprium atque
accidens comparatur sed priores duae comparationes iam dictae sunt. Nam quo
species differat a genere tunc dictum est, cum quid genus differret ab specie
dicebamus, quid vero species a differentia distet commemoratum est, cum
differentiae ab specie dissimilitudines redderemus. Quibus detractis duae
supersunt integrae atque intactae speciei ad proprium atque accidens
discrepantiae; quae iunctae cum septem novem differentias copulant. Proprii
vero si ad numerum differentiae considerentur, quattuor erunt, scilicet ad
genus, differentiam, speciem atque accidens comparati, quarum quidem tres
superiores differentiae iam dictae sunt. Nam quid proprium distet a genere,
tunc dictum est, cum quid genus a proprio distaret ostendimus, rursus quid
proprium a differentia discrepet, in colligenda distantia differentiae
propriique superius ƿ demonstratum est, quid vero proprium distet ab specie,
tunc expositum est, cum quid species distaret a proprio dicebatur. Restat
igitur una differentia proprii ad accidens, quae superioribus iuncta decem
differentias claudit. Accidentis vero ad caetera possent quidem esse quattuor,
nisi iam omnes probarentur esse consumptae. Nam quid differat vel genus vel
differentia vel species vel proprium ab accidenti, supra monstratum est, nec
sunt diversae differentiae accidentis ad caetera quam caeterorum ad accidens.
Itaque fit, ut cum sit quinque rerum numerus, si prima assumatur, quattuor
fiant differentiae, si secunda, tres, vincanturque secundae rei ad caeteras
differentiae a prima ad caeteras una tantum distantia; nam cum prima habuerit
quattuor, secunda retinet tres. Tertia vero si sumatur, duas habebit
differentias, quae vincantur a primis quattuor differentiis duabus; quarta si
sumatur, unam habebit differentiam, quae vincitur a primis quattuor
differentiis tribus, quinta vero quoniam nullam omnino habebit differentiam
nouam, totis quattuor a prima differentiis superatur. Atque hoc numerorum gradu
quidem usque ad denarium numerum tenditur: quattuor, tres, duae, una, ut
generis quidem quattuor, differentiae vero tres, speciei duae, proprii una,
accidentis nulla sit. Et primae quidem generis comparationes quattuor nouas
tenent differentias, secundae vero differentiae comparationes tres nouas
tenent; una enim superius adnumerata est, vincitur autem a primis quattuor
novis differentiis una tantum. Speciei vero tertia comparatio dnas tantum habet
differentias nouas, duas quippe superius adnumeratas agnoscimus, et vincitur a
quattuor primis duabus tantum differentiis novis. Proprium vero unam retineat
nouam, quoniam tres habet superius adnumeratas, vincaturque a prima novis
tribus differentiis, quinti vero accidentis comparationes quoniam nullam
retinent nouam differentiam, totis quattuor a primis generis transcendantur.
Atque ad hunc modum ex viginti differentiis secundum numerum decem secundum
dissimilitudinem contrahuntur. ut tamen has secundum dissimilitudinem
differentias non in quinario tantum numero, verum in caeteris notas habere
possimus, talis dabitur regula quae plenam differentiarum dissimilitudinem in
qualibet numeri pluralitate repeliat. Propositarum enim rerum numero si unum
dempseris atque id quod dempto uno relinquitur, in totam summam numeri
multiplicaveris, eius quod ex multiplicatione factum est dimidium coaequabitur
ei pluralitati quam propositarum rerum differentiae continebunt. Sint igitur
res quattuor A B C D; his aufero unum, fiunt tres; has igitur quater multiplico,
fient duodecim; horum dimidium ƿ teneo, sex erunt. Tot igitur erunt
differentiae inter se rebus quattuor comparatis: A quippe ad B et C et D tres
retinet differentias, rursus B ad C et D duas, C vero ad D unam; quae iulletae
senarium numerum complent. Atque hanc quidem regulam simpliciter ac sine
demonstratione nunc dedisse sufficiat, in Praedicamcntorum vero expositione
ratio quoque cur ita sit explicabitur. COMMUNE ERGO DIFFERENTIAE ET SPECIEI EST
AEQUALITER PARTICIPARI; HOMINE ENIM AEQUALITER PARTICIPRNT PARTICULARES HOMINES
ET RATIONALI DIFFERENTIA. COMMUNE VERO EST ET SEMPER ADESSE HIS QUAE
PARTICIPANT; SEMPER ENIM SOCRATES RATIONALIS ET SEMPER SOCRATES HOMO. Dictum
est saepius ea quae substantiam formant, nec remissione contrahi nec intentione
produci; uni cuique enim id quod est, unum atque idem est. Quodsi differentia
specierum substantiam monstret, species vero individuorum, aequaliter utraque
ab intentione et remissione seiuncta sunt; quo fit ut aequaliter participentur.
Omnes enim individui mortales aeque sunt atque rationales sicut homines. Nam si
idem est 'esse' homini quod est 'esse rationale', cum omnes homines aeque sint
homines, necesse est ut sint aequaliter rationales. Aliud quoque commune habent
quoniam ita differentiae sui participantia non relinquut ut species. Semper
enim Socrates rationalis est -- Socrates enim rationabilitate participat --
semper homo est, quia scilicet humanitate participat. Ut igitur differentiae
sui participantia non relinqbunt, ita species his quae ea participant, semper
adiuncta est. PROPRIUM AUTEM DIFFERENTIAE QUIDEM EST IN EO QUOD QUALE SIT
PRAEDICARI, SPECIEI VERO IN EO QUOD QUID EST; NAM ET SI HOMO VELUT QUALITAS
ACCIPIATUR, NON SIMPLICITER ƿ ERIT QUALITAS SED SECUNDUM ID QUOD GENERI
ADVENIENTES DIFFERENTIAE EAM CONSTITUERUNT. AMPLIUS DIFFERENTIA QUIDEM IN
PLURIBUS SAEPE SPECIEBUS CONSIDERATUR, QUEMADMODUM QUADRUPES IN PLURIBUS
ANIMALIBUS SPECIE DIFFERENTIBUS, SPECIES VERO IN SOLIS HIS QUAE SUB SPECIE SUNT
INDIVIDUIS EST. AMPLIUS DIFFERENTIA PRIMA EST AB EA SPECIE QUAE EST SECUNDUM
IPSAM; SIMUL ENIM ABLATUM RATIONALE INTERIMIT HOMINEM, HOMO VERO INTEREMPTUS
NON AUFERT RATIONALE, CUM SIT DEUS. AMPLIUS DIFFERENTIA QUIDEM COMPONITUR CUM
ALIA DIFFERENTIA -- RATIONALE ENIM ET MORTALE COMPOSITUM EST IN SUBSTANTIA
HOMINIS -- SPECIES VERO SPECIEI NON COMPONITUR, UT GIGNAT ALIAM ALIQUAM
SPECIEM; QUIDAM ENIM EQUUS CUIDAM ASINO PERMISCETUR AD MULI GENERATIONEM, EQUUS
AUTEM SIMPLICITER ASINO NUMQUAM CONVENIENS PERFICIET MULUM. Expositis
communitatibus quantum ad institutionem pertinebat differentiae et speciei,
eorundem nunc dissimilitudines colligit dicens quoniam differunt, quod species
in eo quod quid sit praedicatur, differentia vero in eo quod quale sit. Huic
differentiae poterat occurri. Nam si humanitas ipsa, quae species est, qualitas
quaedam est, cur dicatur species in eo quod quid sit praedicari, cum propter
quandam suae naturae ƿ proprietatem quaedam qualitas esse videatur? Huic
respondemus, quia differentia solum qualitas est, humanitas vero non est solum
qualitas sed tantum qualitate perficitur. Differentia enim superveniens generi
speciem fecit; ergo genus quadam differentiae qualitate formatum est, ut
procederet in speciem, species vero ipsa, qualis quidem est, secundum
differentiam illius quae est pura ac simplex qualitas, qua scilicet perficitur
et conformatur, qualitas vero ipsa pura simplexque nullo modo est sed ex
qualitatibus effecta substantia. Itaque iure differentia, quae pure ac
simpliciter qualitas est, in eo quod quale est sciscitantibus respondetur,
species vero in eo quod quid sit, licet ipsa quoque quaedam qualitas sit non
simplex sed aliis qualitatibus informata. Rursus illa quoque differentia est,
quia plures sub se species differentia continet, species vero tantum individuis
praesunt. Rationabilitas enim et hominem claudit et deum, quadrupes equum,
bovem, canem et caetera, homo vero solos individuos. Atque in aliis speciebus
eadem ratio est. Idcirco enim definitiones quoque secutae sunt, ut differentia
vocaretur quod in pluribus specie differentibus in eo quod quale sit
praedicatur, species vero quod de pluribus numero differentibus in eo quod quid
sit praedicatur. Ideo etiam superioris naturae sunt differentiae, quoniam
continentes sunt specierum. Nam si quis auferat differentiam, speciem ƿ quoque
sustulerit, ut si quis auferat rationabilitatem, hominem deumque consumpserit,
si vero hominem tollat, rationabiiitas nuanet in speciebus reliquis constituta.
Est igitur differentiae specieique distantia quod una differentia plures
species contmerc potest, species vero nullo modo. Alia rursus est dlfferentia,
quoniam ex pluribus differentiis una saepe species iungitut, ex pluribus
speciebus nulla speciei substantia copulatur. Iunctis enim differentiis mortali
ac rationali factus est homo, iunctis vero speciebus nulla umquam species
informatur. Quodsi quis occurrat dicens quoniam permixtus asino equus efficit
mulum, non recte dixerit. Individua enim individuis iuncta individua rursus
alia fortasse perficiunt, ipseuero equus simpliciter, id est universaliter, et
asinus universaliter neque permisceri possunt neque aliquid, si cogitatione
misceantur, efficiunt. Constat igitur differentias quidem plurimas ad unius
speciei substantiam convenire, species vero in alterius speciei naturam nililo
modo posse congruere. DIFFERENTIA VERO ET PROPRIUM COMMUNE QUIDEM HABENT
AEQUALITER PARTICIPARI AB HIS QUAE EORUM PARTICIPANT; AEQUALITER ENIM
RATIONALIA RATIONALIA SUNT ET RISIBILIA RISIBILIA. ET SEMPER ET OMNI ADESSE
COMMUNE ƿ UTRIUSQUE EST. SI ENIM CURTETUR QUI EST BIPES SED AD ID QUOD NATUM
EST SEMPER DICITUR; NAM ET RISIBILE IN EO QUOD NATUM EST HABET ID QUOD EST
SEMPER SED NON IN EO QUOD SEMPER RIDEAT. Nunc differentiae propriique communia
continua ratione persequitur. Commune enim dicit esse proprio ac differentiae
quod aequaliter participantur -- aeque enim omnes homines rationabiles sunt,
aeque risibiles -- illud, quia substantiam monstrat, istud, quia est aequum
proprium speciei et subiectam speciem non relinquit. Aliud etiam his commune
subiungit: aequaliter enim semper differentia subiectis adest ut proprium;
semper enim homines rationabiles sunt, ut semper quoque risibiles. Sed obici
poterat non semper esse bipedem hominem, cum sit bipes differentia, si unius
pedis perfectione curtetur. Quam tali modo solvimus quaestionem. Propria et
differentiae non in eo quod semper habeantur sed in eo quod semper natutaliter
haberi possunt, semper dicuntur adesse subiectis. ƿ Si enim quis curtetur pede,
nihil attinet ad naturam, sicut nihil ad detrahendum proprium valet, si homo
non rideat. Haec enim non in eo quod assint sed in eo quod per naturam adesse
possint, semper adesse dicuntur. Ipsum enim semper non actu esse dicimus sed
natura. Numquam enim fieri potest, ut per naturae ipsius proprietatem non
semper homo bipes sit, etiamsi potest fieri, ut pede curtetur, etiam si
deminuto pede sit natus; in his enim non speciei atque substantiae sed nascenti
individuo derogatur. PROPRIUM AUTEM DIFFERENTIAE EST QUONIAM HAEC QUIDEM DE
PLURIBUS SPECIEBUS DICITUT SAEPE, UT RATIONALE DE HOMINE ET DE DEO, PROPRIUM
vero DE UNA SOLA SPECIE, CUIUS EST PROPRIUM. ET DIFFERENTIA QUIDEM ILLIS EST
CONSEQUENS QUORUM EST DIFFERENTIA SED NON CONVERTITUR, PROPRIA VERO CONVERSIM
PRAEDICANTUR QUORUN SUNT PROPRIA, IDCIRCO QUONIAM CONVERTUNTUR. Distat a
proprio differentia, quia differentia plurimas species ƿ claudit ac de his
omnibus praedicatur, proprium vero uni tantum speciei cui iungitur adaequatur.
Rationale enim de homine atque de deo, quadrupes de equo et caeteris
animalibus, risibile vero unam tantum tenet speciem, id est hominem. Unde fit
ut differentia semper speciem consequatur, species vero differentiam minime.
Proprium vero ac species alterius sese vicibus aequa praedicatione comitantur.
Sequi vero dicitur, quotiens quolibet prius nominato posterius reliquum
convenit nuncupari, ut si dicam 'omnis homo rationabilis est', prius hominem,
posterius apposui differentiam; sequitur ergo differentia speciem. At si
convertam nomina dicamque 'omnis rationabile homo est', propositio non tenet
veritatem; igitur species differentiam nulla ratione comitatur. Proprium vero
et species quia converti possunt, mutuo se secuntur: omnis homo risibilis est
et omne risibile homo est. DIFFERENTIAE AUTEM ET ACCIDENTI COMMUNE QUIDEM EST
DE PLURIBUS DICI, COMMUNE VERO AD EA QUAE SUNT INSEPARABILIA ACCIDENTIA, SEMPER
ET OMNIBUS ADESSE; BIPES ENIM SEMPER ADEST OMNIBUS CORUIS ET NIGRUM ESSE
SIMILITER. Duo quidem differentiae et aecidentis communia proponit, quorum unum
separabilibus et inseparabilibus accidentibus cum differentia commune est, ab
altero vero separabile accidens segregatur. Tantum vero inseparabile secundo
communi concluditur. Est enim commune differentiae cum omnibus accidentibus de
pluribus praedicari; nam et separabilia et inseparabilia accidentia sicut
differentia de pluribus speciebus et individuis praedicantur, ut bipes de coruo
atque cygno et de his individuis quae sub coruo et cygno sunt, nuncupatur. Item
de eodem coruo atque cygno album et nigrum, quae sunt inseparabilia accidentia,
praedicantur. Ambulare enim vel stare, dormire ac vigilare de eisdem dicimus,
quae sunt accidentia separabilia, reliqua vero communitas ea tantum accidentia
videtur includere quae sunt inseparabilia. Nam sicut differentia semper
subiectis speciebus adhaerescit, ita etiam inseparabilia accidentia numquam
videntur deserere subiectum. ut enim bipes, quod est differentiat numquam
coruorum speciem derelinquit, ita nec nigrum, quod accidens inseparabile est.
Differentia enim idcirco non relinquit subiectum, quoniam cius substantiam complet
ac perficit, accidens vero huiusmodi, quia noo potest separari; neque enim
possit esse accidens inseparabile, si subiectum aliquando relinquit. DIFFERUNT
AUTEM QUONIAM DIFFERENTIA QUIDEM CONTINET ET NON CONTINETUR -- CONTINET ENIM
RATIONABILITAS HOMINEM -- ACCIDENTIA VERO QUODAM QUIDEM MODO CONTINENT EO QUOD
IN PLURIBUS SUNT, QUODAM VERO MODO CONTINENTUR EO QUOD NON UNIUS ACCIDENTIS
SUSCEPTIBILIA SUNT SUBIECTA SED PLURIMORUM. ET DIFFERENTIA QUIDEM
ININTENTIBILIS EST ET IRREMISSIBILIS, ACCIDENTIA VERO MAGIS ET MINUS RECIPIUNT.
ET IMPERMIXTAE QUIDEM SUNT CONTRARIAE DIFFERENTIAE, MIXTA VERO CONTRARIA
ACCIDENTIA. HUIUSMODI QUIDEM COMMUNIONES ET PROPRIETATES DIFFERENTIAE ET
CAETERORUM SUNT, SPECIES VERO QUO QUIDEM DIFFERAT A GENERE ET DIFFERENTIA,
DICTUM EST IN EO QUOD DICEBAMUS, QUO GENUS DIFFERRET A CAETERIS ET QUO DIFFERENTIA
DIFFERRET A CAETERIS. Post differentiae et accidentis redditas communitates
nunc de eorum differentiis tractat. Ac primum quidem talem proponit. Differentia,
inquit, omnis speciem continet rationabilitas enim continet hominem, quoniam
plus rationabilitas quam species, id est homo, praedicatur: supergressa enim
substantiam hominis in deum usque diffunditur. Accidentia vero aliquando quidem
continent, aliquando continentur. Continent quidem, quia quodlibet unum
accidens speciebus adesse pluribus consuevit, ut album cygno et lapidi? Nigrum
coruo, Aethiopi atque hebeno, continentur vero, quoniam plura accidentia uni
accidunt speciei, ut videatur illa species plurima accidentia continere. Cum enim
Aethiopi accidit ut sit niger, accidit ut sit simus, ut crispus, quae cuncta
sunt accidentia Aethiopis, species, quod est homo, omnia quae habet intra se
plurima accidentia videtur includere. Huic occurri potest: quoniam differentiae
quoque aliquo modo continentur, aliquo modo continent, ut rationabilitas
continet hominem -- plus enim quam de homine praedicatur -- continetur quoque
ab homine, quia non solum hanc differentiam homo continet, verum etiam mortalem.
Respondebimus: omnia quaecumque substantialiter de pluribus praedicantur, ab
his de quibus dicuntur non poterunt contineri; quo fit ut differentiae quidem
non contineantur ab specie, etsi sint differentiae plures quae speciem forment.
Accidentia vero continentur, quoniam accidentia speciei substantiam nulla
praedicatione constituunt; nam nec pioprie universalia dicuntur ƿ accidentia,
cum de speciebus pluribus dicuntur, differentiae vero maxime. Quae enim
quorumlibet universalia sunt, ea necesse est eorum quorum sunt universalia,
etiam substantiam continere. Quo fit ut quia differentiae substantiam
monstrant, intentione ac remissione careant -- una enim quaeque substantia
neque contrahi neque remitti potest -- at vero accidentia quoniam nullam
constitutionem substantiae profitentur, intentione crescunt et remissione
decrescunt. Illa quoque eorum est differentia, quod differentiae contrariae
permisceri, ut ex his fiat aliquid, non queunt, accidentia vero contraria
miscentur et quaedam medietas ex alterutra contrarietate coniungitur. Ex
rationabili enim et irrationabili nihil in unum iungi potest, ex albo vero et
nigro coniunctis fit aliquis medius color. Expositis igitur distantiis
differentiae ad caetera restat de specie dicere, cuius quidem differentias ad
genus ante collegimus, cum generis ad speciem differentias dicetamus, eiuselem
etiam speciei distantias ad differentiam diximus, cum differentiae ad species
dissimilitudines monstrabamus. Restat igitur speciem proprii et accidentium
communioni coniungere, tum differentia segregare. SPECIEI AUTEM ET PROPRII
COMMUNE EST DE SE INVICEM PRAEDICARI; NAM SI HOMO, RISIBILE EST, ET SI
RISIBILE, HOMO EST -- RISIBILE VERO QUONIAM SECUNDUM ID QUOD NATUM EST SUMI
OPORTET, SAEPE IAM DICTUM EST -- AEQUALITER ENIM SUNT SPECIES HIS QUAE EORUM
PARTICIPANT ET PROPRIA QUORUM SUNT PROPRIA. Commune, inquit, habent propria
atque species ad se ipsa praedicationes habere conversas. Nam sicut species de
proprio, ita proprium de specie praedicatur; namque ut est homo risihilis, ita
risibile homo est; idque iam saepius dictum esse commemorat. Cuius communitatis
rationem subdidit, eam scilicet, quia aequaliter species individuis
participantur, sicut eadem propria his quorum sunt propria. Quae ratio non
videtur ad conversionem praedicationis accommoda sed potius ad illam aliam similitudinem,
quia sicut species aequaliter individuis participantur, ita etiam propria;
aeque enim Socrates et Plato homines sunt, sicut etiam risibiles. Itaque
tamquam aliam communionem debemus accipere quod est additum: AEQUALITER ENIM
SUNT SPECIES HIS QUAE EORUM PARTICIPANT ET PROPRIA QUORUM SUNT PROPRIA. An
magis intellegendum est hoc modo dictum, tamquam si diceret 'aequalia enim sunt
species et propria'? Nam quia species eorum sunt species quae speciebus ipsis
participant. Et propria eorum propria quael propriis participant, proprium
atque species aequaliter utrisque sunt, id est neque species superuadit ea quae
specie participant, ƿ neque propria superuadunt ea quae propriis participant.
Cumque haec propria specierum sint propria, species ac propria aequalia esse
necesse est atque invicem praedicari. DIFFERT AUTEM SPECIES A PROPRIO, QUONIAM
SPECIES QUIDEM POTEST ET ALIIS GENUS ESSE, PROPRIUM VERO ET ALIARUM SPECIERUM
ESSE IMPOSSIBILE EST. ET SPECIES QUIDEM ANTE SUBSISTIT QUAM PROPRIUM, PROPRIUM
VERO POSTEA FIT IN SPECIE; OPORTET ENIM HOMINEM ESSE, UT SIT RISIBILE. AMPLIUS
SPECIES QUIDEM SEMPER ACTU ADEST SUBIECTO, PROPRIUM vero ALIQUANDO POTESTATE;
HOMO ENIM SEMPER ACTU EST SOCRATES, NON VERO SEMPER RIDET, QUAMVIS SIT NATUS
SEMPER RISIBILIS. AMPLIUS QUORUM TERMINI DIFFERENTES, ET IPSA SUNT DIFFERENTIA;
EST AUTEM SPECIEI QUIDEM SUB GENERE ESSE ET DE PLURIBUS ƿ ET DIFFERENTIBUS
NUMERO IN EO QUOD QUID EST PRAEDICARI ET CAETERA HUIUSMODI, PROPRII VERO QUOD
EST SOLI ET SEMPER ET OMNI ADESSE. Primam proprii et speciei differentiam dicit
quoniam species potest aliquando in alias species derivari, id est potest esse
genus, ut animal, cum sit species animati, potest esse hominis genus. Sed nunc
non de his speciebus loquitur quae sunt specialissimae, atque hunc confundele
videtur errorem, quod cum de his speciebus dicere proposuerit quae essent
ultimae, nunc de his quae sunt subalternae et saepe locum generis optineant
disserit. Propria vero nullo modo esse genera possunt, quoniam specialissimis
adaequantur; quae quoniam genera esse non queunt, nec propria quae sibi sunt
aequalia, genera es se permittuntur. Rursus species semper ante subsistit quam
proprium -- nisi enim sit homo, risibile esse non poterit -- et cum ista simul
sint, tamen substantiae cogitatio praecedit proprii rationem. Omne enim
proprium in accidentis genere collocatur, eo vero differt ab accidenti, quia
circa omnem solam quamlibet unam speciem vim propriae praedicationis continet.
Quodsi priores sunt substantiae quam accidentia, species vero substantia est,
proprium vero accidens, non est dubium quin prior sit species. Proprium vero
posterius. Discernuntur ƿ etiam species a propriis actus potestatisque natura;
species enim actu semper individuis adest, propria vero aliquotiens actu,
potestate autem semper. Socrates enim et Plato actu sunt homines, non vero
semper actu rident sed risibiles esse dicuntur, quia tametsi non rideant,
ridere tamen potenlnt. Natura itaque species et proprium semper subiectis adest
sed actu species. Proprium vero non semper actu, velut dictum est. At rursus
quoniam definitio substantiam monstrat, quorum diversae sunt definitiones,
diversas necesse est esse substantias; speciei vero et proprii diversae sunt
definitiones, diversae sunt igitur substantiae. Est autem speciei definitio
esse sub genere et de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit
praedicari; quam superius frequenter expositam nunc iterare non opus est.
Proprium vero non ita: definitur: proprium est quod uni et omni et semper
speciei adest. Quodsi definitiones diversae sunt, non est dubium speciem ac
proprium secundum naturae suae terminos discrepare. SPECIEI VERO ET ACCIDENTIS
COMMUNE QUIDEM EST DE PLURIBUS PRAEDICARI; RARAE VERO ALIAE SUNT COMMUNITATES ƿ
PROPTEREA, QUONIAM QUAM PLURIMUM A SE DISTANT ACCIDENS ET ID CUI ACCIDIT. Speciei
atque accidentis similitudinem communem dicit de pluribus praedicari; de
pluribus enim dicitur species, sicut et accidens. Raras vero dicit esse alias
eorum communiones idcirco, quoniam longe diversum est id quod accidit et cui
accidit. Cui enim accidit, subiectum est atque suppositum, quod vero accidit,
superpositum est atque advenientis naturae. Item quod supponitur substantia
est, quod vero velut accidens praedicatur, extrinsecus venit. Quae omnia multam
eius quod est subiectum et eius quad est accidens differentiam faciunt. Tamen
inveniri etiam aliae possunt speciei et accidentis inseparabilis communitates,
ut semper adesse subiectis -- aeque enim homo singulis hominibus semper adest
et inseparabilia accidentia singulis individuis praesto sunt -- et quod sicut
species de his quae individua continet, aeque de pluribus accidentia individuis
praedicantur; nam homo de Socrate et Platone, nigrum vero atque album de
pluribus coruis et cygnis quibus accidit nuncupatur. PROPRIA VERO UTRIUSQUE
SUNT, SPECIEI QUIDEM IN EO QUOD QUID EST PRAEDICARI DE HIS QUORUM EST SPECIES,
ƿ ACCIDENTIS AUTEM IN EO QUOD QUALE QUIDDAM EST VEL ALIQUO MODO SE HABENS; ET
UNAMQUAMQUE SUBSTANTIAM UNA QUIDEM SPECIE PARTICIPARE, PLURIBUS AUTEM
ACCIDENTIBUS ET SEPARABILIBUS ET INSEPARABILIBUS; ET SPECIES QUIDEM ANTE
SUBINTELLEGI QUAM ACCIDENTIA, VEL SI SINT INSEPARABILIA -- OPORTET ENIM ESSE
SUBIECTUM, UT ILLI ALIQUID ACCIDAT -- ACCIDENTIA VERO POSTERIORIS GENERIS SUNT
ET ADVENTICIAE NATURAE. ET SPECIEI QUIDEM PARTICIPATIO AEQUALITER EST,
ACCIDENTIS VERO, VEL SI INSEPARABILE SIT, NON AEQUALITER; AETHIOPS ENIM ALIO
AETHIOPE HABEBIT COLOREM VEL INTENTUM AMPLIUS VEL REMISSUM SECUNDUM NIGREDINEM.
RESTAT IGITUR DE PROPRIO ET ACCIDENTI DICERE; QUO ENIM PROPRIUM AB SPECIE ET
DIFFERENTIA ET GENERE DIFFERT, DICTUM EST. Quod nunc proprium speciei et
accidentis se exequi pollicetur, tale proprium intellegendum est quod, ut
superius dictum est, ad comparationem dicitur differentium rerum. Species enim
in eo quod quid est praedicatur, accidens vero in eo quod quale est. Qua
differentia non ab accidentibus solis species ƿ discernitur, verum etiam a
differentiis ac propriis, nec solum species ab eisdem, verum etiam genus.
Praeterea quod species in eo quod quid est praedicatur, accidens vero in eo
quod quomodo sese habeat, id quoque commune est cum genere; genus quippe ab
accidenti in eo quod quid est et quomodo se habeat praedicatione dividitur.
Item ullam quamque substantiam una videtur species continere, ut Socrntem homo,
atque ideo Socrati una tantum propinquitas est species hominis. Rursus
individuo equo una species equi est proxima, itemque in caeteris; uni cuique
enim substantiae una species praeest. At vero uni cuique substantiae non unum
accidens iungitur; uni cuique enim substantiae plura semper accidentia
superveniunt, ut Socrati quod caluus, quod simus, quod glaucus, quod propenso
ventre, et in aliis quidem substantiis de numero accidentium idem convenit.
Dehinc semper ante accidentia species intelleguntur. Nisi enim sit homo cui
accidat aliquid, accidens esse non poterit, et nisi sit quaelibet substantia
cui accidens possit adiungi, accidens non erit. Omnis autem substantia propria
specie continetur. Recte igitur prins species, accidentia vero posterius
intelleguntur; posterioris enim sunt, ut ait, generis et adventiciae naturae.
Nam quae substantiam non informant, recte adventiciae naturae esse dicuntur et
posterioris generis; his enim substantiis assunt quae ante differentiis
informatae sunt. Rursus quoniam species substantiam ƿ monstrat, substantia
vero, ut dictum est, intentione ac remissione caret, speciei participatio
intentionem remissionemque non suscipit. Accidens vero vel si inseparabile sit,
potest intentionis remissionisque cremento et detrimento variari, ut ipsum inseparabile
accidens quod Aethiopibus inest, nigredo. Potest enim quibusdam talis adesse,
ut sit fuscis proxima, aliis vero talis, ut sit nigerrima. Restat nunc proprii
communiones ac differentias persequi. Sed quo proprium differat a genere vel
specie vel differentia superius demon stratum est, cum quid genus vel species
vel differentia a proprio distaret ostendimus. Nunc reliqua ad communitatem vel
differentiam consideratio est, quid proprium accidentibus aut iungat aut
segreget. COMMUNE AUTEM PROPRII ET INSEPARABILIS ACCIDENTIS EST QUOD PRAETER EA
NUMQUAM CONSTANT ILLA IN QUIBUS CONSIDERANTUR; QUEMADMODUM ENIM PRAETER
RISIBILE NON SUBSISTIT HOMO, ITA NEC PRAETER NIGREDINEM SUBSISTIT ƿ AETHIOPS,
ET QUEMADMODUM SEMPER ET OMNI ADEST PROPRIUM, SIC ET INSEPARABILE ACCIDENS. Quoniam
proprium semper adest speciebus nec eas ullo modo relinquit quoniamque
inseparabile accidens a subiecto non potest segregari, hoc illis inter se
videtur esse commune. Quod ea in quibus insunt, praeter propria vel
inseparabilia accidentia esse non possint. Inseparabilia vero accidentia
comparat, quoniam, ut in specie dictum est, rarissimae sunt speciei atque
accidentis similitudines. Quocirca multo magis proprii atque accidentis
communitates difficile reperiuntur. Accidens enim in contrarium dividi solet,
in separabile accidens atque in inseparabile, quae vero sub genere in
contrarium dividuntur, ea nullo alio nisi tantum generis praedicatione
participant. Quodsi proprium inseparabile quoddam accidens est, a separabili
accidenti plurimum differt, atque ideo nullas proprii et separabilis accidentis
similitudines quaerit. Sed quia ipsum proprium certis quibusdam causis ab
inseparabilibus accidentibus differt, horum et communitates inveniri possunt et
inter se differentiae. Quarum una quidem ea est quam superius exposuimus,
secunda nero quoniam sicut proprium semper et omni speciei adest. Ita etiam
inseparabile accidens; nam sicut risibile omni homini et semper adest, ita
etiam nigredo omni coruo et semper adiuncta est. DIFFERT AUTEM QUONIAM PROPRIUM
UNI SOLI SPECIEI ADEST, QUEMADMODUM RISIBILE HOMINI, IN SEPARABILE VERO
ACCIDENS, UT NIGRUM, NON SOLUM AETHIOPI SED ET IAM CORNO ADEST ET CARBONI ET
HEBENO ET QUIBUSDAM ALIIS. QUARE PROPRIUM CONVERSIM PRAEDICATUR DE EO CUIUS EST
PROPRIUM ET EST AEQUALITER, INSEPARABILE AUTEM ACCIDENS CONVERSIM NON
PRAEDICATUR. ET PROPRIORUM QUIDEM AEQUALITER EST PARTICIPATIO, ACCIDENTIUM VERO
HAEC QUIDEM MAGIS, ILLA VERO MINUS. SUNT QUIDEM ETIAM ALIAE COMMUNITATES VEL
PROPRIETATES EORUM QUAE DICTA SUNT SED SUFFICIUNT ETIAM HAEC AD DISCRETIOLLEM
EORUM COMMUNITATISQUE TRADITIONEM. Proprii atque accidentis prima quidem
differentia est quia proprium semper de una tantum specie dicitur, accidens
vero minime sed eius praedicatio in plurimas diversi generis substantias speciesque
diffunditur. Risibile enim de nullo alio nisi de homine praedicatur, nigrum
vero, quod est inseparabile quibusdam accidens, tam coruo quam Aethiopi, quae
diversa sunt specie, tam coruo atque hebeno, quae differunt generibus, non
tantum specie, praesto est. Quo fit ut propriis quidem ƿ conversio aequa
seruetur, in accidentibus vero minime. Quoniam enim propria in singulis esse
possunt atque omnes continent, species converso ordine praedicantur; nam quod
risibile est homo est, et quod homo, risibile. Nigrum vero non ita sed ipsum
quidem de his praedicari potest quibus inest, illa vero ad huius praedicationem
converti retrahique non possunt; nigrum enim de carbone, hebeno, homine atque
coruo praedicatur, haec vero de nigro minime. Nam quae plurima continent, de
his quae continent praedicari possunt, ea vero quae continentur, de sese
continentibus nullo modo nuncupantur. Rursus proprium quidem aequaliter
participatur, accidens remissionibus atque intentionibus permutatur. Omnis enim
homo aeque risibilis est, Aethiops vero non aequaliter niger est sed, ut dictum
est. Alius quidem panlo minus niger, alius vero tacterrimus invenitur. Et de
proprii quidem atque accidentis differentiis satis dictum est. Restabat vero
accidentis ad caetera communiones proprietatesque explicare sed iam superius
adnumeratae sunt, cum generis, differentiae, speciei et proprii ad accidens
similitudines ac differentias assignavimus. Fortasse autem his institutus
animus et sollertior factus alias praeter eas quas nunc diximus communitates
vel differentias quinque rerum quae superius sunt positae reperiet sed ad
discretionem atque eorum similitudines comparandas ea fere quae sunt dicta
sufficiunt. Nos etiam, quoniam promissi operis portum tenemus atque huius libri
seriem primo quidem ab rhetore Victorino, post vero a nobis ƿ Latina oratione
conversam gemina expositione patefecimus, hic terminum longo statuimus operi
continenti quinque rerum disputationem et ad Praedicamenta servanti. Expeditis
his quae ad praedicamenta Aristotelis Porphyrii institutione digesta sunt, hos
quoque commentarios in praedicamenta perscribens mediocris styli seriem
persecutus, nihil de aliorum quaestionum tractatione permiscui sed dilucidandi
moderatione servata, nec angere lectorem brevitate volui nec dilatatione
confundere. Quare prius breviter huius operis aperienda videtur intentio, quae
est huiusmodi: Rebus praeiacentibus, et in propria principaliter naturae
constitutione manentibus, humanum solum genus exstitit, quod rebus nomina
posset imponere. Unde factum est ut sigillatim omnia prosecutus hominis animis
singulis vocabula rebus aptaret. Et hoc quidem (verbi gratia) corpus hominem
vocavit, illud vero lapidem, aliud lignum, aliud vero colorem. Et rursus
quicumque ex se alium genuisset, patris vocabulo nuncupavit. Mensuram quoque
magnitudinis proprii forma nominis terminavit, ut diceret bipedale esse, aut
tripedale, et in aliis eodem modo. Omnibus ergo nominibus ordinatis, ad ipsorum
rursus vocabulorum proprietates figurasque reuersus est, et huiusmodi vocabuli
formam, quae inflecti casibus possit, 'nomen' vocavit; quae vero temporibus
distribui, 'uerbum'. Prima igitur illa fuit nominum positio, per quam vel
intellectui subiecta vel sensibus designaret. Secunda consideratio, qua
singulas proprietates nominum figurasque perspicerent, ita ut primum nomen sit
ipsum rei vocabulum: ut, verbi gratia, cum quaelibet res homo dicatur. Quod
autem ipsum vocabulum, id est homo, nomen vocatur, non ad significationem
nominis ipsius refertur sed ad figuram, idcirco quod possit casibus inflecti.
Ergo prima positio nominis secundum significationem vocabuli facta est, secunda
vero secundum figuram: et est prima positio, ut nomina rebus imponerentur, secunda
vero ut aliis nominibus ipsa nomina designarentur. Nam cum homo vocabulum sit
subiectae substantiae, id quod dicitur homo, nomen est hominis, quod ipsius
nominis appellatio est. Dicimus enim, Quale vocabulum est homo? et proprie
respondetur: nomen. In hoc igitur opere haec intentio est de primis rerum
nominibus et de vocibus res significantibus disputare, non in eo quod secundum
aliquam proprietatem figuramque formantur sed in eo quod significantes sunt.
Nam quodcumque de substantia vel facere vel pati dicitur, non ita tractatur
quasi unum eorum casibus inflecti possit, aliud vero temporibus permutari sed
quasi aut hominem, aut equum, aut individuum aliquod, aut speciem genusue
significet. Est igitur huius operis intentione vocibus res significantibus in
eo quod significantes sunt pertractare. Haec quidem est tempori introductionis,
et simplicis expositionis apta sententia, quam nos nunc Porphyrium sequentes,
quod videbatur expeditior esse planiorque digessimus. Est vero in mente de
intentione, utilitate et ordine, tribus quaestionibus disputare, videlicet in
alio commentario quem componere proposui de eisdem categoriis ad doctiores,
quarum una est quid praedicamentorum velit intentio, ibique numeratis
diversorum sententiis, docebimus cui vostrum quoque accedat arbitrium, quod
nemo huic in praesentia sententiae repugnare miretur, cum videat quanto illa
sit altior cuius non nimium ingredientium mentes capaces esse potuissent, ad
quos mediocriter imbuendos ista
conscripsimus. Afficiendi ergo, et quodammodo disponendi mediocri expositione
sunt in ipsi quasi disciplinae huius foribus, quos ad hanc paramus scientiam
admittere. Hanc igitur causam mutatae sententiae utriusque operis lector
agnoscat, quod illic ad scientiam Pythagoricam perfectamque doctrinam, hic ad
simplices introducendorum motus expositionis sit accommodata sententia. Sed
nunc ad propositum reuertamur, sitque in praesens praedicamentorum intentio,
quae superius est comprehensa, id est, de primis vocibus significantibus prima
rerum genera in eo quod significantes sunt disputare: et quoniam res infinitae
sunt, infinitas quoque voces quae significant eas esse necesse est: sed
infinitorum nulla cognitio est, infinita namque animo comprehendi nequeunt.
Quod autem ratione mentis circumdari non potest, nullius scientiae fine
concluditur, quare infinitorum scientia nulla est: sed hic Aristoteles non de
infinitis rerum significationibus tractat sed decem praedicamenta constituens,
ad quae ipsa infinita multitudo significantium vocum referri debeat,
terminavit: ut, verbi gratia, cum dico homo, lignum, lapis, equus, animal,
plumbum, stannum, argentum, aurum, et alia huiusmodi quae nimirum infinitum
sunt, haec omnia ad unum substantiae vocabulum deducantur. Haec namque, etsi
qua sunt alia quae certae sunt infinita vocabula unum substantiae nomen
includit. Rursus cum dico bipedale, tripedale, sex, quattuor, decem, lineam
superficiem, soliditatem, et quaecumque alia ex eodem genere qua infinita sunt,
uno quantitas nomine continentur, ut haec omnia sub quantitate ponantur. Rursus
cum dico album, vel scientiam, vel bonum, vel malum, vel alia huiusmodi, quaeque
in hoc quoquo genere infinita sunt, unum tamen nomen concludens omnia
qualitatis occurrit, et de aliis quoque similiter. Rerum ergo diversarum
indeterminatam infinitamque multitudinem, decem praedicamentorum paucissima
numerositate concludit, ut ea quae infinita sub scientiam cadere non poterant,
decem propriis generibus definita scientiae comprehensione claudantur. Ergo
decem praedicamenta quae dicimus, infinitarum in vocibus significationum genera
sunt sed quoniam omnis vocum significatio de rebus est, quae voce significantur
in eo quod significantes sunt, genera rerum necessario significabunt. Ut igitur
concludenda sit intentio, dicendum est in hoc libro de primis vocibus, prima
rerum genera significantibus in eo quod significantes sunt, dispositum esse
tractatum. Sed quoniam de intentione dictum est, breviter huius operis utilitas
explicanda est. Nam cum res infinitae infinitis quoque vocibus significarentur,
et (ut dictum est) sub scientiam venire non possent, hac definitione, qua decem
praedicamentorum divisio facta est, cunctarum rerum et vocum significantium
acquirimus disciplinam. Hinc est quod ad logicum tendentibus primus hic liber
legendus occurrit, idcirco quod cum omnis logica syllogismorum ratione sit
constituta syllogismi vero propositionibus iungantur, propositiones vero
sermonibus constent, prima est utilitas quid quisque sermo significet, propriae
scientiae definitione cognoscere. Haec quoque nobis de decem praedicamentis
inspectio, et in physica Aristotelis doctrina, et in moralis philosophiae 161C
cognitione perutilis est, quod per singula currentibus magis liquebit. Quocirca
de ordine quoque libri huius eadem ratio est. Nam quoniam res simplices
compositis natura priores sunt, quae enim composita sunt, ex simplicibus
componuntur. Hic quoniam de simplicibus vocibus res significentibus disputatur,
secundum ipsius simplicitatis principalem naturam, primus hic Aristotelis liber
inchoantibus addiscitur. Nec illud fere dubium est ad quam partem philosophiae
huius libri ducatur intentio, idcirco quoniam qui de significativis vocibus
tractat, de rebus quoque est aliquatenus tractaturus. Res etenim et rerum
significatio iuncta est sed principalior erit illa disputatio quae de
sermonibus est: secundo vero loco illa quae de rerum ratione formatur. Quare
quoniam omnis ars logica de oratione est, et in hoc opere de vocibus
principaliter tractatur (quamquam enim sit huius libri relatio ad caeteras
quoque philosophiae partes) principaliter tamen refertur ad logicam, de cuius
quodammodo simplicibus elementis, id est, de sermonibus in eo principaliter
disputavi. Aristotelis vero neque ullius alterius liber est, idcirco quod in
omni philosophia sibi ipse de huius operis disputatione consentit, et brevitas
ipsa atque subtilitas ab Aristolele non discrepat, alioqui interruptum
imperfectumque opus edidisse videretur qui de syllogismis scriberet, si aut de
propositionibus praetermisisset, aut de primis vocibus tractatum, quibus ipsae
propositiones continentur, omitteret. Quanquam exstet 162A alter Aristotelis
liber de eisdem disputans, eadem fere continens, cum sit oratione diversus; sed
hic proprietatis liber calculum coepit. Archytes etiam duos composuit libros
quos *Kathulous logous* inscripsit, quorum in primo haec decem praedicamenta
disposuit. Unde posteriores quidam non esse Aristotelem huius divisionis
inventorem suspicati sunt, quod Pythagoricus vir eadem conscripsisset, in qua
sententia Iamblicus philosophus est non ignobilis, cui non consentit
Themistius, neque concedit eum fuisse Archytem, qui Pythagoricus Tarentinusque
esset, quique cum Platone aliquantulum vixisset sed peripateticum aliquem
Architem, qui nouo operi auctoritatem uetustate nominis conderet. Sed de his
alias. Restat inscriptio quae varia fuit. Inscripsere namque 162B alii de
rebus, alii de generibus rerum, quos eadem similisque culpa confudit. Namque
(ut docuimus) non de rerum generibus, neque de rebus sed de sermonibus rerum
genera significantibus in hoc opere tractatus habetur, hoc vero Aristoteles
ipse declarat cum dicit: Eorum quae secundum nullam complexionem dicuntur,
singulum aut substantiam significat, aut quantitatem. Quod si de rebus
divisionem faceret, non dixisset "significat"; res enim significatur,
non ipsa significat. Illud quoque maximo argumento est Aristotelem non de rebus
sed de sermonibus res significantibus speculari, quod ait: Singulum igitur
eorum quae dicta sunt, ipsum quidem secundum se in nulla affirmatione dicitur,
horum autem ad se invicem complexione affirmatio fit. Res enim si iungantur,
affirmationem nullo modo perficiunt, affirmatio namque in oratione est.
Quocirca si praedicamenta iuncta faciunt affirmationem (affirmatio vero nonnisi
in oratione est, quae autem iunguntur ut affirmatio fiat, hae sunt rerum
significantes voces) praedicamentorum tractatus non de rebus sed de vocibus
est; male igitur vel de rebus vel rerum generibus inscripserunt. Annotant alii
hunc librum legendum ante Topica, quod nimis absurdum est. Cur enim non magis
ante Physica? Quasi vero minor huius sit libri usus in Physicis, cum primi
Resolutorii ante Topica legantur, et ante primos Resolutorios Perihermenias
liber ad cognitionem veniat inchoantis, cur non magis hunc librum vel ante
Perihermenias, vel ante Resolutorios inscripserunt? Quare repudianda est
inscriptionis istius quoque ipsa sententia, dicendumque est: Quoniam rerum
prima decem genera sunt, necesse fuit decem quoque esse simplices voces, quae
de subiectis rebus dicerentur: omne enim quod significat de illa re dicitur
quam significat, ergo inscribendus liber est de decem Praedicamentis. Sed forte
quis dicat, si de significantibus rerum vocibus ipsa disputatio est, cur de
ipsis disputat rebus? Dicendum est, quoniam res semper cum propria
significatione coniunctae sunt, et quidquid in res venit, hoc quidem in rerum
vocabulis invenitur: quare recte de vocabulis disputans, proprietatem
significantium vocum de his quae significabantur, id est de rebus assumpsit. Erit
alia quoque fortasse quaestio: Cur enim hic orationem in decem praedicamenta
sit partitus, in Perihermenias libro in duas tantum partes divisionem fecit, in
verbum videlicet et nomen? Sed hoc interest quod illic figuras vocabulorum
dividit, in hoc de significationibus tractat, quare non est sibi ipse
contrarius. In Perihermenias enim libro de nomine et verbo considerat quae
secundum figuram quamdam vocabuli sunt, quod illud inflecti casibus potest,
illud variari per tempora: hic vero non secundum has figuras sed in eo quod
voces significantes sunt disputatur: quare diversam in diversis rebus atque
tractatibus faciendo divisionem, nulla contrarietate notabitur, neque nunc
orationem dividit sed ad multitudinem generum nomina ipsa dispertit: nam
quoniam decem rerum genera sunt non secundum orationem sed secundum rerum
significationem in decem praedicamenta voces dividit, deque his tractat. Atque
ideo necesse fuit quodammodo disputationem de rebus quoque misceri, ita (ut
dictum est) ut non aliter nisi ex rebus proprietates in sermonibus apparerent,
atque ita non de rebus proprie sed de praedicamentis, id est de ipsis rerum
significativis vocibus in eo quod significantes sunt, seriem disputationis
orditur. Cur autem, si de praedicamentis disputat, de aequivocis, vel univocis,
vel denominativis primus illi tractatus est? Idcirco nimirum quod quaedam semper
a disputantibus praemittuntur, quibus positis facilior de sequentibus possit
esse doctrina: ut in geometria, prius termini praeponuntur, post theorematum
ordo conteritur. Ita quoque hic quidquid ad praedicamentorum disputationem
possit esse utile, priusquam ad ipsa predicamenta veniret, exposuit: quare
quoniam quae praedicenda erant explicavi, nunc ad ipsius disputationis seriem
textumque veniamus. Quid autem aequivoca vel univoca vel denominativa
utilitatis habeant, secundum ipsas singulorum rationes definitionesque
tractabitur. DE AEQUIVOCIS AEQUIVOCA DICUNTUR QUORUM NOMEN SOLUM COMMUNE EST,
SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO DIVERSA, UT ANIMAL HOMO ET QUOD PINGITUR.
HORUM ENIM SOLUM NOMEN COMMUNE EST, SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO
DIVERSA; SI ENIM QUIS ASSIGNET QUID EST UTRIQUE EORUM QUO SINT ANIMALIA,
PROPRIAM ASSIGNABIT UTRIUSQUE RATIONEM. Omnis res aut nomine aut definitione
monstratur: namque subiectam rem aut proprio nomine vocamus aut definitione
quid sit ostendimus. Ut verbi gratia quamdam substantiam vocamus hominis
nomine, et eiusdem definitionem damus dicentes esse hominem animal rationale
mortale; ergo quoniam res omnis aut definitione aut nomine declaratur, ex his
duobus, nomine scilicet et definitione, diversitates quattuor procreantur.
Omnes namque res aut eodem nomine et eadem definitione iunguntur, ut homo et
animal, utraque enim animalia dici possunt, et utraque una definitione
iunguntur. Est namque animal substantia animata sensibilis, et homo rursus
substantia animata sensibilis, et haec vocantur univoca. Alia vero 164A quae
neque nominibus neque definitionibus coniunguntur: ut ignis, lapis, color, et
quae propriae substantiae natura discreta sunt, haec autem vocantur
diversivoca. Alia vero quae diversis nominibus nuncupantur, et uni definitioni
designationique subduatur, ut gladius, ensis; haec enim multa sunt nomina sed
id quod significant una definitione declaratur, et hoc vocatur multivocum. Alia
vero quae nomine quidem congruunt, definitionibus discrepant: ut est homo vivens
et homo pictus, nam utrumque vel animalia vel homines nuncupantur. Si vero quis
velit picturam hominemque definire, diversas utrisque definitiones aptabit, et
haec vocantur aequivoca. Quare quoniam quid sint aequivoca dictum est, singulis
Aristotelicae definitionis sententias persequamur. AEQUIVOCA, inquit, dicitur
res scilicet, quae per se ipsas aequivocae non sunt, nisi uno nomine
praedicentur: quare quoniam ut aequivoca sint, ex communi vocabulo trahunt,
recte ait, aequivoca dicuntur. Non enim sunt aequivoca sed dicuntur. Fit autem
non solum in nominibus sed etiam in verbis aequivocatio: ut cum dico complector
te, et complector a te. In quibus significationibus cum unum nomen sit
complector, alia tamen faciendi ratio est, alia patiendi: atque ideo hic quoque
aequivocatio est: unum enim nomen quod est complector, diversis faciendi et
patiendi definitionibus terminatur. In praepositionibus quoque et in
coniunctionibus frequenter aequivocatio reperitur, atque ideo quod ait: QUORUM
NOMEN SOLUM COMMUNE EST, 'nomen' accipiendum 164C est omnis rerum per vocem
significatio, id est omne vocabulum non proprium solum, aut appellativum, quod
ab illud tantum nomen pertinet quod casibus inflecti potest sed ad nomen rerum
significationem, qua rebus imposita vocabula praedicamus. SOLUM autem duobus
modis dicitur: semel cum aliquid unum esse dicimus, ut si dicamus solus est
mundus, id est unus; alio vero modo cum dicimus ad quamdam ab altero
divisionem, ut si quis dicat solam me habere tunicam, id est, non etiam togam,
ad divisionem videlicet togae. Hic ergo Aristoteles posuit dicens, SOLUM NOMEN
COMMUNE EST, quasi hoc voluisset intelligi non etiam definitio, aequivoca enim
iunguntur nomine sed definitione dissentiunt. COMMUNE quoque multis dicitur
modis. Dicitur commune quod in partes dividitur, et non iam totum commune est
sed partes eius propriae singularum, ut domus. Dicitur commune quod id partes
non dividitur sed vicissim in usus habentium transit, ut seruus communis vel
equus. Dicitur etiam commune quod utendo cuiusque fit proprium, post usum vero
in commune remittitur, ut est theatrum, nam cum eo utor, meum est, cum inde
discedo, in commune remisi. Dicitur quoque commune quod ipsum quidem nullis
divisum partibus, totum uno tempore in singulos venit, ut vox vel sermo ad
multorum aures uno eodemque tempore totus atque integer pervenit. Secundum hanc
igitur ultimam communis significationem Aristoteles putat aequivocis rebus
commune esse vocabulum. Namque in homine picto et in homine vivo, totum in
utrisque vocabulum dicitur animalis. SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO
DIVERSA, hoc hac significatione praemittit, ut si aliter reddantur definitiones
quam secundum nomen, statim tota definitio labet ac titubet. Ac primum de
definitionis proprietate dicendum est. Illae enim certae definitiones sunt quae
convertuntur, ut si dicas, Quid est homo? animal rationale mortale -- verum
est. Quid est animal rationale mortale? homo -- hoc quoque verum est. At vero
si ita quis dicat, Quid est homo? substantia animata sensibilis -- verum est;
quid substantia animata sensibilis? homo -- hoc non modis omnibus verum est,
idcirco quod equus quoque est substantia animata sensibilis sed homo non est.
Ergo illas constat esse definitiones integras quae converti possunt. Sed hoc
fit in iis quae non de communi sed uno tantum, ut cum de hominis nomine
redduntur, verbi gratia: Animal est commune nomen, si dixerit quis, Homo est
substantia animata sensibilis, procedit: si non convertatur, quia de communi
nomine reddita est definitio; sin vero de uno nomine redditur, tunc de ipso
nomine facienda est definitio; sic tamen est recta facienda, ut hominis
definitio sit animal rationale mortale, non substantia animata sensibilis, illa
enim secundum hominis nomen, ista secundum animalis est reddita. Idem etiam in
his nominibus quae de duabus rebus communiter praedicantur, si secundum nomen
substantiae ratio non reddatur, potest aliquoties fieri, ut ex univocis
aequivoca sint, et ex aequivocis univoca; namque homo 165C atque equus cum
secundum nomen animalis univoca sint, possunt esse aequivoca, si secundum nomen
minime definita sunt. Homo namque et equus communi nomine animalia nuncupatur,
si quis ergo hominis reddat definitionem dicens, animal rationale mortale, et
equi, animal irrationale hinnibile, diversas reddidit definitiones, et erunt
res univocae in aequivocas permutatae. Hoc autem idcirco evenit, quod
definitiones non secundum animalis nomen redditae sunt, quod eorum commune
vocabulum est sed secundum hominis atque equi. Nam si secundum commune nomen
quod est animal definitio redderetur, ita fieret, homo est substantia animata
sensibilis, secundum nomen scilicet animalis; et rursus, equus est substantia
animata sensibilis, secundum nomen rursus animalis, secundum idem namque
animalis vocabulum equus atque homo univoce praedicantur. Rursus ex aequivocis
univoca fiunt hoc modo si quis Pyrrhum Achillis filium et Pyrrhum Epiroten
dicat esse univocos, idcirco quod uno nomine et Pyrrhi dicantur, et sint
animalia rationabilia atque mortalia. Hic secundum nomen hominis reddita
definitio, ex aequivocis fecit univoca. Quod si secundum nomen Pyrrhi
definitionis ratio iungeretur vel a parentibus vel a patria, diversis eos
oporteret definitionibus terminari. Recte igitur additum est, secundum nomen,
idcirco quod si aliter facta sit definitio, stabilis esse nou poterit, et
frequenter diversos secum ducit errores. RATIO quoque multimodo dicitur. Est
enim ratio animae, et est ratio computandi, est ratio natura, ipsa nimirum
similitudo nascentium, est ratio qua in definitionibus vel descriptionibus
redditur. Et quoniam generalissima genera genere carent, individua vero nulla
substantiali differentia discrepant, definitio vero ex genere et differentia
trahitur, neque generalissimorum generum, neque individuorum ulla potest definitio
reperiri. Subalternorum vero generum, quoniam et differentias habent et genera,
definitiones esse possunt. At vero quorum definitiones reddi nequeunt, illa
tantum descriptionibus terminantur. Descriptio autem est quae quamlibet rem
propria quadam proprietate designat. Sive ergo definitio sit sive descriptio,
utraque 166B rationem substantiae designat. Quare cum substantiae rationem
dixit, et definitionis et descriptionis nomen inclusit. Aequivocorum alia sunt
casu, alia consilio. Casu, ut Alexander Priami filius et Alexander Magnus.
Casus enim id egit, ut idem utrique nomen poneretur. Consilio vero, ea
quaecumque hominum voluntate sunt posita. Horum autem alia sunt secundum
similitudinem, ut homo pictus et homo verus quo nunc utitur Aristoteles exemplo:
alia secundum proportionem, ut principium est in numero unitas, in lineis
punctus. Et haec aequivocatio secundum proportionem esse dicitur. Alia vero
sunt quae ab uno descendunt, ut medicinale ferramentum; medicinale pigmentum,
ab una enim medicina aequivocatio ista descendit. Alia quae ad unum referuntur,
ut si quis dicat salutaris uectatio est, salutaris esca est, haec scilicet
idcirco sunt aequivoca, quod ad salutis unum vocabulum referuntur. Cur autem
prius de aequivocis post de univocis tractat? Idcirco quod ipsa decem
praedicamenta cum definitionibus diversa sint, uno praedicationis vocabulo
nuncupantur; cuncta enim praedicamenta dicimus, ipsa vero praedicamenta quoniam
rerum genera sunt, de subiectis rebus univoce praedicantur. Omne enim genus de
speciebus propriis univoce dicitur, quare rectius primo de omnibus
praedicamentorum communi vocabulo tractat, quasi dehinc quemadmodum singula de
speciebus propriis praedicarentur, exprimeret. At si (ut dictum est) non de
rebus sed de nominibus libri huius intentio est, cur de aequivocis et non de
aequivocatione tractavit? Aequivocae namque res sunt, aequivocatio vero
vocabulum. Idcirco, quoniam ipsum nomen nihil in se retinet aequivocationis,
nisi diversae sint res de quibus illud vocabulum praedicetur. Quare inde
substantiam ipsa aequivocatio trahit, de ipsis dignius inchoatum est. Videtur
autem alius esse modus aequivocationis quem Aristoteles omnino non recipit. Nam
sicut dicitur pes hominis, ita quoque dicitur pes navis, et pes montis, quae
huiusmodi omnia secundum translationem dicuntur. Translatio vero nullius
proprietatis est. Quare secundum translationem aequivoca nunquam sunt, nisi
propriis et immutabilibus subiectae res vocabulis appellentur. Est autem talis
eorum universalis inspectio. Neque enim omnis translatio ab aequivocatione
seiungitur sed ea tantum cum ad res habentes positum vocabulum, ab alia iam
nominata re nomen ornatus causa transfertur, ut quia iam dicitur quidam auriga,
dicitur etiam gubernator, si quis ornatus gratia cum qui gubernator est dicat
aurigam, non erit auriga nomen aequivocum, licet diversa, id est, moderatorem
currus navisque significet. Sed quoties res quidem vocabulo eget, ab alia vero
re quae vocabulum sumit, tunc ista translatio aequivocationis retinet
proprietatem, ut ex homine vivo ad picturam nomen hominis dictum est. Et de
aequivocis hactenus; nunc de univocis pertractemus. DE UNIVOCIS UNIVOCA VERO
DICUNTUR QUORUM ET NOMEN COMMUNE EST ET SECUNDUM NOMEN EADEM SUBSTANTIAE RATIO,
UT ANIMAL HOMO ATQUE BOS. COMMUNI ENIM NOMINE UTRIQUE ANIMALIA NUNCUPANTUR, ET
EST RATIO SUBSTANTIAE EADEM; SI QUIS ENIM ASSIGNET UTRIUSQUE RATIONEM, QUID
UTRIQUE SIT QUO SINT ANIMALIA, EANDEM ASSIGNABIT RATIONEM. Post aequivocorum
definitionem ad univocorum terminum transitum fecit, in quibus nihil aliud
discrepat, nisi quod aequivoca definitione disiuncta sunt, univoca ipso quoque
termino coniunguntur sed caetera omnia quaecumque in aequivocorum definitione
dicta sunt, in hac quoque univocorum designatione conveniant. Nam quemadmodum
in aequivocis secundum nomen aequivocarum rerum definitio fiebat, ita quoque in
univocis secundum nomen substantiae ratio assignabitur. Sunt autem univoca aut
genera speciebus, aut species speciebus, genera speciebus, ut animal atque
homo. Nam cum hominis genus sit animal, dicitur homo animal, ergo et animal et
homo animalia nuncupantur. Secundum igitur commune nomen si utrosque definias,
dicis animal esse substantiam animatam atque sensibilem, hominem quoque
secundum id quod animal est, si substantiam animatam sensibilem dixeris, nihil
in eo falsitatis invenies. Species vero speciebus univocae sunt, quae uno atque
eodem genere continentur, ut homo, equus atque bos, his commune genus est
animal, et communi nomine animalia nominantur. Ergo secundum nomen unum quod illis
commune est animalis, una illius ratio definitionis aptabitur, omnia enim sunt
substantiae animatae atque sensibiles. Secundum igitur posteriorem
univocationis designationem Aristoteles qua speciebus species univocae sunt, ut
homo et bos, quae sub eodem sunt genere, sumpsit exemplum. DENOMINATIVA VERO
DICUNTUR QUAECUMQUE AB ALIQUO, SOLO DIFFERENTIA CASU, SECUNDUM NOMEN HABENT
APPELLATIONEM, UT A GRAMMATICA GRAMMATICUS ET A FORTITUDINE FORTIS. Haec quoque
definitio nihil habet obscurum. Casus enim antiqui nominabant aliquas nominum
transfigurationes, ut a iustitia iustus, a fortitudine fortis, etc. Haec igitur
nominis transfiguratio, casus ab antiquioribus vocabatur. Atque ideo
quotiescumque aliqua res alia participat, ipsa participatione sicut rem, ita
quoque nomen adipiscitur, ut quidam homo, quia iustitia participat et rem
quoque inde trahit et nomen, dicitur enim iustus. Ergo denominativa vocantur
quaecumque a principali nomine solo casu, id est sola transfiguratione
discrepant. Nam cum sit nomen principale iustitia, ab hoc transfiguratum nomen
iustus efficitur. Ergo illa sunt denominativa quaecumque a principali nomine
solo casus id est sola nominis discrepantia, secundum principale nomen habent
appellationem. Tria sunt autem necessaria ut denominativa vocabula
constituantur: prius ut re participet, post ut nomine, postremo ut sit quaedam
nominis transfiguratio, ut cum aliquis dicitur a fortitudine fortis, est enim
quaedam fortitudo qua fortis ille participet, habet quoque nominis
participationem, fortis enim dicitur. At vero est quaedam transfiguratio,
fortis enim et fortitudo non eisdem syllabis terminantur. Si quid vero sit quod
re non participet, neque nomine participare potest. Quare quaecumque re non
participant, denominativa esse non possunt. Rursus quoque quae re quidem
participant, nomine vero minime, ipsa quoque a denominativorum natura discreta
sunt, ut si quis, cum sit virtus, virtute ipsa participet, nullo cum alio
nomine nisi sapientem vocamus. Sed virtus et sapientia nomine ipso disiuncta
sunt, hic ergo re quidem participat, nomine vero minime. Quare sapiens a
virtute denominatus esse non dicitur sed a sapientia, qua scilicet et
participat, et nomine iungitur, et transfiguratione diversus est; rursus si
transfiguratio non sit, ut quaedam mulier musica, participat quidem ipsa
musicae disciplina, et dicitur musica. Hae igitur appellatio non est
denominativa sed aequivoca, uno enim nomine et disciplina et ipsa mulier musica
dicitur. Quoniam ergo similis terminus syllabarum est, et nomen simile, et
nulla transfiguratio, denominativa esse non poterunt, quare quidquid
denominativa esse non poterunt, quare quidquid denominativum esse dicitur,
illud et re participabit et nomine, et aliqua transfiguratione vocabuli
discrepabit. Haec igitur quae ad praedicamenta necessaria credidit, praemisit.
Multivoca vero et diversivoca respuit, quod ad praesentem tractatum utilia non
putavit. Breviter tamen utraque definienda sunt. Multivoca sunt quorum plura
nomina una definitio est, ut est scutum, clypeus: his enim plura nomina sed una
definitio est; et Marcus Porcius Cato, his enim tot nominibus res una subiecta
est. Diversifica sunt quorum neque nomen idem est, neque eadem definitio, ut
homo, color, et quid. quid omnino a se et nominis nuncupatione et definitionis
ratione discretum est. EORUM QUAE DICUNTUR ALIA QUIDEM SECUNDUM COMPLEXIONEM
DICUNTUR, ALIA VERO SINE COMPLEXIONE. ET EA QUAE SECUNDUM COMPLEXIONEM DICUNTUR
SUNT UT HOMO CURRIT, HOMO VINCIT; EA VERO QUAE SINE COMPLEXIONE, UT HOMO, BOS,
CURRIT, VINCIT. Postquam de coniunctione definitionum atque nominum quantum ad
praesens attinebat opus, sufficienter exposuit quoniam de primis nominibus
prima rerum genera significantibus divisio facienda est, non nomine sed genere discrepantibus,
nunc ostendit quid sit sine complexione cuiuslibet vocabuli facta prolatio.
Sine complexione enim dicuntur quaecumque secundum simplicem sonum nominis
proferuntur, ut homo, equus: his enim extra nihil adiunctum est. Secundum
complexionem dicuntur quaecumque aliqua coniunctione copulantur, ut aut
Socrates aut Plato, vel quaecumque secundum aliquod accidens coniunguntur. Nam
quia, verbi gratia, in Socratem venit ambulatio, dicimus: Socrates ambulat, et
est prolatio ista secundum complexionem, idcirco quia cum dico: Socrates
ambulat. Socratem sum cum ambulatione complexus. Quod autem ait: EORUM QUAE
DICUNTUR, nihil aliud demonstrare vult nisi de primis rerum vocabulis huius
libelli disposuisse tractatum. Rerum enim vocabula sunt quae dicuntur, ipsa enim
proprie nominamus. EORUM QUAE SUNT ALIA DE SUBIECTO QUODAM DICUNTUR, IN
SUBIECTO VERO NULLO SUNT, UT HOMO DE SUBIECTO QUIDEM DICITUR ALIQUO HOMINE, IN
SUBIECTO VERO NULLO EST. Hic Aristoteles sermonum omnium multitudinem in
paruissimam colligit divisionem. Nam quod rerum vocabulam decem praedicamenta
distribuit, maior hac divisione non potest inveniri, nihil enim esse poterit
quod huic divisioni undecimum adiici queat. Omnis enim res aut substantia est,
aut quantitas, aut qualitas, aut ad aliquid, aut facere, aut pati, aut quando, aut
ubi, aut habere, aut situs; quocirca tot erunt etiam sermones qui ista
significent, et haec est maxima divisio, cui ultra nihil possit adiungi:
paruissima vero est quae fit in quattuor, in substantiam et accidens, et universale
et particulare. Omnis enim res aut substantia est, aut accidens, aut
universalis, aut particularis. Sicut ergo decem superioribus nihil addi
poterat, ita ex his quattuor nihil demi. Nam neque minor ulla divisio his
quattuor fieri potest, nec maior quam si denario limite praedicamenta
claudantur. Cum autem in his quattuor divisio facta est, paucis exponam. Prima
quidem rerum est omnium divisio in substantiam atque accidens. Sed quoniam
substantia proferri non potest nisi aut universaliter aut particulariter
intelligatur: nam cum dico homo, rem dixi universalem, idcirco quod nomen hoc
de multis individuis praedicatur: cum vero dico Socrates vel Plato, rem dixi
particularem; quoniam Socrates de nudo subiecto dicitur: et accidens quoque
eodem modo; nam cum dixero scientiam, rem protuli universalem, idcirco quod
scientia et de grammatica et de rhetorica, et de aliis omnibus sub se positis
praedicatur; si vero dixero Platonis scientiam, quoniam omne accidens quod
individua venit individuum fit, particularem scientiam dico, namque Platonis
scientia, sicut ipse Plato, particularis est: igitur quoniam neque substantia
neque accidens ullo modo proferri potest, nisi in suo nomine aut
universalitatis vim, aut particularitatis induat, recte in quattuor divisio facta
est, ut si omnis res aut substantia aut accidens, et horum aut universali, aut
particularis. Ex his igitur quattuor fiunt complexiones. Nam cum venerit
universalitas in substantiam, fit universalis substantia, ut est homo vel
animal. Universale autem est quod aptum est de pluribus praedicari, particulare
vero quod de nullo subiecto praedicatur. Ergo est una complexio universalitatis
et substantiae, ut sit substantia universalis. Si vero particularis substantiae
copulatur, fit substantia particularis, ut est Socrates vel Plato, et quidquid
in substantia individuum reperitur. At cum miscetur universalitas accidenti,
fit accidens universale, ut scientia, quae cum sit accidens, et praeter animam
cui accidit esse non possit, tamen universalis est, quod de subiecta grammatica
vel aliis speciebus praedicari potest. Cum vero particularitas accidenti
coniungitur, fit accidens particulare, ut Platonis vel Aristotelis scientia.
Fiunt enim quattuor complexiones, substantia universalis, substantia
particularis, accidens universale, accidens particulare. Ut autem accidens in
substantiae naturam transeat, vel substantia in accidens, fieri nullo modo
potest, et accidens quidem venit in substantiam sed non ut substantia fiat:
neque enim quoniam color, quod est accidens venit in substantiam, idcirco color
iam substantia est. Nec quoniam substantia suscipit colorem idcirco color iam
substantia fit. Quare neque substantia in accidentis, neque accidens in
substantiis naturam transit. At vero nec particularitas, nec universalitas in
se transeunt. Namque universalitas potest de particularitate praedicari, ut
animal de Socrate vel Platone, et particularitas suscipiet universalitatis
praedicationem sed non ut universalitas sit particularitas, nec rursus ut quod
particulare est universalitas fiat. Ergo quattuor complexiones, universalem
substantiam, universale accidens, particularem substantiam, particulare
accidens Aristoteles disponere cupiens, non eorum nomina sed descriptiones
apposuit. Et quoniam generalissimorum generum definitiones non poterat
invenire, descriptionibus usus est his, id substantiam esse dicens quod in
subiecto non esset, accidens vero quod in subiecto esset. Omne namque accidens
in subiecto est, ut colore in corpore, scientia in anima, et subiectam habet substantiam
omne accidens. Si quis enim substantiam tollat, accidens non erit. Quare
substantia locus quidam est ubi accidentis valeat natura consistere. Ipsa vero
substantia per se constat, atque ideo dicitur substantia, nec ullo subiecto
alio nititur sed cunctis ipsa substantia est. Alioqui si substantia in ullo
subiecto esse posset, esset accidens. Omne enim accidens in subiecto est, et
quidquid in subiecto est, illud est accidens. Quod si substantia esset in
aliquo subiecto, continuo fieret accidens sed substantia accidens esse non
potest, sicut supra docuimus. Quare quoniam accidens in subiecto est,
substantia vero accidens non est, substantia in subiecto non est. Universalitatis
vero descriptio est: de subiecto praedicari. Omnis namque universalitas de
subiectis particularibus praedicatur, nam quoniam universale est animal, vel
homo, de Socrates praedicatur et Platone. Dicitur enim Socrates animal atque
homo. Et quoniam universale est accidens scientia, dicitur de subiecta
grammatica, grammatica enim scientia est. Particularitas vero quoniam ipsa est
rerum ultima et nihil est illi subiectum, de nullo subiecto praedicatur; nam
quoniam universalitas de subiecto praedicatur, particularitas vero
universalitas non est. Particularitas de subiecto non praedicabitur. Ubi enim
res discrepant, et definitio discrepabit; ita quoque in his, nam quoniam
discrepat substantia et accidens, definitiones quoque eorum discrepabunt. Ut
quoniam est accidens in subiecto, erit substantia non in subiecto. Et quoniam
universalitas de subiecto predicatur, particularitas autem ab universalitate
discrepat, de subiecto non praedicatur. Has igitur huiusmodi descriptiones
Aristoteles ita permiscuit dicens: EORUM QUAE SUNT ALIA DE SUBIECTO QUODAM
DICUNTUR, IN SUBIECTO VERO NULLO SUNT, volens scilicet universalem substantiam
demonstrare. Nam quod dixit DE SUBIECTO DICUNTUR, universale est, quod vero ait
IN SUBIECTO NULLO SUNT, substantia: ergo quod ait quaedam DE SUBIECTO dici, IN
SUBIECTO VERO NULLO esse, universalem substantiam demonstrare contendit: ut
enim saepius dictum est, quod de subiecto dicitur, universale est; quod in
nullo subiecto est, substantia. Haec iuncta, id est de subiecto quodam dici, et
in subiecto nullo esse, universalem substantiam demonstrant. Post universalem substantiam
particulare accidens posuit dicens:ALIA AUTEM IN SUBIECTO QUIDEM SUNT, DE
SUBIECTO VERO NULLO DICUNTUR (IN SUBIECTO AUTEM ESSE DICO QUOD, CUM IN ALIQUO
SIT NON SICUT QUAEDAM PARS, IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO EST), UT
QUAEDAM GRAMMATICA IN SUBIECTO QUIDEM EST IN ANIMA, DE SUBIECTO VERO NULLO
DICITUR, ET QUODDAM ALBUM IN SUBIECTO EST IN CORPORE (OMNIS ENIM COLOR IN
CORPORE EST). Nam quod ait IN SUBIECTO SUNT accidens monstrat, quod vero
addidit DE SUBIECTO AUTEM NULLO DICUNTUR particulare. Accidens enim in subiecto
est, particularitas de nullo subiecto praedicatur. Ergo quaecumque res ipsa
quidem in subiecto est sed si de nullo subiecto praedicatur, accidens est
particulare, UT est QUAEDAM GRAMMATICA, id est Aristarchi, vel alicuius hominis
individua grammatica: illa enim quoniam individui hominis, ipsa quoque facta
est individua et particularis; ergo quoniam QUAEDAM GRAMMATICA IN ANIMA EST
accidens est, et quoniam DE NULLO SUBIECTO praedicatur, particularis est;
quemadmodum enim ipse Aristarchus de nullo subiecto dicitur, ita quoque eius
grammatica de nullo subiecto praedicatur. Non autem dicit quod ipsa grammatica
particularis est sed quod quaedam grammatica, id est alicuius hominis individui
grammatica, quam scilicet homo particularis propria retinet cognitione. Et
quoniam incorporale accidens posuit quod animae accideret, id est grammaticam,
quae esset in anima; ponit quoque aliud exemplum corporale; ait enim ET QUODDAM
ALBUM IN SUBIECTO EST <IN> CORPORE (OMNIS ENIM COLOR EST IN CORPORE): hic
quoque non omne album dicit esse particulare sed quod ad individuum corpus
album venit. Probatur quoque particulare album in subiecto esse hoc modo, nam
color quod genus est albi vel cuiusdam albi in corpore est, et est in subiecto.
Quare cuius genus in subiecto est, ipsum quoque in subiecto est. Omnes enim
species vel individua propria genere continentur, et eiusdem habent naturam. Quoniam
vero "esse in aliquo" multis dicitur modis, qui velit Aristoteles
ostendere esse in subiecto, paucis absolvam. Dicitur enim esse aliquid in
aliquo novem modis, dicimus enim esse aliquid in loco, ut in foro vel in
theatro. Dicimus quoque esse in aliquo, ut in aliquo uase, ut triticum in
modio. Dicitur etiam esse in aliquo velut pars in toto, ut manus in corpore.
Dicitur esse in aliquo velut totum in partibus, ut corpus in omnibus suis
partibus. Rursus velut in genere species, ut in animali homo, vel genus in
speciebus suis. Dicimus quoque esse in aliquo, velut aliquid in fine esse, ut
quoniam bonae vitae finis beatitudo est, si quis sit beatus; in fine est,
scilicet bonae vitae. Dicimus quoque esse in aliquo ut in quolibet potente, ut
in imperatore esse regimen civitatis. Dicimus quoque velut formam in materia,
ut similitudinem Achillis in aere vel in marmore. Novem igitur modis aliquid in
aliquo esse dicitur, ut in loco, ut in uase, ut pars in toto, ut totum in
partibus, ut in genere species, ut in speciebus genus, ut in fine, ut in
imperatores, ut in materia forma. Horum igitur Aristoteles tria sola commemorat
sed duo in unum coniuncta, aliud separatum. Ait enim: IN SUBIECTO AUTEM ESSE
DICO QUOD, CUM IN ALIQUO SIT NON SICUT QUAEDAM PARS, IMPOSSIBILE EST ESSE SINE
EO IN QUO EST. Sensus autem talis est: Hoc, inquit, dico esse accidens quod sit
in subiecto, id est quod ita sit in altero, ut pars eius 172D non sit et sine
aliquo subiecto esse non possit, ut, verbi gratia, color cum in corpore nulla
pars corporis est, et si color a corpore separatur, color nusquam est. Omnis
enim color in solo corpore est. Ergo illud est accidens quod semper ita in
subiecto est altero ut eius pars non sit, ut cum ab eo in quo est separatur ad
nihilum redigatur, ut per se sine alterius subiecto esse non possit. Quod autem
ait ut NON SIT SICUT ALIQUA PARS, ab ea scilicet significationem aliquo
consistendi dividere voluit, secundum quam partes in toto esse dicimus, non
enim tale est subiectum, ut eius accidens pars sit. Quod vero dicit IMPOSSIBILE
EST ESSE SINE EO IN QUO EST, ab ea scilicet significatione divisit, quae est
esse aliquid in uase vel in loco; quod enim in uase vel in loco est a uase vel
loco poterit separari, ut triticum quod in modio est potest a modio segregari,
et homo a theatro discedere: accidens vero ab eo in quo est segregari non
potest. Quare solas tres posuit significationes, id est secundum quam in uase,
vel in loco dicitur esse, et secundum quam pars in toto est. Sed ut in uase et
ut in loco una sententia distribuit dicens IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO
EST. Sed fortasse quis dicat non esse definitionem veram, illa esse in subiecto
quae sic sint in alio non ut sint partes, et sine eo in quo sint esse non
possint, Socrates enim vel homo quilibet cum accidens non sit, tamen semper in
loco est et sine loco esse non potest. Quibus respondendum est quod Socrates
loca poterit permutare, et esse praeter locum in quo fuit: et postremo si
intelligentia capiamus, per se subsistit, accidentia vero per se ipsa non
constant. Sed si quis quoque obiiciat posse locum accidentia permutare, malum
namque si in manu teneatur, manus mali odore completur, adeo odor quod est
accidens, in aliud subiectum transire potest. Sed non hoc ait Aristoteles,
quoniam mutare accidens locum non potest, nec ita dixit impossibile esse sine
eo in quo erat sed sine eo in quo est, hoc enim significat mutare quidem posse
locum sed sine aliquo subiecto non posse subsistere. Quare recta est atque
integra definitio eius quod in subiecto est, quod ita sint in altero non sicut
quaedam pars, et impossibile sit esse sine eo in quo est, secundum autem illam
significationem dictum est secundum quam formam in materia esse dicimus. Namque
forma, si in materia sit, per seipsam nulla ratione consistit. Postquam igitur
particulare accidens quid esset ostendit dicens, quod in subiecto est et de
subiecto non praedicatur, et in subiecto consistentis rei definitionem reddit
dicens: QUOD CUM IN ALIQUO SIT NON SICUT QUAEDAM PARS, IMPOSSIBILE EST ESSE
SINE EO IN QUO EST. Ad universale accidens continenti disputatione reuertitur
quod definit hoc modo: ALIA VERO ET DE SUBIECTO DICUNTUR ET IN SUBIECTO SUNT,
UT SCIENTIA IN SUBIECTO QUIDEM EST IN ANIMA, DE SUBIECTO VERO DICITUR DE
GRAMMATICA; ALIA VERO NEQUE IN SUBIECTO SUNT NEQUE DE SUBIECTO DICUNTUR, UT
ALIQUIS HOMO VEL ALIQUIS EQUUS; NIHIL ENIM HORUM NEQUE IN SUBIECTO EST NEQUE DE
SUBIECTO DICITUR. Namque post eius rei quae in subiecto est definitionem, et
post particularis accidentis exempla, ad universale accidens transitum fecit,
inquiens alia esse quae in subiecto sint, et de subiecto praedicentur, quod
scilicet accidens universale significet: nam quoniam de subiecto dicitur,
universale est, quoniam in subiecto est, accidens; in subiecto ergo esse, et de
subiecto praedicari, universale accidens monstrat. Huius quoque complexionis
convenientia proponit exempla: ait enim SCIENTIAM IN SUBIECTO ESSE IN ANIMA,
nam nisi anima sit in qua scit, scientia nulla est, idcirco quod scientia actus
est animae, nam ea quae sunt inanimata nihil sciunt. Hinc sequitur substantiae
particularis propositio, quam scilicet ita declarat, quod NEQUE IN SUBIECTO
sit, NEQUE DE SUBIECTO praedicetur, nam quod in subiecto non est, substantia
est, et quod de subiecto non praedicatur, particularitas. Utraque igitur res de
subiecto non praedicari, et in subiecto non esse, particularis est substantia. Res
igitur quattuor cum propria complexione non secundum propria nomina sed
secundum 174A proprias rationes definitionesque contexuit. Nam pro substantia
universali posuit quod in subiecto non est et de subiecto praedicatur; pro
accidenti particulari dixit quod in subiecto est et de subiecto non
praedicatur. Accidens vero universale per hoc designavit quod ait quod et in
subiecto est et de subiecto dicitur; pro particulari substantia interposuit
quod nec in subiecto est nec de subiecto praedicatur. Simpliciter autem quae
sunt individua et numero singularia de subiecto nullo dicuntur; in subiecto
autem nihil ea prohibet esse, quaedam enim grammatica in subiecto est. Omnis
particularitas aut substantia erit aut accidens; nam cum dico Socratem,
individuam et particulare in significavi substantiam; cum dico quamdam
grammaticam, individuum et particulare accidens dixi. Individua autem sunt quae
neque in alias species dividi possunt, neque in alia individua. Nam quemadmodum
animal dividitur in species, hominem atque equum, homo autem in singulos homines,
id est in Socratem et Platonem et caeteros, sic Plato et Socrates non
dividuntur in alios. Atque hoc idem de accidentibus dici convenit: nam
quemadmodum scientia dividitur in species, grammaticam et rhetoricam;
grammatica vero ipsa in particulares grammaticas, quas scilicet particulares
homines norunt, sic ipsa particularis grammatica in particulares grammaticas
non secatur. Ergo individua sunt quaecumque sunt numero singularia, et in
nullas alias multitudines secundum species vel secundum individua dividuntur.
Omne individuum, quoniam particulare est, de subiecto non praedicatur; omne
autem quod de subiecto non praedicatur, aut substantia erit, ut Plato, aut accidens,
ut quaedam grammatica. Ex his ergo particularibus substantia scilicet atque
accidenti quae de subiecto non praedicantur, substantia quidem nec in subiecto
est, accidens vero in subiecto est. Ita illa individua quae substantiae sunt in
subiecto esse non poterunt, alia vero individua quae secundum accidentis
naturam dicuntur, illa in subiecto esse nihil prohibet. Atque hoc est quod ait:
SIMPLICITER AUTEM QUAE SUNT INDIVIDUA ET NUMERO SINGULARIA NULLO DE SUBIECTO
DICUNTUR, IN SUBIECTO AUTEM NIHIL EA PROHIBET ESSE; QUAEDAM ENIM GRAMMATICA IN
SUBIECTO EST. Hoc enim maluit demonstrare, et accidentibus substantiis particularibus
hoc esse commune, quod de subiecto non praedicantur. Hoc enim dixit:
SIMPLICITER AUTEM QUAE SUNT INDIVIDUA ET NUMERO SINGULARIA, DE NULLO SUBIECTO
DICUNTUR -- subaudiendo scilicet sive substantiae sint sive accidentia sed non
omnia individua non sunt in subiecto. Individua enim accidentia IN SUBIECTO
ESSE NIHIL PROHIBET. QUAEDAM ENIM GRAMMATICA, cum sit individua et de subiecto
non praedicetur, tamen IN SUBIECTO EST, id est in anima. Sed ut congregatim
dicatur, sensus huiusmodi est, omnia quidem quaecumque sunt individua, de
subiecto quidem nullo dicuntur sed non omnia non sunt in subiecto. Nam cum
particularis substantia in subiecto non sit, ut Plato, particulare tamen
accidens in subiecto est, ut quaedam grammatica in anima. Illud quoque magna
attentione notandum est, quis sit huius ordo propositi. Nam cum sint quattuor
complexiones, factae ex quattuor rebus, quarum duae natura discrepant, ut
substantia et accidens, duae quantitate, ut particularitas et universalitas
coniunctis compositisque his quattuor omnibus, dissentientem lateribus
dispositionem fecit. Posuit enim prius substantiam universalem dicens, quod in
subiecto non est et de subiecto dicitur. Post hanc primam positionem totis
discrepantem rebus, rem subdit, id est accidens particulare, quod in subiecto
esset, et de subiecto non praedicatur. Nam cum accidens dixit, a substantia
disgregavit, quod particulare addidit ab universali disiunxit. Rursus ex alio
latere disposuit in divisione accidens universale, dicens quod in subiecto est,
et de subiecto praedicatur; et ultimo substantiam particularem contrariam
superiori accidenti dixit, quod neque in subiecto est, neque de subiecto
praedicatur substantia, particularitem universalitati accidentis opponens. Sed
ut planius quod dicimus sit, figuram descriptionemque subiecimus in qua
superius latus substantia accidentique notavimus, reliquum particularitatis et
universalitatis titulo inscripsimus, Arisiotelicam complexionem angulariter et
per latera designantes. QUANDO ALTERUM DE ALTERO PRAEDICATUR UT DE SUBIECTO,
QUAECUMQUE DE EO QUOD PRAEDICATUR DICUNTUR, OMNIA ETIAM DE SUBIECTO DICENTUR,
UT HOMO DE QUODAM HOMINE PRAEDICATUR, ANIMAL VERO DE HOMINE, ERGO ET DE QUODAM
HOMINE ANIMAL PRAEDICABITUR; QUIDAM ENIM HOMO ET HOMO EST ET ANIMAL. Cum
superius de his quae in subiecto sunt (id est de accidentibus) loqueretur,
definitionem constitutae in subiecto rei, et praeter subiectum nullo modo
permanentis, in media tractatione disposuit, dicens illud esse quod neque pars
esset alicuius nec sine subiecto posset ullo modo permanere. Patefacto igitur
quid sit esse in subiecto, nunc quid sit praedicari de subiecto declarat.
Duobus enim modis praedicationes fiunt, uno secundum accidens, alio de
subiecto: de homine namque praedicatur album, dicitur enim homo albus, rursus
de eodem homine praedicatur animal, dicitur enim homo animal. Sed illa prior
praedicatio, quae est. Homo albus est secundum accidens est: namque accidens
quod est album de subiecto homine praedicatur sed non in eo quod quid sit, nam
cum album sit accidens, homo substantia, accidens de substantia in eo quod quid
sit praedicari non potest; ergo ista praedicatio secundum accidens dicitur. De
subiecto vero praedicari est, quoties altera res de altera in ipsa substantia praedicatur,
ut animal de homine; nam quoniam animal et substantia est et genus hominis,
idcirco in eo quod quid sit de homine praedicatur. Quare illa sola de subiecto
praedicari dicuntur quaecumque in cuiuslibet rei substantia et in definitione
ponuntur; ergo quotiescumque huiusmodi fuerit praedicatio, ut ALTERUM DE ALTERO
UT DE SUBIECTO PRAEDICETUR, id est ut de eius substantia dicatur, ut animal de
homine, hanc proprietatem evenire necesse est, ut si DE EO QUOD PRAEDICATUR,
quidpiam UT DE SUBIECTO, id est eius substantia, praedicetur necessario idem
hoc quod de praedicato dicitur, dicatur etiam de praedicati subiecto, ut homo
praedicatur quidem de Socrate in eo quod quid sit. Interrogantibus enim quid
sit Socrates "hominem" respondemus. At vero de ipso homine in eo quod
quid sit animal dicitur, in substantia enim hominis animal praedicatur, atque
ita fit ut animal quidem de homine, homo vero de Socrate in eo quod quid sit ut
de subiecto praedicentur. Ergo quoniam ista consequentia, et animal de Socrate
in eo quod quid sit praedicabitur. Potest enim dici interrogantibus quid est
Socrates "animal". Ergo manifestum est quod si qua res de alia ut de
subiecto praedicetur, ut homo de Socrate, de eadem vero re quae praedicatur, de
homine scilicet, alia rursus superior ut de subiecto praedicetur, ut animal
necesse erit et hanc eamdem de subiecto eius de quo ipsum dicitur praedicari,
ut animal de Socrate, Socrates namque subiectus est homini, de quo animal
praedicatur. Ergo constat huiusmodi definitio quae dicit: quoties ALTERUM DE
ALTERO PRAEDICATUR UT DE SUBIECTO, si quid sit quod DE EO QUOD PRAEDICATUR in
eo quod quid sit dici possit, hoc idem ipsum de eo quod prius subiectum erat
possit praedicari. Sed fortasse quisquam dicat minime verum esse quod dictum
est, nam cum homo de Socrate praedicetur (Socrates enim homo est), de homine
vero species (homo enim species est), Socrates species esse non dicitur. Et
rursus cum animal de homine praedicetur, de animali vero genus (animal enim
genus est), homo generis vocabulo caret: non enim dicitur homo esse genus, homo
enim genus non est sed tantum species. His dicendum est quod minus adverterint
illam esse definitionem de subiecto praedicationis, quae in eo quod quid sit
unumquodque et in eius substantia praedicaretur, nunc autem species de homine
non in eo quod quid sit praedicatur. Neque enim si quis hominis definitionem
reddat speciem nominavit sed designativam nomen est tantum, utrum de pluribus
speciei differentibus praedicatur hoc nomen quod est homo, an certe tantum de solis
individuis. Nam quoniam de individuis solis homo praedicetur, idcirco species
dicitur, et quoniam de specie differentibus animal dicitur, idcirco animal
genus vocamus. Et sunt quodammodo nominum nomina. Quare neque genus de animali,
neque species de homine, in eo quod quid sit praedicatur sed tantum designant,
quomodo homo et animal de subiectis (ut dictum est) propriis praedicentur. Ergo
non est mirandum si ad eorum subiectum quae de subiecto dicuntur eius predicati
quod de subiecto non dicitur praedicatio perveniri non potest. DIVERSORUM
GENERUM ET NON SUBALTERNATIM POSITORUM DIVERSAE SECUNDUM SPECIEM ET
DIFFERENTIAE SUNT, UT ANIMALIS ET SCIENTIAE; ANIMALIS QUIDEM DIFFERENTIAE SUNT
UT GRESSIBILE ET VOLATILE ET BIPES, SCIENTIAE VERO NULLA HARUM EST; NEQUE ENIM
SCIENTIA AB SCIENTIA DIFFERT IN EO QUOD BIPES EST. Cum multis modis genus
dicatur, solum quod nunc tractari convenit assumamus. Dicitur enim genus quod
de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur, ut animal
praedicatur de homine, et de equo, et de cane, et de bove, et de caeteris, quae
omnia specie ipsa a se discrete sunt. Species vero est quod de pluribus numero
differentibus in eo quod quid sit praedicatur, ut homo praedicatur de Catone,
Socrate, Platone, Virgilio, Cicerone, et de singulis hominibus, qui specie ipsa
non differunt sed tantum a se numero distant. Differentia vero est quae sub
eodem genere positas species propria qualitate disterminat, nam cum equus et
homo quantum ad genus unum sint (uterque enim animal est), differentia
rationalis et irrationalis utrosque disiungit ac discernit. Qualitate enim
quadam rationabilitatis et irrationabilitatis uterque a propriae substantiae
definitione dissentiunt. Ergo differentia est quae de pluribus specie
differentibus in eo quod quale sit praedicatur. Namque haec ipsa differentia
quae est irrationabilitas de multis specie differentibus praedicatur, ut de
cygno, et equo, et pisce, quae omnia a se cum specie ipsa dissentient,
irrationabilitatis tamen qualitate coniuncta sunt. Sed non in omnibus
differentia de pluribus specie differentibus praedicatur. Sunt enim quaedam
quae non nisi de una specie praedicantur, ut gravitas de sola terra, levitas de
solo igne, proprie dicitur. At vero nec species semper de pluribus numero
differentibus praedicatur; mundi enim species de uno solo mundo dicitur, et
phoenicis species de una tantum phoenice sed idcirco ita definita est quod
frequentius differentia de pluribus specie differentibus praedicatur quam de
uno. Eodemque modo et species frequentius invenitur de pluribus numero
differentibus praedicari, quam de una tantum re ac singulari. His ita positis,
sunt quaedam genera, quae generalissima nuncupantur, quibus genus inveniri non
possit, sunt species quibus alias subiectas species nullus inveniet. Inter
utraque autem sunt alia quae subalterna genera nominantur, quae superiorum
quidem species sunt, posteriorum vero genera ut substantia genus quidem est
generalissimum, ut eius genus inveniri non possit, homo vero species est, ut
eius species alia reperiri non valeat. Animal vero ad substantiam quidem
species est, ad hominem vero genus. Decem igitur praedicamentorum significatio
nihil aliud demonstrat nisi rerum decem genera quae generalissima nominamus.
Ergo quoties genera generalissima discrepant, eorum quoque species
discrepabunt; et quoties species discrepant, quoniam differentiis disiunguntur
atque informantur, differentiae quoque diversarum specierum discrepabunt.
Animal namque et scientia, quoniam est animal substantia, scientia vero ad
aliquid, quoniamque genus animalis est substantia, et genus scientiae est ad
aliquid, omni substantiae a se ratione discreta sunt, et differentiae quoque
scientiae atque animalis omnibus qualitatibus disiunguntur. Est namque
differentia animalis, bipes et quadrupes, animal enim ab alio animali differt, quod
hoc quidem bipes sit, ut homo vel avis, illud vero quadrupes, ut equus atque
bos; illud vero multipes, ut formica vel apis. Sed scientia differentiis
huiusmodi non habet, neque enim scientia a scientia differt in eo quod bipes
est. Quare constat quoties diversa sunt genera, specierum quoque differentiis
esse discretas. At hoc est quod ait: DIVERSORUM GENERUM ET NON SUBALTERNATIM
POSITORUM DIVERSAE SECUNDUM SPECIEM ET DIFFERENTIAE SUNT. Et hoc exempli
adiectione firmavit dicens: ANIMALIS ET SCIENTIAE diversas esse differentias,
nam cum sit bipes animalis differentia, scientiae non est. Et hoc quidem de
diversis generibus dictum est, id est quae subalterna non sunt. Quod si
subalterna sunt genera, nihil prohibet alias easdem esse differentias, alias
diversas, ut avis est species animalis, et rursus est genus corui, et est
subalternum genus, avis. Sed animalis differentiae sunt rationalis atque
irrationalis, avis vero differentia rationalis non est. Nulla enim avis ab alia
avi differt, quod sit rationalis; ergo hoc loco non sunt eaedem subalternorum
generum differentiae. Si quis vero has generis, id est animalis differentias
dicat, ut animalium alia sunt quae pascantur herbis, alia quae seminibus, alia
quae carnibus, hae differentiae conveniunt in subalterno genere, videlicet in
avi; namque avium sunt aliae quae seminibus uescuntur, aliae quae herbis, aliae
quae carnibus, ut uultur et miluus; ergo in subalternis generibus nihil
prohibet easdem esse differentias, et iterum discrepare; hoc autem idcirco
evenit, quia quae de praedicato dicuntur possunt de subiecto praedicari. Quare
quod dicitur de genere potest etiam dici de specie, atque hoc est quod ait: SUBALTERNORUM
VERO GENERUM NIHIL PROHIBET EASDEM ESSE DIFFERENTIAS; SUPERIORA ENIM DE
INFERIORIBUS GENERIBUS PRAEDICANTUR. Sed cum diceret nihil prohibet easdem esse
differentias, hoc quodam modo voluit de monstrare esse quasdam easdem
differentias, alias vero posse esse diversas, cui rem contrariam intulisse
videtur, cum dicit: QUARE QUAECUMQUE PRAEDICATI DIFFERENTIAE FVERINT, EAEDEM
ERUNT ETIAM SUBIECTI. Nam cum illic dixisset, nihil prohibet esse easdem
differentias generum subalternorum, hic omnes easdem esse declarat, dicit enim:
QUAECUMQUE FUERINT DIFFERENTIAE PRAEDICATI, EASDEM ETIAM SUBIECTI esse; atque
haec res plures maximis illigavit 179A erroribus, ut emendandum crederent locum
non ut esset ita. QUARE QUAECUMQUE PRAEDICATI DIFFERENTIAE FVERINT, EAEDEM
ERUNT ETIAM SUBIECTI sed ut hoc modo. Quare quaecumque subiecti differentiae
fuerint, eaedem erunt etiam praedicati. Sed hoc adiiciendum est, neque enim
fieri potest ut in rem superiorem praedicatio posterioris redundet. Nam cum
dicitur "quaecumque subiecti fuerint differentiae eaedem erunt
praedicati", hoc scilicet significatur, ut praedicatio subiecti redeat in
praedicatum -- quod fieri non potest. Sed dicendum est quod sunt aliae
differentiae quae dicuntur completivae praedicati et cuiuslibet illius speciem
informantes, quae communi nomine 'specificae' nominantur. Nam cum dico animatum
et sensibile, si substantiae coniungantur, definitionem et speciem mox animalis
efficiunt. Animal enim est substantia animata sensibilis, atque hae
differentiae dicuntur specificae et completivae. Sunt autem aliae quae ipsae
quidem nihil complent nec ullam speciem reddunt sed genus tantum dividunt, ut
rationale et irrationale: haec enim dividunt genus, id est animal; animal enim
rationali differentia irrationalique dividitur. Ergo illae quae sunt generis
divisivae differentiae possunt aliquoties eaedem esse, possunt aliquoties non
eaedem, ut animalis, quoniam divisibilis est differentia quae est rationale,
potest eam non habere avis, quae est subalternum genus. Et rursus easdem
divisibiles habere potest, ut easdem quas superius diximus. Nam cum dividant
animal differentiae, quae carnibus, herbis, et seminibus uescuntur, eaedem
possunt esse subalterni generis, id est avis; ergo hae divisibiles 179C possunt
etiam esse diversae. Illae vero quae completivae et specificae sunt, aliquando
non praedicari de subiecto non possunt. Ut quoniam animal habet differentias
completivas et suae speciei effectivas, sensibile scilicet et animatum, hae
differentiae de homine quod est subiectum animalis non praedicari non possunt.
Omnes enim specificae differentiae de his praedicantur quorum speciem complent,
ut de animali praedicatur sensibile et animatum, et hoc ut de subiecto. In
substantia enim animalis utraque praedicantur sed animal praedicatur de homine
ut de subiecto; necesse est ergo animatum atque sensibile de homine praedicari
ut de subiecto. Hoc est enim quod superius praemisit cum diceret: QUANDO
ALTERUM DE ALTERO 179D PRAEDICATUR UT DE SUBIECTO, QUAECUMQUE DE EO QUOD
PRAEDICATUR DICUNTUR, OMNIA ETIAM DE SUBIECTO DICENTUR. Atque hoc in omnibus
generibus recte constat intelligi. Ergo divisibiles differentiae possunt
aliquando cum subiectis esse communes, aliquando diversae specificae vero et
completivae cum subiectis communes non esse non possunt. Quod ergo Aristoteles
ait: SUBALTERNORUM VERO GENERUM NIHIL PROHIBET EASDEM ESSE DIFFERENTIAS divisibiles
differentias easdem esse nihil prohibere putandum est, quae possunt esse etiam
diversae. Quod ait vero: QUAECUMQUE PRAEDICATI DIFFERENTIAE FUERINT, EAEDEM
ERUNT ETIAM SUBIECTI de specificis intelligendum est: quae cum speciem
cuiuslibet informent, et de eo quod informant, ut de subiecto, praedicentur, ad
quodcumque ut subiecto praedicatur illud quod ipsae differentiae informant, de
eo ut de subiecto praedicabuntur, et de eo non praedicari non possunt. Quare
nihil est in huiusmodi theoremate quod ullo modo debeat emendari. EORUM QUAE
SECUNDUM NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR SINGULUM AUT SUBSTANTIAM SIGNIFICAT AUT
QUANTITATEM AUT QUALITATEM AUT AD ALIQUID AUT UBI AUT QUANDO AUT SITUM AUT
HABITUM AUT FACERE AUT PATI. EST AUTEM SUBSTANTIA QUIDEM UT FIGURATIM DICATUR
UT HOMO, EQUUS; QUANTITAS UT BICUBITUM, TRICUBITUM; QUALITAS UT ALBUM; AD
ALIQUID UT DUPLUM, MAIUS; UBI VERO UT IN LYCIO; QUANDO AUTEM UT HERI; SITUS
VERO UT SEDET, IACET; HABERE AUTEM UT CALCIATUS, ARMATUS; FACERE VERO UT
SECARE, URERE; PATI VERO UT SECARI, URI. Post paruissimam in quattuor
enumerationem, id est in substantiam, accidens, universalitatem,
particularitatem, nunc est de partitione maxima tractaturus, quae fit in decem;
hac enim enumeratione maior non potest inveniri, neque enim undecim
praedicamenta poterunt inveniri nec ultra decem ullo modo aliquod genus recte
excogitari potest; quare 180C facit huiusmodi enumerationem sed non divisionem.
Divisio namque fere est generis in species; praedicamentorum vero, quoniam
genus unum non habent, divisio esse non potest sed potius enumeratio est. Sunt
vero quidam qui contendunt recte enumerationem non esse dispositam, alii namque
ut superuacua quaedam demunt, alii ut curto operi addunt, alii vero permutant,
quos nimirum non recte sentire alio nobis opere dicendum est; ait autem: EORUM
QUAE SECUNDUM NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR. Adeo non de rebus sed de vocibus
tractaturus est, ut diceret DICUNTUR. Res enim proprie non dicuntur sed voces:
et quod addidit, SINGULUM AUT SUBSTANTIAM SIGNIFICAT, late patet eum de vocibus
disputare; non enim res sed voces significant, significantur autem res. Sine
complexione vero dicuntur (ut dictum est) quaecumque 1singulari intellectu et
voce proferuntur: secundum complexionem vero quaecumque aliqua coniunctione vel
accidentis copulatione miscentur. Sed quid ex iis quae secundum nullam
complexionem dicuntur efficitur, ipse demonstrat cum dicit: SINGULA IGITUR
EORUM QUAE DICTA SUNT IPSA QUIDEM SECUNDUM SE IN NULLA AFFIRMATIONE DICUNTUR,
HORUM AUTEM AD SE INVICEM COMPLEXIONE AFFIRMATIO FIT. VIDETUR ENIM OMNIS
AFFIRMATIO VEL FALSA ESSE VEL VERA; EORUM AUTEM QUAE SECUNDUM NULLAM
COMPLEXIONEM DICUNTUR NEQUE VERUM QUICQUAM NEQUE FALSUM EST, UT HOMO, ALBUM,
CURRIT. Significat ergo et hic ea quae sine ulla complexione dicuntur
affirmationis vim non obtinere. Si quis enim dicat homo, vel album, vel decem,
vel quidlibet simplici modo, in eo neque verum aliquid inveniet neque falsum
sed omnis affirmatio vel vera vel falsa est. Igitur universaliter pronuntiat
praedicamenta affirmationis ratione penitus non teneri: sed haec eadem si cum
quadam complexione coniuncta sint fieri propositiones necesse est, quae in se
verum falsumue contineant, Sed non omnis complexio propositionem facit, nec si
dixero: Socrates in foro idcirco iam propositio est; sed si quis dicat:
Socrates in foro ambulat tunc fit propositio, quae aut affirmatio est aut
negatio. Affirmationes autem et negationes, vel verae videntur esse vel falsae:
atque ideo quodcumque neque verum neque falsum est, illud propositio non est.
Ergo quadam complexione ex iis quae secundum nullam complexionem dicuntur
veritas falsitasque conficitur. Affirmationem autem solam nunc Aristoteles
interposuit, idcirco quod omnis affirmatio prior est; hoc enim negatio tollit
quod affirmatio ante constituit: prius quidem secundum significationem sed non
secundum genus, quod alio liquebit loco. Maxime autem monstrat Aristoteles se
non de rebus sed de vocibus tractaturum, quod ait: HORUM AUTEM AD SE INVICEM
COMPLEXIONE AFFIRMATIO FIT; non enim rerum complexione fit affirmatio vel
negatio sed sermonum, nec in rebus est veritas et falsitas sed in intellectibus
atque opinionibus, et post haec in vocibus atque sermonibus. Atque haec
hactenus. Secundum complexionem ergo sunt quaecumque ex integris compositis
fiunt, ut: Socrates ambulat nam et Socrates et ambulat uterque integer sermo
est, et coniunctus affirmationem facit. At vero si quis dicat flammiger, vel
multisonus, vel fluctivagus, secundum complexionem non erit ista prolatio,
idcirco quod ex neutris integris factum est. Horum autem decem praedicamentorum
definitiones inveneri non possunt, idcirco quod ea quae significant
generalissima sunt. Substantia enim et quantitas, et qualitas nulli unquam generi
videntur esse subiecta. Quare quoniam definitio omnis a genere ducitur, genus
quod alii generi subiectum non est a definitione relinquitur. Sed nunc quidem
omnium praedicamentorum convenientia dixit exempla, post vero latius de
unoquoque tractabitur: et quoniam definitio inveniri nulla potest, quibusdam
proprietatibus informantur, quare quoniam de his dictum est plene, ad tractatum
substantiae transeamus.SUBSTANTIA AUTEM EST, QUAE PROPRIE ET PRINCIPALITER ET
MAXIME DICITUR, QUAE NEQUE DE SUBIECTO PRAEDICATUR NEQUE IN SUBIECTO EST, UT
ALIQUI HOMO VEL ALIQUI EQUUS. SECUNDAE AUTEM SUBSTANTIAE DICUNTUR, IN QUIBUS
SPECIEBUS ILLAE QUAE PRINCIPALITER SUBSTANTIAE DICUNTUR INSUNT, HAE ET HARUM
SPECIERUM GENERA; UT ALIQUIS HOMO IN SPECIE QUIDEM EST IN HOMINE, GENUS VERO
SPECIEI ANIMAL EST; SECUNDAE ERGO SUBSTANTIAE DICUNTUR, UT EST HOMO ATQUE
ANIMAL. Quaeritur cur praedicamentorum tractatum a substantiis inchoaverit, nam
quoniam omnis res aut in subiecto est aut in subiecto non est, quidquid in
subiecto est eget subiecto, quoniam in propriis natura non potest consistere:
et quoniam rebus omnibus substantia subiecta est, nihil eorum quae sunt in
subiecto praeter substantiam poterit permanere. Sed prior illa natura est sine
qua alia esse non possunt, quocirca prior naturaliter videtur esse substantia;
non absurde igitur in disputatione quod prius per naturam fuit, prius etiam
sumpsit, et definitionem quidem substantiae proferre non potuit sed post
exemplum superius datum descriptionem quamdam profert qua quid sit ipsa substantia
queamus agnoscere: hoc est autem non esse in subiecto, substantia enim in
subiecto non est. Facit autem quamdam substantiarum divisionem cum dicit alias
primas esse substantias alias secundas: primas vocans individuas, secundas vero
individuarum species et genera: Ergo cum primis secundisque subtantiis commune
sit 'non esse in subiecto', additum primis substantiis 'de subiectis non
praedicari' primas substantias a secundis substantiis separat; substantia enim
individua, in eo quod est substantia, in subiecto non est: quod autem individua
est, de subiecto non praedicatur. Sunt ergo primae substantiae quae neque in
subiecto sunt neque de subiecto dicuntur, ut est Socrates vel Plato. Hi enim
quoniam substantiae sunt, in subiecto nullo sunt. Quoniam vero particulares
individuique sunt, de nullo subiecto praedicantur. SECUNDAE VERO SUBSTANTIAE
sunt quibus commune est cum primis substantiis quod in subiecto non sunt,
proprium vero quod de subiecto praedicantur, quae secundae substantiae sunt
universales, ut est homo atque animal; homo namque et animal in nullo sunt
subiecto sed de subiecto aliquo praedicantur. Sunt igitur primae substantiae
particulares, secundae universales. PROPRIE autem substantias individuas dicit
quod hominem quidem idem ipsam speciem, et animal, quod est genus, non nisi ex
individuorum cognitione colligimus. Quare quoniam ex singulorum sensibus
generalitas intellecta est, merito "propriae substantiae" individua
et singula nominantur. PRINCIPALITER vero individuae substantiae dictae sunt
quod omne accidens prius in individua, post vero in secundas substantias venit.
Nam quoniam Aristarchus grammaticus est, homo vero est Aristarchus, est homo
grammaticus: ita prius omne accidens in individuum venit, secundo vero loco
etiam in species generaque substantiarum accidens illud venire putabitur. Recte
igitur quod prius subiectum est, hoc substantia PRINCIPALITER appellatur. MAXIME
autem substantia prima dicitur, idcirco quod quae maxime subiecta est rebus
aliis, ea maxime substantia dici potest: maxime autem subiecta est prima
substantia; omnia enim de primis substantiis dicuntur, aut primis substantiis
insunt, ut genera et species: namque et genera et species praedicantur de
propriis individuis, ut animal atque homo praedicantur de Socrate, id est
secundae substantiae de primis: sin vero sint accidentia, in primis substantiis
principaliter sunt. Quare quoniam et accidentia in primis substantiis
principaliter sunt, et secundae substantiae de primis substantiis praedicantur,
primae substantiae secundis substantiis accidentibusque subiectae sunt. Quare
quoniam istae maxime subiectae sunt et accidentium subsistentiae et secundarum
substantiarum praedicationi, idcirco maxime substantiae nuncupantur. Dicit
autem non omnis species neque omnia genera secundas esse substantias sed eas
tantum quae primas substantias continerent, UT EST HOMO ATQUE ANIMAL; homo
namque continet Socratem, id est aliquam individuam substantiam. Animal vero
continet individuum speciemque, id est hominem et aliquem hominem. Quare genera
et species quae de primis substantiis praedicantur, ipsas secundas putat esse
substantias; hoc autem hoc modo ait: SECUNDAE AUTEM SUBSTANTIAE DICUNTUR, IN
QUIBUS SPECIEBUS ILLAE QUAE PRINCIPALITER SUBSTANTIAE DICUNTUR INSUNT, HAE ET
HARUM SPECIERUM GENERA et inde convenientia ponit exempla, ac si diceret: Non
omnia genera neque omnes substantias dico sed eas tantum species IN QUIBUS
individua illa, id est primae substantiae sunt, ET HARUM SPECIERUM, id est quae
continent primas substantias, GENERA. Hoc autem idcirco dictum videtur, ne quis
colorem quod genus est, vel album quod est species, secundas pPomba esse
substantias, ista enim primas sub se non continent. Sed dicat aliquis
quemadmodum primae poterunt esse substantiae individuae, cum omne quod prius
est sublatum auferat id quod est posterius, posterioribus vero sublatis priora
non pereant? Homo namque si pereat, Socrates quoque sit continuo periturus; si
vero Socrates interierit, homo continuo non peribit. Si igitur, sublatis
generibus et speciebus, individua perimuntur, sublatis individuis, generas,
speciesque permanent, magis primas substantias species et genera nominari
dignum fuit. Sed hoc modo individuorum natura non recte accipitur. Neque enim
cuncta individuorum substantia in uno Socrate est, vel quolibet uno homine sed
in omnibus singulis. Genera namque et species non ex uno singulo intellecta
sunt sed ex omnibus singulis individuis, mentis ratione concepta. Semper etiam
quae sensibus propinquiora sunt; ea etiam proxime nuncupanda vocabulis
arbitramur. Qui enim primus hominem dixit, non illum qui ex singulis hominibus
conficitur, concepit sed animo quemdam singularem atque individuum cui hominis
nomen imponeret. Ergo sublatis singulis hominibus homo non remanet, et sublatis
singulis animalibus animal interibit. Quocirca quoniam in hoc libro de
vocabulorum significatione tractatus habetur, ea quibus vocabula prius posita
sunt, merito primas substantias nuncupavit: prius autem illis vocabula sunt
indita quae prius sub sensibus cadere potuerunt. Sensibus vero obiiciuntur
prima individua, merito igitur ea prima in divisione posuit. Eodem quoque modo
illa quaestio solvitur quae dicit: Cum naturaliter primae intellectibiles sint
substantiae, ut Deus et animus, cur non has primas substantias nuncupaverit?
Quoniam hic de nominibus tractatus habetur, nomina autem primo illis indita
sunt quae principaliter sensibus fuere subiecta, posteriora vero in nominibus
ponendis putantur quaecumque ad intelligibilem pertinent incorporalitatem;
quare quoniam in hoc opera principaliter de nominibus tractatus est, de
individuis vero substantiis quae primae sensibus subiacent prima sunt dicta
vocabula in opere quo de vocabulis tractabatur, merito individuae sensibilesque
substantiae primae substantiae sunt positae. Cum autem tres substantia sint,
materia, species, et quae ex utriusque conficitur undique composita et compacta
substantia, hic neque de sola specie, neque de sola materia sed de utrisque
mistis compositisque proposuit. Partes autem substantiae incompositae et
simplices sunt ex quibus ipsa substantia conficitur, species et materia, quas
post per transitum nominat, dicens substantiarum partes et ipsa esse substantias.
Atque haec hactenus. Nunc expositionis cursum ad sequentia convertamus. MANIFESTUM
EST AUTEM EX HIS QUAE DICTA SUNT QUONIAM EORUM QUAE DE SUBIECTO DICUNTUR
NECESSE EST ET NOMEN ET RATIONEM DE SUBIECTO PRAEDICARI, UT HOMO DE SUBIECTO
DICITUR ALIQUO HOMINE, ET PRAEDICATUR NOMEN; NAMQUE HOMINEM DE ALIQUO HOMINE
PRAEDICABIS. RATIO QUOQUE HOMINIS DE ALIQUO HOMINE PRAEDICABITUR; QUIDAM ENIM
HOMO ET HOMO EST. QUARE ET NOMEN ET RATIO PRAEDICABITUR DE SUBIECTO. EORUM VERO
QUAE SUNT IN SUBIECTO, IN PLURIBUS QUIDEM NEQUE NOMEN DE SUBIECTO NEQUE RATIO
PRAEDICATUR. IN QUIBUSDAM VERO NOMEN QUIDEM NIHIL PROHIBET PRAEDICARI, RATIONEM
VERO IMPOSSIBILE EST; UT ALBUM, CUM IN SUBIECTO SIT CORPORE, PRAEDICATUR DE
SUBIECTO (DICITUR ENIM CORPUS ALBUM), RATIO VERO ALBI NUMQUAM DE CORPORE
PRAEDICABITUR. CAETERA VERO OMNIA AUT DE SUBIECTIS DICUNTUR PRIMIS SUBSTANTIIS
AUT IN EISDEM SUBIECTIS SUNT. HOC AUTEM MANIFESTUM EST EX HIS QUAE SINGULATIM
PROFERUNTUR; UT ANIMAL DE HOMINE PRAEDICATUR, QUARE ET DE ALIQUO HOMINE
PRAEDICABITUR; NAM SI DE NULLO ALIQUORUM HOMINUM DICERETUR, NEC DE IPSO HOMINE
PRAEDICARETUR OMNINO. RURSUS COLOR IN CORPORE EST; ERGO ET IN ALIQUO CORPORE;
NAM SI IN NULLO ESSET CORPORUM SINGULORUM, NEC IN CORPORE ESSET OMNINO.
QVOCIRCA CAETERA OMNIA AUT DE SUBIECTIS PRIMIS SUBSTANTIIS DICUNTUR AUT IN
SUBIECTIS IPSIS SUNT. SI ERGO PRIMAE SUBSTANTIAE NON SUNT, IMPOSSIBILE EST
ALIQUID ESSE CAETERORUM. Omnia quaecumque dicta sunt vel in subiecto sunt vel
de subiecto praedicantur sed non omnia quaecumque in subiecto sunt de subiectis
propriis dicuntur, namque quod in subiecto aliquo est de proprio subiecto
praedicatur: ut album de corpore praedicatur, dicitur enim corpus album. Sed
quoniam secundae substantiae primarum substantiarum vel species vel genera sunt
(Socratis enim species homo est et animal genus), genus autem de subiectis
speciebus et individuis univoce praedicatur, secundae substantiae de subiectis
speciebus univoca praedicatione dicuntur. Convenit namque primarum et
secundarum substantiarum si sit una facta definitio. Namque anima et homo et
Socrates una definitione iunguntur, quod substantiae animatae atque sensibiles
sunt. Igitur secundae substantiae ita de subiectis praedicantur propriis, id
est de primis substantiis, ut univoce praedicentur. Illorum vero quae sunt in
subiecto aliquoties quidem neque nomen ipsum de subiecto dicitur. Nam virtus in
anima est sed virtus de animo minime praedicatur; aliquoties autem denominative
dicitur, ut grammatica, quoniam est in homine, denominative grammaticus a
grammatica dicitur. Saepe autem ipsum nomen de subiecto praedicatur, ut quoniam
album est in corpore, corpus album dicitur. Sed sive nomen non praedicetur,
sive denominative dicatur sive proprio nomine praedicatio sit, definitio eius quod
est in subiecto de proprio subiecto nunquam praedicabitur -- ut album, quoniam
est in subiecto corpore, praedicatur quidem albi nomen de corpore, definitio
vero albi ad corpus nullo modo dicitur, album namque vel corpus una ratione
utraque definiri non possunt. Amplius si omne accidens in subiecto est, et
substantia subiectum est, differt ab accidente substantia, differt etiam definitio
substantiae atque accidentis, quod eadem definitio subiecti et eius quod est in
subiecto esse non potest. Atque hoc est quod ait: EORUM VERO QUAE SUNT IN
SUBIECTO, IN PLURIBUS QUIDEM NEQUE NOMEN DE SUBIECTO NEQUE RATIO PRAEDICATUR,
ut virtus in anima. Addidit quoque: IN QUIBUSDAM VERO NOMEN QUIDEM NIHIL
PROHIBET PRAEDICARI, et in aliis quidem denominative, in aliis vero recto
nomine fit praedicatio. De secundis vero substantiis semper ad primas
substantias praedicatio pervenit. Nam si quidam homo et homo est et animal et
caetera, una definitio animalis et ad hominem et ad quemdam hominem
convenienter aptabitur. Magis tamen esse substantias individuas et particulares
ipse significantius monstrat. Nam cum omnis res aut substantia sit aut
accidens, et substantiarum aliae sint primae aliae secundae, fit trina
partitio, ita ut omnis res aut accidens sit aut secunda substantia aut prima. Horum
autem ut sub descriptione divisio fiat, hoc modo dicimus: Omnis res aut in
subiecto est aut in subiecto non est; eorum quae in subiecto sunt alia
praedicantur de subiecto alia minime; eorum quae in subiecto non sunt alia de
nullo subiecto praedicantur alia vero praedicantur. Ergo omnis res aut in
subiecto est aut in subiecto non est. Aut in subiecto est et de subiecto
praedicatur, aut in subiecto est et de nullo subiecto praedicatur, aut in
subiecto non est et de subiecto praedicatur, aut in subiecto non est et de
nullo subiecto praedicatur. His igitur sumptis, si primas substantias
separemus, remanent secundae substantiae atque accidentia. Sed secundae
substantiae sunt quae in subiecto non sunt et de subiecto praedicantur. Ergo
esse suum, nisi in hoc quod de aliquo praedicantur, non retinent. Praedicantur
autem secundae substantiae de primis, ergo ut secundae substantia sint,
praedicatio de primis substantiis causa est. Non enim essent secundae
substantiae, nisi de primis substantiis, praedicarentur, illa vero quae in
subiecto sunt penitus consistere non valerent, nisi fundamenti quodammodo loco
primis substantiis niterentur. Ergo omnia quaecumque sunt praeter primas
substantias, aut secundo substantiae erunt aut accidentia. Sed secundae
substantiae de primis substantiis praedicantur, accidentia in primis
substantiis sunt. Quocirca omnia aut de primis substantiis praedicantur, ut
secundae substantiae, aut in primis substantiis sunt, ut accidentia, quod
Aristoteles proposuit hoc modo: Alia autem omnis aut de subiectis dicuntur
principalibus substantiis, aut in subiectis eisdem sunt, hic quoque verissima
sumit exempla. Ait enim: Si accidens in nullo subiecto corpore esset, nec in
corpore esset omnino. Nam si in nullo singulorum, in nullo generaliter esse
diceretur. Et item animal nisi de singularibus atque individuis hominibus
praedicaretur, nec de homine praedicaretur omnino. Quare quoniam idcirco
praedicantur secundae substantiae, quoniam sunt primae, et idcirco sunt aliquid
accidentia, quoniam eisdem primae substantiae subiectae sunt, si primo
substantia, non sint, neque quae de his praedicantur mansura sunt, neque quae
in his subiectis permanebunt. SECUNDARUM VERO SUBSTANTIARUM MAGIS EST
SPECIES SUBSTANTIA QUAM GENUS; PROPINQUIOR ENIM EST PRIMAE SUBSTANTIAE. SI ENIM
QUIS PRIMAM SUBSTANTIAM QUID SIT ASSIGNET, EVIDENTIUS ET CONVENIENTIUS
ASSIGNABIT SPECIEM PROFERENS QUAM GENUS, UT DE ALIQUO HOMINE EVIDENTIUS
ASSIGNABIT HOMINEM PROFERENS QUAM ANIMAL;
ILLUD ENIM MAGIS EST PROPRIUM ALICUIUS HOMINIS, HOC VERO COMMUNIUS. ET
ALIQUAM ARBOREM ASSIGNANS, EVIDENTIUS ASSIGNABIT ARBOREM NOMINANS QUAM PLANTAM.
Constat individuas substantias primas et maxime et proprie esse substantias.
Secundae vero substantiae, id est genera et species, sicut non aequaliter a
prima substantia distant, ita non aequaliter substantiae sunt; nam quoniam
propinquior est species primae substantiae quam genus, idcirco magis est
substantia species quam proprium genus, ut homo propinquior est Socrati quam
animal, atque ideo magis est homo substantia. Animal vero quamquam et ipsum
substantia sit, minus tamen homine; hoc autem idcirco evenit, quod in omni
definitione convenientis species ad primam substantiam dicitur, quam genus. Nam
si quid sit Socrates aliquis velit ostendere, propinquius substantiam Socratis
proprietatemque monstrabit, si dixerit eum esse hominem, quam si animal. Quod
enim animal est Socrates, commune est cum caeteris qui homines non sunt, id est
cum equo atque bove. Quod vero homo est, cum nullo alio est commune, nisi cum
his qui sub eadem specie hominis continentur. Quocirca propinquior erit ad
significationem designatio, cum individuo species redditur, quam ei generis
vocabulum praedicetur. Rursus si quamlibet individnam arborem designare aliquis
volens, arborem dicat, propinquius designabit quid sit id quod definivit, quam
si plantam nominet: planta autem genus est arboris; praedicatur enim planta et
de iis quae arbores non sunt, ut de caulibus atque lactucis: quare constat
species magis esse substantias, eo quod sint primis et maxime substantiis
propinquiores. Et quod in eo quod quid sit, assignata species convenientibus et
evidentius assignet, genus vero longinquius atque communius. AMPLIUS PRIMAE
SUBSTANTIAE, PROPTEREA QUOD ALIIS OMNIBUS SUBIACENT ET OMNIA CAETERA VEL DE
IPSIS PRAEDICANTUR VEL IN IPSIS SUNT, IDCIRCO MAXIME SUBSTANTIAE DICUNTUR.
QUEMADMODUM AUTEM PRIMAE SUBSTANTIAE AD OMNIA CAETERA SE HABENT, ITA SESE
SPECIES HABET AD GENUS; SUBIACET ENIM SPECIES GENERI; ETENIM GENERA DE
SPECIEBUS PRAEDICANTUR, SPECIES VERO DE GENERIBUS NON CONVERTUNTUR. QVOCIRCA
ETIAM EX HIS SPECIES GENERE MAGIS EST SUBSTANTIA. Magis esse substantias
species validiori rursus argumentatione confirmat, per similitudinem namque hoc
ita esse declarat. Nam cum omnes substantiae aut primae sint aut secundae,
secundarum autem aut genera aut species, specierum atque generum quidquid
similius primis substantiis invenitur, hoc magis substantia merito putabitur.
Sed primae substantiae IDCIRCO MAXIMAE SUBSTANTIAE DICUNTUR, quod omnibus ita
subiectae sunt, ut aut in ipsis sint caetera ut accidentia, aut de ipsis alia
praedicentur ut substantiae secundae. Quod ergo in primas substantias, hoc idem
in species venit. Namque species et cunctis subiacent accidentibus, et de
speciebus genera praedicantur, de generibus vero species non praedicantur.
Quare non similiter genera subiacent, quemadmodum species. Non enim de
generibus species praedicantur. Ergo sicut primae substantiae subiectae sunt
secundis substantiis et accidentibus, ita species subiectae sunt et
accidentibus et generibus. Genera vero quamquam subiecta sint accidentibus,
speciebus tamen ipsa non subiacent. Quocirca maior est similitudo speciei ad
primas substantias, quam generis, quod si maior est similitudo specierum ad
maximas substantias, ipsae erunt magis substantiae. Sed ne quis non arbitretur
dicere quod ea quae sunt genera species esse non possunt sed in eo quod sunt
genera, species esse non possunt. Nam in eo quod species est, de superioribus
non praedicatur sed in eo quod genus, de eo praedicabitur cuius est genus.
Quocirca genera ipsa 187D quorum sunt genera his subiacere non possunt, species
vero quorum sunt species, de his praedicari non possunt. IPSARUM VERO SPECIERUM
QUAE GENERA NON SUNT, NIHILO PLUS ALIA AB ALIA SUBSTANTIA EST; NIHIL ENIM
CONVENIENTIUS PROFERETUR SI QUIS DE ALIQUO HOMINE HOMINEM REDDAT QUAM SI DE
ALIQUO EQUO PROFERAT EQUUM. SIMILITER AUTEM ET IN PRIMIS SUBSTANTIIS NIHILO
PLUS ALIA AB ALIA SUBSTANTIA EST; NIHIL ENIM MAGIS ALIQUIS HOMO QUAM ALIQUIS
BOS SUBSTANTIA EST. Praedictum est quoque, ut Porphyrius in libro de generibus,
speciebus, differentiis, propriis, atque accidentibus planissime docuit, alia
esse solum genera, quorum genus inveniri non posset, alia solum 188A species,
quae in alias species dividi non valerent. Hae autem sunt quae de pluribus
numero differentibus in eo quod quid sit praedicantur, ut homo de singulis
hominibus dicitur, et equus de singulis equis, et bos de singulis bobus, qui
sub propria specie positi a seipsis propriae naturae figura non discrepant.
Ergo huiusmodi species, ut est homo atque equus, quae solis individuis
praesunt, quoniam genera esse non possunt, aequaliter semper substantiae sunt.
Nam tam propinque redditur de quolibet individuo equo, nomen equi, quam de
quolibet individuo homine, hominis nomen, Quocirca ei aequaliter species hae,
quae genera non sunt, ad primas substantias sunt, aequaliter esse substantiae
merito putabuntur; hoc autem dicit non quod omnes species aequaliter substantia
sint sed quae aequaliter a primis substantiis distant. Potest enim fieri ut
cuiuslibet superioris generis una quaelibet species sit, quae comparata ad
propriam speciem minus illa superior videatur esse substantia: ut animalis si
quis dicat speciem esse avem, eiusdem quoquo speciem horninem, avis et homo non
aequaliter substantiae sunt, idcirco quod avis homine superior est. Homo namque
in alias species non dividitur, est enim magis species. Avis autem potest in
alias dividi species, ut in accipitrem et uulturem, quae quamquam aves sunt
specie, tamen ipsa dissentiunt. Proprie autem species accipere ac uultur est,
hi enim solis individuis praesunt. Quare homo atque accipiter aequaliter a
primis substantiis distant, et sunt aequaliter substantiae. Homo vero atque
avis, quoniam superior est avis homine, non aequaliter substantiae sunt, magis
enim substantia homo est. Ergo quaecumque species aequaliter a suis individuis
distant, aequaliter substantiae sunt. Quod quoniam species hae quae genera non
sunt aequaliter a primis substantiis absunt, aequaliter substantiae dicuntur.
Primum autem est, ut expositione non egeat, primas quoque substantias
aequaliter esse substantias, aliquis homo enim atque aliquis equus, quoniam
sunt individua, principaliter substantiae sunt, et propriae et maximae.
Quocirca in maximis substantiis, neque minus, neque magis substantia poterit
inveniri. Individua igitur aequaliter substantiae sunt. RECTE AUTEM POST PRIMAS
SUBSTANTIAS SOLAE OMNIUM CAETERORUM SPECIES ET GENERA DICUNTUR SECUNDAE ESSE
SUBSTANTIAE; EORUM ENIM QUAE PRAEDICANTUR PRIMAS SUBSTANTIAS SOLAE SIGNIFICANT.
ALIQUEM ENIM HOMINEM SI QUIS ASSIGNET QUID SIT, SI SPECIEM QUAM GENUS PROTULERIT,
CONVENIENTER PROFERET, ET MANIFESTUM FACIET HOMINEM QUAM ANIMAL PROFERENS;
CAETERORUM VERO QUICQUID PROTULERIT, ALIENA ERIT ILLA PROLATIO, UT ALBUM VEL
CURRIT VEL QUODLIBET HUIUSMODI SI REDDAT. QUARE RECTE HAE SOLAE PRAETER CAETERA
SUBSTANTIAE DICUNTUR. Ordine et convenienter post primas substantias, id est
individua, genera et species secundas esse substantias constitutas monstrat
Aristoteles, quae est firma atque expedita probatio; ait enim: POST PRIMAS
SUBSTANTIAS RECTE GENERA ET SPECIES SECUNDAS SUBSTANTIAS ESSE NOMINATAS. In
definitionibus enim ubi substantia cuiuslibet ostenditur, nihil aliud primas
substantias monstrat, nisi genus et species. Socrates namque, si quis quid sit
interroget, dicitur homo, vel animal, et in eo quod quid sit Socrates
interrogatus, recte hominem vel animal esse respondet. Quare quid sint primae
substantiae secundae monstrant, quod si quis praeter secundas substantias in
interrogatione quid sit prima substantia dicat, id alienissime profert, ut si
quid sit Socrates interroganti aliquis respondeat album, vel currit, vel
aliquid huiusmodi, quod secunda substantia non sit, nihil convenienter unquam
profert, si quid de prima substantia praeter secundas substantias dicat. Quare
quoniam nihil eorum quae non sunt secundae substantiae, quid sit prima
substantia declarat, secundae autem substantiae 189B genera et species sunt,
recte post primas substantias species et genera secundae dicuntur esse
substantiae. AMPLIUS PRIMAE SUBSTANTIAE, PROPTEREA QUOD ALIIS OMNIBUS
SUBIACENT, IDCIRCO PROPRIAE SUBSTANTIAE DICUNTUR; QUEMADMODUM AUTEM PRIMAE
SUBSTANTIAE AD OMNIA CAETERA SESE HABENT, ITA PRIMARUM SUBSTANTIARUM GENERA ET
SPECIES AD OMNIA RELIQUA SESE HABENT; DE ISTIS ENIM OMNIBUS CAETERA
PRAEDICANTUR: ALIQUEM ENIM HOMINEM DICES GRAMMATICUM, ERGO ET HOMINEM ET ANIMAL
GRAMMATICUM PRAEDICABIS; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS. Haec quoque est de eadem
re probatio, qua recte post primas substantias genera et species esse positas
verissima ratione confirmat. Namque individua idcirco primae dicuntur esse substantiae,
et quod aliis cunctis subiaceant. Nam quoniam secundis substantiis ad
praedicationem suppositae sunt, et de his secundae substantiae dicuntur, et
quoniam accidentibus ut possint esse accideutia subduntur, idcirco primae
substantiae sunt. Et sicut primae substantiae cunctis subiacent accidentibus,
sic etiam secundae. Nam quoniam aliquis homo accidentibus subiacet, et homo et
animal accidenti supponitur, et quoniam est quidam homo grammaticus, id est
Aristarchus, est homo grammaticus, est etiam animal grammaticum. Quocirca
accidentibus primae substantiae principaliter subdurtur, secundae vero secundo
loco, et quemadmodum primae substantiae et accidentibus et secundis substantiis
subiacent, sic secundae substantiae accidentibus 189D supponuntur sed secundae
substantiae species et genera sunt. Recte igitur post primas substantias
species et genera secundas substantias esse proposuit. COMMUNE EST AUTEM OMNI
SUBSTANTIAE IN SUBIECTO NON ESSE. PRIMA ENIM SUBSTANTIA NEC DE SUBIECTO DICITUR
NEC IN SUBIECTO EST; SECUNDAE VERO SUBSTANTIAE SIC QUOQUE MANIFESTUM EST
QUONIAM NON SUNT IN SUBIECTO. ETENIM HOMO DE SUBIECTO QUIDEM ALIQUO HOMINE
DICITUR, IN SUBIECTO VERO NULLO EST; NEQUE ENIM IN ALIQUO HOMINE HOMO EST.
SIMILITER AUTEM ET ANIMAL DE SUBIECTO QUIDEM DICITUR DE ALIQUO HOMINE, NON EST
AUTEM ANIMAL IN ALIQUO HOMINE. Post enumerationem substantiarum et divisionem
in qua alias primas, alias secundas esse proposuit, 190A quoniam substantiae
definitio nulla est reddita, idcirco, quia generalissimum genus definitionibus
non tenetur, proprietatem quamdam cupit exquirere, quasi signum aliquod quo
substantiam queamos agnoscere, priusque quid ipsis substantiis communiter
possit evenire proponit; post vero quid illis proprium sit quaerit sed idcirco
ista praemittit, ut ad illud verum proprium sine ullo errore perveniat, et quod
vere est substantiarum proprium ultimum dicat. Tribus autem modis proprium
significatur. Est enim proprium quod alicui speciei omni evenit et non soli, ut
homini bipedem esse. Omnis enim homo bipes est sed non solus, aves namque et
ipsae sunt bipedes. Aut soli et non omni, ut eidem homini evenit ut sit
grammaticus sed non omni homini, neque enim omnis homo grammaticus est. Aut
vero tertia proprii significatio est, quae omni et soli et semper, ut risibile.
Omnis enim homo risibilis est, et solum est animal homo quod rideat. Ex his
igitur illa duo superiora quae diximus, ubi omni et non soli, aut soli et non
omni, esse quaedam propria dicebamus, quae a propriorum veritate esse videntur
aliena. Hoc vero tertium quod omni inest et soli, hoc vere est proprium, illa
autem superiora consequentia quidem dicuntur, non tamen vere propria, hoc autem
ultimum vere est proprium. Quaecumque ergo talia propria Aristoteles invenerit,
quae aut solis et non omnibus substantiis, aut omnibus et non solis eveniant,
velut non vere in natura cuiuslibet constituta repudiat. Illud vero ultimum
ponit quod et omni substantiae et soli valeat evenire. Illa enim sunt propria
quae convertuntur, ut si quid fuerit homo, risibile est, si quid est risibile,
homo est: haec autem solum converti possunt, quae omni solique contingunt, nam
neque ulli alii magis, neque ulli minus evenient; quare his praedictis ad loci
ipsius orationem expositionemque veniamus. Quod ergo dicit hoc est, omnibus
substantiis commune est, ut in subiecto non sint, namque primae substantiae, id
est individua in subiecto non sunt, quod planissime his demonstratur. Nunquam
enim particularis substantia alicui accidens esse potest, secundae vero
substantiae habent quamdam imaginem quod sint in subiecto, videntur enim
secundae substantiae in subiectis, id est primis substantiis esse sed falso,
nam secundae substantiae de primis substantiis solum praedicantur, non in ipsis
sunt. Animal enim de quodam homine tantum dicitur, non etiam in aliquo homine
consistit, ut in subiecto. Hoc autem illa res probat, quod omnia quaecumque in
subiecto sunt, eorum quoque individua in subiecto sunt, color quoniam in
subiecto corpore est, et quidam color subiecto corpore nititur, in hoc vero quoniam
primae substantiae, id est individua in subiecto non sunt, nec eorum
universalia, id est secundae substantiae, quae genera speciesque sunt, possunt
aliquo niti subiecto. Quare secundae substantiae primas substantias ad
praedicationem tantum subiectas habent, non etiam ut ipsae primis substantiis
accidant. Illud quoque maximum argumentum est secundas substantias non esse in
subiecto, quoniam omne quod in subiecto est potest mutari, illa quae subiecta
est non mutatur, ut color qui est in corpore, eodem corpore manente potest
mutari, ut niger fiat ex albo. Manentibus autem substantiis primis, secundae
substantiae non mutantur. Quam vero ipse Aristoteles posuit probationem,
secundas substantias uan esse in subiecto, huiusmodi est, praedocuit enim quorumdam
quae sunt in subiecto nomen de subiectis posse praedicari, rationem vero
nunquam. Album enim cum sit in corpore, dicitur corpus album, et praedicatur
albedo de corpore sed alia est definitio albedinis, alia corporis. Secundae
vero substantiae de primis substantiis et nomine praedicantur, et definitione
iunguntur. Nam quidam homo animal est et homo sed quidam homo, et hominis, et
animalis ratione definitur. Et ut veracissime sententia concludatur, omne quod
est in subiecto, aequivoce de subiecto dicitur. Secundae vero substantia de
primis non aequivoce sed univoce nuncupantur, idcirco quod (ut dictum est) et
nomine et definitione consentiunt. Quare quemadmodum primae substantiae in
sabiecto non sunt, sic secundae subiecto carebunt. Commune est igitur omnibus
substantiis, et secundis et primis in subiecto non esse, et quodcumque
substantia fuerit, consequens est ut in nullo subiecto sit. Sed quaeritur utrum
hoc soli substantiae insit an etiam aliis, nam si soli substantiae inest,
quoniam omni substantiae hoc inesse monstravimus, quod in subiecto non sit, verum
proprium dicitur esse substantiae, non esse in subiecto. Hoc enim dictum est
esse maxime proprium, quod omnibus inesset et solis sed hoc non esse
substantiae proprium verissima Aristoteles probatione confirmat dicens: AMPLIUS
EORUM QUAE SUNT IN SUBIECTO NOMEN QUIDEM DE SUBIECTO ALIQUOTIENS NIHIL PROHIBET
PRAEDICARI, RATIONEM VERO IMPOSSIBILE EST. SECUNDARUM VERO SUBSTANTIARUM DE
SUBIECTIS RATIO PRAEDICATUR ET NOMEN; RATIONEM ENIM HOMINIS ET ANIMALIS DE
ALIQUO HOMINE PRAEDICABIS. QUARE NON ERIT EORUM SUBSTANTIA QUAE SUNT IN
SUBIECTO. NON EST AUTEM PROPRIUM SUBSTANTIAE HOC; SED DIFFERENTIA EORUM EST
QUAE IN SUBIECTO NON SUNT; BIPES ENIM ET GRESSIBILE DE SUBIECTO QUIDEM DE
HOMINE PRAEDICATUR, IN SUBIECTO VERO NULLO EST; NON ENIM IN HOMINE EST BIPES
NEQUE GRESSIBILE. ET RATIO QUOQUE DIFFERENTIAE DE ILLO DICITUR DE QUO IPSA
DIFFERENTIA PRAEDICATUR, UT SI GRESSIBILE DE HOMINE DICATUR, ET RATIO
GRESSIBILIS DE HOMINE PRAEDICABITUR; EST ENIM HOMO GRESSIBILE. Non esse
proprium hoc substantiae dicit, idcirco quod in differentiis idem sit, in nullo
enim differentia subiecto est, ad illud namque recurritur, Si differentia in
subiecto esset, nomine tantum de subiecto praedicaretur, non etiam ratione.
Differentia vero de eo de quo dicitur univoce praedicatur, ut si quis dicat
gressibilem differentiam de homine, ipsius differentiae definitio quoque homini
convenienter aptabitur. Gressibile namque est quod per terram pedibus ambulat,
et homo est quod per terram pedibus ambulat, ita differentiae et eius de quo
ipsa differentia dicitur una poterit esse ratio substantiae, id est unius
possunt et nominis nuncupatione, et definitionis determinatione coniungi. Quod
si in subiecto esset differentia, nequaquam de subiecto sibi univoce
praedicaretur. Quare non proprium est substantia, quod retinet etiam
differentia, differentia namque substantia non est. Esset enim proprium
substantiae in subiecto non esse. Non est autem diiferentia accidens, esset
enim in subiecto. Omnis autem res aut accidens est, aut substantia, id est aut
in subiecto est, aut in subiecto non est, et sunt ascidentia quaecumque in
substantiam subiecti non veniunt, quaeque permutata naturam substantiae non
perimunt. Si quibus vero peremptis subiecta interimantur, illa proprie
accidentia non vocamus, differentia vero est quae de pluribus specie differentibus
in eo quod quale sit praedicatur. Sed differentia substantia non est, idcirco
quod si esset substantia non in eo quod quale sit de subiecto sed in eo quod
quid sit praedicaretur. Qualitas vero solum non est, esset enim accidens et in
subiecto. An magis ex substantia et qualitate differentia ipsa conficitur, ita
ut illud de quo praedicatur, perempta differentia simul interimatur, ut calor,
cum est in aqua, perempto calore, potest aqua in sua substantia permanere, et
est calor in subiecta aqua, quo interempto, aqua non peribit. Idem tamen calor
est in igne sed perempto calore, ignem interire necesse est. Quare haec
qualitas caloris substantialiter inest igni, et est propria differentia, id est
substantialis. Concludendum est igitur differentiam, nequs solum substantiam
esse, neque solum qualitatem, sed quod ex utrisque conficitur substantialem
qualitatem, quae permanet in natura subiecti, atque ideo quoniam substantia participat,
accidens non est, quoniam qualitas est, a substantia relinquitur. Sed quoddam
medium est inter substantiam et qualitatem, quae quoniam in subiecto non est et
substantia non est, proprium substantiae non est non esse in subiecto. Post hoc
illuc quoque dicit non debere nos conturbari, ne forte substantiarum partes,
quae ita sunt in toto quasi in aliquo subiecto, aliquando cogamur non
substantias confiteri. Substantiarum partes in subiecto sunt sed non ut
accidentia, videmus enim quasdam partes substantiarum ita esse in toto quasi
sint in subiecto, ut caput in toto corpore est, et manus in toto corpore est,
forma quoque et materia quae sunt partes compositae substantiae in ipsa
composita substantia sunt. Ne forte ergo cogamur aliquando partes
substantiarum, quoniam sunt in subiecto, suspicari non esse substantias sed
accidentia, praemonet dicens: NON NOS VERO CONTURBENT SUBSTANTIARUM PARTES QUAE
ITA SUNT IN TOTO QUASI IN SUBIECTO SINT, NE FORTE COGAMUR DICERE NON EAS ESSE
SUBSTANTIAS; NON ENIM SIC DICEBANTUR ESSE EA QUAE SUNT IN SUBIECTO UT QUASI
PARTES ESSENT. Hoc enim rationis affert cur ista accidentia esse aliquis
suspicari non debeat. Illa enim accidentia esse definita sunt in obiecto, quae
non essent ut quaedam pars, hoc enim superius ait. In subiecto avem esse dico,
quod cum in aliquo sit, non sicut quaedam pars et impossible est esse sine eo
in quo est. Quocirca quoniam accidentia ita sunt in subiecto, ut subiecti
partes non sint, substantiarum vero partes in toto ita sunt, ut in subiecto non
sint, partes substantiarum, partes accidentium esse nullus recte suspicari
potest. INEST AUTEM SUBSTANTIIS ET DIFFERENTIIS AB HIS OMNIA UNIVOCE
PRAEDICARI. OMNIA ENIM QUAE AB HIS PRAEDICAMENTA SUNT AUT DE INDIVIDUIS
PRAEDICANTUR AUT DE SPECIEBUS. ET A PRIMA QUIDEM SUBSTANTIA NULLA EST
PRAEDICATIO (DE NULLO ENIM SUBIECTO DICITUR), SECUNDARUM VERO SUBSTANTIARUM
SPECIES QUIDEM DE IN DIVIDUO PRAEDICATUR, GENUS AUTEM ET DE SPECIE ET DE
INDIVIDUO; SIMILITER AUTEM ET DIFFERENTIAE ET DE SPECIEBUS ET DE INDIVIDUIS
PRAEDICANTUR. RATIONEM QUOQUE SUSCIPIUNT PRIMAE SUBSTANTIAE SPECIERUM ET
GENERUM, 193B ET SPECIES GENERIS (QUAECUMQUE ENIM DE PRAEDICATO DICUNTUR, EADEM
ET DE SUBIECTO DICENTUR); SIMILITER AUTEM ET DIFFERENTIARUM RATIONEM SUSCIPIUNT
SPECIES ET INDIVIDUA; UNIVOCA AUTEM ERANT QUORUM ET NOMEN COMMUNE EST ET RATIO.
QUARE OMNIA A SUBSTANTIIS ET DIFFERENTIIS UNIVOCE PRAEDICANTUR. Quoniam in
subiecto non esse differentiis et substantiis commune monstravit, aliam rursus
communitatem substantiarum differentiarumque proposuit. Nam cum substantiarum
aliae sint primae, aliae secundae, et primae substantiae sint individuae,
quoniam nihil individua possunt habere subiectum, ab individuis nulla
praedicatio est. Secundae vero substantiae de individuis, id est de primis
substantiis, praedicantur, et de his univoce dicuntur. Secundarum enim
substantiarum nomen de individuis praedicatur et ratio. Ac de individuo quidem
et species praedicatur et genus, ut de Platone, id est de aliquo homine, et
homo dicitur, et animal, aliquis enim homo est, et animal, et utriusque de
individuo praedicatur ratio. Dicimus enim aliquem hominem animal esse rationale
mortale, quae est speciei definitio, id est hominis. Et rursus aliquem hominem
dicimus esse substantiam animatam atque sensibilem, quae generis est definitio,
id est animalis. Species vero generis sui et definitionem suscipit et
vocabulum, de homine enim animal praedicatur, dicitur enim homo animal est, et
idem ipse rursus homo rationem suscipit animalis. Dicimus enim esse hominem
substantiam animatam atque sensibilem. Constat ergo quoniam et genera et
species de individuis, et genera de speciebus univoce praedicantur, id est in
omni praedicatione secundae substantire univoca appellatione de subiectis
dicuntur, quod his cum differentia commune est. Differentia namque de specie de
qua dicitur, et de eius individuo ipsa quoque univoce praedicatur. Nam cum sit
gressibilis differentia de aliquo homine praedicatur, dicitur enim quidam homo
gressibilis ut Plato et Cicero sed et definitionem differentiae suscipiunt
individua, de quibus illa differentia praedicatur. Gressibile namque est quod
per terram pedibus ambulare potest. Et quemdam hominem possis ita secundum
nomen differentiae definire, ut dices Platonem esse quod per terram pedibus
ambulare possit. Et hoc idem evenit de specie cuiusdam hominis, id est de
homine: homo namque, id est ipsa species, cum sit gressiblis, potest definiri.
Homo est quod per terram pedibus ambulare possit. Ergo et differentia: de his
de quibus pradicantur, univoce dicuntur. Quocirca quoniam et secundae
substantiae de bis de quibus praedicantur uuivoce dicuntur, et differentiae
eodem modo, quaecumque a substantiis vel differentiis praedicationes fuerint,
haec et de subiectis univoce praedicabuntur. Quae autem causa sit ut secundae
substantiae de primis substantiis univoce praedicentur, illa quam supra docuit
Aristoteles nos admonens dixit, omnia enim quaecumque de praedicato dicuntur,
eadem etiam dicentur de subiecto. Omnes enim differentiae quae sunt specificae
generis praedicantur et de specie et de individuo, ut quoniam animal efficiunt
differentiae animatum atque sensibile, eadem et de specie, id est homine, et de
individuo, id est aliquo homine, praedicabuntur; quod cum superius dictum est,
nunc quantum expositionis brevitas postulat, dixisse sufficiat. OMNIS AUTEM
SUBSTANTIA VIDETUR HOC ALIQUID SIGNIFICARE. ET IN PRIMIS QUIDEM SUBSTANTIIS
INDUBITABILE ET VERUM EST QUONIAM HOC ALIQUID SIGNIFICAT; INDIVIDUUM ENIM ET
UNUM NUMERO EST QUOD SIGNIFICATUR. IN SECUNDIS VERO SUBSTANTIIS VIDETUR QUIDEM
SIMILITER AD APPELLATIONIS FIGURAM HOC ALIQUID SIGNIFICARE, QUANDO QUIS DIXERIT
HOMINEM VEL ANIMAL; NON TAMEN VERUM EST SED QUALE ALIQUID SIGNIFICAT (NEQUE
ENIM UNUM EST QUOD SUBIECTUM EST QUEMADMODUM PRIMA SUBSTANTIA, SED DE PLURIBUS
HOMO DICITUR ET ANIMAL); NON AUTEM SIMPLICITER QUALITATEM SIGNIFICAT,
QUEMADMODUM ALBUM (NIHIL ENIM ALIUD SIGNIFICAT ALBUM QUAM QUALITATEM), GENUS
AUTEM ET SPECIES CIRCA SUBSTANTIAM QUALITATEM DETERMINANT (QUALEM ENIM QUANDAM
SUBSTANTIAM SIGNIFICANT). PLUS AUTEM GENERE QUAM SPECIE DETERMINATIO FIT:
DICENS ENIM ANIMAL PLUS COMPLECTITUR QUAM HOMINEM. Postquam superius geminas
dixit substantiae consequentias, id est in subiecto non esse, et cuncta ab his
univoce praedicari, et eas a maximae proprio substantiae separavit, idcirco
quod differentiis etiam videntur esse communes, aliud adiicit quod idcirco
substantiae proprium non sit, quod non sit in omni substantia. Nam quemadmodum
quantitas, quantum significat, et qualitas quale, sic etiam substantia
videtur hoc aliquid significare. Nam cum
dico Socrates vel Plato vel aliquam individuam substantiam nomino, hoc aliquid
significo sed omnibus hoc substantiis non inest. Individuis namque quoniam
particularia sunt et numero singularia, verum est hoc aliquid a substantiis
significari. In secundis vero substantiis non idem est. Namque secundae
substantiae non sunt unae, nec numero singulares sed species intra se plurima
individua continent, et multas intra se species genus includit, quocirca cum
dico homo, non hoc aliquid significavi, neque enim singulare est hominis nomen,
idcirco quod de pluribus individais praedicatur sed potius quale quiddam;
qualis enim substantia sit demonstratur, cum dicitur homo. Qualitas autem haec
circa substantiam terminatur, nam sicut individua qualitas species et genera
qualitatis habet, et sicut singulas quantitates quantitas speciebus et
generibus claudit, ita quoque individuarum substantiarum species et genera
secundae substantiae sunt. Ergo cum dico homo, talem substantiam significo, quae
de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur, qualem ergo
quamdam substantiam significo, cum hominem dixi, talem scilicet quae individuis
nominetur, idem quoque de genere est. Nam cum dico animal, talem substantiam
significo quae de pluribus speciebus dicatur. Est igitur qualitas, ut album,
quae semper sit in substantia sed non ut ipsam substantiam interimat, idcirco
quod proprietatem substantiae albedo non habet. Qualitas vero hac quae de
substantiis dicitur, circa substantiam qualitatem determinat, qualis sit enim
illa substantia demonstrat. Nam si homo est rationalis, et substantia erit
rationalis sed rationalis qualitas est. Qualem ergo substantiam monstrant
secundae substantiae. Quocirca non est hoc proprium substantiae, hoc aliquid
significare. Secundae enim substantiae non hoc aliquid sed quale aliquid (ut
dictum est) monstrant, ita tamen quale aliquid monstrant, ut ipsam qualitatem
circa substantias determinent. Qualitas enim secundarum substantiarum in
individuis est, de ipsis enim naturaliter praedicatur qua, ipsa individuae
substantiae sunt. Qualitas igitur secundarum substantiarum circa individua, id
est quae prima sunt terminatur. Determinatio vero quoties ipse terminus multa
concludit, maior est, et minor quoties pauciora, quocirca genus plurima
colligit, species vero non tam plurima. Nam cum dico animal, etiam hominem
bovemque, et alia cuncta animalia hoc uno nomine clausi. Cum vero dico homo,
solos homines individuos hac nominis significatione conclusi, quocirca maior
fit determinatio per genus quam per speciem, et fit determinatio circa
substantiam qualitatis, vel quod substantialis qualitas in genere et specie
est, vel quod secundum quamdam communionem subiectorum dicitur. Sed per se
qualitas, ut album, neque ullius substantiam significat, neque ullam
communionem, sicut genus specierum suarum, et individuorum species, ostendit.
Quocirca aliud substantiae proprium requirendum est. INEST AUTEM SUBSTANTIIS ET
NIHIL ILLIS ESSE CONTRARIUM. PRIMAE ENIM SUBSTANTIAE QUID ERIT CONTRARIUM? UT
ALICUI HOMINI; NIHIL ENIM EST CONTRARIUM; AT VERO NEC HOMINI NEC ANIMALI NIHIL
EST CONTRARIUM. NON EST AUTEM HOC SUBSTANTIAE PROPRIUM SED ETIAM MULTORUM
ALIORUM, UT QUANTITATIS; BICUBITO ENIM NIHIL EST CONTRARIUM, AT VERO NEC DECEM
NEC ALICUI TALIUM, NISI QUIS MULTA PAUCIS DICAT ESSE CONTRARIA VEL MAGNUM
PARUO; DETERMINATORUM VERO NULLUM NULLI EST CONTRARIUM. Adiecit quoque aliud
substantiae proprium dicens substantiae nihil esse contrarium, hoc autem ex ea
quae sigillatim fit inductione confirmat. Homo enim homini vel equo, vel alicui
alii animalium non est contrarius. Sed si quis forsitan dicat, cum ignis atqua
aqua substantiae sint, ignem aquae esse contrarium, mentietur. Non enim ignis
aquae contrarius est sed qualitates ignis qualitatibus aquae opponuntur. Calor
enim et frigus contraria sunt, et humor et siccitas, quae qualitates cum aliae
sint in igne, aliae in aqua, ipsas substantias contrarias facere videntur sed
non sunt; hoc autem ex omnibus aliis substantiis potest probari, in quibus nihil
quisquam poterit invenire contrarium. Sed hoc solius substantiae proprium non
est, namque et quantitas definita contrariis caret. Nam neque duo tribus
contraria sunt, nec duobus quattuor, nec aliquid huiusmodi: nam si dicamus tres
duobus esse contrarios, cur non his duobus etiam quattuor vel quinque contrarios
esse ponamus? Nulla enim afferri ratio potest, cum tres duobus contrarii sint,
cur quattuor vel quinque duobus contrarii non sint. Quod si hoc est, vel
quattuor, vel tres, vel quinque, vel quicumque a duobus distant numeri,
contrarii fiant duobus, et erunt uni rei multa contraria, quod fieri non
potest. Non est igitur contrarium aliquid quantitati. Sed si quis dicat magnum
paruo vel multae paucis esse contraria, haec quidem etiamsi quis quantitates
esse confirmat, tamen definitae quantitates non sunt, quantum enim sit magnum
vel quantum paruum, non definit qui loquitur, eodem modo, etiam de multis atque
paucis. Quare si quis haec quantitates esse dicat, indeterminatas indefinitas
quo esse confitebitur. Dicit autem Aristoteles terminata, quantitati nihil esse
contrarium, ut duobus vel tribus, vel lineae vel superficiei. Quod si etiam
aliae quantitates habent contraria, aliae vero non habent, nihil omnino impedit
ad hoc quod dicitur, proprium non esse substantiae, idcirco quod constat
quasdam quantitates non habere contraria. Quod si hoc et in quantitatibus
evenit; non esse contrarium, substantiarum proprium non est. Atque haec quidem
si quis magnum vel paruum in quantitatibus ponat, manifestum ect (ut ipse est
posterius monstraturus) haec non esse quantitates sed ad aliquid, magnum enim
ad paruum dicitur; sed cum ad ea loca venerimus, propositi ordinem loci
diligentius exsequemur. Nunc quoniam declaratum est et substantiae nihil esse
contrarium, et hoc ei proprium non esse, quoniam idem etiam in quantitatibus
consideratur, ad sequens proprium expositionis semitam convertamus.VIDETUR
AUTEM SUBSTANTIA NON SUSCIPERE MAGIS ET MINUS; DICO AUTEM NON QUONIAM
SUBSTANTIA NON EST A SUBSTANTIA MAGIS SUBSTANTIA (HOC ENIM DICTUM EST QUONIAM
EST) SED QUONIAM UNAQUAEQUE SUBSTANTIA HOC IPSUM QUOD EST NON DICITUR MAGIS ET
MINUS; UT, SI EST IPSA SUBSTANTIA HOMO, NON ERIT MAGIS ET MINUS HOMO, NEC IPSE
A SE IPSO NEC AB ALTERO. NEQUE ENIM EST ALTER ALTERO MAGIS HOMO, QUEMADMODUM
ALBUM EST ALTERUM ALTERO MAGIS ALBUM, ET BONUM ALTERUM ALTERO MAGIS BONUM; ET
IPSUM SE IPSO MAGIS ET MINUS DICITUR, UT CORPUS, ALBUM CUM SIT, MAGIS DICITUR
NUNC QUAM PRIMO, ET CALIDUM MAGIS ET MINUS DICITUR; SUBSTANTIA VERO NON DICITUR
(NEQUE HOMO MAGIS DICITUR NUNC HOMO QUAM ANTEA DICITUR, NEC CAETERORUM ALIQUID
QUAE SUNT SUBSTANTIA); QUARE NON SUSCIPIET SUBSTANTIA MAGIS ET MINUS. Hoc
proprium non simpliciter dicitur sed cum aliqua distinctione: ait enim
substantium neque magis recipere, neque minus, non hoc dicens, quoniam
substantia non est magis ab alia substantia. Namque quidam homo cum sit
substantia, magis est substantia ab homine, id est ab specie, et homo ab
animali, id est a genere. Ergo non hoc dicit, quoniam non inveniuntur
substantiae quae a substantiis magis substantiae sint: hoc enim dictum est,
quoniam est, id est quoniam inveniuntur. Ait enim superius primas substantias,
id est individuas, maxime esse substantias, in secundis vere substantiis, magis
esse substantias species quam genera. Ergo non dicit, quoniam nulla substantia
ab alia substantia magis substantia est sed hoc ipsam quod est, quaelibet illa
substantia non dicitur magis et minus substantia, ut si est substantia homo,
non dicit quoniam homo non est magis et minus substantia, individuas enim homo
magis est substantia, species vero minus si ad primam, id est individuam,
substantiam referatur. Sed hoc dicit, hoc ipsum quod est, id est, homo non erit
magis homo vel minus homo; quocirca non dicit quoniam homo non est magis
substantia vel minus sed quoniam homo, hoc ipsum quod est, non est magis vel
minus homo, non est enim aliquis homo magis et minus homo; et hoc idem in
eiusdem comparatione convenit speculari. Nam ipse homo a seipso 197C non est
plus homo, at vero nec si ad alterum conferatur, ad alterum vero ita, ut sub
eadem coniunctione sint, ut quidam homo individuus ad aliquem individuum
hominem comparatus, non erit magis et minus homo, et ipsa species seipsa non
erit magis et minus homo; sed hoc palam est in substantiis, in qualitatibus
vero potest essc magis et minus, album enim potest fieri magis album seipso, et
suscipere magis et minus, ut sit magis album et minus album; potest et alio
albo plus esse album, ut lilium lana; et alio albo minus esse album, ut lana
lilio, et cygnus nive, atque idem in aliis qualitatibus, ut bono et calido.
Namque haec possunt temporibus permutari, et in plus minusue transduci, fit
enim aliquoties bono melius et deterius, et calido feruentius et tepidius: homo
vero quod est substantia, neque nunc plus erit homo quam fuit antea, neque post
magis aut minus erit hormo quam nunc est. Quocirca cum substantia non suscipiat
magis et minus, tamen proprium eius hoc non erit. Sed cur non sit proprium ipse
Aristoteles velut notum conticuit; nos autem addimus, quoniam non solum
substantiae non suscipiunt magis et minus sed et alia multa; circulus enim alio
circulc non erit magis circulus aut minus, nec duplum magis duplum vel minus;
aequaliter enim duplus est quaternarius: ad binarium, et denarius ad quinarium
comparatus, quocirca quoniam etiam in aliis idem est, hoc substantiae proprium
non esse putandum est. Sed haec quidem omnia quaecumque sunt 198A in
substantiis omnibus, propria tamen substantiae non sunt, eo quod etiam in aliis
sint, consequentia substantiae appelluntur. Hanc enim omnia substantias
consequuntur, ut ubicumque fuerit substantia, ea quae dicta sunt inveniantur,
id est in subiecto non esse, et praedicationes ab his univoce fieri, et quod
hoc aliquid significet, et quod nihil sit illis contrarium, et quod non
suscipiant magis et minus: illa vero quae non omnibus substantiis insunt
accidentia sunt substantiis, quocirca propria non sunt. Quod si propria non
sunt, nondum quale sit substantia demonstrant. Cuare ut substantiae qualitatem
proprio cognoscamus, talis est huic requirenda proprietas, quae et solis
substantiis insit et omnibus, haec autem huiusmodi est, quam ipse proposuit. MAXIME
AUTEM PROPRIUM SUBSTANTIAE VIDETUR ESSE QUOD, CUM SIT IDEM ET UNUM NUMERO,
CONTRARIORUM SUSCEPTIBILE EST. ET IN ALIIS QUIDEM NULLIS HOC QUISQUAM HABEAT
PROFERRE QUAE NON SUNT SUBSTANTIAE, QUOD UNUM NUMERO CONTRARIORUM ERIT
SUSCEPTIBILE; UT COLOR, QUOD EST UNUM ET IDEM NUMERO, NON ERIT ALBUM ET NIGRUM,
NEC EADEM ACTIO ET UNA NUMERO ERIT MALA ET BONA; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS
QUAECUMQUE SUBSTANTIAE NON SUNT. IPSA VERO SUBSTANTIA, CUM SIT UNA ET EADEM
NUMERO, CONTRARIORUM SUSCEPTIBILIS EST; UT QUIDAM HOMO, UNUS ET IDEM CUM SIT,
ALIQUANDO ALBUS ALIQUANDO NIGER FIT, ET CALIDUS ET FRIGIDUS, ET IMPROBUS ET
PROBUS. IN ALIIS VERO NULLIS TALE ALIQUID VIDETUR, NISI QUIS OPPONAT ORATIONEM
ET OPINIONEM DICENS HUIUSMODI ESSE; EADEM ENIM ORATIO ET VERA ET FALSA ESSE
VIDETUR, UT, SI VERA ORATIO EST ALIQUEM SEDERE, CUM IPSE SURREXERIT EADEM IPSA
ERIT FALSA; SIMILITER AUTEM ET IN OPINIONE; SI QUIS ENIM VERE OPINABITUR SEDERE
ALIQUEM, CUM IPSE SURREXERIT FALSE OPINABITUR, EANDEM DE EO RETINENS OPINIONEM.
QUOD SI QUIS ETIAM HOC RECIPIAT, AT MODO IPSO DIFFERT; EADEM ENIM QUAE SUNT IN
SUBSTANTIIS IPSA PERMUTATA CONTRARIORUM SUNT SUSCEPTIBILIA (FRIGIDUM ENIM EX
CALIDO FACTUM PERMUTATUM EST, ET NIGRUM EX ALBO ET PROBUM EX IMPROBO, SIMILITER
AUTEM ET IN ALIIS SINGULA IPSA PERMUTATIONEM SUSCIPIENTIA CONTRARIORUM
SUSCEPTIBILIA SUNT), ORATIO VERO ET OPINIO IPSA QUIDEM IMMOBILIA OMNINO SEMPERQUE
PERMANENT, RE VERO MOTA CONTRARIETAS CIRCA EA FIT; ORATIO ENIM PERMANET EADEM
SEDERE ALIQUEM, RE VERO MOTA ALIQUOTIENS QUIDEM VERA FIT ALIQUOTIENS FALSA;
SIMILITER AUTEM ET IN OPINIONE. QUAPROPTER HOC MODO PROPRIUM ERIT SUBSTANTIAE
UT SECUNDUM PROPRIAM PERMUTATIONEM SUSCEPTIBILIS CONTRARIORUM SIT -- SI QUIS
ETIAM HOC SUSCIPIAT, OPINIONEM ET ORATIONEM CONTRARIORUM ESSE SUSCEPTIBILES. Ait
maxime proprium esse substantiae, quod eadem et una numero contrariorum
susceptiva sit, nihil contrarium superioribus dicens. Illic enim dixerat
substantias substantiis non essecontrarias, hic vero dicit non substantias
substantiis esse contrarias sed res in se contrarias posse suscipere, ut unus
atque idem homo, nunc quidem sit sanus, alio vero tempore sit aeger, aegritudo autem
et sanitas contraria sunt. Ergo quoniam declaratum est substantiam posse contraria
suscipere, demonstrandum est quemadmodum hoc solis substantiis insit; hoc enim
in nullis aliis invenitur, namque in qualitate qualitas non erit eadem, neque
una numero contrariorum susceptiva, idem enim et unum numero non erit album
atque nigrum, cum album fuerit et post in nigrum vertitur, tota qualitatis
species permutatur, et non erit unum atque idem numero quod contrarium est sed
diversum. At vero et actio eadem et una numero non erit bona atque mala sed
fortasse una bona, alia mala, ita ut diversae sint, non eaedem numero, hoc
etiam in aliis reperitur. Ipsa vero substantia cum una sit et numero
singularis, contraria suscipit, ut idem atque unus homo cum fuerit candidus
atque albus a sole tactus nigrescit, et album in nigrum convertitur, et in
contrarium permutatur, utrasque res in se contrarias suscipiens. Nulli igitur
alii inesse hoc nisi solis substantiis, satis superiora demonstrant. Si quis
autem opponat orationem et opinionem unam atque eamdem contrariorum esse
susceptibilem, ideo quod cum dico Cicero sedet, vel eum sedere opinor, cum vere
sedet, vera est et oratio de eodem et opinio quod sedet; cum vero surrexit
ille, eadem permanet opinio vel oratio quae dicit vel arbitratur Cicero sedet
sed falsa est, quod non sedet, videtur opinio atque oratio eadem et una numero
nunc quidem esse vera, nunc autem falsa, et contraria ipsa suscipere sed hoc
falsum est, quod oratio et opinio contraria non recipiunt: nam si quis hoc
recipiat quod etiam oratio atque opinio contrariorum suscepliva sint, non tamen
eodem modo quo substantia. Nam substantia ipsa contraria suscipiens permutatur,
Cicero namque ipse in se aegritudinem suscipiens ex sano factus est aeger, et
mutatus ipse contraria suscipit; sermo vero vel opinio ipsa quidem immutata
permanent sed cum rebus de quibus dicuntur permutatis ipsa, inveniuntur falsae
esse vel verae. Et substantia quidem ipsa cum iis quae suscipit contrariis
permutatur; oratio vero et opinio, eo quod res de quibus dicuntur vel
arbitrantur permntentur, ipsae videntur falsis esse vel verae. Nam cum dico
Cicero sedet, si ille surrexit, oratio quidem ipsa nihil passa est sed res de
qua fuit ipsa oratio mota est. Qui enim sedebat surrexit, idcirco ex vera
oratione facta est falsa. Quocirca substantia ipsa suscipiens (ut dictum est)
contraria permatatur, oratio vero vel opinio non mutatur sed re circa eas mota
ipsae verae vel falsae sunt. Quare proprium substantiae ita esse putabitur
contrariorum susceptibile, ut ipsa permutata contraria suscipiat, non ut, re
mutata, ipsa impermutata immutabilisque permaneat. Atque hoc dictum est, si
quis orationem atque opinionem contrariorum susceptibiles pPomba, non autem
esse orationem atque opinionem contrariorum susceptibiles. Ipso rursus adiecit.
NON EST AUTEM HOC VERUM; ETENIM ORATIO ET OPINIO NON QUOD EA SUSCIPIANT ALIQUID
CONTRARIORUM ESSE SUSCEPTIBILIA DICUNTUR SED QUOD CIRCA ALTERAM QUANDAM
PASSIONEM SINT. EO ENIM QUO RES EST VEL NON EST, EO ORATIO VEL VERA VEL FALSA
DICITUR, NON EO QUOD IPSA SUSCEPTIBILIS EST CONTRARII. SIMPLICITER ENIM NIHIL
NEQUE ORATIO MOVETUR NEQUE OPINIO, QUARE NON ERUNT SUSCEPTIVAE CONTRARIORUM
NULLO IN EIS FACTO. SUBSTANTIA VERO, QUOD IPSA SUSCIPIAT CONTRARIA, EO DICITUR
CONTRARIORUM SUSCEPTIBILIS. AEGRITUDINEM ENIM ET SANITATEM SUSCIPIT, ET
ALBEDINEM ET NIGREDINEM; ET UNUMQUODQUE TALIUM IPSA SUSCIPIENS CONTRARIORUM
ESSE DICITUR SUSCEPTIBILIS. QUARE PROPRIUM ERIT SUBSTANTIAE, CUM SIT IDEM ET
UNUM NUMERO, SUSCEPTIBILEM CONTRARIORUM ESSE. ET DE SUBSTANTIA QUIDEM HAEC
DICTA SINT. Ait enim orationem atque opinionem ipso quidem contrarii nullius
esse susceptibila, neque enim falsitas veritasque in oratione vel opinione
insita est sed idcirco videntur contrariorum esse susceptibilia, quod (ut ipse
ait) circa alteram quamdam passionem sint, hoc est circa hoc esse opinionem vel
orationem. Nam circa sedere et non sedere. quae sunt contraria, est sedendi
aliquem et non sedendi opinio vel oratio, atque ideo quoniam circa alias res
sunt quae sibi sunt contrariae, illis permutatis, ista videntur esse contraria,
non quod ipsa suscipiant contraria sed quod circa contrarias passiones rerum
sint. Nam neque oratio neque opinio permutatur sed sola tantum de quibus est
oratio atque opinio, id est sedere et non sedere. Quocirca quoniam nullam ipsa
oratio vel opinio suscipiunt passionem, nec quidquam in eis fit, atque evenit
contrarium, contrariorum esse susceptibilia non videntur. At substantia eo quod
ipsa suscipiat contrarium, contrariorum dicitur esse susceptibilis. Cicero enim
suscipiens sanitatem sanus fit, et suscipiens aegritudinem fit aeger. Oratio
vero atque opinio (ut dictum est) contraria non suscipiunt. Quare erit hoc
proprium substantiae contrariorum esse susceptibilem. Sed si quis forsitan
dicat cur cum ignis calidus sit nunquam frigus suscipiat, et cur cum aqua sit
humida nunquam suscipiat siccitatem. His enim oppositis, videtur non omnis
substantia contrariorum esse susceptibilis, et substantiae hoc proprium
infirmabitur, cum non sit in omnibus substantiis. Sed dicendum est quoniam ea
contraria suscipere vidantur substantiae quae sunt in eius natura non insita,
alioqui non suscipit quidquid illi substantialiter adest. Suscipere enim
dicimus aliquid de rebus extrinsecus positis et praeter substantiam constitutis:
quoniam igitur in substantia ignis inest calidum esse, ignis calorem non
suscipit; quocirca neque est ignis caloris susceptibilis, neque frigoris.
Calorem quidem non suscipit, idcirco quod eius naturae substantiaeque
immutabiliter adhaesit. Frigus enim non suscipit, quoniam caloris natura ipsius
ignis contrarium sponte repudiat. Quocirca si quid est quod suscipiat ignis, id
est extrinsecus positum, accipiat necesse est eius quoque contrarium, ipse unus
permanens ac singularis. Idem quoque de aqua dicendum est: illa enim sicut
ignis calorem, sic non suscipit humiditatem sed est quodammodo et ipsi
humiditas naturaliter insita; arque ideo calor ignis, vel humiditas aquae non
solum qualitates dicuntur sed etiam substantiales igni et aquae qualitates; namque
aqua quoniam in se neque frigidus neque calorem substantialiter habet,
susceptibilis et frigoris et caloris esse dicitur. Quocirca non de his
contrariis loquitur quae substantialiter insunt sed his qua potest suscipere
unaquaque substantia, id est quod potest extrinsecus adhiberi: hoc autem in
omnibus esse substantiis manifestum est: nam quoniam Cicero sanus et aeger est,
homo sanus et aeger est; et si homo sanus et aeger est, animal sanum atque
aegrotum est. Sed cum duobus modis animal atque homo spectentur, uno quod de
pluribus praedicentur, altero quod substantiae sint, in eo quod de pluribus
praedicautur contrariorum susceptiva non sunt: ut animal in eo quod de
speciebus dicitur, neque sapiens est, neque insipiens, et homo in eo quod de
individuis dicitur, neque sanus est, neque aeger; in eo vero quod substantiae
sunt, et quod individuis substantiis praesunt, contrariorum susceptibiles sunt.
Quocirca erit hoc solius proprium substantiae, contrarium esse susceptibilem. Haec
de substantia dicta sufficiant. Secundi vero voluminis series ab expositione
inchoabitur quantitates. Et si nos curae officii consularis impediunt quominus
in his studiis omne otium plenamque operam consumimus pertinere tamen videtur
hoc ad aliquam reipublicae, curam, elucubratae rei doctrina cives instruere.
Nec male de civibus meis merear, si cum prisca hominum virtus urbium caeterarum
ad hanc unam rempublicam, dominationem, imperiumque transtulerit, ego id saltem
quod reliquum est, Graecae sapientiae artibus mores nostrae civitatis
instruxero. Quare ne hoc quidem ipsum consulis uacat officio, cum Romani semper
fuerit moris quod ubicumque gentium pulchrum esset atquelaudabile, id magis ac
magis imitatione honestare. Aggrediar igitur et propositi sententiam operis
ordinemque contexam. QUANTITATIS ALIUD EST CONTINUUM, ALIUD DISGREGATUM ATQUE
DISCRETUM; ET ALIUD QUIDEM EX HABENTIBUS POSITIONEM AD SE INVICEM SUIS PARTIBUS
CONSTAT, ALIUD VERO EX NON HABENTIBUS POSITIONEM. EST AUTEM DISCRETA QUANTITAS
UT NUMERUS ET ORATIO, CONTINUA VERO UT LINEA, SUPERFICIES, CORPUS, PRAETER HAEC
VERO TEMPUS ET LOCUS. PARTIUM ENIM NUMERI NULLUS EST COMMUNIS TERMINUS AD QUEM
PARTES IPSIUS CONIUNGANTUR; UT QUINARIUS, SI EST PARS DENARII, AD NULLUM
COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR QUINQUE ET QUINQUE SED DISIUNCTI SUNT; ET TRES
ET SEPTEM AD NULLUM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR; NEQUE OMNINO ALIQUIS
HABEBIT IN NUMERO SUMERE COMMUNEM TERMINUM PARTIUM SED SEMPER DISCRETAE SUNT;
QUARE NUMERUS DISCRETORUM EST. SIMILITER 201D EST AUTEM ET ORATIO DISCRETORUM;
(QUONIAM ENIM QUANTITAS EST ET ORATIO MANIFESTUM EST; MENSURATUR ENIM SYLLABA
LONGA ET BREVIS; DICO VERO ILLAM QUAE FIT CUM VOCE ORATIONEM); AD NULLUM ENIM
COMMUNEM TERMINUM PARTES EIUS CONIUNGUNTUR; NEQUE ENIM EST COMMUNIS TERMINUS AD
QUEM SYLLABAE CONIUNGUNTUR SED UNAQUAEQUE DISCRETA EST SECUNDUM SEIPSAM. Post
substantiae tractatum cur de quantitate potius ac non de qualitate proposuerit
haec causa est, quod omnia quaecumque sunt, simul atque sunt in numerum cadunt.
Omnis enim res aut est una aut plures: unum vero vel plures quantitatis
scientia colliguntur. Sed non omnis res simul atque est aliquam accipit qualitatem,
ipsa enim materia sub quantitatis quidem principium cadit, quod una est sub
qualitatem vero minime; ipsa enim cunctis est iuterim qualitatibus absoluta,
superaddita vero forma quadam afffcitur qualitate: per se autem numero quidem
una est, qualitate vero nulla; quocirca si res omnis simul atque est cadit in
numerum, non autem omnis res mox ut est statim suscipit qualitatem, recte prius
de quantitate proposuit. Est quoque alia causa cur prius de quantitatis ratione
pertractet. Omne enim corpus ut sit, tribus dimensionibus constat, longitudine,
latitudine, altitudine: ut vero sit corpus cum qualitate, tunc erit aut album,
aut nigrum, aut quodlibet aliud; et quoniam prius est esse corpus, post vero
esse corpus album, prius erit corpori tribus constare dimensionibus 202C quam
esse album. Sed tres dimensiones et numero et continuatione spatii quantitates
sunt. Longitudo enim et latitudo et altitudo in quantitatibus numerantur, album
vero qualitatis est: quocirca si prius est ex tribus constare dimensionibus
quam esse album, prior erit quantitas qualitate, quocirca recte est tractatus
de quantitate propositus. Item alia causa, quod quantitas plura habet substantiae
consimilia: nam quemadmodum substantiae nihil est contrarium, et substantia non
recipit magis et minus, sic etiam quantitas: quantitati enim nihil est
contrarium, nec quantitas recipit magis et minus, ut paulo post docebimus;
qualitas vero et contraria suscipit, ut album et nigrum, et magis et minus, ut
candidius et nigrius, et candidissimum et nigerrimum; id enim sumit intentionem
quod potest sumere diminutionem. Quod si substantiae similior quantitas est
recte post substantiam de quantitate proposuit. Quantitatis autem dicit esse
differentias duas: quantitatis namque alia discreta est disgregata, alia vero
continua. Post hanc rursus divisionem alio modo partitus est quantitatem: dicit
enim quantitatis aliam quae constat ex habentibus positionem ad se invicem suis
partibus; aliam vero ex non habentibus positionem. Unam vero rem diverse posse
dividi manifestum est, hoc modo, ut si quis dividat animal dicens: Animalium
alia sunt rationabilia, alia irrationabilia; et rursus eamdem ipsam rem alia
modo partiamur, ut est, Animalium alia sunt gressibilia, alia non gressibilia,
eorumque animalium rursus, alia sunt carnibus uescentia, alia herbis, alia
seminibus. Hic ergo una eademque res diverso ordine modoque divisa est. Ita
igitur Aristoteles unum idemque quantitatis nomen diverse partitus est in ea
scilicet quae discreta essent, et quae continua, et in ea quae haberent
positionem partium, et quae non haberent. Sed de secunda divisione posterius
dicendum est, nunc prima tractetur. Ait enim de prima divisione hoc modo:
Quantitatis aliud est continuum, aliud disgregatum. Disgregatum est cuius
partes nullo communi terrrino coniunguntur. Continuum vero cuius partes habent
aliquem communem terminum, ad quem videantur esse coniunctae. Discretarum
namque quantitatum ipse exempla ponit et species. Oratio enim discreta est
quantitas, eodemque modo et numerus, et numerum esse quantitatem nemo dubitat.
Discreta vero est, quoniam denarius numerus cum constet ex quinque et quinque,
quae res quinarium ad quinarium. iungat ut faciat denarii corpus, non potest
inveniri. Nam si tres et septem quis dixerit, quo communi termino tres et
septem coniungantur, ut denarii reddatur unum integrum corpus, nullus inveniet,
atque hoc quidem in omni numero speculari licet. Nullus enim numerus ita partes
habet, ut eas aliquis communis terminus iungat sed semper partes ipsae
disiunctae atque discretae sunt, et huiusmodi vocatur quantitas discreta.
Numerus ergo discreta quantitas est, orationem vero quantitatem esse dicit,
idcirco quod omnis oratio ex nomine constet et verbo sed haec syllabis
constant. Omnis autem syllaba vel longa vel brevis est. Longum vero vel breue
sine ulla dubitatione quantitas est, quocirca quod ex quantitatibus constat, id
quantitatem esse quis dubitet? At vero oratio ipsa cum sit quantitas, illa
quoque discreta est. Cum enim dico Cicero, quod orationis est pars, partes
huius nominis ci et ce et ro nullo communi termino coniunguntur. Non enim
reperiemus quo communi termino iungatur ci syllaba ad ce syllabam, vel rursus
ce syllaba ad ro syllabam. Quocirca etiam oratio quantitas videtur esse
discreta. Sed si quis fortasse dicat hunc eorum esse communem terminum, quo ita
iunguntur, ut aliquid significent, ut in hoc ipso nomine Cicero communis
syllabarum terminus ipsa significatio sit. Si enim ce syllaba, quae media est,
prima ponatur, et ro, quae ultima est, media, et ci, quae plima est, ultima,
nomen quod erat antea, id est Cicero, transuersis per loca syllabis nihil
significabit. Illi dicendum est quoniam quaecumque in quadam oratione proferuntur,
sive significent, sive nihil significent, syllabarum communis terminus nullus
est. Nam si quis dicat, permutatis syllabis, quod est Cicero, ceroci
significationem quidem amisit sed aequaliter syllabae ad nullum communem
terminum coniunguntur. Quod si quis hunc quidem ipsum sermonem aliquid
significare posuerit, ut hoc ipsum Cicero aliquid significat, significatio
quidem addita est, nullus tamen syllabis terminus appositus. Quare sive
significet, sive nihil significet nomen, partes eius discretae atque disiuncta,
sunt, et nullo communi termino con iunguntur; quoniam vero Graeca oratione
*logos* dicitur etiam animi cogitatio, et intra se ratiocinatio, *logos* quoque
et oratio dicitur, nequis Aristotelem cum diceret *logon*, id est orationem,
quantitatem esse discretam, de eo putaret dicere quem quisque *logon*, id est
rationem, in propria cogitatione disponeret, hoc addidi. Dico autem illam quae
fit cum voce orationem. Apud Romanam namque linguam discreta sunt vocabula
orationis atque rationis. Graeca vero oratio utriusque vocabulum et rationis et
orationis *logon* appellat. Quare ne quid mendax translatio culparetur, idcirco
hoc quoque addidi: Dico vero illam quae fit cum voce orationem, apud Latinos
enim nulla alia oratio est praeter hanc solam quae fit cum voce orationem. Apud
Graecos vero est alius *logos* qui fit in animi cogitatione. Quocirca nequid
deesset, etiam hoc quod Latinam orationem minus esset conveniens, transtuli.
Quod quare ita fecerim, hac expositione patefeci, atque haec quidem de discreta
quantitate sufficiant. Continua vero quantitas est (ut dictum est) cuius
quantitatis partium communis terminus invenitur, ut est linea, superficies,
corpus, et praeter haec tempus, et locus, quod ipse Aristoteles designat his
verbis: LINEA VERO CONTINUA EST; NAMQUE EST SUMERE COMMUNEM TERMINUM AD QUEM
PARTES IPSIUS CONIUNGUNTUR, HOC EST AUTEM PUNCTUM, ET SUPERFICIEI LINEA
(SUPERFICIEI ENIM PARTES AD QUENDAM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR). SIMILITER
AUTEM ET IN CORPORE HABEBIT QUIS SUMERE COMMUNEM TERMINUM, 204C VEL LINEAM VEL
SUPERFICIEM, AD QUEM PARTES CORPORIS CONIUNGUNTUR Postquam de discretis
explicuit, transiit ad species continuae quantitatis. Continuae autem
quantitates sunt (ut dictum est) in quarum partibus quidam communis est
terminus, ut linea. Si quis enim dividat lineam, quae est longitudo sine
latitudine, duas in utraque divisione lineas facit, et utriusque ex divisione
lineae singula in extremitatibus puncta redduntur. Lineae enim termini puncta
sunt. Quocirca cum illa linea divisa non esset, utraque puncta quae in utrisque
linearum capitibus post divisionem apparent, simul antea fuisse intelliguntur,
quae sunt in divisione separata. Intelligitur ergo partium lineae communis
terminus, punctum, id est quoddam paruissimum quod in partes dividi secarique
non possit: Superficies quoque, quae est latitudo sine altitudine, communem
terminum habet in partibus, lineam, corpus vero solidum, superficiem. Eodem
enim modo divisa superficies duas per singulas partes lineas efficiet,
quemadmodum et in linea divisa duo puncta altrinsecus reddebantur. Corpus
quoque solidam cum diviseris, duas in utrisque divisionis partibus superficies
facies, quae cum coniuncta sint atque indivisa, punctum quidem partium lineae
intelligitar communis terminus. Linea vero superficiei, superficies autem
solidi corporis. Est autem signum continui corporis, si una pars mota sit,
totum corpus moveri; et si totum corpus movetur, certe simul aliae partes
vicinae movebuntur, ut si iaceat virgula vel ex aere, vel ex ligno, vel ex
quolibet alio metallo, si quis unum eius caput vel quamlibet eius partem
moveat, tota mox virgula commovetur. Hoc autem idcirco evenit quod eius partes
quodam communi termino coniunguntur, et ille communis terminus una parte mota
caeteras movet. Hoc vero in discretis non est. In numero namque cum sint decem,
si unum movero, caeteri non moventur, immoti enim permanent novem; etsi plenus
tritico sit modius, si unum tritici granum movero, non omnia continuo grana
commovebuntur, idcirco quod discreta est multitudo, nec granum grano ullo
communi termino videtur implicitum. At vero si ipsius grani pars una sit mota,
totum corpus grani moveatur necesse est. Non autem nunc hoc dicitur, quod linea
constet ex punctis, aut superficies ex lineis, aut solidum corpus ex
superficiebus sed quod et lineae termini puncta sunt, et superficiei lineae, et
solidi corporis superficies, nullaque res suis terminis constat. Quocirca
punctum lineae non erit pars sed communis terminus partium. Superficiei linea,
et superficies solidi corporis non erunt partes sed partium termini communes.
Constat igitur, et lineam et superficiem, et solidi corporis crassitudinem esse
continuam quantitatem. His alia rursus apponit. SUNT AUTEM TALIUM ET TEMPUS ET
LOCUS; PRAESENS ENIM COMMUNIS EST TERMINUS AD QUEM CONIUNGUNTUR PRAETERITA VEL
FUTURA. RURSUS LOCUS CONTINUORUM EST; LOCUM ENIM QUENDAM PARTES CORPORIS
RETINENT, QUAE AD QUENDAM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR; 205C ERGO ET LOCI
PARTES, QUAS TENENT SINGULAE PARTES CORPORIS, AD EUNDEM TERMINUM CONIUNGUNTUR
AD QUEM ET PARTES CORPORIS IUNGEBANTUR; QUARE CONTINUUM EST ET LOCUS; AD UNUM
ENIM COMMUNEM TERMINUM EIUS PARTES CONIUNGUNTUR. Tempus quoque et locum
continuae quantitatis esse pronuntiat. Tempus namque esse quantitatem res illa
demonstrat, quod in spatio, id est in longitudine et in brevitate,
consideratur. Continuum vero esse res illa demonstrat quod partes temporis
habeant aliquem communem terminum ac medium, ad quem coniungantur extrema. Nam
cum sint partes temporis praeteritum et futurum, horum praesens tempus communis
est terminus, huius namque finis est, illius initium. Locus quoque continuorum
est. Locum vero dicimus quodcumque illud sit quod partes corporis tenet, sive
supra, sive a latere, seu subter sit. Quod si cunctae partes corporis locum
aliquem tenent, et qui circa corpus est locus, per omne corporis spatium
partesque diffunditur, omnes corporis partes a loci partibus occupabuntur. Quod
si ita est, qui communis terminus coniungebat corporis partes, eius termini locus
illa quoque loca quae sunt corporis partium iungit, et est eodem modo locus de
continua quantitate, quemadmodum et corpus. Ita enim communis terminus
invenitur in loco partium quemadmodum et corporis, idcirco quod corporis locus,
per corpus omne diffunditur. Quod autem dixit: SUNT AUTEM TALIUM ET TEMPUS ET
LOCUS, quoniam superius de continuis loquebatur, tempus quoque et locum
continuis addidit dicens: SUNT AUTEM TALIUM ET TEMPUS ET LOCUS, id est
continuorum sed post continuae discretaeque quantitatis divisionem aliam a
principio rursus orditur. AMPLIUS ALIA SUNT QUAE EX HABENTIBUS AD SE INVICEM
POSITIONEM SUIS PARTIBUS CONSTANT; UT LINEAE QUIDEM PARTES HABENT AD SE INVICEM
POSITIONEM (SINGULAE ENIM IACENT ALICUBI, ET POSSIS COGNOSCERE ET DESIGNARE UBI
SINGULAE IN SUPERFICIE IACEANT ET AD QUAM CAETERARUM PARTIUM CONIUNGANTUR);
SIMILITER AUTEM ET SUPERFICIEI PARTES HABENT ALIQUAM POSITIONEM (SIMILITER ENIM
DESIGNABUNTUR SINGULAE UBI IACENT, ET QUAE AD SE INVICEM CONIUNGUNTUR). ET
SOLIDITATIS QUOQUE ET LOCI SIMILITER. Rursus digerit quantitatis differentias.
Sunt enim quantitatis aliae quidem quae ex habentibus positionem ad seinvicem
suis partibus constant, aliae vero quae nullam partium habent positionem.
Positionem vero partium retinere dicuntur, quarum triplex ista natura est:
primum ut eius partes alicubi sint, deinde ne pereant, tertio vero ut sese
partes ipsae coniungant et propria se ordinatione continvent, ut est linea.
Posita enim linea in superficie possis agnoscere ubi partes ipsius sint, caput
quidem lineae esse ac dexteram, medium medio loco, extremitatem vero ad
sinistram, et haec manentibus ipsis partibus dicuntur, partes enim lineae non
pereunt sed in loco in quo sunt permanent. Possis quoque monstrare quae pars
lineae cui parti continventur, id est ad quam partem caput alterius partis
extremitasque coniungitur, ut dices haec pars, verbi gratia medietas, lineae
hic finitur, locum ubi desinat monstrans, alia rursus pars lineae totius hic
incipit. Ergo linea posita in superficie qualibet et locum aliquem partes eius
retinent, et partes ipsae non pereunt, et posset quilibet agnoscere ubi
extremitas partium coniungatur, et quo ad se invicem loco continventur. Hoc
quoque idem in superficie evenit, partes enim superficiei in aliquo loco sunt,
et ipsae quoque non pereunt, et ubi pars parti coniungatur ostenditur, idem
quoque soliditas habet, et loci quoque partes continuantur ad eas scilicet
partes ad quas corporis partes sibimet continuantur, sicut iam supra dictum
est. Quocirca eiusdem naturae erit et locus, cuius tota soliditas erit. Ergo et
locus ex eodem genere quantitatis est, quo est et soliditas, id est ex
habentibus ad se invicem positionem suis partibus constans. Locus igitur et
ipse ex habentibus suis partibus positionem ad se invicem constat. Ergo tria
haec (sicut supra dictum est) consideranda sum, ut ad se invicem positionem
partes habere videantur, id est locum in quo partes ipsae sint positae, ut
partes illae non pereant, ut sit partium continentia atque continuatio. Quod si
quis dicat hanc rem loco deesse, eo quod in loco non sit, in loco enim cuncta
sunt, locus autem in loco esse ipse non poterit. Dicendum est quoniam idcirco
superficies et soliditas et linea habere positionem partium dicuntur, quod in
loco siut, et partes permaneant, et sint continuae. Quare multo magis ipse
locus, cuius neque partes pereunt, et sibi perpetue continuatimque coniunctae
sunt, habere positionem partium dicitur. Et de his quidem quae ex habentibus
positionem ad se invicem suis partibus constant haec dicta sint; quae vero non
habent positionem ipse rursus adiecit. IN NUMERO VERO NULLUS HABET PERSPICERE
QUEMADMODUM PARTES HABEANT AD SE INVICEM ALIQUAM POSITIONEM VEL UBI IACEANT VEL
QUAE AD QUAM CONIUNGANTUR; AT VERO NEC TEMPORIS; NIHIL ENIM PERMANET EX
PARTIBUS TEMPORIS, QUOD AUTEM NON EST PERMANENS, QUOMODO HOC HABEBIT ALIQUEM
POSITIONEM? SED MAGIS ORDINEM QUENDAM DICES RETINERE IDCIRCO QUOD TEMPORIS HOC
QUIDEM PRIUS EST, ILLUD VERO POSTERIUS. ET IN NUMERO QUOQUE EO QUOD PRIUS
NUMERETUR UNUS QUAM DUO ET DUO QUAM TRES; ET SIC HABEBUNT ALIQUEM ORDINEM,
POSITIONEM VERO NON MULTUM ACCIPIES. ET ORATIO SIMILITER; NIHIL ENIM EIUS
PARTIUM PERMANET SED DICTUM EST ET NON EST ULTRA HOC SUMERE, QUARE NON ERIT
ULLA POSITIO EIUS PARTIUM CUIUS PERMANET NIHIL. IGITUR ALIA EX HABENTIBUS AD SE
INVICEM PARTIBUS POSITIONEM CONSTANT, ALIA VERO EX NON HABENTIBUS POSITIONEM. Haec
scilicet idcirco nullam positionem ad se invicem partium retinent, quod his
aliquid de supradictis rebus deesse manifestum est. Numerus enim ipse discretus
est, nec partes eius ad se invicem coniunguntur sed omnino discretae sunt.
Atque idcirco non est ex iis quae habent ad se invicem aliquam partium
positionem, nec vero possis ostendere qui numerus quo loco iaceat: habere autem
positionem dicitur, quod (ut dictum est) et in loco aliquo positum est, et ipsa
positio manentibus partibus constat, et ad se invicem coniunuatisque, ut
ubiquaeque iaceat, et quae ad quam continvetur possit ostendi; in numero vero
nihil horum est. Nam neque in aliquo loco esse positus demonstratur, nec eius
partes coniunctae sunt. Quocirca numero ex tribus his quae diximus duae res
desunt, loci positio et partium continuatio, tempus etiam quamquam sint eius
partes continuae, tamen quoniam non permanent sed semper moventur, semperque
praetereunt, habere positionem partium non dicitur. Semper enim veloci
agitatione torquetur, et currentis aquae more in nulla unquam statione
consistit, quod quia partes eius non permanent, ex habentibus ad se invicem
positionem suis partibus constare non dicitur. Sed haec quamquam positione in
partium habere non possunt, tamen habent ordinem quemdam, quem praeter
positionem partium tantum retinent. Dicimus enim priorem esse binarium
quamternarium, atque hunc quam quaternarium, et intempore nimirum idem ordo reuertitur.
Posterius enim futurum praesente, praesensque praeterito. Quocirca etsi haec
non habent aliquam partium positionem, retinent tamen ordinem. Quod vero dicit,
positionem vero non multo accipies, tales est ac si diceret, penitus non
accipias. Multum enim pro omnino videtur adiunctum, ac si diceret positionem
vero non omnino accipies, idcirco quod ipsa quidem continuatio dat aliquam
imaginem, quod possit habere aliquam partium positionem sed hoc minime est,
idcirco quod quamvis sint continuae quantitates, si tamen uno careant ex his
quae superius dicta sunt, positionem partium habere non possunt. Nam aqua quam
fistula euomit, dum cadit quidem retinet positionem; cum vero iam effusae undae
se miscuerit, pcsitionem partium perdit: et fluuius quoque quando in pelagus
fluit, et positionem videtur habere partium et esse continuus, cum nondum
marinae aquae fluuii superficies ipsa permista est; cum vero extremitas amnis
marina alluuione contingitur, totam sine dubio positionem videtur amittere. Oratio
quoque similiter sese habet; nam nec ipsa ullo loco posita est, nec eius partes
ad aliquam coniunguntur sed a seinvicem illae discretae sunt, nec cum eius
partes dictae sunt, permanent, atque hoc est quod ait. Sed dictum est, et non
est ultra hoc sumi. Mox enim dicitur sermo, mox praeterit, nec ullaratione
poterit permanere, quare mox ut aliquid dictum sit, eius partes ostendi et
demonstratione sumi non possunt. Constat igitur orationem quoque ex his esse
quae positionem partium non habent, de ordine vero dubium est. Nam si quis
sermo aliquid significet, ut est Cicero, est in eo quidam ordo quod ci syllaba
primum dicitur, secunda vero ce, tertia ro, et potius ex significatione ordinem
sumit; si vero nihil significet, nec ordinem dicitur habere, ut scindapsus
nihil quidem significat; sed sive secundam syllabam primam ponas, sive ultimam
primam, sive quomodolibet syllabarum ordinem seriemque permisceas, idem erit:
in significativis enim vocibus idcirco esse dicitur, quod illo ordine permutato
vis significationis euertitur, hic vero, ubi nulla est significatio, nihil
interest quomodolibet iaceant partes. Quare oratio in aliquibus quidem habet
ordinem partium, in aliis vero nec ordo ipse poterit inveniri. An fortasse
oratio dici non potest quae nihil significat, et nulla est oratio, quae ordinem
non habeat? Ergo secundum priorem quantitatis divisionem, ubi dicebatur
quantitatis alia esse continua, alia vero discreta, quinque sunt continua, duo vero
discreta. Continua quidem linea, superficies, soliditas, locus, tempus.
Discreta vero numerur, et oratio. In hac vero secunda divisione qua dicit alias
quantitates ex habentibus ad se invicem positionem constare partibus, quattuor
quidem sunt qua, retinent positionem, id est linea, superficies, corpus, locus;
tria vero quae positionem non habent sed ex his duo semper ordinem retinent,
tempus scilicet et numerus. Oratio vero si quid significet, habet ordinem; si
vero nihil significet, inordinata est; si tamen oratio nihil significans dici
possit, his dictis ipse concludit dicens: Igitur alia ex habentibus ad se
invicem partibus positionem constant, alia vero ex non habentibus positionem.
Hac igitur divisione finita 209A transit ad caetera monstrans quae proprie
quantitates nuncupatur, quae secundum accidens. PROPRIE AUTEM QUANTITATES HAE
SOLAE SUNT QUAS DIXIMUS, ALIA VERO OMNIA SECUNDUM ACCIDENS SUNT; AD HAEC ENIM
ASPICIENTES ET ALIAS DICIMUS QUANTITATES, UT MULTUM DICITUR ALBUM EO QUOD
SUPERFICIES MULTA SIT, ET ACTIO LONGA EO QUOD TEMPUS MULTUM ET LONGUM SIT, ET
MOTUS MULTUS; NEQUE ENIM HORUM SINGULUM PER SE QUANTITAS DICITUR; UT, SI QUIS
ASSIGNET QUANTA SIT ACTIO, TEMPORE DEFINIET, ANNUAM VEL SIC ALIQUO MODO
ASSIGNANS, ET ALBUM QUANTUM SIT ASSIGNANS SUPERFICIE DEFINIET (QUANTA ENIM
FVERIT SUPERFICIES, TANTUM ESSE ALBUM DICET); QUARE SOLAE PROPRIE ET SECUNDUM
SE IPSAE QUANTITATES DICUNTUR QUAE DICTAE SUNT, ALIORUM VERO NIHIL PER SE SED,
SI FORTE, PER ACCIDENS. Principaliter aliquid esse dicitur, quod per se tale
est quale esse demonstratur. Secundum accidens vero illud quod non per se sed
per aliud tale est quale esse dicitur, ut albedini per se inest color: secundum
naturam enim albi, color esse dicitur albedo; cum vero homo dicitur coloratus,
non per se dicitur, idcirco quod homo in eo quod homo est, color non est sed
quoniam habet colorem, idcirco dicitur coloratus. Ergo quemadmodum album
idcirco color est per se quoniam color naturale quoddam est genus, homo vero
idcirco coloratus dicitur quoniam habet colorem; et dicitur album quidem per se
et principaliter color, homo vero secundum accidens coloratus. Ita quoque et
quantitates; haec enim omnia quae dicta sunt, id est linea, superficies, corpus,
numerus, oratio, tempus, per se et secundum et propriam naturam quantitates
dicuntur. Si qua vero alia dicuntur secundum aliquam quantitatem, non per se
sed secundum accidens nominantur: ut album dicitur multum, non idcirco quod
albedo sit quantitas sed quoniam multa sit superfieies, in quo illud album sit.
Si enim multum spatium fuerit in quo album sit, multum erit album; quocirca non
quoniam ipsa albedo per se aliquam quantitatem habet sed quoniam in aliqua
quantitate est constituta, id est in superficie, idcirco secundum superficiem
quod est quantitas quas scilicet per se multa est, album multum dicitur, non
secundum se, atque ideo album non per se, nec principaliter sed secundum
accidens multum dicitur. Actio quoque ideo dicitur longa, quod multo tempore
acta sit; multam vero aegritudinem idcirco dicimus, si eadem multo sit tempore;
et motum multum idcirco, quod multo tempore factus sit, ut si quis multo
tempore eurrat. Si quis vero multum cursum illum dicat esse qui sit
velocissimus, ille convenienler sermone non utitur. Velocitas enim non
quantitas sed potius qualitas est, quales enim secundum eam dicimur, id est
veloces, non quanti. Secundum quantitatem vero multum dicitur, hoc autem
monstrat ipsa rerum definitio; si quis enim album multum monstrare desideret,
et proprio termino rationis includere, illi dicendum est multum esse album quod
in multa iaceat superficie, et motum atque actionem multam quae longo tempore
perficiatur; quare quoniam ad proprias quantitates aspicientes, atque ad eas
res caeteras referentes, quantitates vocamus, ut album ad superficiem quae vera
est quantitas, et cursum, et aliquem motum atque actionem ad tempus, quod ipsum
vere quantitas est reducimus, haec non per se quantitates sed per eas quae
proprie quantitates dictae sunt nominantur. Quocirca quoniam quod per se non
est, secundum accidens est, recte caetera omnia praeter ea quae superius in
quantitate numerata sunt per accidens esse, non per se quantitates dicuntur.
Solae igitur proprie et secundum se ipsae quantitates dicuntur, hae quae
superius comprehensae sunt. Aliae vero per se quantitas non sunt sed (ut ipse
ait) forte per accidens. Post divisionem igitur continui atque discreti et
habentis positionem partium et non habentis, et quae sunt per se principaliter,
et rursus per accidens quantitates, solito more viam inveniendi quantitatum
proprietas ingreditur. QUANTITATIBUS VERO NIHIL EST CONTRARIUM (IN HIS ENIM
QUAE DEFINITA SUNT MANIFESTUM EST QUONIAM NIHIL EST CONTRARIUM, UT BICUBITO VEL
TRICUBITO VEL SUPERFICIEI VEL ALICUI TALIUM -- NIHIL ENIM EST CONTRARIUM), NISI
MULTA PAUCIS DICAT QUIS ESSE CONTRARIA VEL MAGNUM MINORI. HORUM AUTEM NIHIL EST
QUANTITAS SED AD ALIQUID; NIHIL ENIM PER SE IPSUM MAGNUM DICITUR VEL PARUUM SED
AD ALIUD REFERTUR; NAM MONS QUIDEM PARUUS DICITUR, MILIUM VERO MAGNUM EO QUOD
HOC QUIDEM SUI GENERIS MAIUS SIT, ILLUD VERO SUI GENERIS MINUS; ERGO AD ALIUD
EST EORUM RELATIO; NAM, SI PER SE IPSUM PARURUM VEL MAGNUM DICERETUR, NUMQUAM
MONS QUIDEM ALIQUANDO PARUUS, MILIUM VERO MAGNUM DICERETUR. RURSUS IN VICO
QUIDEM PLURES HOMINES ESSE DICIMUS, IN CIVITATE VERO PAUCOS CUM SINT EORUM
MULTIPLICES, ET IN DOMO QUIDEM MULTOS, IN THEATRO VERO PAUCOS CUM SINT PLURES.
AMPLIUS BICUBITUM VEL TRICUBITUM ET UNUMQUODQUE TALIUM QUANTITATEM SIGNIFICAT,
MAGNUM VERO VEL PARUUM NON SIGNIFICAT QUANTITATEM SED MAGIS AD ALIQUID; QUONIAM
AD ALIUD SPECTATUR MAGNUM ET PARUUM; QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM HAEC AD
ALIQUID SUNT. AMPLIUS, SIVE ALIQUIS PONAT EA ESSE QUANTITATES SIVE NON PONAT,
NIHIL ILLIS ERIT CONTRARIUM; QUOD ENIM NON EST SUMERE PER SE IPSUM SED AD SOLAM
ALTERIUS RELATIONEM, QUOMODO HUIC ALIQUID ERIT CONTRARIUM? AMPLIUS, SI SUNT
MAGNUM ET PARUUM CONTRARIA, CONTINGIT IDEM SIMUL CONTRARIA SUSCIPERE ET EA IPSA
SIBI ESSE CONTRARIA. CONTINGIT ENIM SIMUL IDEM PARUUM ESSE ET MAGNUM (EST ENIM
AD HOC QUIDEM PARUUM, AD ALIUD VERO HOC IDEM IPSUM MAGNUM); QUARE IDEM PARUUM
ET MAGNUM ET EODEM TEMPORE ESSE CONTINGIT, QUARE SIMUL CONTRARIA SUSCIPIET; SED
NIHIL EST QUOD VIDEATUR SIMUL CONTRARIA POSSE SUSCIPERE; UT SUBSTANTIA,
SUSCEPTIBILIS QUIDEM CONTRARIORUM ESSE vidETUR SED NULLUS SIMUL SANUS EST ET
AEGER, NEC ALBUS ET NIGER SIMUL; NIHILQUE ALIUD SIMUL CONTRARIA SUSCIPIT. ET
EADEM SIBI IPSIS CONTINGIT ESSE CONTRARIA; NAM SI EST MAGNUM ET PARUUM
CONTRARIUM, IPSUM AUTEM IDEM SIMUL EST PARUUM ET MAGNUM, IPSUM SIBI ERIT
CONTRARIUM; SED IMPOSSIBILE EST IPSUM SIBI ESSE CONTRARIUM. NON EST IGITUR
MAGNUM PARUO CONTRARIUM NEC MULTA PAUCIS; QUARE SI QUIS HAEC NON RELATIVA ESSE
DICAT, QUANTITAS TAMEN NIHIL CONTRARIUM HABEBIT. Definita quantitas est quae
alicuius termino numeri coercetur, ut sunt duo, vel tres, et quae ad hunc modum
dicuntur, ac si dicas bicubitum, tricubitum, et caetera. Et quae aliquid
propria significatione definita sunt, ut est superficies et soliditas, quid
enim et quae quantitates dicantur, agnoscitur: quocirca harum, quoniam sunt
definitae, nulla ulli contraria est; neque enim bicubito tricubitum contrarium
est, sicut neque numerus ulli numero, at vero nec superficies soliditati, nec
aliquid horum. Sed quoniam quaedam indefinita imaginem quamdam quantitatis
ostendunt ut magnum et paruam, quae videntur esse contraria, haec sibi
Aristoteles opponit dicens non esse quantitates sed magis ad aliquid, quod
ipsius sermonibus astruamus. Sed non est hoc proprium quantitatis non habere
contraria, non enim omnis quantitas contrariis caret sed nobis per singula
quaeque currentibus quae quantitatis species contraria non habeant, quaeue
habeant, considerandum est linea quidem contrario caret, linea enim lineae
contraria non est; sed si quis dicat rectam lineam curuae lineae esse
contrariam, fallitur. Non enim in eo quod linea est, curua linea recta? Lineae
contraria est sed in eo quod curua est, et in his non lineae videntur esse
contrariae sed ipsa rectitudo et curuitas. Quare non in eo quod quantitas est,
linea curua rectae lineae contraria est sed in eo quod qualis. Nam quoniam
curuitas et rectitudo contraria sunt, secundum id quod curua et recta est
linea, non secundum quod lineae sunt, suscipiunt contrarietatem; quocirca linea
in eo quod linea est contrario caret. At vero nec superficies superficiei
contraria est. Sed forte dicat aliquis albam superficiem nigrae superficici
esse contrariam; cui similiter occurrendum est, in co quod superficies sunt non
esse contraria sed in eo quod est in his albedo utque nigredo, quae contraria
esse quis dubitat? Eadem quoquemodo et lenem et asperam superficiem si quis
contrarias dixerit, refellitur, quod non secundum quantitatem superficici sed
secundum qualitatem asperitatis lenitatisque ipsae superficies contrarium
tenent. At vero nec corpori quidquam ullo modo contrarietatis opponitur, cui si
qui dicat incorporale esse contrarium, refutabitur, quod omnis contrarietas
propriis nominibus dicitur, ut bonum malum, album nigrum; corporale vero et
incorporale non secundum contrarietatem sed secundum privationem habitumque
proferuntur. Incorporale enim corporis est privatio. Nec tempori quoque quidquam
contrarium est sed si nox diei videtur opposita, non in eo quod tempus est sed
in eo quod dies est aer lucidus, nox aer obscurus. Aer vero neque tempus neque
quantitas est, lumen quoque et obscuritas qualitates sunt et non quantitates. Oratio
etiam quamquam videatur habere contrarium, tamen contrariam non habet
oppositionem, videtur etiam vera oratio esse et falsa, quae sunt contraria sed
oratio vera et falsa in significatione est. Cum enim quod est oratio
significat, vera est; cum vero quod non est designat, tunc falsa est. Oratio vero
non secundum id quod significat in quantitate numeratur sed secundum id quod
profertur. Secundum enim id quod proferimus orationem, longa syllaba brevique
componitur, quae omnem orationem non secundum id quod ipsa significat sed
secundum id quod ad prolationem est, metiantur. Illud quoque manifestum est in
numero non esse contraria, duo enim tribus, vel tres quaternario contrarli non
sunt, nec ullus alter numerus cuilibet alii numero contrarius est. Locus vero
habet aliquam contrarietatem, ursum enim et deorsum contrarium est. Sed quidam
volunt non esse quantitatis quod sursum dicitur et deorsum sed potius
habitudines, quas Graeci *skeseis* vocant: quae enim pars ad caput nostrum est,
hunc sursum vocamus; quae pars pedibus subiacet, illa deorsum dicitur; quocirca
secundum habitudinem quamdam quodammodo ad nos ipsos relata sursum deorsumque
praedicamus. Herminius quoque ait sursum et deorsum non esse loca sed quamdam
quodammodo positionem loci. Est enim res sursum atque deorsum, non est autem
idem esse aliquid loci, quod locum, loci enim est positio in loco, locus vero
ipse positio non est. Sed si quis omnem mundi respiciat figuram, quomodo rerum
omnium formam sphaerae ambitus amplectitur, et terra media est, in sphaera vero
nihil est ultimum, nisi quod eiusdem terminum medietatis obtinuit, quidquid in
extremo caeli convexitatis est, illud sursum esse dicet, quod vero est medium,
illud deorsum. Quocirca sunt secundum locum sursum deorsumque contraria, sursum
in caelo, deorsum in terra, idcirco quod a se longe disiuncta sunt, unde post
quoque contraria hoc modo sunt definita. Contraria sunt quaecumque a se
longissime distant: hinc est videlicet tracta definitio, quod quoniam caelum
terraque distant, longissime distare videbantur, et illud esse sursum, haec
vero deorsum, quoniam deorsum aeque sursum non ob aliam causam contraria
dicuntur, nisi quod a se longe disiuncta sunt, quod esse contrarium longissime
diatare definiunt, quod Aristoteles hoc modo pronuntiat. MAXIME AUTEM CIRCA
LOCUM ESSE VIDETUR CONTRARIETAS QUANTITATIS; SURSUM ENIM EI QUOD EST DEORSUM
CONTRARIUM PONUNT, REGIONEM MEDIAM DEORSUM DICENTES PROPTEREA QUOD MULTA
DISTANTIA EST MEDIETATIS AD MUNDI TERMINOS. VIDENTUR AUTEM ET ALIORUM
CONTRARIORUM DEFINITIONEM AB HIS PROFERRE; QUAE ENIM MULTUM A SE INVICEM
DISTANT IN EODEM GENERE CONTRARIA ESSE DEFINIUNT. In omni enim sphaera media
terra est, quod ipsa astrorum demonstrat ordinata vertigo, adiecit quoque
causam cur huiusmodi loca contraria dicantur, quod multa distantia est
medietatis ad mundi terminus. TERMINOS vero MUNDI caeli ultimam convexitatem
dicit; ex hac igitur loci contrarietate et caetera definita esse contraria sic
demonstrat. Videntur autem et aliorum contrariorum definitionem ab his
proferre, quae enim multum a se distant in eodem genere contraria esse
definiunt. Sed quoniam ne ordo contrarietate quantitatis impediretur, idcirco
superioribus, in quibus singulis quantitatibus nihil esse contrarium dicebamus,
has loci contrarietates adiecimus, et quaedam in medio praetermissa sunt,
rursus ad superiora redeamus, ut expositionis ordo sese ipse continvet. Ait
enim superius, cum quantitati nihil esse contrarium proponeret, bicubito,
veltricubito, vel superficiei, vel aliqui talium nihil posse esse contrarium.
Definitis enim his quantitatibus, contrarium nihil esse videtur, ut duobus vel
tribus sed quadam cum sint indefinita, nec quantitates et contraria videantur,
haec rursus adiecit. Nisi multa paucis dicat quis esse contraria, vel magnum
paruo. Horum autem nihil est quantitas sed ad aliquid, nihil enim per seipsum
magnum dicitur vel paruum sed ad aliquid refertur. Nam mons quidem paruus
dicitur, milium vero magnum, eo quod hoc quidem sui generis maius sit, illud
vero sui generis minus. Ergo ad aliud est eorum relatio, nam si per seipsum
paruum vel magnum diceretur, nunquam mons quidem aliquando paruus, milium vero
nunquam magnum diceretur. Rursus in vico quidem plures homines esse dicimus, in
civitate vero paucos, cum tamen sint eis multo plures, et in domo quidem
multos, in theatro vero paucos, cum sint plures. Amplius bicubitum et
tricubitum et unumquodque talium quantitatem significat, magnum vero vel paruum
non significat quantitatem sed magis ad aliquid, quoniam ad aliquid spectatur
magnum et paruum; quare manifestum est quod haec ad aliquid sunt. Quemadmodum
definitae quantitates contrariis non tenentur, ipse superius comprobavit dicens
bicubito vel superficiei nihil esse contrarium, indefinitae vero, ut est magnum
et paruum, multa et pauca, dant imaginem contrarietatis. Sed illud occurrit,
has non esse quantitates. Omnis enim quantitas per se dicitur, bicubitum enim
et tricubitum, et duo, et tres, et superficies ad nihil aliud refertur, magnum
vero vel paruum sine aliis dici non possunt. Cum enim dicis magnum, ad alicuius
alterius comparationem atque aequationem refertur. Eodem quoque modo et paruum,
quod ipsa Aristotelica probat inductio. Si enim magnum et paruum per se
dicerentur ad alterius relationem, nunquam diceremus montem paruum et milium
magnum. Si enim magnum paruumque non ad relationem alterius diceretur, mons
semper magnus, semperque paruum milium diceretur. Sed aliquem collem ad
Atlantis altitudinem conferentes, dicimus paruum montem, et rursus milium ad
minora alia grana milii conferentes, magnum milium nominanus, et simpliciter
quidquid magnum vel paruum dicitur ad eiusdem generis speciem referentes,
magnum paruumque nominamus, ut monti montem comparamus, milium vero milio, et
alia huiusmodi. Multa et pauca eodem modo dicuntur; dicimus enim, si fuerint homines
centum in vico, plures esse homines. At vero si in civitate sint, paucos
dicimus, nunc ad paruitatem vicorum, nunc ad magnitudinem civitatum
conferentes. Rursus si sint in domo quinquaginta multi sunt si in theatro
pauci, ideo quod tunc in theatro esse paucos dicimus cum ad eos quanti in
theatro esse debebant comparamus. Amplius: quoniam consistit magnum paruumque
referri semper ad alterum, singulas vero quantitates nihil ad aliud
comparantes, suas ac proprias nominamus, ut tres, duo, quator, lineam,
superficiem, magnum paruumque, multa et pauca, a quantitatis divisione
disiunota sunt. Sunt enim ista non quantitates sed potius relativa. Amplius:
sive aliquis ponat eas esse quantitates, sive non ponat, nihil illis erit contrarium,
quod enim non est sumere per seipsum sed ad solam alterius relationem, quomodo
huic aliquid erit contrarium. Hoc quoque validissimo argumento probatur
quantitatibus his quae praedictae sunt nihil esse contrarium, nisi soli
forsitan loco. Nam si quis magnum et paruum, vel multa et pauca in
quantitatibus ponat, etiam hoc si concedatur, tamen quoniam semper referuntur
ad aliud, contrariis non tenentur. Omne enim contrarium per se consistit, ne
illud ad alterius comparationem relationemque profertur, ut bonum non dicitur mali
bonuum, nec rursus malum boni malum sed ipsum in propria natura et prolatione
consistit. Quaecumque sunt contraria, eodem modo sunt. Magnum vero et paruum
quoniam non per se constant sed ad alterius relationem referuntur, contraria
esse non possunt. Amplius: si sunt magnum et paruum coniraria, contingit idem
simul contraria suscipere et ea ipsa sibi esse contraria. Contingit enim simul
idem paruum esse et magnum. Est enim aliquid ad hoc quidem paruum, ad aliud
vero hoc idem ipsum magnum. Quare idem paruum et magnum et eodem tempore esse
contingit, quare simul contraria suscipiet sed nihil est quod videatur simul
contraria posse suscipere, ut substantia, susceptibilis quidem contrariorum
videtur esse sed non suscipit in uno eodem tempore, nam nullus simul est sanus
et aeger, nec albus et niger simul, nihilque aliud simul contraria suscipiet.
Et eadem sibi ipsi contingit esse contraria. Nam si est magnum paruo
contrarium, ipsum autem idem simul est paruam et magnum, ipsum sibi erit
contrarium, sed impossibile est ipsum sibi esse contrarium. Non est igitur
magnum paruo contrarium. Constat hoc et immutabile in propria ratione
consistit, unam eamdemque rem uno eodemque tempore contraria non posse
suscipere, ut substantia susceptibilis quidem contrariorum est. Homo namque cum
substantia sit, et aegritudinem suscipiet et salutem sed non eodem tempore, et
albedinem et nigredinem capit sed alio atque alio tempore, ut vero uno eodemque
tempore contraria utraque suscipiat, fieri nequit, quodsi magnum paruo aliquis
contrarium ponat, eveniet quoddam impossibile, ut una atque eadem res eodem
tempore utrasque suscipiat contrarietates, et eadem ipsa sibi possint esse
contraria. Ponamus enim magnum paruo esse contrarium sed una atque eadem res,
uno eodemque tempore potest magna esse et parua, ut si sit decem pedum mensura
collata ad duorum pedum magnitudinem, magna est ad centum vero cubitorum
magnitudinem mansuramque collata, eadem parua est. Potest ergo eadem res eodem
tempore et magnitudinis esse susceptibilis et paruitatis. Eadem enim res uno
eodemque tempore ad maiorem minoremque collata eadem magna et parua est. Quod
si magnum paruo contrarium est, eadem vero res eodem tempore et magnitudinem
suscipit et paruitatem, eodem tempore contingit ut eadem res contraria utraque
suscipiat sed hoc impossibile est. Quocirca quoniam res eadem eodem tempore
contrariorum susceptibilis non est, potest vero una atque eadem res
magnitudinem paruitatemque suscipere, magnitudo et paruitas contraria non sunt.
At vero si quis magnum paruo contrarium ponat, eadem ratione unam eamdemque rem
sibi ipsi dicit esse contrariam. Nam si paruum magno est contrarium, eadem vero
res (ut docui) parua et magna potest esse ad aliud et ad aliud scilicet
comparata. Res quae parua et magna est, eadem sibi potest esse contraria,
paruum enim et magnum contrarium dictum est sed est impossibile. Quocirca
paruum et magnum contraria non sunt. Post huiusmodi vero rationem et
argumentationis firmissimae propositionem de contrarietate disserit loci, de
qua superius iam diximus, quocirca praetereunda est, ne repetitae expositionis
iteratio, fastidio sit potius quam doctrinae. NON VIDETUR AUTEM QUANTITAS
SUSCIPERE MAGIS ET MINUS, UT BICUBITUM (NEQUE ENIM EST ALIUD ALIO MAGIS
BICUBITUM); NEQUE IN NUMERO, UT TERNARIUS QUINARIO (NIHIL ENIM MAGIS TRIA
DICENTUR, NEC TRIA POTIUS QUAM TRIA); NEC TEMPUS ALIUD ALIO MAGIS TEMPUS
DICITUR; NEC IN HIS QUAE DICTA SUNT OMNINO ALIQUID MAGIS ET MINUS DICITUR.
QUARE QUANTITAS NON SUSCIPIT MAGIS ET MINUS. Aliud proprium rursus apposuit
quod quamvis quantitatis proprium non sit, cur tamen non sit ipse reticuit,
nobis tamen est demonstrandum; quod autem dicit tale est: quantitas magis et
minus non suscipit, nullus enim numerus alio numero nec magis nec minus est
numerus. Nam ternarius si quinario comparetur, nec magis nec minus est numerus,
et rursus ipsi tres sibi ipsis comparati, nec magis nec minus sunt tres, nec
tempus quoque habet aliquid magis et minus, ut magis aliud tempus sit alio
tempore, longius quidem tempus tempore esse potest, ut vero dicatur magis
tempus alio tempore vel minus fieri nequit. Hoc quoque etiam in substantia
demonstratum est, homo namque alio homine non est magis homo, nec minus. Idem
quoque evenit etiam in quantitate. Quod quia etiam in substantia est, proprium
quantitatis hoc non est, habet hoc quoque quantitas ut in sequenti ordine ipse
monstravit. Quocirca quoniam prius hoc de substantia dixerat, nunc vero idem de
quantitate proposuit, idcirco non esse hoc proprium quantitatis, commemorare
neglexit. Cuius enim esset alterius non suscipere magis et minus, tunc dixit cum
de substantia disputaret. Ait enim quod substantia nunquam magis minusue
suscipient, quocira ad maxima propria solita constituendi ratione regressus
est. PROPRIUM AUTEM MAXIME QUANTITATIS EST QUOD AEQUALE ET INAEQUALE DICITUR.
SINGULUM ENIM EARUM QUAE DICTAE SUNT QUANTITATUM ET AEQUALE DICITUR ET
INAEQUALE, UT CORPUS AEQUALE ET INAEQUALE, ET NUMERUS AEQUALIS ET INAEQUALIS
DICITUR, ET TEMPUS AEQUALE ET INAEQUALE; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS QUAE DICTA
SUNT E SINGULIS AEQUALE ET INAEQUALE DICITUR. IN CAETERIS VERO QUAE QUANTITATIS
NON SUNT, NON MULTUM VIDEBITUR AEQUALE ET INAEQUALE DICI, NAMQUE DISPOSITIO
AEQUALIS ET INAEQUALIS NON MULTUM DICITUR SED MAGIS SIMILIS, ET ALBUM AEQUALE ET
INAEQUALE NON MULTUM SED SIMILE. QUARE QUANTITATIS PROPRIUM EST AEQUALE ET
INAEQUALE NOMINARI. Quantitatis proprium apertissime designat esse, quod
secundum quantitatem aequalitas et inaequalitas nuncupatur. Singulae enim
quantitates aequales atque ivaequales dicuntur, ut aequalis linea lineae, et
rursus inaequalis, et superficiei superficies aequalis atque inaequalis
dicitur, et corpus aequale et inaequale dicitur. Numerus quoque et tempus et
locus aequalis atque inaequalis dicitur. In aliis autem quae quantitates non
sunt, non est facile ut aequalitas vel inaequalitas nominetur dispositiones
ergo quae affectiones appellantur, non dicuntur aequales vel inaequales sed
magis similes et dissimiles. Dispositio autem vel affectio est ad aliquam rem
accommodatio et applicatio, ut si quis grammaticam legens, qui nondum
perdidicit, habet ad eam aliquam dispositionem, id est, ea affectus est, et
habet aliquid accommodatum, et quasi propinquum. Possunt autem similiter esse
duo dispositi et affecti, aequaliter vero minime, ut duo similiter esse albi,
aequaliter vero non. Nam si quis de duobus similiter albis aequaliter esse
albos dicat, recta nominis nunc usurpatione non utitur. Omne enim aequale et
inaequale, in mensura et in quantitate perficitur. Simile vero et dissimile
quemadmodum de quantitate non dicitur, ita nec de alia qualibet re nisi de
quantitate, recte aequalitas et inaequalitas nuncupantur. Quare proprium est
quantitatis aequale et inaequale nominari. Sed quoniam de quantitate dictum
est, ad relativorum ordinem transeamus. Post quantitatis tractatum tertium
praedicamentum de relativis ingreditor, quare relativa hoc modo definit. AD
ALIQUID VERO TALIA DICUNTUR QUAECUMQUE HOC IPSUM QUOD SUNT ALIORUM DICUNTUR,
VEL QUOMODOLIBET ALITER AD ALIUD, UT MAIUS HOC IPSUM QUOD EST AD ALIUD DICITUR
(ALIQUO ENIM MAIUS DICITUR), ET DUPLEX AD ALIUD DICITUR HOC IPSUM QUOD EST
(ALICUIUS ENIM DUPLEX DICITUR); SIMILITER AUTEM ET QUAECUMQUE ALIA TALIA SUNT. Cur
autem de his quae sunt ad aliquid disserat, omisso interim de qualitate
tractato, haec causa est, quod posita quantitate magis minusue esse necesse
est. Quare cum quantitatem continuo ad aliquid consequatur, recte post quantitatem
relativorum series ordinata est. Illud quoque est in causa, quod superius com
de quantitate tractaret, relativorum mentio facta est, cum de magno paruoque
diceretur, ut ergo continens et non esset operis interrupta distinctio, ideo
quantitate finita de relatione, proposuit. Quod autem ait, ad aliquid vero
talia dicuntur, hoc monstrat, quod non sicut quantitas per se et singulariter
intelligi potest, eodem quoque modo substantia et qualitas, et unumquodque
aliorum praedicamentorum, sicut per se constat, ita etiam per se et
singulariter intelligitur: sic ad aliquid per se et singulariter capi
intellectu non potest, ut dicamus esse ad aliquid singulariter. Quidquid enim
in natura relationis agnoscitur, id cum alio necesse est consideretur; cum enim
dico dominus, per seipsum nihil est, si seruus dicit. Quocirca cum unius
relativi nuncupatio mox secum etiam aliud trahat ad aliquid, unum esse per se
non potest, atque ideo non dixit Aristoteles: Ad aliquid vero tale dicitur sed,
plurali numero, talia dicuntur, inquit, demonstrans relativorum intelligentiam
non in simplicitate sed in pluralitate consistere; non esse autem quamdam per
se relativorum naturam sine coniunctione aliqua alterius subsistente, ipse
Aristoteles monstrat, qui dicit ea esse relativa, quaecumque hoc ipsum quod
sunt aliorum dicuntur. Docet enim aliqua coniunctione alterius relativa
formari, hoc ipsum enim quod sunt aliorum dicuntur. Quod enim est dominus, hoc
alterius dicitur, id est serui. Sive autem relativa dicamus, sive ad aliquid,
nihil interest. Ad aliquid enim dicitur quod ipsum quidem cum per se nihil sit,
relatum tamen ad aliud constat, ut dominus, sit desit id ad quod dicitur, id
est, seruus, non est, dicitur enim ad seruum; munifestum ergo est si seruus
desit, dominum dici non posse, quare dominus ad aliquid dicitur, id est ad
seruum. Relativa quoque dicuntur idcirco, quod eorum nuncupatio semper ad aliquid
referatur, ut domini ad seruum, quare nihil interest quolibet modo dicatur. Huiusmodi
autem definitio Platonis esse creditur, quae ab Aristotele paulo posterius
emendatur. Relativorum autem alia eisdem casibus referuntur, alia diversis,
alia vero omni sunt casu carentia. Qued scilicet monstrans addidit, vel
quomodolibet aliter ad aliud. Quid autem est, ipsius pene textus sermone
moustratur. Cum enim dico dominus serui dominus, ad genitivum casum reddidi
nominativum, et rursus ad eumdem si convertero. Dico enim seruus domini seruos,
et hic quoque nominativus ad genitivum relatos est. Eodem quoque modo sese
habet pater filii pater, et filios patris filius, et magister discipoli
magister, et discipulus magistri discipulos, haec ergo id quod sunt, similiter
aliorum dicuntur. Nam quod aliorum dicuntur secundum gentiivum redditur casum,
alia vero non secundum eumdem casum consequentiam reddunt. Sensus enim ad
aliquid est, sensibilis enim rei est sensus. Quod enim sensibile est sentiri
potest, quod senliri potest, sensibile est, et nunc quidem sensus sensibilis
rei sensus genitivo accommodatus est. Huius enim rei sensibilis dictum est, at
si convertas, 218A fiet. Sensibilis res sensu sensibilis est. Sed cum sic casui
septimo redditur nominativus in hac relatione, quae dicit sensibile sensu
sensibile est, non eodem casu quo superius dictum est convertitur. Dicimus enim
sensus sensibilis rei sensus est, et hic nominativus redditur ad genitivum.
Haec enim relatio ad septimum casum se aptari non patitur. Scientia quoque
scibilis rei scientia est, siquidem hoc scitur quod sciri potest et quod
sciripotest, scibile est sed non eadem ratione, nec ad eumdem casum relatio
ista convertitur. Dicimus enim scibilis res scientia scibilis est. Est enim
prima relatio ad genitivum, secunda conversio ad septimum. Haec quoque relatio
secundum eosdem convertitur casus, cum dicimus maius minore esse maius, et
minus maiore esse minus. Duplum quoque
et medium relativa sunt sed et eisdem casibus convertuntur. Duplum namque
dimidii duplum est, dimidium vero dupli dimidium est. Sunt autem alia quoque relativa
quae ipse sic addidit. AT VERO SUNT ETIAM ET HAEC AD ALIQUID, UT HABITUS,
AFFECTIO, SCIENTIA, SENSUS, POSITIO; HAEC ENIM OMNIA QUAE DICTA SUNT HOC IPSUM
QUOD SUNT ALIORUM DICUNTUR ET NON ALITER; HABITUS ENIM ALICUIUS HABITUS EST, ET
SCIENTIA ALICUIUS SCIENTIA, ET POSITIO ALICUIUS POSITIO, ET ALIA QUIDEM
SIMILITER. De sensu quidem et scientia dictum est superius, nunc vero de
habitu, dispositione, et positione dicendum est. Dispositio est ad aliquam rem
mobilis applicatio, ut si quisquam flammae propinquus calcat, ille dispositus
dicitur ad calorem, id est, habens aliquam applicationem coniunctionemque ad
calorem. Idem vero est affectio quod dispositio, ne nouo nomine error oriatur:
et ideo dispositio cum eit quaedam ad aliam rem coniunctio, vel ab alia
affectio, facile mobilis est, celerius etenim permutatur. Habitus autem est
dispositionis vel affectionis firma et non facile permutabilis accessio, ut si
quisquam in sole ambulans fuscior fiat, dispositus ad nigredinem dicitur et
nigredine affectus. Sin autem illa nigredo fortius et immutabiliter corpus
infecerit, habitus nominatur: quocirca habitus est inveterata affectio. Unde
omnis habitus dispositio vel affectio est, non autem omnis dispositio vel
affectio habitus. Et ne multa dicenda sint, hoc quoque constat in habitu et
dispositione, quod habitus immutabilis passio est, dispositio vero non
similiter sed affectio quaedam est, et ad aliquam rem coniunctio, quae potest
facile permutari. Positio vero est alicuius rei collocatio, ut est statio,
sessio, inclinatio, accubatio, et alia huiusmodi. Nam et qui stat quodammodo
positus esse dicitur et collocatus. et qui sedet, et qui accumbit, et qui
secundum caeteras positiones est positus appellatur. Quocirca et statio et
sessio et accubatio positiones erunt. Sed quoniam quid essent dictum est, nunc
si sunt ad aliquid videamus, habitum relative dici ea res probat, quae aliis
quoque rebus documento fuit esse relativis, ut est in sensu atque in scientia.
Idcirco enim dictum est sensum sensibilis rei esse sensum, quod res sensibilis
est quae sentiri potest; est ergo habitus habilis rei habitus. Habilis enim res
est quae haberi potest, illius enim rei habitus est quae haberi potest.
Quocirca erit habitus habilis rei habitus sed res quoque habilis habitu erit
habilis, ipso enim habita res quae haberi possunt habemus. Dispositio quoque
eodem modo. Dispositio namque dispositae rei dispositio est, et disposita res
dispositione disposita est. Caloris enim dispositio calentis, id est, ad
calorem dispositi, dispositio est. Eodem modo dispositus ad calorem caloris
dispositione dispositus est: velut si hoc modo sit dictum, omnis affectio
affecti affectio est, et omne affectum affectione affectum est. Et calor calentis
fit calor, et calens calore fit calidum. Positio quoque relativa est, nam
positio positae rei positio est, et posita res positione posita est, et hoc
intelligi convenit secundum priorem habitus et dispositionis modum. Illa quoque
res probat positionem esse ad aliquid, quod eius species relativae sunt; statio
enim stantis rei statio est, et qui stat statione stat; et de sessione quidem
et de accubitu idem dici potest. Quocirca et habitus et dispositio vel
affectio, et positio relativa sunt, et haec omnia vel similibus vel
dissimilibus convenientibus tamen praedicationi casibus convertuntur. Eorum
autem quae secundum casus convertuntur, alia sunt quae eodem nomine praedicantur,
alia vero quae dispari: cum enim dico simile simili simile est, et aequale
aequali aequale est, et dissimile dissimili dissimile est, eisdem vocabulis
219C eisdemque nominibus tota fit praedicatio. Cum autem dico duplum medii
duplum, vel maius minore maius, disparibus vocabulis facta est praedicatio.
Quoniam vero relativorum definitionem ita proposuit, ut diceret: ad aliquid
vero talia dicuntur quaecumque hoc ipsum quad sunt aliorum dicuntur, vel
quomodolibet, aliter ad aliud; quid esset hoc ipsum quod sunt aliorum dicuntur,
iam diximus nunc quid sit; quod ait, vel quomodolibet aliter ad aliud,
requirendum est. Quod ipse Aristoleles couvenientibus in ordine probat
exemplis; ait enim: AD ALIQUID ERGO SUNT QUAECUMQUE ID QUOD SUNT ALIORUM
DICUNTUR VEL QUOMODOLIBET ALITER AD ALIUD; UT MONS MAGNUS DICITUR AD MONTEM
ALIUM (MAGNUM ENIM AD ALIQUID DICITUR), ET SIMILE ALICUI SIMILE DICITUR, ET
OMNIA 219D TALIA SIMILITER AD ALIQUID DICUNTUR. EST AUTEM ET ACCUBITUS ET
STATIO ET SESSIO POSITIONES QUAEDAM, POSITIO VERO AD ALIQUID EST; IACERE AUTEM
VEL STARE VEL SEDERE IPSA QUIDEM NON SUNT POSITIONES, DENOMINATIVE VERO EX HIS
QUAE DICTAE SUNT POSITIONIBUS NOMINANTUR. Quoniam accubitus et statio et sessio
positiones dicuntur, et quonism omnis positio ad uliquid est, sufficienter
superius comprehensum est. Nunc vero quid sit quod ait, vel quomodolibet aliter
ad aliud, expediemus, in relatione per quam dicimus filius patris filius, nulla
coniunctio mista est, nisi tantum sola casuum vis praedicationis huius membra
coniungit. Cum autem dico montem magnum, ad alium referens paruam, ita propono,
mons magnus, ad montem paruum, et mons paruus ad magnum, hic nullorum casuum
vis: quamquam enim accusativus videtur esse permistus, tamen ille huius
relationis vim non tenet sed praepositio quae ad accusativum datur; cum enim
dico, mons magnus ad paruum montem, praepositio sola est quae vim huius
continet relationis, ut si quis dicat magnus mons paruum montem, nihil
significet definitum. Quocirca quamvis accusativus casus in hac propositione
sit, non tamen hic vim casus tenet sed praepositio; atque hoc est quod ait, vel
quomodolibet aliter ad aliud, ut quoniam superius secundum casus relationes
fieri dixerat, erant autem quaedam relationes quae nullis casibus tenerentur,
adiecit hoc, vel quomodolibet aliter ad aliud, ac si diceret: Omnis relatio aut
casibus fit, quod per hoc demonstravit quod ait, quaecumque id quod sunt
aliorum dicuntur, aut praeter casus sunt, quod haec sententia docet, vel
quomodolibet aliter ad aliud, atque haec hactenus. Sed cum positio sit ad
aliquid, et sint species eius relativae (sessio enim et statio relativa sunt)
sedere et stare nulla relatio est. Stare namque et sedere de statione et
sessione denominative dicuntur. Omnis autem denominatio non est id quod est ea
res de qua nominatur, ut grammaticus, non enim idem est quod grammatica de qua
nominatus est. Quocirca si sedere de sessione, et stare de statione
denominativum est, sessio vero et stati relativa sunt sedere et stare, quae a
relativis denominativa sunt, relativorum genere non tenentur. Et universaliter,
quidquid ex quibuslibet positionibus 220C denominatur, illud non ad relativa
sed ad praedicationem quae situs dicitur reduci potest. INEST AUTEM ET
CONTRARIETAS IN RELATIONE, UT VIRTUS MALITIAE CONTRARIUM EST, CUM SIT UTRUMQUE
AD ALIQUID, ET SCIENTIA INSCIENTIAE. NON AUTEM OMNIBUS RELATIVIS INEST
CONTRARIETAS; DUPLICI ENIM NIHIL EST CONTRARIUM, NEQUE VERO TRIPLICI NEQUE ULLI
TALIUM. Quemadmodum in substantia vel quantitate si eorum esset proprium
contraria suscipere rimatus est, ita quoque nunc in relativis de contrarietate
considerat, utrum relativorum sit proprium contraria posse suscipere, et
quoniam virtus et vitia utraque sunt habitus, virtus enim est mentis affectio
in bonam partem, et difficile commutabilis, vitium affectio in malam partem,
ipsa quoque difficile mobilis et diuturnitate perdurans: quoniam igitur et
vitium et virtus habitus sunt, omnis autem habitus ad aliquid esse monstratus
est (habilis enim rei habitus est) erunt virtus atque vitium relativa sed haec
contraria sunt, igitur relativa contraria suscipere non recusant. Sed si dicat
quis: quid causae est ut virtutem atque vitium ipsumque habitum paulo post
inter qualitates numeret? Atqui ut alia significatione una res diversis
generibus supponatur, nihil prohibet, Socrates namque in eo quod est Socrates substantia
est, in eo quod pater vel filius ad aliquid; ita ad aliud atque ad aliud ducta
praedicatione eamdem rem sub diverso genere nihil poni prohibet. Habitus quoque
et virtus et vitium eodem modo est. Potest enim in 221A qualitate poni habitus
quod ex eo quales homines nuncupentur, habentes enim dicimus aliquos rei
habitus retinentes. Virtus quoque qualitas est idcirco quod ex eo boni homines
dicuntur et secundum illam qualitatem, id est bonitatem, quales homines, id est
bonos homines nuncupamus; similiter autem et vitium. Ipse quoque habitus ad
aliam praedicationem dictus fit iterum relativus: quod enim habitus habilis rei
habitus est, ad aliquid est; et quod alicuius virtus est, ad aliquid virtus
est, et quod alicuius vitium est, ad aliquid quoque ipsum est. Ergo nihil
impedit easdem res ad aliud atque aliud versas diversae praedicationi
substitui. Ipsum vero ad aliquid praeter ullum aliud praedicamentum intelligere
non possumus, ut patrem et filium, dominum et servam secundum 221B substantiam
consideramus. Nam et qui dominus et qui seruus est, substantia est. Duplum et
triplum secundum quantitatem, haece nim in quantitate consistunt, scientia vero
et inscientia secundum qualitatem. Secundum enim has quales dicimur, scientes
scilicet atque inscii. Quocirca quoniam praeter aliud praedicamentum per se
relativa nullus intelliget, secundum ea praedicamenta de quibus intelligitur
relatio, secundum ea dicitur contraria posse suscipere: ut Socrates ipse quidem
substantia est sed substantia contrarium non recipit. Pater vero alque filius
secundum substantiam praedicatur, non est enim pater atque filius nisi in
substantia sit. Quocirca quoniam secundum substantiam dicitur, contrarietate
caret. Rursus duplum vel dimidium secundum quantitatem dicitur, quantitas vero
contraria non habere monstrata est; igitur nec duplum atque dimidium contrariis
pugnat. Qualitas vero recipit contrarietatem; bonum enim et malum secundum
qualitatem opponuntur, bonum igitur et malum contrariis non carent. Igitur
secundum quae praedicamenta relativa dicuntur, si illa suscipiunt contraria, et
relatio suscipit. Sin vero illa prius repudiant contrarietatem, nec illud ad
aliquid quod secundum ea dicitur ulla unquam contrarietate dividitur. Quare
habere contraria relationis proprium non est, nam neque in sola relatione est
(habet enim hoc quoque qualitas), nec in omnibus ad aliquid considerari potest.
Quae enim secundum talia praedicamenta dicuntur ad aliquid quae non recipiunt
contrarietatem, ut secundum substantiam pater et filius, vel secundum quantitatem
duplum et medium, in talibus relativis contraria nullo modo reperiuntur. Quod
vero neque soli neque omnibus inest, hoc proprium non est; non est igitur
proprium relationis habere contraria. VIDENTUR AUTEM ET MAGIS ET MINUS RELATIVA
SUSCIPERE; SIMILE ENIM MAGIS ET MINUS DICITUR, ET INAEQUALE MAGIS ET MINUS
DICITUR, CUM UTRUMQUE SIT RELATIVUM (SIMILE ENIM ALICUI SIMILE DICITUR ET
INAEQUALE ALICUI INTEQUALE). NON AUTEM OMNIA SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS; DUPLEX
ENIM NON DICITUR MAGIS ET MINUS DUPLEX, NEC ALIQUID TALIUM. Quaeritur nunc an
relationis sit proprium suscipere magis et minus; sed in hoc illa ratio
servatur, quemadmodum in contrariis dictum est. Quoniam quaecumque secundum ea
dicuntur quae contraria non recipiunt, ipsa quoque contrariis carent. In hoc
vero cum secundum quantitatem dicatur aequale et inaequale, suscipit et magis
et minus. Dicitur enim magis aequale et minus aequale. Eodem modo et simile,
magis simile et minus simile dicitur. Sed si forte quis dicat: cur cum
quantitatis sit dici aequale et inaequale, et quantitas magis atque minus non
suscipiat, aequale et inaequale et intensione crescat et remissione minuatur?
Dicendum est quoniam quemadmodum substantia ipsa per se in eo quod substantia
est non est proprium, ipsi tamen proprium est contraria posse suscipere, ita et
in quantitate consideratur, proprium enim est, non hoc ipsum cuius est proprium
sed quaedam alia extrinsecus qualitas passioque. Passio enim qualitatis est, et
quaedam qualitas aequale et inaequale dici potest: quod quoniam non est idem
proprium quod est illud cuius est proprium, et aequale vel inaequale dici, non
est quantitas cuius est proprium sed quaedam qualitas et passio quantitatis. Haec
autem dicitur ad aliquid, ipsum enim quod est alterius dicitur, aequale enim
aequali aequale dicimus, et similiter simile similis simile. Sed non capiunt
omnia relativa magis et minus. Nullus enim potest dicere magis et minus duplum
esse aliquid: nam sive denarius ad quinarium comparetur, sive quaternarius ad
binarium, aeque uterque duplus est, aeque uterque medietas. Qualitas quoque
recipit magis et minus, dicimus enim magis album et minus album. Quare quoniam
neque omni relationi neque soli inest suscipere magis et minus, et per
qualitatem relatio suscipit et magis et minus, relationis proprium non est
suscipere magis et minus. OMNIA AUTEM RELATIVA AD CONVERTENTIA DICUNTUR, UT
SERUUS DOMINI SERUUS DICITUR ET DOMINUS SERUI DOMINUS, ET DUPLUM DIMIDII DUPLUM
ET DIMIDIUM DUPLI DIMIDIUM, ET MAIUS MINORE MAIUS ET MINUS MAIORE MINUS; SIMILITER
AUTEM ET IN ALIIS. SED CASU ALIQUOTIENS DIFFERT SECUNDUM LOCUTIONEM, UT
SCIENTIA SCIBILIS REI DICITUR SCIENTIA ET SCIBILE SCIENTIA SCIBILE, ET SENSUS
SENSIBILIS SENSUS ET SENSIBILE SENSU SENSIBILE. Clara haec est proponentis et
non inuoluta sententia. Dicit enim omnia relativa ad convertentia dici, quod
ipse propriis patefecit exemplis. Omne enim ad aliquid ita ad aliud
praedicatur, ut illud ad quod praedicatur videatur posse converti, et hoc est
quod ait: OMNIA RELATIVA AD CONVERTENTIA DICUNTUR. Converti autem est, ut si
prima res dicitur ad secundam, secunda rursus dicatur ad primam. Ponatur enim
primus pater, secundus filius, et dicatur hoc modo, pater filii pater est; id
rursus converti potest, ut prius ponamus filium, et talis sit praedicatio, filius
patris filius. Ergo pater ad talem dicitur, id est ad filium qui convertitur:
et filius qui dicitur ad patrem, ad talem rem dicitur, quae ipsa quoque
convertitur, ut de filio praedicetur. Omniaque relativa hoc modo sunt, omne
enim relativum ad tale aliquid praedicatur quod ipsum in praedicatione converti
possit. Sed nec omnia dicuntur secundum eamdem vocis prolationem. Alia enim
sunt quae eisdem casibus convertuntur, ut dictum est, pater enim filii pater
est, et filius patris filius est. Alia vero quae non eisdem, ut scientia
scibilis rei scientia est: hic genitivus est medius. Scibile autem scientia
scibile est: hic septimus praedicationem tenet. Alia vero nullo (ut supra
dictum est) casu coniuncta sibimet convertuntur, ut mons magnus ad paruum
dicitur, et paruus ad magnum. Ergo OMNIA RELATIVA AD CONVERTENTIA DICUNTUR,
quamvis non eisdem casibus convertantur, quod ipse ait dicens: SED CASU
ALIQUOTIENS DIFFERT SECUNDUM LOCUTIONEM. Quod vero addidit nimis diligenter
adiectum est. AT VERO ALIQUOTIENS NON VIDEBITUR CONVERTERE NISI CONVENIENTER AD
QUOD DICITUR ASSIGNETUR SED PECCET IS QUI ASSIGNAT; UT ALA SI ASSIGNETUR AVIS,
NON CONVERTITUR UT SIT AVIS ALAE; NEQUE ENIM CONVENIENTER PRIUS ASSIGNATUM EST
ALA AVIS; NEQUE ENIM IN EO QUOD AVIS, IN EO EIUS ALA DICITUR SED IN EO QUOD
ALATA EST (MULTORUM ENIM ET ALIORUM ALAE SUNT, QUAE NON SUNT AVES); QUARE SI
ASSIGNETUR CONVENIENTER, ET CONVERTITUR; UT ALA ALATI ALA, ET ALATUM ALA
ALATUM. ALIQUOTIENS AUTEM FORTE ET NOMINA FINGERE NECESSE ERIT, SI NON FVERIT
POSITUM NOMEN AD QUOD CONVENIENTER ASSIGNETUR; UT REMUS NAVIS SI ASSIGNETUR,
NON ERIT CONVENIENS ASSIGNATIO (NEQUE ENIM IN EO QUOD EST NAVIS, IN EO EIUS
REMUS DICITUR; SUNT ENIM NAVES QUARUM REMI NON SUNT); QUARE NON CONVERTITUR;
NAVIS ENIM NON DICITUR REMI. SED FORTE CONVENIENTIOR ASSIGNATIO ERIT SI SIC
QUODAM MODO ASSIGNETUR, REMUS REMITAE REMUS, VEL ALIQUO MODO ALITER DICTUM SIT
(NOMEN ENIM NON EST POSITUM); CONVERTITUR AUTEM SI CONVENIENTER ASSIGNETUR
(REMITUM ENIM REMO REMITUM EST). SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS, UT CAPUT
CONVENIENTIUS ASSIGNABITUR CAPITATI QUAM SI ANIMALIS ASSIGNETUR; NEQUE ENIM IN
EO QUOD ANIMAL EST CAPUT HABET (MULTA ENIM SUNT ANIMALIUM CAPITA NON HABENTIA).
Supra iam de relativorum conversione proposuit, dixitque quidquid est ad
aliquid, vel eisdem casibus vel dissimilibus, tamen ad convertentia dici: hoc
vero idcirco evenit quod omne ad aliquid esse suum ex alterius habitudine et
comparatione trahit; quodsi utraque secundum ad aliquid sint opposita, ad
aliquid nuncupantur aequam vim vocabuli nuncupationemque sortita. Nam si pater
et filius utrique ad aliquid sunt, si pater ad filium praedicatur, quoniam ad
aliquid est, fllius quoque, quia ad aliquid est, ad quoddam aliud praedicabitur
sed nullius est filius nisi patris. Ergo haec vocabula ex alterutra
nuncupatione principium sumunt. Quocirca quae sibi invicem substantiam donant,
recte ad se invicem praedicantur, et hoc quidem in omnibus relativis constat
intelligi. Sed huiusmodi conversio non uno modo, nec quomodolibet fieri potest;
nisi enim convenienter quaelibet illa res ad id quod dicitur praedicetur,
huiusmodi conversio nulla ratione convertitur. Cum enim dicatur caput animalis
caput dici non potest, animal capitis animal. Ergo ita redditum nulla ratione
convertitur. Atque hoc est quod ait, non videri in omnibus relativis posse
converti, nisi convenienter ad quod dicitur assignetur. Si enim peccet is qui
assignat, ut non convenientem praedicationem faciat, conversio non procedit;
quae tamen est ipsa convenientia qua possint semper relativa converti,
huiusmodi est. Cum enim dico alam avis esse alam, non convertitur, ut avis ala
sit avis, idcirco quod non est convenienter facta praedicatio: non enim in eo
quod avis est, in eo habet alam; multa enim sunt quae habent alam, aves tamen
nullo modo nominantur, ut apes sunt et uespertitiones, et quidquid est aliud
tale, habere quidem dicimus alas, eas tamen aves non dicimus. Quare non in eo
quod avis est, in eo est eius ala sed in eo quod alata est; idcirco enim alam
habet, quoniam alata est: et quidquid fuerit alatum, alas habebit. Quare ita
facta praedicatio illam conversionem retinet atque custodit, ala enim alati ala
est, et alatum ala alatum est. Eodem quoque modo de capite: si quis dicat caput
animalis est caput, non convenienter vim praedicationis aptabit; non enim in eo
quod animal est, in eo habet caput, multa enim sunt animalia quae capite
carent, ut ostrea, et conchylia, et caetera huiusmodi. Igitur dicendum est
caput capitatae rei esse caput, et capita tam rem capite esse capitatam.
Videsne quemadmodum conveniens praedicatio aiternam in se vocabuli conversionem
reuersionemque reddiderit? Ita quoque speculandum est et de alio exemplo quod
ipse proposuit. Remus enim si navis remus dicatur, nullo modo convertitur, ut
navis remi navis esse nominetur. Sunt enim quaedam naves quae remis penitus non
utuntur, ut lintres quas solo subigunt conto, et idcirco non convertitur.
Dicendum est igitur remum remitae rei esse remum, et remitam rem remo esse remitam.
Necesse quoque erit nomen fingere, ei positum non sit: nam quemadmodum filius
patris filius, et pater filii pater, reciproca conversione praedicantur, et
utrumque nomen in usu est, sic, si defuerit nomen, ipse tibi aliquid debebis
effingere, ut in eo quod est, ala alati ala; alatum enim noviter factum est, et
nunquam antedictum. Quo autem modo possimus nomina ipsa confingere, quoniam
necessarium esse posuimus, artem quoque componendi sequenti ordine
demonstremus. Sed hoc faciendum est, si prius illud purgavero, quod quidam
contra Aristotelem culpandi studio ponunt. Aiunt enim non esse solius
relationis ad convertentiam dici. Si quis enim sic dicat: cum sol super terram
est, dies est, et cum dies est super terram, sol est, recipiunt haec quoque conversionem,
quae confessa, a relativorum definitione segregata sunt. Non igitur in solis
relativis, inquiunt, cadit ista conversion Sed Iamblicus duas huius rei
protulit solutiones, unam peruacuam, aliam vero perforem. Ait enim nihil
officere ad Aristotelis sententiam, si et alia convertantur; non enim inquit
Aristoteles solis hoc relativis esse sed, omnibus namque hoc relativis inest,
nec ulla ratione negari potest: quocirca quoniam non dixit Aristoteles solis
hoc inesse relativis, illorum quaestio huius praeclari philosophi sententiam
non moratur. Sed hoc potius accidentis est quam naturae, et ad aliud quodammodo
refugium concurrentis potius quam ex ipsa Aristotelis auctoritate dictorum eius
aliquod propugnaculum comparantis. Aliam vero attulit causam prorsus gravem:
ait enim proprium esse hoc relativorum, non secundum suam nuncupationem sed
secundum aliquam habitudinem, eodem modo converti. Qui enim dicit cum sol est
super terram, dies est, et cum dies est, sol est super terram: nullam
habitudinem monstrat sed tantummodo consequentiam ostendit. Consequitur enim
super terram solem esse cum dies est, et cum sol super terram cursus agat, diem
esse; cum vero aliquis dicit filius patris filius, et pater filii pater,
habitudinem et comparationem et quodammodo continentiam utrorumque declarat.
Atque hoc quoque in alia quavis relatione spectare licet. Quocirca quoniam
omnia ad aliquid secundum quamdam ad se invicem habitudinem continentiamque
dicuntur, secundum continentiam quoque et habitudinem eorum conversio facienda
est, qua in re nos quoque graviter dicentis Iamblici auctoritati concedimus.
Nunc vero quae sit ars fingendi nomina sicubi desunt, dicendum videtur, quam
ipse Aristoteles his verbis tradit. SIC AUTEM FACILIUS FORTASSE SUMETUR QUIBUS
NOMEN NON EST POSITUM, SI AB HIS QUAE PRIMA SUNT ET AB HIS AD QUAE CONVERTUNTUR
NOMINA PONUNTUR, UT IN HIS QUAE PRAEDICTA SUNT AB ALA ALATUM, A REMO REMITUM.
OMNIA ERGO QUAE AD ALIQUID DICUNTUR, SI CONVENIENTER ASSIGNENTUR, AD
CONVERTENTIA DICUNTUR. Quoniam sunt quae ita dicuntur ad aliquid, ut nisi
convenienter aptentur conversio nulla sit, in omnibus autem ad aliquid
conversionem exspectari necesse est, quae sit haec convenientia, et quemadmodum
assignari relationes oporteat, ipse demonstrat. Si quid enim dicitur ad aliquid
quod converti non possit, ab ipso quod dicitur si denominatio fit, mox
convertitur: ut ala dicitur avis, et recta quidem est haec praedicatio sed ad
naturam relationis incongrua. Nunc igitur quoniam dici non potest avis alae,
dicitur autem ala avis, ab ipsa praedicatione, quae ad aliud praedicatur, si
denominatio fit, mox redit consueta conversio relativis. Nam cum dicitur ala
avis, ut dicatur avis alae, inconveniens est; si vero ex ala fiat denominatio,
ut dicatur ala alati, sic conversio manet. Alatum enim ala alatum esse dicimus,
sicut alam alati esse alam. Et hoc idem in remo evenit. Nam quoniam remus navis
dicitur, et remi navis ut sit ulla ratione convertitur, si ex remo sit denominatio,
statim reddit ex more conversio. Dicimus enim esse remum remitae rei esse
remum, et hoc illi convertitur. Remita enim res remo remita est. Ergo ex eo
quod prius dicitur, nomen fingendum est, sicut ex eo quod est ala, quoniam
prius ad avem non dicitur, quia avis ad alam non convertitur, denominatio facta
est, ut diceretur alatum. Atque hoc est quod ait, si ab his quae prima sunt his
ad quae convertuntur nomina ponantur. Prima namque praedicatio est ab ala.
Dicimus enim alam avis, et hoc quaerimus ut ad alam praedicatio convertatur.
Ergo ab eo quod prius dicitur, illi ad quod convertitur nomen fingendum est, ut
ea quae prius dicitur ala, rei ad quam convertitur sic ut convenienter aptetur,
fingendum est nomen alatum, quod ipsum ex ala denominatum est, atque hoc idem
et in caeteris relativis licet intelligi. NAM SI AD QUODLIBET ALIUD ASSIGNENTUR
ET NON AD ILLUD DICANTUR, NON CONVERTUNTUR. DICO AUTEM QUONIAM NEQUE IN HIS
QUAE CONFESSE CONVERSIM DICUNTUR ET IN QUIBUS NOMEN EST POSITUM, NIHIL
CONVERTITUR, SI AD ALIQUID EORUM QUAE SUNT ACCIDENTIA ASSIGNETUR ET NON AD
ILLUD DICATUR; UT SERUUS SI NON DOMINI ASSIGNETUR SED HOMINIS VEL BIPEDIS VEL
ALICUIUS TALIUM, NON CONVERTITUR (NON ENIM ERIT CONVENIENS ASSIGNATIO). Aliud
quoque argumentum dedit, si relatione convenieiiter non reddantur, non posse
converti. Fortasse enim quis dicat alam et caput non esse ad aliquid: quod si
quis hoc quoque concedat, illud tamen nullus negare poterit, quin seruus aut
filius semper ad aliud praedicentur. Ergo in hac quoque re, quas confessae
relativa est, perit relationis propria conversio, si non convenienter et ad
illud ad quod proprie dicitur assignetur. Nam cum sit ad aliquid seruus, nisi
domini reddatur, id est, ad id ad quod convenienter dicitur, nulla hac ratione
conversio est. Dicatur ergo seruus hominis, vel seruus bipedis, non
convertitur, ut dicat quis bipedem esse serui, aut hominem esse serui. Eodem
quoque modo de filio. Ergo quaecumque sunt extrinsecus, si ad ea id quod est ad
aliquid praedicetur, nulla conversio est. Quod autem ait accidentia, non quod
homo sit accidens, aut bipes, differentia hominis accidenter insit sed interdum
consuetudinis Aristotelicae est, quae secundo loco et extrinsecus praedicantur,
dicere secundum accidens praedicari. Seruus autem prius ad hominem est, secundo
vero loco ad hominem. Idcirco enim quod dominus homo est, ideo seruus ad
hominem dicitur. Et idcirco quia dominus bipes est, ideo seruus bipedis
dicitur. Ergo secundum accidens dixit secundo loco, volens ostendere extraneam
et non convenientem fieri praedicationem, si quis ad hominem vel bipedem servam
et non ad dominum referat. Manifestum igitur est quoniam in bis quoque quae
confessa, sunt ad aliquid, et in quibus nomina sunt. Nomen enim et serui et
domini in usu est, non quemadmodum in remo aut in ala, ubi neque alatum neque
remitum nomen fuit, nisi ipse fingeret Aristoteles. Cum ergo haec ita sint,
manifestum est quoniam si non convenienter aptarentur, conversionem praedicatio
non teneret. AMPLIUS, SI CONVENIENTER ASSIGNETUR AD ID QUOD DICITUR, OMNIBUS
ALIIS CIRCUMSCRIPTIS QUAECUMQUE ACCIDENTIA SUNT, RELICTO VERO SOLO ILLO AD QUOD
ASSIGNATUM EST, SEMPER AD IPSUM DICETUR; UT SI SERUUS AD DOMINUM DICITUR,
CIRCUMSCRIPTIS OMNIBUS QUAE SUNT ACCIDENTIA DOMINO, UT ESSE BIPEDEM VEL
SCIENTIAE SUSCEPTIBILEM VEL HOMINEM, RELICTO VERO SOLO DOMINUM ESSE, SEMPER
SERUUS AD ILLUD DICETUR; SERUUS ENIM DOMINI SERUUS DICITUR. SI AUTEM NON
CONVENIENTER REDDATUR AD ID QUOD DICITUR CIRCUMSCRIPTIS OMNIBUS ALIIS, RELICTO
VERO SOLO AD QUOD REDDITUM EST, NON DICETUR AD ILLUD; ASSIGNETUR ENIM SERUUS
HOMINIS 227A ET ALA AVIS, ET CIRCUMSCRIBATUR AB HOMINE ESSE DOMINUM; NON ENIM
IAM SERUUS AD HOMINEM DICITUR (CUM ENIM DOMINUS NON SIT, SERUUS NON EST);
SIMILITER AUTEM ET DE AVI, CIRCUMSCRIBATUR ALATAM ESSE; NON ENIM IAM ERIT ALA
AD ALIQUID (CUM ENIM NON SIT ALATUM, NEC ALA ERIT ALICUIUS). QUARE OPORTET
ASSIGNARE AD ID QUOD CONVENIENTER DICITUR; ET SI SIT NOMEN POSITUM, FACILIS
ERIT ASSIGNATIO; SI AUTEM NON SIT, FORTASSE ERIT NECESSARIUM NOMEN FINGERE.
QUOD SI ITA REDDANTUR, MANIFESTUM EST QUONIAM OMNIA RELATIVA CONVERSIM
DICUNTUR. Aliud quoque validum addidit argumentum in omni secundum ad aliquid,
praedicatione solam esse assignationis convenientiam requirendam. Quo enim
permanente cunctis aliis pereuntibus relativorum praedicatio constat, et quo
pereunte cunctis aliis permanentibus, ad aliquid praedicatio non manet, illud
est ad quod convenienter nominis relatio referatur. Qui enim dominus est, idem
ei homo est, idemque bipes, idem quoque scientiae perceptibilis. Ad quodlibet
igitur horum seruus non praedicabitur, si dominus non sit; quod si dominus sit,
etiamsi quodlibet horum pereat, nihil impedit praedicationem. Praedicetur enim
seruus ad dominum, et ab eo caetera perimantur. Pereant enim ab eo quod est
homo, ac bipes, quod scientiae perceptibilis, his omnibus pereuntibus, dominus
solus permaneat; caeteris igitur pereuntibus, seruus tamen nihilominus dicitur
ad dominum, ad hominem vero non dicitur, pereunte enim domini nomine, serui ad
hominem nulla praedicatio est, quod si ad dominum seruus non referatur,
pereatque domini nomen, omnibus aliis manentibus, non erit praedicatio.
Auferatur enim dominus maneat homo, et bipes, et scientiae perceptibilis, non
potest dici seruus hominis, vel seruus bipedio. Domino enim non manente seruus
interit: quare manente domino ad quod seruus convenienter aptatur, cunctis
aliis pereuntibus, praedicatio manet; sublato vero domino, ad quem est
conveniens praedicatio, cunctis aliis manentibus praedicatio non est. Eodem
modo etiam de ala; nisi enim ad alatum referatur, cunctis aliis manentibus
integra praedicatio non est. Adeo non solum non convertitur sed nec praedicatio
ulla erit, nisi relatio ei ad quod convenienter dicitur assignetur. Simul etiam
haec quoque ars est et via noscendi, cum in naturamulta sunt, ad quod
potissimum relatio praedicetur. Nam cum in domino sit, et homo, et animal, et
disciplinae perceptibile, et bipes, in seruo quoque idem, ad quod horum aut
domini nomen aut serui referre possimus, sic ostenditur. Qua enim re manente
sublatis caeteris praedicatio valet, et qua re sublata creteris manentibus,
intercipitur praedicatio ad illud relatio rectissime praedicatur. His igitur
positis totius argumenti vim sententiumque concludit, ait enim: omnia
quaecumque ad aliquid sunt aequa praedicatione converti: hoc autem huiusmodi
est. Quaecumque enim ad se invicem aequaliter praedicantur, et conversione facta
retorquentur, illa aequali natura et dimensione fundata sunt, ut sunt propria
et species. Relativa quoque ut convertantur, aequalia esse oportet. Nam si una
res amplior, alia fuerit minor, conversionem non habent, nam in eo quod est ala
avis, minus est avis ala, multa enim sunt quae alas habent, et aves non sunt,
atque ideo conversio non fit. Et in eo quod est remus navis, maior est navis
remo, multae enim naves sunt quarum remi non sunt; quare in his nulla potest
esse conversio. Si vero sint aequalia ut filius alque pater, conversio non
fugit. Nunquam enim est filius nisi patris, et rursus nunquam pater est nisi
filii. Quocirca aequalia esse oportet quaecumque ad aliquid praedicantur. Horum
vero si nomen sit pusitum, positis nominibus uti oportet. Si vero nomen positum
non sit, ex his quae in prima praedicatione sunt (ut superius dictum est) nomen
oportet effigere. Quod si ita reddantur ut omne ad aliquid convenienter ad quod
dicitur praedicetur, et aequalis erit praedicatio, et mox conversionis
reciproca natura subsequitur. Constat igitur omnia relativa ad convertentia dici.
His aliud proprium iungit. VIDETUR AUTEM AD ALIQUID SIMUL ESSE NATURA. ET IN
ALIIS QUIDEM PLURIBUS VERUM EST; SIMUL ENIM EST DUPLUM ET DIMIDIUM, ET CUM SIT
DIMIDIUM DUPLUM EST, ET CUM SIT SERUUS DOMINUS EST; SIMILITER AUTEM HIS ET
ALIA. SIMUL AUTEM HAEC AUFERUNT SESE INVICEM; SI ENIM NON SIT DUPLUM NON EST
DIMIDIUM, ET SI NON SIT DIMIDIUM DUPLUM NON EST; SIMILITER ET IN ALIIS
QUAECUMQUE TALIA SUNT. Illa simul esse dicuntur quaecumque talia sunt, ut uno
posito quolibet aliud necessario subsequatur, st uno quolibet perempto aliud
modis omnibus interimatur, ut pater et filius. Nam cum pater est, filium quoque
esse necesse est; cum sit filius, pater est. Rursus si pereat filius, patrem
quoque perire manifestum est, non quod pareat ipsa substantia, ut pereunte
Hectore Priamus pereat sed perit ipsa relatio. Ergo quoniam vel interempto
patris nomine, filii nomen perit, sublato quoque filli nomine nomen patris
perit. Posito etiam patre in substantiaque constituto, filii quoque nomen
infertur, et posito filii nomine sequitur patris et a patris nomine nunquam
separatur, idcirco pater et filius simul esse dicuntur. Ergo simul ea sunt quae
se invicem vel interimunt vel inferunt, et de his quidem ipse posterius
tractat. Nunc autem hoc quoque inesse relativis exposuit, dicens relativis
quoque esse ut simul sint; nam cum duplum sit, dimidium est, et cum dimidium,
duplum. Huius autem argumentum est, quod interempto duplo dimidium perit.
Rursus quoque duplo constituto, dimidium constituitur. Igitur quoniam duplum
atque dimidium relativa sunt, et haec simul sunt natura, id est ipsa essentia,
et hoc manifestum est quoque relativis accidere, ut simul natura ease
videantur. Idem quoque est in eo quod est seruus et dominus. Nam quoniam
alterutris interemptis uterque deperit, et alterutro constituto uterque
subsistit, constat seruum atque dominum cum sint ad aliquid simul esse natura.
Sed haac ita sunt, ut sint quidem in relativis sed omnibus his quae sunt ad
aliquid non aequentur. Sunt enim quaedam relativa quorum unum prius natura sit,
quod ipse rursus adiecit. NON AUTEM IN OMNIBUS RELATIVIS VERUM VIDETUR ESSE
SIMUL NATURALITER; SCIBILE ENIM SCIENTIA PRIUS ESSE VIDEBITUR; NAMQUE IN
PLURIBUS SUBSISTENTIBUS IAM REBUS SCIENTIAS ACCIPIMUS; IN PAUCIS ENIM VEL IN
NULLIS HOC QUISQUE PERSPICIET, SIMUL CUM SCIBILI SCIENTIAM FACTAM. Proposuit
non in omnibus relativis esse hoc, ut videantur simul esse natura; hoc autem
probat ex his, quod quoniam scientia ad aliquid est (scibilis enim rei scientia
dicitur), non poterit esse scientia, nisi sit res aliqua quae sciri possit.
Hanc autem primam esse necesse est, ut in matheseos disciplina. 229B Scimus
enim triangulum tres interiores angulos duobus rectis angulis aequos habere. Unde
necesse est prius fuisse quod sciri posset, postea vero ad hanc rem aptam
fuisse notitiam. Atque hoc est quod ait: NAMQUE IN PLURIBUS SUBSISTENTIBUS
REBUS SCIENTIAS ACCIPIMUS. Prius enim rebus constitutis et quasi praepositis
scientiae ratio sequitur. Quare non est in omnibus relativis simul esse natura.
Nam cum scientia et scibile relativa sint, antiquius est scibile quam scientia.
Quod vero interposuit, in pauois enim vel nullis hoc quis perspiciet simul cum
scibili scientiam factam, tale est. Quasdam namque res animus sibi ipse
confingit, ut chimeram, vel centaurum, vel alia huiusmodi, quae tunc sciuntur,
cum ea sibi animus finxerit. Tunc autem esse incipiunt, quando primum in 229C
opinione versantur. Tunc igitur sciuntur, cum in opinione versata sint, et haec
simul habent esse et sciri. Nam quoniam in opinione nascuntur, mox esse
incipiunt sed cum in ratione sunt, tunc eorum scientia capitur. Igitur mox ut
fuerint, mox sciuntur, et est eorum scientia cum eorumdem essentia coniuncta.
Namque antequam chimera fingeretur, sicut ipsa in nulla opinione fuerat, ita
quoque eius scientia non erat. Postquam vero ipsa animarum imaginatione
constituta est, eius quoque cum ipsa imaginatione scientia consecuta est: atque
ideo ait in paucis hoc posse perspici, ut simul cum scientia scibile sit, ut in
hac eadem chimera, quae cum sit scibilis, cum scientia nata est. Sed quoniam
nihil quod in substantia non permanet, neque in veritate consistit, sciri
potest (scientia enim est rerum quae sunt comprehensio veritatis), et quidquid
sibi animus flngit, vel imaginatione reperit, cum in substantia atque veritate
constitutum non sit, illud posse sciri non dicitur, atque ideo non est eorum
scientia ulla quae sola imaginatione subsistunt. Idcirco itaque dubitans dixit,
in paucis enim vel nullis. Haec enim ipsa pauca ita quisque reperiet, ut si ad
veram rationem examinationemque contenderit, nulla esse perpendat. Quod si
quisquam chimerae aliqua esse scientiam dicat, quae non est, quamquam hoc
falsum sit, tamen hoc quoque concesso pauca erunt in quibus scientia cum
scibili simul natura sit. Multis enim antepositis et constitutis scientia
nascitur. Quocirca non in omnibus relativis verum est, ut simul esse natura
dicantur: et sicut falsum illud est, in nullis hoc esse relativis, ita falsum
est rursus in omnibus. Sed hunc tractatum longius lexit. AMPLIUS SCIBILE
SUBLATUM SIMUL AUFERT SCIENTIAM, SCIENTIA VERO NON SIMUL AUFERT SCIBILE; NAM,
SI SCIBILE NON SIT, NON EST SCIENTIA, SI SCIENTIA VERO NON SIT, NIHIL PROHIBET
ESSE SCIBILE; UT CIRCULI QUADRATURA SI EST SCIBILE, SCIENTIA QUIDEM EIUS NONDUM
EST, ILLUD VERO SCIBILE EST. Diximus illa esse simul, quaecumque alterutro
constituto, vel alterutro interempto, simul utraque constituerentur, vel etiam
perimerentur. Constituto enim ut sit pater, constituetur esse filius, et pater
simul infert substantiam filii. Eodem quoque modo filius simul infert vocabulum
patris, non est enim filius nisi patris. Eodem quoque modo altero interempto
utrumque perire necesse est, alterum autem altero prius multis dicitur modis;
sed quod nunc quaerimus tale est. Nam priora illa esse dicuntur, quae ipsa quidem
peremptares alias tollunt, ipsa vero illata atque constituta simul res alias
non inferunt, ut est unus atque duo. Interempto enim uno, duo quoque pereunt.
Unde enim est unius in duobus geminatio, si unus intereat? Constituto vero
atque posito ut sit unus, nondum duo sunt. Nondum est enim facta unius
geminatio. Ergo dicuntur illa priora esse quaecumque alia simul quidem illata
non inferunt sed perimunt interempta. Scibile ergo et scientiam non esse simul
illa res probat, quod si quis rem scibilem tollat, scientiam quoque sustulerit.
Nulla potest enim scientia permanere, si res quae sciri possit intereat. At si
scibile esse constituas, non omnino scientia consequitur. Infantibus enim ea
nobis quae nunc novimus erant, et in suae naturae substantia permanebant sed
eorum apud nos scientia non erat. Multae quoque sunt artes quas esse quidem in
suae naturae ratione perspicimus, quarum neglectus scientiam sustulit. Multumque
ego ipse iam metuo ne hoc verissime de omnibus studiis liberalibus dicatur.
Quocirca si et scientiam sublatum scibile perimit, et illatum scibile scientiam
non infert, neque constituit, prius est id quod sciri potest quam illud quod
comprehendere videlicet atque complecti notitia. Ipse autem ad hanc rem
obscurissimum commodavit exemplum. Solet enim in geometria huiusmodi esse
propositio. Iubemur enim proposito quattuor laterum spatio, aequale triangulum
constituere, et facimus hoc modo. Sit quattuor laterum spatium a b, oportet
ergo a b spatio aequale triangulum constituere, et ut sit duplum a b spatio c d
e f spalium. Ducatur angularis c t, dico quoniam c d f triangulum aequale est a
b spatio, quoniam c d e f spatium duplum est a b spatio: ab igitur c d e f
spatii medietas est, angularis enim f c totum c d e f spatium medium dividit.
Quae autem eiusdem sunt media, sibi aequalia sunt, c d t igitur et c e f
triangulum a b spatio aequale est. Proposito igitur spatio a b, aequum
triangulum constitutum est c d f, quod oportebat facere. Eodem quoque modo
quaesitum est si sit propositum circulo aequum fieri quadratum. Quadratum ergo
est quod aequalibus lateribus omnes quattuor angulos aequos habet, id est
rectos, et Aristotelis quidem temporibus non fuicse inventum videtur. Post vero
repertum est, cuius quoniam longa demonstratio est, praetermittenda est. Atque
hoc est quod ait: VELUT CIRCULI QUADRATURA: nam sicut manente quadrato, linea
per obliquum ducta triangula figura producitur; ita circulo non mutato circumpositis
angulis, qui et ipsius circuli laleribus; aequaliter diriguntur, quadrati forma
consurgit, quod (ut potuimus) coniectura depinximus. Cum enim alicui circulo
aequum quadratum constituitur, in quadraturam circuli illius mensura redigitur.
Nunc ergo hoc est quod dicit: UT CIRCULI QUADRATURA, id est aequi quadrati ad
circulum constitutio si fieri potest, et si res est quae sciri possit, scientia
quidem eius nondum inventa est. Nondum enim quisquam sub Aristotele equum
quadratum circulo constituerat. Quod si est aliqua eius scientia quae nondum
reperta est, certe prius est quod sciri possit, post vero scientia. Nam cum
posset Aristotele vivo sciri circuli quadratura, nulla tamen adhuc eius
scientia reperta est, atque ideo prius erat quod sciri posset, quam ipsius rei
ulla notitia. AMPLIUS ANIMALI QUIDEM SUBLATO NON EST SCIENTIA, SCIBILIUM VERO
PLURIMA ESSE CONTINGIT. Addit aliud validius argumentum, prius esse scibile
scientia. Illud enim notum est si per desidiam disciplina depereat, interire quidem
scientiam sed scibile permanere. Scibile autem dico quod sciri possit. Quod si
omnino animal non sit, cum quis scire possit omnino non fuerit, scientia quidem
ipsa funditus interibit: nihil tamen probibet esse ea quae permanente animali
possit inquirentis animus scientim ratione complecti. SIMILITER AUTEM HIS SESE
HABENT ET QUAE IN SENSU SUNT; SENSIBILE ENIM PRIUS SENSU ESSE VIDETUR; SUBLATUM
ENIM SENSIBILE SIMUL AUFERT SENSUM, SENSUS VERO SENSIBILE NON SIMUL AUFERT.
SENSUS ENIM CIRCA CORPUS ET IN CORPORE SUNT; SENSIBILI ERGO SUBLATO AUFERTUR
CORPUS (SENSIBILIUM ENIM ET CORPUS EST), CUM AUTEM CORPUS NON SIT SUBLATUS EST
SENSUS; QUARE SIMUL AUFERT SENSIBILE SENSUM. SENSUS VERO SENSIBILE NON; SUBLATO
ENIM ANIMALI SUBLATUS EST SENSUS, SENSIBILE AUTEM PERMANET, UT CORPUS, CALIDUM,
DULCE, AMARUM, ET ALIA OMNIA QUAECUMQUE SUNT SENSIBILIA. Id namque proponit
sensibus inveniri. Dicit enim sensu prius esse sensibile, quod communi priorum
definitione probabile esse constituit. Dictum est namque illa esse priora quae
simul quidem interempta perimerent, non autem simul aliis inferemptis ipsa deperire,
ut orbem solis prius dicimus proprio lumine, Sublato enim orbe, lumen illud
quod ab eo est penitus non manebit; subluto lumine solis, orbis manebit. Ita
quoque nunc in sensibilibus, atque in ipso sensu esse proposuit, sublato quod
sentiri possit, sensus omnino sublatus est. Neque enim esse poterit sensus, cum
quod possit sentire non invenit. Quod si sensus omnino depereat, sensibile
permanebit; et hoc evidentibus firmat exemplis. Nam cum ea quae sunt in rebus,
vel incorporea sint, vel certe corporea, et quidquid ad corporis materiam
referri potest, hoc sensuum varietati subiaceat, quidquid ad incorporalia intellectus
ratione et speculatione teneatur. Cum sit sensus omnis in corpore, si corpus
intereat, cum omnino corpus non sit, quoniam quae sunt incorporea sentiri non
possunt, et quae sentiri poterant interempta sunt, omnino sensus euertitur. Sed
si sensus auferatur, sensibilia permanebunt: et quoniam sensus animalium
effectivus est, aequa est utrorumque perditio; sive enim sustuleris animal,
sensus peribit, sive sensus euertantur, animalia quoque sublata sunt. Sed
euersis atque interemptis animalibus cum propriis sensibus, permanent corpora
quae anima non utuntur, quod si sublatis animalibus sensibusque deperditis,
corpora inanimata subsistunt, cum corpora sint quae sentiri possunt, animalia
quae sentire valeant si interempta sint, manente sensibili sensus euersus est.
Non igitur sicut sensibilis interemptio sensus interimit, sic sensuum
perditionem exstinctio sensibilium comitatur. Id vero etiam hoc probabitur
argumento, ante enim quam actu ipso aliquid sentiamus, sensus non est. Nam
priusquam dulce aliquid degustemus, gustatio ipsa dulcedinis non est; quod
autem gustari possit, id est, mel, vel quodlibet aliud propriae naturae ratione
consistit. Quocirca prius esse quod sentiri possit, post vero sensus Aristotele
auctore firmatur. AMPLIUS SENSUS QUIDEM SIMUL CUM SENSATO FIT (SIMUL ENIM
ANIMAL FIT ET SENSUS), SENSIBILE VERO ANTE EST QUAM ESSET SENSUS (IGNIS ENIM ET
AQUA ET ALIA HUIUSMODI, EX QUIBUS IPSUM ANIMAL CONSTAT, ANTE SUNT QUAM ANIMAL
SIT OMNINO VEL SENSUS); QUARE PRIUS QUAM SENSUS SENSIBILE ESSE VIDEBITUR. In
compositis rebus atque ex aliis iunctis priores sunt hae res quae componunt
aliquid ipsa substantia quam componunt. Namque cum corpus animalis sit ex igne,
aere, aqua et terra, priora haec esse necesse est quam ipsum sit animal quod
illa elementa coniungunt. Hoc quoque etiam in aliis patet, nam cum sit liber ex
versibus, prior est versuum natura quam libri. Cumque versus constet verbis
atque nominibus, et caeteris quas grammatici partes orationis vocant, haec ex
quibus ipse versus constat versu ipso priora esse necesse est. Quocirca sensus
quoque ipsis, iam compositis animalibus supervenit. Nam cum animal constet ex
quattuor elementis, et cum sensus semper naturam animalium comitetur, cum ipsis
animalibus sensus fieri et nasci necesse est. Quodsi cum animalibus, id est
compositis rebus, sensus nascitur, sicut animali propria sunt ea ex quibus
ipsum animal constat, sic quoque sensu qui cum animali nascitur, illa priora
sunt, ex quibus animalis natura coniungitur. Coniungitur autem animal atque
componitur ex quattuor elementis. Quattuor igitur elementa sensu priora sunt
sed quattuor elementa corpora sunt, corpus vero omne sensibile est. Prius
igitur sensibile quam sensus est. Sensus enim cum re composita nascitur, illa
vero quae componunt et sensibilia sunt, et priora ipso composito. Universaliter
enim si quae duae res sint simul, cum quaelibet res una earum prior sit, et
altera prior erit, ut animal atque sensus, cum utraque simul sunt, simulque
nascuntur, cum quattuor elementa quae sunt sensibilia priora sint quam animal,
sensu quoque esse priora necesse est, quocirca conclusit dicens: QUARE PRIUS
QUAM SENSUS SENSIBILE ESSE VIDETUR. Sed quidam, quorum Porphyrius quoque unus
est, astruunt in omnibus verum esse relativis, ut simul natura sint, veluti
ipsum quoque sensum et scientiam non praecedere scibile atque sensibile sed
simul esse, quam quoniam brevis est oratio, non grauabor opponere. Ait enim: Si
cuiuslibet scientia non sit, ipsum quod per se poterit permanere scibile esse
non poterit, ut si formarum scientia pereat, ipsae fortasse formae permaneant,
atque in priore natura consistant, scibiles vero non sint. Cum enim scientia
quae illud comprehendere possit, non sit, ipsa quoque sciri non potest res.
Namque omnis res scientia scitur, quae si non sit sciri non possit. Porro autem
res quae sciri non potest scibilis non est. Hoc idem de sensu gustantis si
gustus enim pereat, mel forsitan permanebit, gustabile autem non erit. Ita
quoque omnino si sensus pereat, res quidem quae sentiri poterant sint,
sensibiles vero non sint sensu pereunte. Et fortasse neque scientia neque sensus
secundum sentientes speculandus est sed secundum ipsam naturam quae sensu
valeat comprehendi. Namque res quaecumque per naturam sensibilis est, eam
quoque in natura sua, proprium sensum quo sentiri possit, habere necesse est.
Et quodcumque sciri potest per naturam, nunquam possit addisci, nisi quaedam
eius in natura scientia versaretur. Haec Porphyrius. Sed nos ad Aristotelis
ordinem textumque veniamus. Namque ille adiecit quoque alias quaestiones. HABET
AUTEM DUBITATIONEM AN ULLA SUBSTANTIA AD ALIQUID DICATUR, QUEMADMODUM VIDETUR,
AN HOC QUIDEM CONTINGIT SECUNDUM QUASDAM SECUNDARUM SUBSTANTIARUM. NAM IN
PRIMIS QUIDEM SUBSTANTIIS VERUM EST; NAM NEQUE TOTAE NEQUE PARTES AD ALIQUID
DICUNTUR; NAM ALIQUIS HOMO NON DICITUR ALICUIUS ALIQUIS HOMO, NEQUE ALIQUIS BOS
ALICUIUS ALIQUIS BOS. SIMILITER AUTEM ET PARTES; QUAEDAM ENIM MANUS NON DICITUR
ALICUIUS QUAEDAM MANUS SED ALICUIUS 234A MANUS, ET QUODDAM CAPUT NON DICITUR
ALICUIUS QUODDAM CAPUT SED ALICUIUS CAPUT. SIMILITER AUTEM ET IN SECUNDIS
SUBSTANTIIS, ATQUE HOC QUIDEM IN PLURIBUS; UT HOMO NON DICITUR ALICUIUS HOMO,
NEC BOS ALICUIUS BOS, NEC LIGNUM ALICUIUS LIGNUM SED ALICUIUS POSSESSIO
DICITUR. ATQUE IN HUIUSMODI QUIDEM MANIFESTUM EST QUONIAM NON EST AD ALIQUID;
IN ALIQUIBUS VERO SECUNDIS SUBSTANTIIS HABET ALIQUAM DUBITATIONEM; UT CAPUT
ALICUIUS CAPUT DICITUR ET MANUS ALICUIUS MANUS DICITUR ET SINGULA HUIUSMODI;
QUARE HAEC ESSE FORTASSE AD ALIQUID VIDEBUNTUR. Contra ea quae superius
disputata sunt huiusmodi nodum quaestionis opposuit, quoniam enim prima
definitio relativorum fuerat, illa esse relativa quaecumque hoc ipsum quod
essent aliorum dicerentur, secundum hanc definitionem possunt quaedam
substantiae videri esse relativae: quod si sit, substantiae in definitionem
accidentium transeunt. Nam cum sint accidentia relativa, si quas substantias
relativas esse concedimus, in accidentium numero ponendas esse censebimus sed
hoc contrarium est. Si enim substantia in subiecto non est, accidens autem in
subiecto est, qui fieri potest ut idem et in subiecto sit et in subiecto non
sit? Utrum autem possit quaedam substantia accidentium suscipere rationem, hoc
modo quaerendum est. Primae namque substantiae ipsae quidem ad aliquid non
dicuntur, neque partes primarum substantiarum quas ipsas quoque in primis
substantiis numeramus. Socrates enim non dicitur alicuius aliquis Socrates, nec
homo alicuius aliquis homo, nec bos alicuius aliquis bos, neque partes primarum
substantiarum quae ipsae quoque sunt primae substantiae. Caput enim non dicitur
alicuius aliquod caput sed tantum alicuius caput, et manus non dicitur alicuius
aliqua manus sed tantum alicuius manus. Quare neque primae substantiae, neque
primarum substantiarum partes ad relationem dici poterunt. Quod si secundas
quoque substantias speculemur, nec ipsae quoque ad aliquid dicentur. Neque enim
dicitur animal alicuius esse animal, aut homo alicuius esse homo. Quod si quis
dicat posse esse animal alicuius, ut equum meum, vel quodlibet aliud, non in eo
quod animal est sed in eo quod est possessio dicitur alicuius, et sic non
dicitur animal alicuius animal sed animalis possessio, alicuius possessio. Ergo
neque primae substantiae, neque partes primarum substantiarum, neque secundae
substantiae ad aliquid dicuntur. Partes autem secundarum substantiarum ad
aliquid hoc ipsum quod sunt dicuntur. Caput enim alicuius caput dicitur, si
quidem capitati caput dicemus, et manus alicuius manus. Si quidem ex manu nomen
fingere volumus, ad quod manus referri possit, sicut caput ad capitatum, et in
aliis quidem rebus eodem modo. Sed si partes secundarum substantiarum
accidentes sint, et ipsae secundae substantiae accidentes erunt, aut si hoc non
placet, constabunt secundae substantiae ex partibus accidentibus, quod fieri
nequit. Quid igitur dicendum est? aut enim definitio relativorum reprehendenda
est, aut aliter soluenda dubietas. Sed posita atque constituta
priori'definitione, quae dicit illa esse relativa quae id quod sunt aliorum
dicuntur, hic quaestionis nodus solvi non poterit, quod ipse Aristoteles hac
adiunctione testatur. SI IGITUR SUFFICIENTER EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID
DEFINITIO ASSIGNATA EST, AUT NIMIS DIFFICILE AUT IMPOSSIBILE EST SOLVERE
QUONIAM NULLA SUBSTANTIA EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DICITUR; SI AUTEM NON
SUFFICIENTER SED SUNT AD ALIQUID QUIBUS HOC IPSUM ESSE EST AD ALIQUID QUODAM
MODO HABERE, FORTASSE ALIQUID CONTRA ISTA DICETUR. PRIOR VERO DEFINITIO
SEQUITUR QUIDEM OMNIA RELATIVA, NON TAMEN HOC EIS EST QUOD SINT AD ALIQUID QUOD
EA IPSA QUAE SUNT ALIORUM DICUNTUR. Proposita ergo atque firmata priore
relativorum definitione difficile defendi poterit, aut fortasse nunquam, quasdam
substantias non esse relativas. Nam si ad aliquid illa sunt, quaecumque id quod
sunt aliorum dicuntur, ut id quod est caput capitati dicitur caput, habebit
igitur substantia quae est caput ad aliquid relationem, et ita erit substantia
relativa atque accidens, quod est impossibile. Quare quoniam proposita atque
constituta priore definitione haec incommoditas in dispositione consequitur, ut
constet ratio non integrae definitionis, assignatio permPombaur. Ait enim non
esse integram definitionem quae supra sit reddita, nec magis illa esse ad
aliquid, quae id quod sunt aliorum dicuntur, potiusquam ea quibus ipsum esse
est ad aliquid quodammodo se habere. Sed fortasse videatur quibusdam inconsulte
legentibus et minime considerantibus, id quod definiri oportuerat, hoc in
definitione esse sumptum, quod est vitiosissimum. Si enim idcirco definitio
sumitur, ut res de qua quaeritur assignetur, quae magis est apertior definitio,
si re ipsa quam definit in assignatione definitionis utatur? Definitio namque
idcirco redditur, ut res de cuius quidem esse dubitatur, definitione patefiat.
Quod si rem ipsamquam definit, in definitione protulerit, nihilo planior
definitio sit, ut si quis hominem definire volens dicat, hoc ipsum esse hominem
quod hominem. Ita quoque non considerantibus, Aristoteles relativorum
definitionem reddidisse videbitur. Ait enim esse ad aliquid, quibus hoc ipsum
esse est ad aliquid quodammodo se habere, ac si diceret: Ea sunt ad aliquid,
quae se ad aliquid quodammodo habent. Sed minutius atque scutius
considerantibus, vis integra definitionis prompte atque veraciter apparebit;
non enim in eo quod est dici, ad aliquid consideramus sed in eo quod est esse;
ea namque sunt relativa, quae in quadam comparatione et relationis habitudine
consideramus, ut quaternarius numerus, et hoc ipsum quod est esse dicitur, id
est quattuor, et aliud quoddam, id est duplum, ut si ad binarium conferatur.
Sed quod de quaternario numero dicimus, quaternarium hoc ad ipsius quaternarii
numeri naturam refertur. Quod vero duplum, non est hoc quaternarii sed duorum
ad quod duplum dicitur, et ad quod propria relatione duplum est. Binarius
quoque numerus et binarius est, et medietas, binarius quidem secundum suam naturam,
medietas vero secundum quaternarius relationem. Quocirca in comparatione quadam
atque in habitudine ea quae sunt ad aliquid speculamur; quaternarius enim in eo
quod quaternarius est ad aliquid non dicitur, in eo vero quod est duplus,
duorum relativus est, scilicet ad binarium comparatus. Binarius quoque in eo
quod sunt duo, ad aliquid non refertur sed in eo quod est medietas, scilicet ad
quaternarium comparatus. Ergo, ut sit duplus quaternarius, non duobus sed
medietate eget, ut si medietas biniarius, non quaternario sed duplo opus est.
Videsne ut habitudine quadam et comparatione res aliud in natura retinentes,
aliud tamen ad se invicem sint? et hoc non ex propria sed ex invicem natura
mutuentur, nam quod est duplus numerus ex medio trahit, quod est medietas ex duplo,
atque hoc iis quae sunt ad aliquid extra evenit, et ideo nihil patientibus
neque permutatis ipsis quae ad aliquid referuntur, ipsa ad aliquid fiunt, nihil
enim permutato de quaternario duplus ipse est, sit ad binarium referatur, et
nihil de binario permutato, medietas est binarius, si ad quaternarium dicitur.
Ergo relativorum hoc est esse, id est haec eorum natura atque substantia est,
ut id quod sunt ad aliquid referantur, id est non solum referri dicantur sed
etiam referuntur. Atque hoc est quod ait sed sunt ad aliquid quibus hoc ipsum
esse est ad aliquid quodammodo se babere, ac si diceret quorum substantia est
ad aliquid aliud referri, et qua ita sunt ut ipsa id quod sunt ad aliud
referantur, et esse eorum sit ad aliquid aliud referri, sed non omnia quae
dicuntur ad aliud, et esse de alio mutuantur. Illa namque definitio prior,
maius est, definitionem namque relativorum supergressa est, includit enim ea
quoque quae relativa non sunt, et quemadmodum hominem cum dico, mortalem eum
esse necesse est, cum dico mortalem, non necesse est esse hominem, ita quoque
ea quae hoc ipsum quod sunt ex altero trahunt, et esse habent ad alterius
relationem, et esse suum ad alterius referunt nuncupationem. Quae vero ad aliud
tantum dicuntur, non necesse est, ut esse suum ad aliquid habeant relatum, quo
posteriorem definitionem suscipiant, et ista sententia breviter includatur, ut
quaecumque hanc definitionem susceperint, ut hoc ipsum esse sit ad aliquid
quodammodo se habere, habeant eam quoque definitionem, quae est relativa esse
quaecumque id quod sunt aliorum dicuntur, quae vero hanc habuerint definitionem
illam non necessario habeant, ut ea quae sunt ad aliquid, etiam ad aliquid
dicantur. Sed ea quae dicuntur ad aliquid, non omnino ad aliquid sint, quod si
ista definitio posterior recipiatur, quae dicit ea esse ad aliquid, quibus hoc
ipsum esse est ad aliquid quodammodo se habere, poterit superior solvi
dubitatio, quod dicamus id quod ipse posteriore disputatione secutus est. Quod
autem ait: Prior vero definitio sequitur quidem omnia relativa, non tamen hoc
eis est esse, quod sint ad aliquid, quod ea ipsa quae sunt aliorum dicuntur,
hoc est quod non idcirco aliquid relativum esse dicitur, quoniam alterius esse
237A dicitur. Sed tunc merito res aliqua relationis nomine continebitur,
quoties non solum ad aliquid dicitur sed hoc ipsum esse eius ad aliquid est
quodammodo se habere. Quare quid hanc definitionem proprium consequatur, ipse
addidit. EX HIS ERGO MANIFESTUM EST QUOD, SI QUIS ALIQUID EORUM QUAE SUNT AD
ALIQUID DEFINITE SCIET, ET ILLUD AD QUOD DICITUR DEFINITE SCITURUS EST. SI
MANIFESTUM QUIDEM ETIAM EX IPSO EST; NAM SI QUIS NOVIT QUONIAM HOC EORUM QUAE
SUNT AD ALIQUID EST, RELATIVIS AUTEM HOC EST ESSE, AD ALIQUID QUODAMMODO
HABERE, ET ILLUD NOVIT AD QUOD HOC ALIQUO MODO HABET. Proprium relativis
secundum eam quae superius dicta est definitionem hoc esse confirmat, quod si
quis id quod est ad aliquid definite scit, quoniam 237B relativam est, et illud
ad quod referri potest, definite sciturus est quid sit, nam relativa easunt
quibus hoc est esse ad aliquid quodammodo se habere, quoniam ut sit
quaternarius duplum a binario trahit. Si quis novit esse quaternarium numerum
duplum, et binarium necessario sciturus est esse dimidium, ad quem quaternarius
duplus est fieri; enim nullo modo potest, ut cum quis noverit aliquam rem esse
relativam definite, non illud quoque sciat ad quod illa res dicitur definite;
huius autem rei una probatio est quae ex definitione venit. Definita enim sunt
illa esse ad aliquid, quorum ea esset substantia, ut quodammodo se ad aliquid
haberent, quod si scio quaternarium numerum esse duplum, eo quod ad binarium
quodammodo coniungatur, nullus quaternarium duplum 237C esse poterit scire,
nisi qui sciet medietatem esse binarium, et hoc quidem in omnibus consideretur.
Nam si nesciat quis ad quid aliquid referatur eorum quae relativa sunt, illud
quoque ignorabit, utrum ommino ad aliquid referatur, quod his verbis
Aristoteles dicit: NAM SI OMNINO NESCIT AD QUOD ALIQUO MODO HABET, NEC SI AD
ALIQUID QUODAMMODO HABET SCITURUS EST. ET IN PARTICULARIBUS HOC MANIFESTUM EST;
UT, SI HOC AD ALIQUID SCIT DEFINITE QUONIAM DUPLUM EST, ET CUIUS DUPLUM EST
DEFINITE NOVIT (NAM SI NULLIUS DEFINITE NOVIT ILLUD ESSE DUPLUM, NEC SI OMNINO
DUPLUM EST NOVIT); SIMILITER AUTEM ET HOC AD ALIQUID SI NOVIT QUONIAM MELIUS
EST, ET QUO MELIUS ERIT DEFINITE EUM SCIRE NECESSE EST PROPTER HAEC IPSA QUAE
DICTA SUNT (NON AUTEM INFINITE QUONIAM HOC EST PEIORE MELIUS, OPINIO ENIM IAM
FIT HUIUSMODI, NON SCIENTIA; NEQUE ENIM SCIET INTEGRE QUONIAM EST PEIORE
MELIUS; NAM FORTASSE CONTINGIT NIHIL EO ESSE PEIUS); QUARE MANIFESTUM EST
QUONIAM NECESSE EST QUOD QUIS NOVERIT EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DEFINITE,
ETIAM ILLUD AD QUOD DICITUR SCITURUM ESSE DEFINITE.Huius quoque rei exempla
persequitur dicens: Si duplum ad aliquid esse novimus, scimus quoque id cuius
duplum est; quod si nescimus id cuius est duplum, duplum autem esse cuiuslibet
rei ex hoc est, quod ei sit medietas, ipsam quoque rem quae dupla sit, utrum
dupla sit scire non possumus. Si igitur definite novimus quamlibet illam rem
esse duplam, etiam cuius dupla est definite nos scire necesse est. Ut si novit
quis Anchisem patrem definite esse Aeneae, et Aeneam definite filium esse
agnoscet, vel si indefinite novit quoniam pater est, indefinite etiam sciturus
est quoniam filii pater est. Et rursus si Aeneam quis indefinite novit quoniam
filius est, sciturus quoque est indefinite quoniam patris est filius.
Manifestum est ergo quoniam ea quae sunt ad aliquid, si definite ad aliquid
esse sciantur, etiam illud definite sciendum est ad quod illa referuntur. Quod
in substantiis non eodem modo esse Aristotele probamus auctore, qui huius quaestionis
serierm ita concludit. CAPUT VERO ET MANUM ET EORUM SINGULA QUAE SUBSTANTIAE
SUNT, HOC IPSUM QUIDEM QUOD SUNT POTEST SCIRI DEFINITE, AD QUOD AUTEM DICANTUR
NON NECESSE EST; CUIUS ENIM HOC CAPUT VEL CUIUS HAEC MANUS NON EST 238B DICERE
DEFINITE; QUARE HAEC NON ERUNT EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID; QUOD SI NON SUNT
EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID, VERUM ERIT NULLAM ESSE SUBSTANTIAM RELATIVAM In
capite, inquit, et in manu, et in aliis substantiis non est verum, quoniam si
quis aliquid horum alicuius esse novit, et ad aliquid aliud referri, idcirco et
ad quam referatur definite scituras est. Si quis enim operto capite atque
omnibus membris manum foras exerat, manifestum est quoniam manus illa alicuius
manus est, cuius autem manus sit, dici definite non potest. Similiter quoque
opertis oculis, facieque velata si cuiuslibet caput aspicias, illud quidem
caput alicuius esse non dubitas, cuius autem sit definite non proferes. Quare
quoniam haec huiusmodi sunt, ut si quis ea definite sciat esse alicuius, cuius
sint, definite scire non poterit, a relativorum definitione, quorum si una res
quaelibet definite sciatur esse ad aliquid, illa quoque res ad quam dicitur,
definite scitur, substantiae segregantur. Subiiciendum tamen est illud quoque,
quod omnino verum est, in definitionibus rem ipsam quae diflinitur sumi non
oportere. Multa enim sunt quae aliter proferuntur et definiuntur, et aliter
accipiuntur, ut si quis dicat album esse colorem nigro contrarium, potest hoc
et in corpore accipi, namque et color album dicitur, et corpus quod albo
participat, album nominatur. Quocirca ne quis pPomba tale album esse definitum,
quod ad participationem albi et corporis referatur, ita dicendum est: Album est
quod cum in aliquibus est, tum color nigro contrarium. Atque ita rem ipsam in
sua definitione sumimus, quod scilicet Aristoteles, id est rem ipsam qua
definitur in definitione sumi non oportere, inter verisimilia topicorum posuit
argumenta. Nunc autem post relativorum disputationem, ad maiorem nos de his
rebus tractatum studiosus doctor hortatur, dicene: FORTASSE AUTEM DIFFICILE SIT
DE HUIUSMODI REBUS CONFIDENTER DECLARARE NISI SAEPIUS PERTRACTATA SINT;
DUBITARE AUTEM DE SINGULIS NON ERIT INUTILE. Quod scilicet nunquam diceret,
nisi nos ad maiorem acuminis exercitationem considerationemque reuocaret. Quod
quoniam eius est adhortatio, nos quoque in aliis de his rebus dubitationes
solutionesque ponere minime grauabimur. Consueta in principio quaestio est cur
post relationis predicamentum disputationem qualitatis aggressus est, quod
nimis curiosum est. Mirabile enim fuerat cur post quantitatis ordinem non
statim de qualilate coepisset sed quoniam quantitati quaedam relationis
admiscuit, et disputationem de relatione continuavit, idcirco non est mirabile
post expeditam relationis interpositionem ad qualitatis eum ordi nem
reuertisse, quamquam etiam ex hoc quoque recta sit series. Nam post magnum
paruumque statim proportio et quaedam ad aliud comparatio consequitur, ut sit
aut maius aut minus, aut aequale vel inaequale, quae sunt ad aliquid. Post haec
autem innasci quasque necesse est passiones, quae a qualitatis natura non
discrepant, ut album, vel nigrum, vel calidum vel frigidum, vel quaecumque his
sunt consimilia, quae praedicatio qualitatis includit. Est vero titulus huius
propositi de quali et de qualitate. Quaeritur enim cur ei non aut de quali
dixisse, aut de qualitate suffecerit, quod hoc modo solvitur. Dicimus enim
quale non uno modo, qualitatem vero simpliciter. Quale enim dicimus et ipsam
qualitatem, et illam rem quae qualitate illa participat, ut albedo quidem
qualitas est, qui vero participat albedinem albus dicitur. Sed et albedinem
ipsam communiter quale dicimus, id est ipsam proprie qualitatem, et album
dicimus quale, illud scilicet quod superius comprehensa qualitate participat.
Ita ergo et ipsam qualitatem et rem quae qualitate participat, qualia
communiter appellamus, qualitas vero simpliciter dicitur. Res enim ipsa quae
participari potest, sola qualitas nominatur. Res vero quae participat,
qualitatis vocabulo non tenetur, ut, albedo qualitas quidem est, albus vero
qualitas non est. Differunt ergo hoc quod dicimus quale et qualitas, quod illud
dupliciter, illa simpliciter appellatur. Quocirca quamquam quidam negent hunc
titulum Aristotelis esse, idemque confirment posteriores adiectione signatum,
nos tamen dicimus proprer quamdam nominum similitudinem demonstrandam utrumque
posuisse, ut nihil distare videatur utrum quale an qualitas, id quod appositum
est praedicamentum dicatur; quale enim ipsam aliquoties rem (ut diximus)
qualitatemque significat. Sit ergo ex rebus sumpta definitio qualitatis. Quod
vero inquam definitionem, quodque superius in aliis quoque praedicamentis,
eodem sumus usi vocabulo, nullus arbitretur generalem me definitionem voluisse
signare sed definitionis nomen in rem descriptionis accipiat. In his enim qua
generalissima genera sunt, definitio quaeri non debet sed descriptio quaedam
naturae, non enim potest inveniri definitio eius rei quae genus ipsa sit, et
quae genus nullum habeat. Quocirca his propositis, atque antea constitutis,
incipiendum est de qualitate. QUALITATEM VERO DICO SECUNDUM QUAM QUALES QUIDAM
DICIMUR. Hic quaeritur cur omnium in disceptatione doctissimus tam culpabili
qualitatem termino definitionis incluserit. Volentibus enim nobis quid sit
qualitas scire, illa respondet: qualitas est secundum quam quales quidam
dicuntur. Nihil enim minus erit obscurius atque ignorabilius quod ait: SECUNDUM
QUAM QUALES DICUNTUR, quam si de ipsa sola qualitate dixisset. Nam si illi sunt
quales, qui qualitatem habent, ut sciantur quales, prius qualitas cognoscenda
est. Amplius quoque nihil differt dixisse eam qualitatem secundum quam quales
quidem dicuntur, tanquam si diceret eam esse qualitatem quae qualitas sit. Nam
sic qualitatem definire volens ait: secundum quam quales quidam sunt. Rursus si
quis quales aliquos definire voluerit, eodem modo dicere poterit, qui in se
retinent aliquam qualitatem. Quod si qualitas quidem quid sit per quale, quid
autem sit quale, superiore qualitate monstratur, nihil intererit dicere
qualitatem esse, qualitatem, quam qualitatem esse, secundum quam quales
dicuntur. Sed si ordinata definitio generalis et in hoc generalissimo genere
poni potuisset, recte culpabilis determinatio videretur. Nunc autem frustra
contenditur, cum iam (ut saepe dictum est) descriptionis potius loco hunc
terminum quam alicuius definitionis addiderit. Quocirca si designatio tantum
quaedam, et quodammodo adumbratio rei eius de qua quaeritur, et non definitio est,
absurda calumnia est, rebus notioribus res ignotiores probantem non ante
perspecta descriptionis ratione culpare. Illud autem quis dubitet notiores esse
eos qui quales sunt, illa ipsa ex qua quales dicuntur qualitate, ut quilibet
albus notior est ipsa albedine? Nam si albedo qualitas est, albus vero ab
albedine, id est a qualitate, denominatus est, albus erit qualis nominatus ab
albedine qualitate. Quod si, ut dictum est, notior albus est albedine, qualis
notior erit qualitate, sicut grammaticus quoque notior est grammatica.
Grammaticus quoque qualis est denominatus, scilicet a grammatica qualitate.
Omnia enim quae sensibus subiecta sunt notiora sunt nobis quam ea quae sensibus
non tenentur. Quare nihil impedit describentem et quodammodo naturam rei eius
de qua quaeritur designantem, res ignotiores notioribus approbare. EST AUTEM
QUALITAS EORUM QUAE MULTIPLICITER DICUNTUR. ET UNA QUIDEM SPECIES QUALITATIS
HABITUS AFFECTIOQUE DICANTUR. DIFFERT AUTEM HABITUS AFFECTIONE QUOD
PERMANENTIOR ET DIUTURNIOR EST; TALES VERO SUNT SCIENTIAE VEL VIRTUTES;
SCIENTIA ENIM VIDETUR ESSE PERMANENTIUM ET EORUM QUAE DIFFICILE MOVEANTUR, SI
QUIS VEL MEDIOCRITER SCIENTIAM SUMAT, NISI FORTE GRANDIS PERMUTATIO FACTA SIT
VEL AB AEGRITUDINE VEL AB ALIQUO HUIUSMODI; SIMILITER AUTEM ET VIRTUS, ET
IUSTITIA VEL CASTITAS ET SINGULA TALIUM NON VIDENTUR FACILE POSSE MOVERI NEQUE
FACILE PERMUTARI. AFFECTIONES VERO DICUNTUR QUAE SUNT FACILE MOBILES ET CITO
PERMUTABILES, UT CALOR ET INFRICTIO ET AEGRITUDO ET SANITAS ET ALIA HUIUSMODI;
AFFECTUS EST ENIM QUODAMMODO CIRCA EAS HOMO, CITO AUTEM PERMUTATUR UT EX CALIDO
FRIGIDUS FIAT ET EX SANITATE IN AEGRITUDINEM; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS, NISI
FORTE IN HIS QUOQUE CONTINGIT PER TEMPORIS LONGITUDINEM IN NATURAM CUIUSQUE
TRANSLATA ET INSANABILIS VEL DIFFICILE MOBILIS, QUAM IAM QUILIBET HABITUDINEM
VOCET. Proponit qualitatem multipliciter dici, quae res traxit aliquos in
errorem, ut eis suspicio nasceretur Aristotelem credere qualitatem aequivoce
nominari. Nam si omnis aequivocatio multipliciter dicitur, qualitas autem
secundum Aristotelem ipsa quoque multipliciter appellatur, secundum Aristotelem
nomen qualitatis aequivocum est. Nos vero defendimus multipliciter dici, esse
non una tantum significatione nominari. Dicitur enim aliquid multipliciter
dici, cum et aequivoce dicitur, et diverso modo de suis speciebus multipliciter
praedicatur. Et communis est multiplex appellatio, etiam in his nominibus quae
veluti genera de speciebus dicuntur, velut aequivoca de subiectis. Namque et
animal multipliciter dicitur. Nam si multae sint species quae animali subiectae
sunt, ipsum quoque multipliciter quodammo denominatur. Istam autem
multiplicationem, non ad aequivocationem retulisse Aristotelem sed potius ut
qualitatem genus esse proponeret, illa res monstrat, quod ait, et una quidem
species qualitatis habitus affectioque dicitur. Nam qui speciem dicit esse
qualitatis habitum et affectionem, quis eum dubitet ipsam qualitatem vim
obtinere generis arbitrari? Cur vero dicit unam speciem esse qualitatis, cum
geminas proposuerit, habitudinem scilicet et affectionem, quaeritur. Nam si
unum idemque sit habitus et aflectio, superflua est eiusdem rei repetita
propositio, sin vero differact, quare differant investigandum est. Genere enim
ne distent, illa res praevenit, quod utraque sub qualitate constituit. Restat
ergo ut aut specie discrepent, aut numero; sed si specie discreparent, non ab
Aristotele pro una specie ponerentur. Reliquum est igitur ea neque genere neque
specie differre sed numero. Habitus namque dispositio idem est secundum speciem
sed numero tantum et propria quadam qualitate dissentiunt. Dispositionem vero
indiscrete idem quod affectionem voco. Nam sicut Socrates a Platone nihil
quidem secundum ipsam humanitatis speciem discrepat, sola tamen propriae personae
qualitate disiuncti sunt, ita quoque dispositio atque habitus, nec potius hoc
modo distant; sed quemadmodum ipse Socrates dum esset paruulus, post vero
pubescens a seipso distabat, eodem quoque modo habitus et dispositio: namque
habitus firma est dispositio, affectio infirmus est habitus, ut quemadmodum
distat albus color ab albo colore, si in pictura hic quidem permaneat, ille
vero statim periturus sit, nisi quod is qui permanentior est, in habitu est,
ille vero qui facile periturus est, in affectione, ita nihil aliud interest
inter habitum atque dispositionem. Nam quamvis permanentior sit habitus, facile
vero mobilis dispositio, non nisi tantum dinturnitate differunt permanendi.
Unde fit ut genere et specie habitus a dispositione non discrepet. Quocirca
recte quae numero solo distabant, non specie sub unius speciei nuncupatione
utraque sunt ab Aristotele proposita sed est horum propria differentia, quod
habitus diutissime permanentes dispositiones sunt. Dispositio autem facile
mobilis habitus sed si borum exempla quaeramus, haec poterunt inveniri.
Habitudines sunt ut artes, disciplinae, virtutes. Nam ars non facile mobilis
videtur et diutissime permanet. Hoc enim ars ipsa meditatur ut usu atque
exercitatione non pereat. Quis enim est qui sciens recte grammaticam nulla vi
interveniente validioris passionis amisit? Fertur enim quidam summus orator
aegritudine febribusque decoctus, omnem litterarum amisisse doctrinam, in aliis
vero rebus sanus ac sibi constans et in omni re uegetus permansisse. Disciplina
quoque etiam ipsa est in permutatione difficilis. Quis enim sciens triangulum,
duobus directis angulis, tres interiores similes habere angulos, hanc scientiam
praeter vim (ut dictum est) fortioris passionis amisit? Virtutes quoque in
eodem genere ponendae sunt. Virtus enim nisi difficile mutabilis non est, neque
enim quod semel iuste iudical iustus est, neque qui semel adulterium facit, est
adulter sed cum ista voluntas cogitatioque permanserit. Aristoteles enim
virtutes non putat scientias, ut Socrates sed habitus in Ethicis suis esse
declarat. Quocirca constat esse habitus stabiliter permanentes, difficileque
mutabiles, hoc tantum excepto, ut non eas vis aliqua maior alicuius
permutationis impellat et destruat. Affectionis vero species sunt, ut
calefactio atque perfrictio, et aegritudo atque sanitas, cum ad eas quodammodo
sit homo dispositus atque affectus, non tamen immutabiliteraut caloris
qualitatem habeat aut frigoris, sicut nec perpetuo sanitatis aut perpetuo
aegritudinis. Quin etiam si qua sunt quae per longi temporis aegritudinem
corporibus immutabiliter indurantur, ut ea iam in naturam quodammodo corporis
cuiusque transierint, ut si quis percussus cicatricem faciat insanabilem, illi
ex dispositione et 242D affectione quidam factus est habitus. Quocirca recte
dictum est dispositiones inveteratas habitus facere. Nam cum quaelibet
dispositio permanens et difficilc mobilis facta sit, illa iam non dispositio
aut affectio sed habitus vocandus est. MANIFESTUM EST AUTEM QUONIAM HAEC VOLUNT
HABITUS NOMINARI, QUAE SUNT DIUTURNIORA ET DIFFICILE MOBILIA; NAMQUE IN
DISCIPLINIS NON MULTUM RETINENTES SED FACILE MOBILES DICUNT HABITUM NON HABERE,
QUAMVIS SINT AD DISCIPLINAM PEIUS MELIUSUE DISPOSITI. QUARE DIFFERT HABITUS
AFFECTIONE, QUOD HOC QUIDEM FACILE MOBILE EST, ILLUD VERO DIUTURNIUS ET
DIFFICILE MOBILE. Habitus esse qualitates difficile mobiles et diuturnissime
permanentes hoc argumento confirmat, quod eos quibus quaelibet scientia
traditur, si ab eis non fortiter addiscatur, eius rei quam discunt habitum
retinere non dicimus. Qui enim litteras discens nondum soluto cursu sermonis
sed syllabatim quodammodo atque intercise per imperitiam legerit, eum quidem
dispositum esse atque affectum dicimus ad scientiam litterarum, non tamen adhuc
illum habitum retinere. Quare idem quoque est in aliis rebus. Omnes enim
quicumque ad aliquam rem dispositi, eius rei qua sunt aliquo modo affecti, non
diuturnam in se receptionem habent, eos ad illam rem dispositos quidem esse
arbitramur, habitum vero habere non dicimus. Recte igitur habitus diuturnior,
et permanentior, dispositio vero facile mobilis deque perdurabilis ab
Aristotele proponitur. SUNT AUTEM HABITUS ETIAM AFFECTIONES, AFFECTIONES VERO
NON NECESSARIO HABITUS; QUI ENIM RETINENT HABITUM ET QUODAMMODO AFFECTI SUNT AD
EA VEL PEIUS VEL MELIUS; QUI AUTEM AFFECTI SUNT, NON OMNINO RETINENT HABITUM. Sensus
quidem talis est, quod omnis quicumque habeat habitum, habet quoque in eodem
habitu dispositionem. Si quis vero habeat dispositionem, non necesse sit eum
etiam habitum retinere. Habitus ab habendo dictus est. Idcirco quod ab aliquo
immutabiliter vel difficile immutabilitur habeatur, ut glauci oculi, vel
aduncae nares, vel alicuius artis scientia atque doctrina, quae si quis habeat,
etiam dispositus ad ea esse dicitur. Si quis autem dispositus ad aliquam rem
sit, non eum necesse est etiam habitum habere, ut si quis negligentius opertus
algore quatiatur, dispositus quidem tunc ad frigus est, non tamen eius retinet
habitum. Videtur autem eamdem similitudinem servare genus. Nam genus amplius
praedicatur, et ubicumque species sit, mox quoque nomen generis praesto est.
Ubi autem sit genus, non necessario speciei vocabulum consequitur, ut si quis
est homo, eum animal esse necesse est. Si quis est animal, non statim homo
dicitur. Quocirca cum quidquid est habitus, dispositio sit, quidquid dispositio
non omnino sit habitus, videtur genus esse quoddam habitus dispositio sed illud
verius, ubi intentio est atque remissio, genus intentionis, remissione esse non
posse. Num sicut in eo quod est album et magis album, magis albi genus album
esse non potest, idem namque est album et magis album, nisi forte quod sola
discrepant intentione, quod magis album quadam quasi intentione augmentoque
crescit atque porrigitur, sic etiam habitus atque dispositio cum idem sint,
utraque sola differunt intentione, quod auctior quodammodo, et incremento
quodam permanentior firmiorque est habitus dispositione; quocirca dispositio
habitus genus non est, eodem quoque modo nec dispositionis species, habitus.
Sed nunc quidam ita est habitus, ut non per dispositionem creuerit, neque per
aliquam nondum durabilem qualitatem ad perfectum venerit statum, ut est nasi
curuitas, vel caecitas oculorum, si subita facta sit. Haec enim ab ipso habitu
nulla praecedente dispositione coeperunt; forte enim nunquam ad ea dispositiis
fuit aliquis, qui adhuc non haberet. Alii vero habitus intentione fiunt atque
inveteratione dispositionis, ut ea quae in artibus doctrinisque versantur.
Prius enim quis ad ea dispositus est, post vero habitum capit, alia vero non
intentione sed quadam permutatione ad habitum veniunt, ut lac quod ex liquido
defigitur et constipatur in caseum, et vinum quod ex dulci atque suavi in
acidum gustum saporemque convertitur; neque enim plus tunc vinum est quam fuit
ante cum esset suave sed cum quadam permutatione in aliam qualitatem
habitudinemque transgressum est. Ac de prima quidem qualitatis specie
sufficienter est dictum. ALIUD VERO GENUS QUALITATIS EST SECUNDUM QUOD
PUGILLATORES U EL CURSORES VEL SALUBRES VEL INSALUBRES DICIMUS, 244B ET
SIMPLICITER QUAECUMQUE SECUNDUM POTENTIAM NATURALEM VEL IMPOTENTIAM DICUNTUR.
NON ENIM QUONIAM SUNT AFFECTI ALIQUO MODO, UNUMQUODQUE HUIUSMODI DICITUR SED
QUOD HABEANT POTENTIAM NATURALEM VEL FACERE QUID FACILE VEL NIHIL PATI; UT
PUGILLATORES VEL CURSORES DICUNTUR NON QUOD SINT AFFECTI SED QUOD HABEANT
POTENTIAM HOC FACILE FACIENDI, SALUBRES AUTEM DICUNTUR EO QUOD HABEANT
POTENTIAM NATURALEM UT NIHIL A QUIBUSLIBET ACCIDENTIBUS PATIANTUR, INSALUBRES
VERO QUOD HABEANT IMPOTENTIAM NIHIL PATIENDI. SIMILITER AUTEM ET DURUM ET MOLLE
SESE HABENT; DURUM ENIM DICITUR QUOD HABEAT POTENTIAM NON CITIUS SECARI, MOLLE
VERO QUOD EIUSDEM IPSIUS HABEAT IMPOTENTIAM. Secundam vero speciem qualitatis
esse commemorat, quae ex quadam naturali potentia impotentiaque proveniat; hoc
autem huiusmodi est, ut cum aliquos validi corporis intuemur nondum pugiles,
neque huius peritia artis imbutos sed sic eos pugillatores dicimus, non in eo
quod iam sint pugiles sed eo quod esse possint, et si quorum leue corpus
aspicimus, surasque non magnas, eos facile moveri cursuque veloces existimamus,
quamquam nondum ad cursus certamen aspirent, nec sint cursores, eos tamen
cursores secundum potentiam nominamus, non quod iam currant sed quod possint
currere, non absurde vocabimus. Eodem quoque modo eos vocamus salubres vel
insalubres, quos valenti corpore vel fragiliore, vel ad sanitatem aptos, vel ad
aegritudinem credimus. 244D Unde fit ut quosdam aegrotos possimus salubres
vocare, quosdam vero sanos insalubres dicere: non enim, quod iam actu vel sani
vel aegroti sint, salubres vel insalubres dicuntur sed quod vel sani diutius
esse possint vel aegroti. Sed quaestio est cur cum de qualitatis speciebus
propositum sit, secundum genus dixerit qualitatis et non speciem; ita enim ait:
Aliud vero genus qualitatis est secundum quod pugillalores vel cursores, vel
salubres et insalubres dicimus. Sed qui hoc quaerunt ignorare videntur illud
esse solum genus, quod super se aliud genus non habeat. Illud veros solum
speciem, quod sub se nullas species claudat, illa vero quae inter genera
generalissima speciesque specialissimas sunt, communi posse generis et speciei
nomine nuncupari. Quocirca quoniam de ea specie qualitatis Aristoteles tractat,
quae nondum sit species specialissima sed magis generis prima species, et
huiusmodi species quaa possit esse et genus, nihil absurdum est eamdem et speciei
et generis loco ponere. Sed ut sunt quaedam qualitates, a quibus denominatione
quadam facta quaelibet illa res dicitur, ut ab albedine album, vel a luxuria
luxuriosum, vel quidquid huiusmodi est, in his quae sunt secundum potentiam
naturalem non ita est. Ars enim ipsa pugillatoria non est proposita, a qua
pugillatores dicamus. Pugillatores enim non dicuntur ab eo quod usum
pugillatoriae artis exerceant sed ab eo quod ad eam secundum potentiam
naturalem affecti sunt; quocirca quos dicimus pugillatores a pugillatoria dicti
non sunt, neque ab ea denominari possunt sed magis a pugillatoria arte pugiles
appellantur. Pugilis enim est qui pugillatoria arte utitur, atque hoc idem in
caeteris licet videre. In his ergo nulla certa qualitas est a qua caetera
nominentur. Sed si qua tamen invenienda atque exprimenda sit, talis est quam
ipse Aristoteles hoc modo denuntiat, quae sit secundum potentiam aliquid
faciendi, vel impotentiam aliquid patiendi. Pugillatores enim et cursores
idcirco dicimus, quod habeant potentiam faciendi, id est currere atque esse
pugiles. Salubres vero denominamus, quod et ipsi habeant aliquam quodammodo im
potentiam aliquid patiendi; qui enim minus ab extrinsecus accidentibus patitur,
hic de sanitate securus est, et qui de sanitate securus est, illum salubrem
esse re vera possumus praedicare. Alia vero est qualitas quae secundum nihil
patiendi impotentiam dicitur, ut eos quos insalubres vocamus; hi enim
impotentiam habent nihil patiendi, idcirco quod habeant potentia mali quid cito
patiendi: quod si quis est qui ab extrinsecus accidentibus aliquid facile
patiatur, ille potens est facillime aegritudini subiacere, secundum quam
potentiam insalubres dicimus, etiamsi sint sani. Eodem quoque modo durum
dicitur et molle. Durum enim est quod habet potentiam non citius secari, quod
enim durum est, difficillime aliqua sectione dividitur. Molle autem quod
habeatimpotentiam difficilius secari, quod quoniam molle secatur facile,
secundum impotentiam difficilius secari molle dicimus. Et haec est secunda
species qualitatis. Nunc transeamus ad tertiam. TERTIUM VERO GENUS QUALITATIS
EST PASSIBILES QUALITATES ET PASSIONES. SUNT AUTEM HUIUSMODI UT DULCEDO VEL
AMARITUDO ET OMNIA HIS COGNATA, AMPLIUS CALOR ET FRIGUS ET ALBEDO ET NIGREDO.
ET QUONIAM HAE QUALITATES SUNT, MANIFESTUM EST; QUAECUMQUE ENIM ISTA
SUSCEPERINT QUALIA DICUNTUR SECUNDUM EA; UT MEL, QUONIAM DULCEDINEM SUSCEPIT,
DICITUR DULCE, ET CORPUS ALBUM QUOD ALBEDINEM SUSCEPERIT; SIMILITER AUTEM SESE
HABET ETIAM IN CAETERIS. Tertium genus qualitatis proponit, quod nos in partem
qualitatis speciemque convertimus passibiles qualitates et passiones. Haec
autem a se plurimum distant, tamen cum utraque qualitates sint, utraque prius
docet, post vero quae eorum distantia esse videatur edisserit, et prius eorum
convenientia proponit exempla. Nam quid sint passibiles qualitates docens ait.
ut dulcedo vel amaritudo, calor et frigus, nigredo et albedo, et alia his
cognata, haec quae superius comprehensa sunt qualitates esse illa ratione
confirmat, quam in primordio de qualitatis disputatione ipsius qualitatis esse
reddiderat. Definitionem enim qualitatis esse praedixerat, secundum quam quales
vocamur. Quod si secundum qualitatis quales vocamur, ab amaritudine vero vel a
dulcedine amarum vel dulce dicitur. A nigredine atque albedine nigrum atque
album, quis dubitet has esse qualitates in quibus qualitatis convenit
definitio? Illa enim semper eiusdem naturae esse creduntur, quaecumque eiusdem descriptionis
finibus terminantur, ut si qua res definitionem hanc, quae est animal rationale
mortale susceperit, eam hominem esse manifestum est. Quocirca si hae quas
passibiles qualitates vel passiones dixerat, suscipiunt qualitatis defnitionem,
eo quod qualia dicuntur quae illa susceperint, has etiam constat esse
qualitates. PASSIBILES VERO QUALITATES DICUNTUR NON QUO EA QUAE ILLAS
SUSCEPERINT QUALITATES ALIQUID PATIANTUR; NEQUE ENIM MEL, QUONIAM ALIQUID
PASSUM SIT, IDCIRCO DICITUR DULCE, NEC ALIUD ALIQUID HUIUSMODI; SIMILITER AUTEM
HIS ET CALOR ET FRIGUS PASSIBILES DICUNTUR NON QUO EA QUAE EAS SUSCIPIUNT
QUALITATES ALIQUID PATIANTUR SED QUONIAM SINGULUM EORUM QUAE DICTA SUNT
SECUNDUM SENSUS QUALITATUM PASSIONIS PERFECTIVA SUNT, PASSIBILES QUALITATES
DICUNTUR; DULCEDO ENIM PASSIONEM QUANDAM SECUNDUM GUSTUM EFFICIT, ET CALOR
SECUNDUM TACTUM; SIMILITER AUTEM ET ALIA. Passibilium qualitatum exempla
constituerat dulcedinem vel amaritudinem, frigus atque calorem, albedinem atque
nigredinem, quae cum passibiles qualitates sint, non tamen uno eodemque modo
passibiles qualitates dicuntur; sed longe distant rationes quibus haec omnia
qualitates passibiles appellantur, ut prius dulcedo vel amaritudo, calor et
frigus passibiles qualitates dicuntur, non quod ea quae sunt dulcia aliquid
extrinseous patiantur, vers quod ea quae sunt amara, ex aliqua passione saporem
asperum amaritudinemque susceperint. Neque enim mel aliquid passum est, ut ei
dulcedo esset in natura, nec vero absinthium ab ulla aliqua extrinsecus
passione amaritudinis horror infecit; quocirca haec atque his similia non
idcirco dicuntur esse passibiles qualitates, quod ipsae aliquid passae sint sed
quod ex his passiones quaedam in sensibus dimittantur. Namque ex melle quod
dulce est, dulcedo quaedam in gustu relinquitur, simulque etiam calor et frigus
passionem quamdam sensibus facinat. Patimur dulcedinem, cum aliquid dulce
gustamus, simulque secumlum caloris et frigoris qualitatem, talium sensuum
passionem subimus. Quocirca calor et frigus, amaritudo atque dulcedo, idcirco
passibiles qualitates dicuntur, quod secundum sensuum qualitatem, aliquam in nobis
efficiunt passionem, non quod ipsa extrinsecus aliquid patiantur. ALBEDO AUTEM
ET NIGREDO ET ALII COLORES NON SIMILITER HIS QUAE DICTA SUNT PASSIBILES
QUALITATES DICUNTUR SED HOC QUOD HAE IPSAE AB ALIQUIBUS PASSIONIBUS
INNASCUNTUR. Quoniam vero passibiles qualitates etiam colores esse dicuntur, id
est albedo et nigredo. Non autem eodem modo passibiles qualitates dicuntur,
quemadmodum amaritudo atque dulcedo, calor et frigus, nunc quae eorum
distantiae esse possint, exponit. Amaritudo enim atque dulcedo non quod ipsa
aliquid extrinsecus paterentur sed quod ipsa efficerent passiones, passibiles
qualitates vocabantur, albedo vero et nigredo contrarie. Non enim quod ipsae
aliquas 247B sensibus passiones importent sed quod ex aliis quibusdam
passionibus innascantur. Hoc autem videtur Aristoteles eo quodammodo
considerasse, quod post proposuit hoc modo: QUONIAM ERGO FIUNT PROPTER ALIQUAM
PASSIONEM MULTAE COLORUM MUTATIONES, MANIFESTUM EST; ERUBESCENS ENIM ALIQUIS
RUBICUNDUS FACTUS EST ET TIMENS PALLIDUS ET UNUMQUODQUE TALIUM. Hoc autem ex
non longi temporis passionibus ad passibiles qualitates et diutissime
permanentes, acutissima consideratione transfertur, fit enim rationis
probabilitas hoc modo. Monstrantur enim colorum qualitates ex passionibus
nasci, quod cum verecundia passio quaedam sit, ex ea rubor ex oritur, et cum
timor loco passionis habeatur, ab ea pallor metuentis 247C uultum atque ora
defigit. Quare quoniam hi colores ex quadam passione videntur innasci, etiam in
naturali colore eamdem verisimile est evenisse rationem. Nam quoniam cum
verecundia fit, in os omnis sanguis egreditur, et velut delictum tecturus
effunditur, ita quoque fit rubor ex sanguinis progressione, atque in apertum
effusione. Quocirca si hoc ex innaturali passione contigerit, naturali facies
rubore perfunditur. Pallor vero fit, quoties a facie sanguis ad praecordiorum
interiora ingreditur. Quod si haec quoque naturalis passio det, verisimile est
eodem infectum calore procreari. Quocirca sive per aegritudinem pallor fit,
quod naturale non est, sive per aliquem naturalem euentum passionis accidat,
caeteraque ad eumdem modum, passibiles qualitates dicuntur, eo quod ex
aliquibus passionibus sint, quod ipse Aristoteles hao voce testatur: QUARE VEL
SI QUIS NATURALITER ALIQUID TALIUM PASSIONUM PASSUS EST, SIMILEM COLOREM EUM
HABERE OPORTET; QUAE- ENIM AFFECTIO NUNC AD VERECUNDIAM CIRCA CORPUS FACTA EST,
ET SECUNDUM NATURALEM CONSTITUTIONEM EADEM AFFECTIO FIT, QUARE NATURALITER
COLOR SIMILIS FIT. Nam sive aliquis vel nondum natus aliquid patiatur, quo
faciem sanguis reiinquat, sive quolibet alio modo sanguis ex infantis uultu ad
interiora migravit, faciem naturalis infecit pallor, et quae nunc non naturales
passiones dispositionesque sunt, ut cum hi colores faciem vel totum corpus
inficiunt, hi si naturaliter contigerint eisdem, similibus signatus coloribus
uultus aspicietur. Nunc enim cum aestus in superficie uultus sanguinem
impositum decoxerit, nigredinis perusti sanguinis rubor reddit colorem. Quodsi
idem aliqua passione in faciem nondum geniti infantis acciderit, eamdem
verisimile est affectionem coloris corpus suscipientis inficere. Quare quae in
coloribus sunt idcirco passibiles qualitates dicuntur, non quod ipsae aliquid
paliantur sed quod ex aliquibus passionibus in cuiuslibet corpus atque ora
proveniunt. QUAECUMQUE IGITUR TALIUM CASUUM AB ALIQUIBUS PASSIONIBUS DIFFICILE
MOBILIBUS ET PERMANENTIBUS PRINCIPIUM CEPERUNT, QUALITATES DICUNTUR; SIVE ENIM
VEL SECUNDUM NATURALEM SUBSTANTIAM PALLOR AUT NIGREDO FACTA EST, QUALITAS
DICITUR (QUALES ENIM 248B SECUNDUM EAS DICIMUR), SIVE PROPTER AEGRITUDINEM
LONGAM VEL PROPTER AESTUM CONTINGIT VEL NIGREDO VEL PALLOR, ET NON FACILE
PRAETERIT ET IN VITA PERMANET, QUALITATES ET IPSAE DICUNTUR (SIMILITER ENIM
QUALES SECUNDUM EAS DICIMUR). Dat quoddam signum quo perspecto valeamus
agnoscere, quas harum omnium quae supradictae sunt, qualitates oporteat
appellari. Si enim ita vel casu aliquo, vel natura hae qualitates euenerint, ut
eorum sit tardus exitus permutatioque difficilis, qualitates vocantur. Si quis
enim vel per aegritudinem, vel per naturam pallidus fiat, sitque in eius
corpore permanens pallor, tunc qualitas appellatur, et hoc non in corporalibus solum
vitiis sed etiam in animi quoque affectionibus invenitur. Si quis enim vel per
naturam, vel quolibet alio postea casu assiduis comessationibus delectetur, et
hoc illi quodammodo in ipsa mentis dissolutione per maneat, ab eoque difficile
moveatur, passibilis qualitas effecta est, idcirco quod secundum eam quales
dicuntur quibus illa provenerit. Niger enim dicitur in quo nigredo permanserit;
comessator, cui voluptas perpetuo comessandi est. Est ergo signum in
passibilibus qualitatibus hoc eas esse immobiles et permanentes. Quae autem
huiusmodi sunt quae facillime permutantur, et temporali statu sunt, de his
talis Aristotelis videtur esse sententia. QUAECUMQUE VERO EX HIS QUAE FACILE
SOLUUNTUR ET CITO TRANSEUNT FIUNT, PASSIONES DICUNTUR; NON ENIM DICIMUR SECUNDUM
EAS QUALES; NEQUE ENIM QUI PROPTER VERECUNDIAM RUBICUNDUS FACTUS EST RUBICUNDUS
DICITUR, NEC CUI PALLOR PROPTER TIMOREM venIT PALLIDUS SED MAGIS QUOD ALIQUID
PASSUS SIT; QUARE PASSIONES HUIUSMODI DICUNTUR, QUALITATES VERO MINIME.
SIMILITER AUTEM HIS ET SECUNDUM ANIMAM PASSIBILES QUALITATES ET PASSIONES
DICUNTUR. QUAECUMQUE ENIM MOX IN NASCENDO AB ALIQUIBUS PASSIONIBUS FIUNT,
QUALITATES DICUNTUR, UT DEMENTIA VEL IRA VEL ALIA HUIUSMODI; QUALES ENIM
SECUNDUM EAS DICIMUR, ID EST IRACUNDI ET DEMENTES. SIMILITER AUTEM ET
QUAECUMQUE ALIENATIONES NON NATURALITER SED AB ALIQUIBUS ALIIS CASIBUS FACTAE
SUNT DIFFICILE PRAETEREUNTES ET OMNINO IMMOBILES, ETIAM HUIUSMODI QUALITATES
SUNT; QUALES ENIM SECUNDUM EAS DICIMUR. QUAECUMQUE ENIM EX HIS QUAE 249A CITIUS
PRAETEREUNT FIUNT, PASSIONES DICUNTUR, UT SI QUIS CONTRISTATUS IRACUNDIOR EST;
NON ENIM DICITUR IRACUNDUS QUI IN HUIUSMODI PASSIONE IRACUNDIOR EST SED MAGIS
ALIQUID PASSUS; QUARE PASSIONES QUIDEM HUIUSMODI DICUNTUR, QUALITATES VERO
MINIME. Quid de his affectionibus iudicaret, quae ad prasens tempus atque ad
momentum animis vel corporibus inhaererent, ipse non obscura oratione uulgavit.
Nam cum prius eas esse passibiles qualitates pronuntiaret, quae ex aliquibus
passionibus gignerentur, et tamen in subiectis immutabiliter permanerent, nunc
illas affectiones quae ita sunt in subiectis ut cito praetereant, non
qualitates sed passiones vocat. Si quis enim propter verecundiam rubore
infectus est, quoniam rubor ille non permanet, rubeus von vocatur; 249B qui si
rubeus discerelur, esset quoque ipse rubor passibilis qualitas, quoniam in
subiecto corpore diutissime permaneret. Nunc autem quoniam nullo modo rubeus
dicitur, cui a verecundia rubor venit, qualitates autem sunt secundum quas
quales vocamur, verecundiae rubor non qualitas sed quaedam passio est; nam si
esset qualitas, ab eo rubore rubei dicerentur, id est quales sed hoc non ita
est. Non igitur huiusmodi affectiones quae haud multo durant tempore qualitates
vocantur sed potius passiones. Passus enim aliquid dicitur, qui propter
verecundiam rubeus fit. Eadem ratio est etiam in animi passionibus. Nam si ad
momentum quis iratus est, non idcirco eum iure aliquis iracundum vocet sed si
huiusmodi vilium in cuiuslibet animo constanter inhaeserit. Nam si quis vel per
naturam vel per aegritudinem sit laesus corpore, ut vel perpetuam dementiam,
vel immobilem incurrat iracundiam, ille vel demens vel iracundus dicitur. Et
quaecumque alienationes (ut ipse ait) vel secundum naturam, vel per casum
permanentes fuerint, illae in passibili qualitate numerantur, idcirco quod
secundum eas quales dicimur. Quae autem (ut dictum est) non permanent sed
facile transeunt, eas non qualitates sed solum vocamus passiones. Sed quoniam
tres species qualitatis enumeravit, unam secundum quam habitus dispositionesque
dicerentur, alteram secundum quam naturalis potentia vel impotentia ad aliquid
faciendum vel patiendum subiectarum rerum naturas paruret, tertiam secundum
quam passibiles qualitates dicerentur, et hanc tali duplicitate partitus est,
ut alias idcirco diceret passibiles esse qualitates, quod ipsae aliquas
gignerent passiones, alias vero quod ab aliquibus ipsae passionibus
nascerentur. Quaeri potest quomodo hae quoque passibiles qualitates distenta
prima illa specie qualitatis, quae secundum habitum dispositionemque posita
est. Nam si quis calorem frigusque persenserit, habet quidem qualitatem
passibilem sed tamen in eiusdem ipsius dispositione atque affectione versatur;
dispositus namque est ad eumdem calorem atque frigus, quem sumpsit atque
habuit, quod scilicet ipse Aristoteles videns calorem frigusque in utraque
specie numeravit; namque et dispositionem dixit calorem atque frigus, et
passibilem qualitatem. Huius quaestionis talis solutio est. Nihil impedit,
secundum aliam scilicet atque aliam causam, unam eamdemque rem gemino generi
speciei suae supponere, ut Socrates in eo quod pater est ad aliquid dicitur, in
eo quod homo, substantia est, sic in calore atque frigore, in eo quod quis
secundum ea videtur esse dispositus, in dispositione numerata sunt; secundum
vero quod ex aliquibus passionibus innascuntur, passibiles qualitates dictae
sunt. Ipsae vero ab habitu distant, id est passibiles qualitates, quod in
plurimis ad habitus rebus per artes atque scientias pervenitur, ita ut ipse habitus
ordine et filo quodam perficiatur. Passibiles vero qualitates eo modo minime.
Quo vero distent hae passibiles qualitates a secunda specie, qua secundum
naturalem potentiam vel impotentiam dicitur, quaeritur, cuius perplana
distantia est. Dicimus enim secundum potentiam naturalis speciem aliquid dici,
non secundum praesentem actum sed secundum id quod ad hoc esse potest; frigus
vero calorque, et dulcedo vel amaritudo non secundum quod possit esse sed
secundum id quod iam sit consideratur; quocirca distat haec tertia species a
secunda, quod hic secundum possibilitatem dicitur, tertia vero secundum actum.
Sed quod dudum promiscue passiones affectionum nomine vocabamus, haec quoque
non longa quaestio alia est. Sic enim inveniemus quod passio ab affectionibus
discrepare videatur. Si qua enim corpora ita calefacta sint, ut ex se quoque
ipsa aliquem calorem emittere valeant, illa ad calorem affecta nuncupantur. Si
qua vero tantum calorem momento susceperint, passiones dicimus, et ab
affectionibus segregamus, ut hic sit integrum passionum affectionum quae
habitus augmentum, ut amplificata passio in affectionem transeat, augmentata
affectio in habitum permatetur. Et haec quidem de tertia specie qualitatis
pronuntiasse sufficiat; nunc quarte speciei vim naturamque veracissima
disputatione confirmat usque quo progressa qualitatis distributio conquiescit.
Nobis quoque disputationum prolixitas moderanda est. Providendum quoque est ut
sufficiens brevitas ordini expositionis adhibeatur, ne aut brevitatem comitetur
obscuritas, aut planitiem minus moderata oratio, odioso fastidio et
longinquitate deformet. QUARTUM VERO GENUS QUALITATIS EST FORMA ET CIRCA
ALIQUID CONSTANS FIGURA; AD HAEC QUOQUE RECTITUDO VEL CURUITAS, ET SI QUID HIS
SIMILE EST; SECUNDUM ENIM UNUMQUODQUE EORUM QUALE QUID DICITUR; QUOD ENIM EST
TRIANGULUM VEL QUADRATUM QUALE QUID DICITUR, ET QUOD EST RECTUM VEL CURUUM. ET
SECUNDUM FIGURAM VERO UNUMQUODQUE QUALE DICITUR. Quarta est species qualitatis
quae secundum unamquamque formam figuramque perspicitur. Est autem figura, ut
triangulum vel quadratum, forma autem ipsius figurae quaedam qualitas est, ut
figura quidem est triangulum vel quadratum, forma autem ipsius trianguli vel
quadrati quaedam qualitas, unde etiam formosos homines dicimus. Figura enim
quaedam vel 251A pulchrior, vel mediocris, vel alio quodammodo constituta,
qualitas formaque nominatur. Has autem esse qualitates nullus dubitat. Siquidem
et a figura dicitur figuratus, et a forma formosus. Amplius quoque triangulum
etiam a triangulatione denominatum est, et quadratum a quadratura. Quod si
illae sunt qualitates, secundum quas quale aliquid appelletur, non est qui
dubitet formam figuramque esse qualitates, quoniam omnia quae his participant
ex ipsis qualia nominantur sed quoniam in continuae quantitatis speciebus et
triangulum et superficies enumerata est, ipsa quidem superficies quantitas est,
ipsius vero superficiei compositio qualitas, est enim figura (ut geometrici
definiunt) quae sub aliquo vel aliquibus terminis continetur. Sub aliquo
quidem, ut circulus, sub aliquibus vero, ut triangulus vel quadratus. Quare
spatium quidem ipsum, quod a supra dictis lineis continetur, superficies
dicitur, quae est quantitas. Superficies namque quoniam in dilatione quadam et
spatio constat, quantitas est sed compositio ipsius superficiei, qualitas. Nam
quoniam tres lineae convenienter in se iunctis terminis unum spatium
conclusere, quod tribus angulis a tribus lineis continetur, hoc ipsum spatium
quod concludunt ad quantitatem referri potest, quod vero tribus lineis, hoc est
qualitas, figura enim est triangula. Hoc idem quoque dici potest etiam in
linea: nam quoniam longitudo sive latitudine est, quantitas dicitur, quod recta
sive curua est, redditur rursus ad qualitatem. RARUM VERO ET SPISSUM VEL
ASPERUM VEL LENE PUTABITUR 251C QUIDEM QUALITATEM SIGNIFICARE, VIDENTUR AUTEM
ALIENA ESSE HUIUSMODI A QUALITATIS DIVISIONE; QUANDAM ENIM QUODAMMODO
POSITIONEM VIDETUR PARTIUM UTRUMQUE MONSTRARE; SPISSUM QUIDEM EO QUOD PARTES
SIBI IPSAE PROPINQUAE SINT, RARUM VERO QUOD DISTENT A SE INVICEM; ET LENE
QUIDEM QUOD IN RECTUM SIBI PARTES IACEANT, ASPERUM VERO CUM HAEC QUIDEM PARS
SUPERET, ILLA VERO SIT INFERIOR. ET FORTASSE ALII QUOQUE APPAREANT QUALITATIS
MODI SED QUI MAXIME DICUNTUR HI SUNT. QUALITATES ERGO SUNT HAEC QUAE DICTA
SUNT, QUALIA VERO QUAE SECUNDUM HAEC DENOMINATIVE DICUNTUR, VEL QUOMODOLIBET AB
HIS. Quaedam sunt quae videntur esse qualitates, quoniam ex his aliqua
denominative dicuntur, ut lene quoniam dicitur alenilate, et asparum quoniam
dicitur 251D ab asperitate, spissum quoque et rarum a raritate et spissitate
nominantur; videntur ergo haec quoque in qualitatibus posse numerari. Sed
rectam rationem perspicientibus nec solum auribus quae dicuntur sed etiam mente
atque animo iudicantibus, in qualitatibus haec poni non oportere manifestum
est. Nam quod dicimus rarum, positio quaedam partium est, non qualitas. Nam
quia ita partes a se separatae distant, ut inter eas alieni generis corpus
possit admitti, ideo rarum vocatur, ut spongiae pumicesque, quoniam in eorum cavernis
surculus vel aliud aliquid immitti potest, ita ut inter rimas partium sit,
idcirco rarum dicitur. Porro autem spissum, quoniam ita sibi partes vicinae
sunt atque ad se invicem strictae, ut intereas nullum corpus possit incidere,
atque ideo spissum vocatur, ut est ferrum vel adamas. Positio ergo quaedam
partium his inest, non qualitas, nec vero illud quoque distat, quod dicitur
lene. Nam quoniam partes ita sunt positae, et neutra superet, neutra sit minor
sed aequalibus extremitatibus iunctae sunt, idcirco quaedam lenitas est, ut
adducta manus illam quae ex aequalitate iunctis partibus nata est, sentiat
lenitatem, ut est argentum. Asperitas vero est partium non aequalis positio sed
aliarum eminentium, aliarum vero depressarum, ut lima cuius aliae partes eminent,
aliae vero depressae sunt. Ergo secundum unamquamque partium positionem, vel
raritas, vel spissitudo, vel asperitus, vel lenitas, corporibus est. Non igitur
haec secundum qualitatem dicuntur sed potius secundum positionem. Positio autem
in relationis genere nominata est. Non igitur hae qualitates sed potius
relativa sunt, et enumerationes quidem specierum qualitatis Aristoteles hic
terminat Non sunt tamen putandae solum esse qualitates quas supra posuit. Ipse
enim testatur esse quoque alias qualitates, quas modo omnes enumerare neglexit
sed cur neglexerit multae sunt causae. Prima quod elementi vicem hic obtinet
liber, nec perfectam scientiam tradit sed tantummodo aditus atque pons quidam
in altiora philosophiae introitum pandit. Quocirca si hoc ita est, tantum
dicere oportuit, quantum ingredientibus salis esset, ne eorum animos nondum ad
scientiam firmos multiplici doctrina, subtilitate confunderet. Quae vero hic
desunt in libris qui *Meta ta physika* inscribuntur apposuit. Perfectis namque
opus illud non ingredientibus praeparabitur. Est quoque alia causa ut nos ad
exquirendas alias qualitates, non solum propriorum doctorum sed etiam nostrorum
aliquid inveniendi incitator, admitteret. Quocirca concludit eas quae maxime
dicerentur, quas supra proposuit, esse qualitates; illa vero dici qualia, quae
secundum praedictas qualitates dicerentur: sed quoniam addidit, vel
quomodolibet ab his quae sit huiusce propositionis sententia, prius appositis
Aristotelis verbis sequens expositionis ordo contexit. IN PLURIBUS QUIDEM ET
PAENE IN OMNIBUS DENOMINATIVE DICUNTUR, UT AB ALBEDINE ALBUS ET A GRAMMATICA
GRAMMATICUS ET A IUSTITIA IUSTUS, SIMILITER AUTEM ET IN CAETERIS. IN ALIQUIBUS
VERO PROPTEREA QUOD QUALITATIBUS NOMINA NON SUNT POSITA IMPOSSIBILE EST AB HIS
DENOMINATIVE DICI, UT CURSOR VEL PUGILLATOR, SI SECUNDUM POTENTIAM NATURALEM
DICITUR, A NULLA QUALITATE DENOMINATIVE DICITUR; NEQUE ENIM POSITUM EST NOMEN
ILLIS POTESTATIBUS: SECUNDUM QUAS ISTI QUALES DICUNTUR, QUEMADMODUM ETIAM IN
DISCIPLINIS SECUNDUM QUAS VEL PUGILLATORES VEL PALAESTRICI SECUNDUM AFFECTIONEM
DICUNTUR (PUGILLATORIA ENIM DISCIPLINA DICITUR ET PALAESTRICA, QUALES VERO AB
HIS DENOMINATIVE QUI AD EAS SUNT AFFECTI DICUNTUR). ALIQUANDO AUTEM ET POSITO
NOMINE DENOMINATIVE NON DICITUR ID QUOD SECUNDUM IPSAM QUALE QUID DICITUR, UT A
VIRTUTE PROBUS DICITUR; HOC ENIM QUOD HABET viRTUTEM PROBUS DICITUR SED NON
DENOMINATIVE A VIRTUTE; NON EST AUTEM HOC IN MULTIS. QUALIA ERGO DICUNTUR
QUAECUMQUE EX HIS QUAE DICTAE SUNT QUALITATIBUS DENOMINATIVE DICUNTUR VEL
QVOLIBET ALIO AB IPSIS MODO. Multae, inquit, sunt qualitates, quibus positis et
proprio nomine nuncupatis, ab his alia denominative dicuntur, ut ea quae ipse
planissime adiecit exempla. Nam cum albedo cuiusdam nomen sit qualitatis, ab eo
dicitur albus. Eodem quoque modo et grammatica, cum rei sit nomen, ab ipso
quales dicuntur. Grammatici enim a grammatica nominantur, atque hoc est in
pluribus, ut posito nomine si quid secundum ipsas qualitates quale dicitur,
exhis ipsis qualitatibus appellatio derivetur. Aliae vero qualitates sunt, in
quibuscum nomen positum non sit, tamen quales dicuntur, quales quidem quia alia
qualitate participant, sed non secundum eam qualitatem quales dicuntur, ex qua
si his esset qualitatibus nomen impositum poterant appellari, ut in ea
qualitate quae secundum potentiam naturalem dicitur. Illi enim quamquam quales
dicantur, hi qui secundum ipsam potentiam nominantur, ipsi tamen (ut dictum
est) nullo proprio nomine nuncupantur. Nam qui pugiles appellantur ab arte
pugillatoria, idcirco ab ea pugiles dicuntur, quod ad eamdem ipsam artem
pugillatoriam quodammodo affecti eunt. Hi enim pugiles ab arte pugillatoria
praedicantur. Qui vero nondum pugiles sunt sed esse possunt, non secundum ipsam
artem, id est pugillatoriam sed secundum potentiam pugillatoriae artis,
pugillatores vocantur. Ipsi autem potentiae nomen proprium positum non est. Nam
quemadmodum a cursu cursores, a palaestra palaestrici, a pugillatoria pugiles,
distinctis qualitatum vocabulis, appellantur, non eodem modo est etiam in uniuscuiusque
rei potentia naturali, cursus enim potentia naturalis secundum quam cursores
vocamus, et rursus potentia pugillandi, vel potentia palaestrizandi, suo nomine
distincta non est. Cur enim dicitur cursor, si interrogemur de eo qui nondum
est cursor? Dicimus secundum potentiam naturalem. Cur palaestricus? Eodem
quoque modo naturalem potentiam respondemus. Quare pugillator qui nondum est
pugillis, ab eadem quoque potentia naturali nominatur. Si igitur haberet haec
naturalis potentia proprium nomen, ita, distinctis vocabulis, appellaretur, ut
in his qualitatibus in quibus proprienomen est positum, ut in cursu, palaestra
et arte pugillatoria, et hoc est quod ait. In aliquibus vero propterea quod
qualitatibus nomina non sunt posita, impossibile est ab his aliquid
denominative dici. Ut hoc scilicet demonstraret cursorem quidem qui iam
curreret a cursu esse dictum, cursorem vero qui secundum potentiam currendi
diceretur non vocari a cursu sed tantum a potentia, cuius potentiae nomen
proprium non esset positum. Quare haec omnia quae secundum potentiam naturalem
dicuntur, a nulla qualitate denominativa sunt. Idcirco quod hae qualitates a
quibus denominari possunt, propriis nominibus carent, quae vero ita sint, ut
non ex potentia sed ex affectione dicantur, ab his qualitatibus ad quas sese
aliquo modo habent, denominative dicuntur, quod Aristoteles hoc protulit modo
dicens: Non ita esse secundum potentiam naturalem, quemadmodum et iam in
disciplinis secundum quas, vel pugillatores, vel palaestrici secundum
affectionem dicuntur. Pugillatoria enim disciplina dicitur et palaestrica,
quales vero ab his denominative, qui ad eas sunt continentes, dicuntur. Docuit
igitur omniaquae a quibusdam qualitatibus dici putarentur, vero quoque a
qualitatibus non praedicari, ut in his qualitatibus quibus nomen proprium non
est. Illud quoque monstravit hoc in pluribus evenire, ut de propositis
qualitatibus qualia denominative dicerentur. Restat ergo quod reliquum est, ut
dicat esse quasdam qualitates, quarum cum nomen sit positum, ab his ipsis tamen
quae illarun rerum participant denominative non dici, ut virtus; nam cum virtus
qualitas sit (est enim habitus quidam, omnis vero habitus qualitas), ergo
quicumque virtute participat, non secundum eam denominative dicitur. In
denominatione enim quaerendum est ut semper idem permaneat nomen. In eo autem
qui virtute participat, nulla virtutis denominatio est, ut qui bonitate
participat bonus dicitur, qui iustitia, iustus, et alia huiusmodi. Qui vero
virtute participat, aut probus nominatur, aut sapiens; sed neque probus, neque
sapiens a virtute denominativa sunt, idcirco quod utrumque nomen a virtute
longe dissimile est, quod ipse sic ait: Aliquando autem posito nomine
denominative non dicitur id quod secundum ipsum quale dicitur. Et eius rei proponere
non omisit exemplum sed hoc in multis non potest inveniri, pauca enim sunt (ut
ipse ait) in quibus posito qualitatis nomine quae his participant, a superiori
qualitate qualia non dicantur. Dat autem his qualitatibus pluralitatis
calculum, ex quibus qualia nominantur ea quae his participant. Nam (ut ipse ait
superius) in pluribus et pene in omnibus denominative dicuntur. Quocirca recta
definitio est et proprio ordine constituta. Namque in principio hoc solum
dictum est, esse qualitatem secundum quam qualia dicerentur. Sed quoniam sunt
quaedam quorum qualitates ipsae propriis nominibus carent, quae vero his
participant suis vocabulis appellantur, ut in naturali potentia. Et rursus sunt
quaedam quae in qualitatibus quidem habeant propria nomina, in his vero quae ad
eas ipsas qualitates essent affecta, nulla ex propositis qualitatibus
denominatio fieret, hoc addidit, ab omnibus qualitatibus aut denominative dici
qualia, quae illis qualitatibus participaret, aut quomodolibet, aliter, id est
sive posito nomine qualitatis de eo non dicerentur, quae illa partieiparent, ut
in eo quod est virtus, sive ipsi qualitati positum nomen non esset, ut in eo
quod est potentia naturalis. Quare quoniam in his duabus qualitatis, in quibus
vel posito nomine non secundum nomen quae sunt, qualia denominative dicuntur,
vel eum ipsis qualitatibus nomen positum non sit, neutra ipsorum praedicatio
denominative fit. Ad concludendum omnem terminum qualitatis ait, aut
denominative qualia a qualitatibus appellari, aut quomodolibetaliter ab ipsis,
ut non denominative sed aliquoties quidem secundum potentiam, aliquoties vero
secundum eamdem qualitatem virtutis; eamdem enim qualitas est virtutis et
sapientiae. Quocirca concludit, ita qualia dici quaerumque ex his qualitatibus
denominative dicerentur, vel quomodolibet alio ab ipsis modo. Digestis in
ordine prius omnibus qualitatibus et eorum conclusione reperta, consueto ordine
unaquaeque proprietas uestigatur. INEST AUTEM ET CONTRARIETAS SECUNDUM
QUALITATEM, UT IUSTITIA INIUSTITIAE CONTRARIUM EST ET ALBEDO NIGREDINI ET ALIA
SIMILITER; ET SECUNDUM EAS QUALIA QUAE DICUNTUR, UT IUSTUM INIUSTO ET ALBUM
NIGRO. NON AUTEM HOC IN OMNIBUS EST; RUBEO ENIM ET PALLIDO ET HUIUSMODI
COLORIBUS NIHIL EST CONTRARIUM CUM QUALITATES SINT. Dicit in qualitatibus
quaedam esse contraria, atque hoc probat exemplis, albedo namque et nigredo
contraria sunt, et quaecumque albedine nigredineque participant; hoc est enim
quod ait, et secundum eas qualia quae dicuntur; nam sicut albedo nigredini contraria
est, ita quoque albus nigro; sed hoc qualitatis proprium non est, nam cum
rubrum et pallidum qualitates sint, aliique etiam colores huiusmodi, in his
contrarium non est; nullus enim dicit aliquid rubro vel pallido esse
contrarium: nam quoniam album et nigrum extremitates quaedam colorum sunt, et
longissime a se distant, contraria sunt, medietates vero contraria non habent:
Namsi quis ponat rubrum nigro esse contrarium, longissimeque distant quae sunt
contraria, longissime igitur nigredo a rubore distabit, et rursus albedo a
nigredine plurimum distat; igitur nigredini rubor est atque albedo contraria,
uniusque rei duo contraria inveniuntur, quod fieri non potest. Non est igitur
nigredi contrarius rubor. Similiter autem monstrabimus et in aliis mediis
coloribus contrarium non esse. Quocirca si huiusmodi coloribus contrarium nihil
est, non in omni qualitate contrarietas reperietur; quod si ita est, suscipere
contraria qualitatis proprium non est. At vero nec in ipsis quoque formis quae
manifeste qualitates sunt, contrarietas invenitur; nam neque ciroulus quadrato,
neque quadratus triangulo, nec ulla figura ulli figurae potest esse contraria.
Quocirca manifestum est, suscipere contrarium non esse proprium qualitatis. Sed
quoniam sunt quaedam in qualitate quae sibimet videantur esse contraria, ut
iustitia et iniustitia, hinc quaedam quaestio solet oriri. Dicunt enim quidam
iustitiae iniustitiam non esse contrariam, putant enim quod dicitur iniustitia
privationem esse iustitiae, non tamen contrarietatem. Contraria enim propriis
nominibus, non contrarii privatione nominari, ut album nigro, habere tamen
iustitiam aliquam contrarietatem, cuius adhuc proprium nomen non sit inventum,
quod omnino falsum est. Multae enim habitudines privationis vocabulo
proferuntur, ut illiberalitas et imprudentia, quae nunquam virtutibus
opponerentur, quae sunt habitus, nisi ipsae quoque habitus essent, et in animis
habentium immutabiliter permanerent. At vero neque illud verum est, omnes
privationes negatione proferri. Surditas enim, cum sit auditus privatio, sine
negatione profertur; eodem quoquemodo caecitas. Nullus enim dicit inauditio,
neque inuisio, nec aliquid huiusmodi sed tantum surditas caecitasque nominantur
propriis nominibus, cum sint illa in habitu, visus, auditus, illa in privatione
ponenda. Igitur iustitia iniustitiae contraria est. Tradit ergo regulam, ea
quae contraria sunt, sub quo genere convenienter aptentur, quam regulam his
verbis ipse praescribit: AMPLIUS: SI EX CONTRARIIS UNUM FVERIT QUALE, ET
RELIQUUM ERIT QUALE. HOC AUTEM MANIFESTUM EST OMNIA ALIA PRAEDICAMENTA
PROFERENTI, UT SI EST IUSTITIA INIUSTITIAE CONTRARIUM, QUALITAS EST AUTEM
IUSTITIA, NIHILOMINUS QUALITAS ERIT INIUSTITIA; NULLUM ENIM ALIUD
PRAEDICAMENTUM CONVENIT INIUSTITIAE, NEC QUANTITAS NEC RELATIO NEC UBI NEC
OMNINO ALIQUID HUIUSMODI, NISI SOLA QUALITAS; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS SECUNDUM
QUALITATEM CONTRARIIS. Si ex duobus, inquit, contrariis manifestum fuerit unum
eorum contrariorum sub qualitate poni, simul manifestum erit quod etiam eius
contrarium convenienter qualitati supponatur, simulque demonstrat iniustitiam
esse qualitatem. Nam si iustitia apertissime qualitas est idcirco quod neque
qualitas, neque ad aliquid, neque ubi, nec quando, nec aliud ullum
praedicamentum est, nec sub ullo alio genere poni potest, nisi sub sola
qualitate, cum ei contraria sit inustitia, non est dubium iniustitiam quoque
qualitati subnecti, quod ipse quoniam 256C planius dixit, ut ipsa exemplorum
luce uulgavit, ad aliud nobis est transeundum. SUSCIPIT AUTEM QUALITAS MAGIS ET
MINUS; ALBUM ET ENIM MAGIS ET MINUS ALTERUM ALTERO DICITUR, ET IUSTUM ALTERUM
ALTERO MAGIS. ET IDEM IPSUM SUMIT INTENTIONEM (ALBUM ENIM CUM SIT, CONTINGIT
ILLUD FIERI ALBIUS); HOC AUTEM IN OMNIBUS NON EST SED IN PLURIBUS; DUBITABIT
ENIM QUIS AN IUSTITIA MAGIS ESSE IUSTITIA DICATUR; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS
AFFECTIONIBUS. QUIDAM VERO IN HOC DUBITANT; DICUNT ENIM IUSTITIAM IUSTITIA NON
NIMIS MAGIS VEL MINUS DICI, NEC SANITATEM SANITATE; MINUS AUTEM HABERE ALTERUM
ALTERO SANITATEM DICUNT, ET IUSTITIAM MINUS ALTERUM ALTERO HABERE, SIMILITER ET
GRAMMATICAM ET ALIAS DISCIPLINAS. SED SECUNDUM EAS QUALIA QUAE DICUNTUR
INDUBITATE SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS; MAGIS ENIM GRAMMATICUS ALTER ALTERO
DICITUR ET IUSTIOR ET SANIOR, ET IN ALIIS SIMILITER. Aliud quoque proprium
protulit, quod tractata ratione ab integra proprietate qualitatis exclusit. Ait
enim qualitates posse vel intendi vel minui. Posse enim dicit alterum altero
plus album appellari, ut nix argento, et quae candidiora sunt marmora, et iustum
alterum altero magis et minus dicimus. Namque iustius aliquid factum, necnon
etiam iustissimum est. In quibus autem comparationes sunt, in his magis
minusque dici manifestum est; hoc quoque modo ipsum album, vel alia qualitas
non solum contra alterum eiusdem speciei comparata intentione crescit, et
relaxatione minuitur sed etiam a seipsa recipit comparationem: Dicitur enim
nunc quidem argentum candidius esse quam antea, cum fuerit detersum. Sed cum
haec ita sint, non est magis minusque suscipere proprium qualitatis; neque enim
sola qualitas magis minusque suscipit, haec enim intentio et relaxatio in his
quoque quae sunt ad aliquid invenitur, ut in eo quod est aequale et inaequale
possumus dicere plus aequale vel minus, et in caeteris huiusmodi; nec vero
omnes qualitates suscipiunt magis et minus, quod ipse sic ponit: Non autem in
omnibus hoc est sed in pluribus. Dubitabit enim quis an iustitia magis esse
iustitia dicatur, similiter autem et in aliis affectionibus. Quidam vero in hoc
dubitant: dicunt enim iustitiam iustitia non magis vel minus dici, nec
sanitatem sanitate; minus autem habere alterum altero sanitatem dicunt, et
iustitiam minus alterum altero habere. In hoc tres fuere sententiae. Quidam
namque dicebant, in omnibus secundum materiae habitudinem reperiri posse magis
et minus. Proprium namque esse materiae corporumque intentione crescere et
minui relaxatione, quae quorumdam Platonicorum sententia fuit. Alia vero quae
secundum certissimas verissimasque artes atque virtutes non diceret esse magis
et minus, secundum autem medias dici posse, ut haec ipsa grammatica atque
iustitia non dicitur magis grammatica neque magis iustitia. Esse autem quasdam
alias mediocres artes, in quibusidipsum posset evenire. Tertia est de qua
Aristoteles loquitur, quod ipsas quidem habitudines nulla intentione crescere,
nec diminutione decrescere putat sed eorum participantes posse sub examine
compositionis venire, ut de his magis minusue dicatur. Sanitatem namque ipsam
et iustitiam, alteram altera magis minusue non esse. Neque enim quispiam dicit
magis esse sanitatem alia sanitate. Sed hoc solum dicere possumus magis habere
sanitatem aliquem, id est esse saniorem, et magis sanum, et minus sanum.
Dicimus ergo quod ipsae quidem qualitates non suscipiunt magis et minus. Qui
vero secundum eas quales dicuntur, ipsi sub comparatione cadunt, ut iustior, et
sanior, et grammat. cior. Namque ipsa grammatica, id est litteratura, non
suscipit magis et minus, nullus enim dicit alteram altera magis esse
grammaticam sed eum qui grammatica ipsa participat. Dicimus litteratum, quem a
litteratura scilicet denominamus, litteratus autem suscipit magis et minus, ut
Donatus grammaticus plus erat aetate iam provecta grammaticus, id est
litteratus, quam cum primum ad huiusmodi studia devenisset. Sed quamquam se
haec ita habeant, tamen invenimus aliquas qualitates quibus indubitate comparatio
inveniri non possit, ut sunt quas ipse supposuit. TRIANGULUM VERO ET QUADRATUM
NON VIDETUR MAGIS SUSCIPERE, NEC ALIQUID ALIARUM FORMARUM. Haec enim quae ex
quarta specie qualitatis dicta sunt, magis minusue nullaratione suscipiunt,
nullus enim dicit plus esse alium circulum quam alium, nec magis esse illud
triangulum quam illud, dicitque fortasse maiorem, magis autem non dicit. Huius autem
rei haec ratio est, ut cum sit trianguli definitio, figura quae sub tribus
rectis lineis continetur, si qua sunt quae hanc definitionem in se suscipiant,
ut et ipsa tribus rectis lineis contineantur, proprie triangulae formae sunt,
eodem quoque modo et circulus ita definitur: Circulus est figura plana, quae sub
una linea continetur, ad quam ex uno puncto qui intra ipsam est, omnes quae
excunt lineae aequae sibi sunt. Rursus quadrati defnitio talis est: Quadratum
est quod quattuor aequalibus lineis et quattuor rectis angulis continetur.
Quaecumque igitur vel circuli definitionem suscipiunt, vel quadrati, aequaliter
vel circuli vel quadratae formae sunt; si qua vero non suscipiunt, nullo modo
sunt. Si qua vero sunt quae neque quadrati suscipiunt definitionem, neque
circuli, neque quadrati sunt, neque circuli ut est figura quae parte altera
longior dicitur. Illa enim ita definitur, parte altera longior figura est quae
sub quattuor lineis continetur, rectisque angulis, quam quattuor lineae aequae
sibi quidem non sunt, contra se vero positae binae sibi aequae sunt. Ergo quia
huiusmodi figura neque circuli definitionem capit, neque quadrati aequaliter,
neque circulus, neque quadratus est. Si qua enim cuiuslibet forma definitionem
suscipiunt, omnino eadem sunt. Ut qui circuli circulus, qui quadrati quadratus,
qui trianguli triangulus, qui parte altera longioris, parte altera longior, et
in caeteris eodem modo. Si qua vero non suscipiunt, ut triangulum, circuli
definitionem non capit neque omnino circulus est, nec potest dici inter
quadratum et triangulum, 258C quoniam utraque circuli definitionem non capiunt,
quadratum quidem plus esse circulum, triangulum vero minus, omnino enim utraque
a circuli ratione disiuncta sunt, quod his verbis ab Aristotele tractatur: QUAECUMQUE
ENIM DEFINITIONEM TRIANGULI SUSCIPIUNT ET CIRCULI, OMNIA SIMILITER TRIANGULA
VEL CIRCULI SUNT, DE HIS AUTEM QUAE NON SUSCIPIUNT NIHIL MAGIS ALTERUM ALTERO
DICITUR; NIHIL ENIM QUADRATUM MAGIS QUAM PARTE ALTERA LONGIOR FORMA CIRCULUS
EST; NULLUM ENIM IPSORUM SUSCIPIT CIRCULI RATIONEM. SIMPLICITER AUTEM, SI
UTRAQUE NON SUSCIPIUNT PROPOSITI RATIONEM, NON DICITUR ALTERUM ALTERO MAGIS.
NON IGITUR OMNIA QUALIA SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS. EX HIS ERGO QUAE DICTA SUNT
NIHIL EST PROPRIUM QUALITATIS. Nam si hoc definitio facit, ut demonstret
rationem cuiusque substantiae, quaecumque definitione discrepant, illa etiam
ipsa natura substantiae discrepabunt. Recte igitur si quae cuiuslibet rei
propositae sive trianguli, sive quadrati definitionem non capiunt, ab eiusdem
natura disiuncta sunt. Quocirca neque triangulum, neque quadratum, neque
circulus, neque quidquid horum est, suscipiant magis et minus. Sed cum haec
qualitates sint, non omnes qualitates aeque magis minusue suscipiunt. Quod si
neque in omni qualitate intentio diminutioque provenit, neque in sola, quod
haec eadem in relatione reperias, non est magis minusue suscipere proprium
qualitatis. Quodnam igitur qualitatis proprium esse dicendum est, id ipse
planissime subterposuit. SIMILE AUTEM ET DISSIMILE SECUNDUM SOLAS DICUNTUR
QUALITATES; SIMILE ENIM ALTERUM ALTERI NON EST SECUNDUM ALIUD NISI SECUNDUM HOC
QUOD QUALE EST. QUARE PROPRIUM ERIT QUALITATIS SECUNDUM EAM SIMILE ET DISSIMILE
DICI. Simile inquit et dissimile solae retinent qualitates. Nam quamvis simile
ad aliquid sit, tamen hoc ipsum quod dicimus, simile non dicimus, nisi quod
quale est. Nam si eadem qualitas sit in duobus, illa in quibus est similia
sunt, nec est aliud praedicamentum quod secundum simile et dissimile dici
possit, et de aiiis quidem omnibus notum est, quoniam de nullo dicitur. Quod si
quis de quautitate affirmet, dici posse secundum eam simile atque dissimile,
monstratum est secundum quantitatem non simile et dissimile sed aequale et
inaequale praedicari. Quocirca quoniam per singula quaeque pergentibus, et in
omnibus idem qualitatibus invenitur, et in nullo alio predicamento esse
perspicitur, recte hoc proprium qualitatis esse firmavit. Sed quoniam cum de
his quae referuntur ad aliquid tractaretur, affectus atque habitus in his quae
sunt ad aliquid numeravit, nunc vero eosdem quoque qualitati supposuit, ipse
sibi quamdam obiecit quaestionem, cur si prius sub iis quae ad aliquid
referuntur, ista subiecerit, nunc sub qualitatibus ea ipsa posuerit. Superius
namque monstravit ea quae essent a se diversa, easdem species habere non posse,
cum dicit diversorum generum et non subalternatim positorum diversae species et
differentiae sunt. Quocirca cum relatio atque qualitas diversa sint genera,
easdem utrique supponi species non oportet, hoc est enim quod dicit: AT VERO
NON DECET CONTURBARI NE QUIS NOS DICAT DE QUALITATE PROPOSITIONEM FACIENTES
MULTA DE RELATIVIS INTERPOSUISSE; HABITUDINES ENIM ET AFFECTIONES EORUM QUAE
SUNT AD ALIQUID ESSE DIXIMUS. PAENE ENIM EA QUAE SUNT IN OMNIBUS HIS GENERIBUS
AD ALIQUID DICUNTUR, EORUM VERO QUAE SUNT SINGULATIM NIHIL; SCIENTIA ENIM, QUAE
GENUS EST, HOC IPSUM QUOD EST ALTERIUS DICITUR (ALICUIUS ENIM SCIENTIA
DICITUR), SINGULORUM VERO NIHIL HOC IPSUM QUOD EST ALTERIUS DICITUR, UT
GRAMMATICA NON DICITUR ALICUIUS GRAMMATICA NEC MUSICA ALICUIUS MUSICA SED SI FORTE
SECUNDUM GENUS PROPRIUM ET ISTAE DICUNTUR ALICUIUS; UT GRAMMATICA ALICUIUS
DICITUR SCIENTIA, NON 259D ALICUIUS GRAMMATICA, ET MUSICA ALICUIUS SCIENTIA,
NON ALICUIUS MUSICA; QUARE SINGULA NON SUNT RELATIVA. Quam quaestionem
validissima argumentatione dissolvit, his scilicet verbis: Pene enim ea quae
sunt in omnibus his generibus ad aliquid dicuntur. Eorum vero quae sunt
singulatim, id est epecies, nihil huiusmodi sunt. Haec enim est argumentatio
quam Graeci *epikeirema* vocant. In huiusmodi affectionibus atque
habitudinibus, quae inter ea sunt genera, eas solas ad aliquid posse reduci,
quae vero species essent illorum generum posse in relativis sed in qualitatibus
numerari, ut scientia cum sit habitudo 260A habet sub se alias habitudines,
grammaticam et geometriam. In hoc igitur scientia ipsa quod genus est, ad
aliquid semper refertur, dicimus enim scientiam alicuius scientiam. Grammaticam
vero quae eius species est, nullus dicit alicuius esse grammaticam; dicatur
enim si fieri potest grammaticam, Aristarchi esse grammaticam. Sed omnia
quaecumque dicuntur ad aliquid, convertuntur. Dicitur ergo et Aristarchus,
grammaticae Aristarchus, quod fieri non potest. Non igitur grammatica
Aristarchi, ut ad aliquid dicitur. Est etiam argumentum, non species sed huiusmodi
genera, ad aliquid appellari, ut cum ipsae quidem species ad aliquid non
dicantur, ut grammatica non dicitur alicuius grammatica, si quando tamen est ut
species ad aliquid referatur, id non secundum se sed 260B secundum genus, ut
grammaticae quoniam genus est scientiae quae relativa est, si quis grammaticam
ad aliquid referre contendat, non potest secundum ipsam grammaticam, eam ad
aliquid praedicare sed secundum scientiam, id est secundum genus suum. Non enim
dicitur grammatica alicuius grammatica sed fortasse grammatica alicuius
scientia. Non ergo grammatica secundum grammaticam ad aliquid dicitur sed
secundum scientiam. Et hoc est quod ait, ut grammatica non dicitur aliovius
grammatica, nec musica sed fortasse secundum genus proprium istae dicuntur alicuius,
ut grammatica alicuius dicitur scientia, non alicuius grammatica. Ergo
singularum specierum nihil est quod aliqua relatione praedicetur. Genera vero
harum specierum relativa sunt, quae paulo superius dixi; quod enim ait: Pene
enim in 260C omnibus qualitatibus genera ad aliquid dicuntur, non autem aliquid
eorum quae sunt singula, hoc demonstrare voluit, genera ipsa habitudinem
dispositionumque esse relativa, species vero generum quas singulatim esse
dixit, ad aliquid nullo modo praedicari. Quas idcirco esse singulatim vocavit,
quia grammatica una est, et rursus musica una; scientia vero non una. Recte
igitur species scientiae singulatim esse nominavit. Constat igitur quod genera
huiusmodi habitudinem dicantur ad aliquid, species vero ad nihil aliud propria
praedicatione referanlur. Quocirca quoniam huiusmodi species relativas non esse
demonstravit, nunc quod reliquum est qualitates esse confirmat. DICIMUR AUTEM
QUALES SECUNDUM SINGULA; HAEC ENIM ET HABEMUS (SCIENTES ENIM DICIMUR QUOD
HABEMUS SINGULAS SCIENTIAS); QUARE HAEC ERUNT ETIAM QUALITATES, QUAE SINGULATIM
SUNT, SECUNDUM QUAS ET QUALES DICIMUR; HAEC AUTEM NON SUNT EORUM QUAE SUNT AD
ALIQUID. Illas esse qualilates superius confirmatum est ex quibus aliqui quales
vocarentur, nos autem idcirco grammatici dicimur, non quod universalem
scientiam sed quod ipsam grammaticam habeamus, et hoc vere dicitur, idcirco nos
dici scientes, quia grammatici sumus, potius quam idcirco grammaticos quod
aliquam scientiam retinemus. Nullus enim a generali scientia grammaticus, aut
sciens, nisi a singulatim scientia sciens, grammaticusque perhibetur. Igitur
quoniam ex his habitudinem speciebus quales vocamur, ipsae species in qualitate
numerandae sunt. Sed cum quis grammatica participat, de ea etiam genus dicitur,
et secundum eam non solum ad grammaticam sed ad scientiam quoque coniungitur.
Dicitur enim idcirco sciens. Ergo quoniam habens grammaticam, et sciens, et
grammaticus dicitur, non potest ulla scientia participare, qui singulas non
habuerit. Qui enim cunctis speciebus caret, illi quoque genere ipso carendum
est. Quare quoniam has species hahemus et secundum eas quales dicimur, a
grammatica scientes et grammatici nuncupamur, has autem ipsas species
monstratum est ad aliquid non referri. Recte igitur huiusmodi habitudines quae
in alterius relativis species sunt, in qualitate numeratae sunt. Quod si quis
hoc quoque inuitus accipiat, aliud addit quo totum quaestionis vinculum
soluetur; ait enim: AMPLIUS SI CONTINGAT IDEM ET QUALE ESSE ET RELATIVUM, NIHIL
EST INCONVENIENS IN UTRISQUE HOC GENERIBUS ANNUMERARE. Nam cum sit verum unam
eademque rem duobus diversis generibus suppositam esse non posse, illud tamen
convenit secundum aliud atque aliod unam eamdemque speciem duobus generibus
posse subnecti, ut in eo quod supra iam dictum est, cum Socrates substantia
sit, pater vero ad aliquid, cumque substantia discrepet atque relatio, nihil
tamen est inconveniens eumdem ipsum Socratem in eo quod homo est, substantiae
supponi, in eo quod habet filium, relationi. Quocirca si secundum aliam atque
aliam rem duobus generibus eadem res quaelibet diversissimis supponatur, nihil
inconveniens cadit. Ita quoque et habitudines in eo quod alicuius rei habitudines
sunt, in relatione ponuntur, in eo quod secundum eas quales aliquid dicuntur,
in qualitate numerantur. Quare nihil est inconveniens unam atque eamdem rem,
secundum diversas natura, suae potentias, geminis et si contingat pluribus,
annumerare generibus Qnocirca quoniam de qualitate tractatum est, nos quoque
orationis cursum ad reliqua praedicamenta vertamus. DE FACERE ET PATI SUSCIPIT
AUTEM ET FACERE ET PATI CONTRARIETATEM ET MAGIS 261D ET MINUS; CALEFACERE ENIM
ET FRIGIDUM FACERE CONTRARIA SUNT, ET CALEFIERI ET FRIGIDUM FIERI, ET DELECTARI
ET CONTRISTARI; QUARE SUSCIPIT CONTRARIETATEM FACERE ET PATI. ET MAGIS AUTEM ET
MINUS; EST ENIM CALEFACERE ET MAGIS ET MINUS, ET CALEFIERI MAGIS ET MINUS, ET
CONTRISTARI. SUSCIPIUNT ERGO ET MAGIS ET MINUS FACERE ET PATI. AC DE HIS QUIDEM
HAEC DICTA SUNT. Decursis quattuor praedicamentis quae aliqua quaestione et
consideratione ergo videbantur, tenuiter caetera breviterque perstringit. Et de
facere quidem et pati nihil in hoc libro, nisi quod contraria suscipiant, et
intentionem imminutionemque ab Aristotele est disputatum, in aliis vero eius
operibus plene ab eo perfecteque tractata sunt, ut hoc ipsum de facere et pati
in his libris quos *Peri geneseos kai phthopas* inscripsit, de aliis quoque
praedicamentis non illi minor in aliis operibus disputatio fuit, ut de eo quod
est ubi et quando in physicis, et de omnibus quidem altius subtiliusque in
libris quos *Meta ta physika* vocavit, exquiritur. Ac de fecere quidem et pati
ipse planissime posuit posse ea suscipere contrarietates. Dicimus enim ignem
calefacere et frigefacere, quod scilicet ad faciendum refertur. Dicimus aquam
calefieri et frigefieri, quod nihilominus ad patiendi ducitur praedicamentum.
Magis quoque et minus suscipere, apertissimis demonstrat exemplis. Sic enim
magis calefacere et minus, et magis calefieri et minus dicitur. Atque haec
hactenus, ipse enim haec apertissime posuit. Est autem horum descriptio talis,
quod in faciendo quidem, actus quidam a quolibet in aliam rem veniens,
consideratur a quo veniat. In patiendo autem in eo ille actus consideratur, in
quem venit. Actus enim et passio simul in physicis esse monstrata sunt. Ac de
facere quidem ac pati, ad praesens tempus haec dicta sufficiant. DICTUM EST
AUTEM ET DE SITU IN RELATIVIS, QUONIAM DENOMINATIVE A POSITIONIBUS DICITUR. DE
RELIQUIS VERO, ID EST QUANDO ET UBI ET HABERE, PROPTEREA QUOD MANIFESTA SUNT,
NIHIL DE HIS ULTRA DICITUR QUAM QUOD IN PRINCIPIO DICTUM EST, QUOD HABERE
SIGNIFICAT CALCIATUM ESSE VEL ARMATUM, UBI VERO IN LYCIO, VEL ALIA QUAECUMQUE
DE HIS DICTA SUNT. IGITUR DE HIS GENERIBUS QUAE PROPOSUIMUS SUFFICIENTER DICTUM
EST. Positio quidem quoniam ipsa est alicuius, in iis quae sunt ad aliquid,
numerata est sed quoniam omnis res quae ab alio denominatur, aliud est quam id
ipsum a quo denominata est, ut aliud est, qui est grammaticus, atque
grammatica, quamvis grammaticus a grammatica denominelur. Ita cum sit positio
relativa, quidquid denominative a positionibus dicitur, hoc relativorum genere
non tenetur. Positio autem ipsa relativa est, positum vero est a positione
denmninatum. Statio enim cuiusdam statio est. Stare vero quoniam a statione
denominatum est, non ponitur in eo genere in quo statio fuit. Quare sub
relatione hoc praedica nentum non invenitur. Sed quoniam nihil est ad quod hoc
reducere genus atque aptare possimus, dicendum est suum esse genus. Ut
accumbere ab accubitu, stare a statione, et caetera quidem quae idcirco se
Aristoteles exsequi denegat, quoniam planissima sunt; ait enim: De reliquis
vero id est, quando, et ubi, et habere; propterea quia manifesta sunt, nihil de
his ultra dicitur, quam quod in principio dictum est, et eorum praedicta ponit
exempla. Dicendum autem est breviter de praedicatione quae est ubi et quando.
Sicut ipsum ad aliquid per se esse non potest nisi ex alio aliquo naturam
trahat, ita et quando et ubi, esse non potest, nisi locus ac lempus fuerit.
Locum enim ubi, tempus vero quando, comitatur. Non est autem idem tempus, et
quando, nec ubi et locus sed proposito prius loco si qua res in eo sit posita,
ubi esse dicitur. Rursus si certa res in tempore est, quando esse perhibetur,
ut Apollinares ludi, oum sint in tempore, quando eos esse dioimus. Habent autem
haec quoque proprias diversitates, ubi quidem, quod aliquoties infinite
dicitur. Alicubi enim esse dicimus aliquem, ut Socratem, aliquoties autem
definite, ut in Lyceo vel in Academia. Habet quoque ubi, secundum ipsum locum
in quo est, aliquas contrarietates. Sursum enim esse, et deorsum ubi esse
dicitur. Temporum quoque varietates in eo praedicamento, quod est quando, esse
manifestum est. Futura enim et praesentia praeteritaque in quando praedicamento
veniunt. Dicimus enim fuisse aliquando Scipionem consulem Romanum, nunc esse
Orientis imperatorem, qui nunc Anastasius appellatur. Futurum autem esse
aliquem, quae scilicet secundum quando praedicamentum dicuntur. Habere autem
est quoddam extrinsecus veniens, neque innatum ei a quo habetur, aliudque quam
est illud ipsum a quo habetur, in se retinere, ut armatum esse vel uestitum
esse. Habere enim est uestes atque arma tenere, quae cum eo nata non sunt,
neque aliqua cum eo qui habet, communi natura proprietateque iunguntur; sed
quoniam de his Aristoteles tacuit, nobis quoque nunc eorum longior tractatus
omittendus est. Expeditis omnibus praedicamentis, cur praeter propositum operis
in hanc oppositorum disputationem sit ingressus, a multis ante quaesitum est
sed Andronicus hanc esse adiectionem Aristotelis non putat, simulque illud
arbitratur, idcirco ab eo fortasse hanc adiectionem de oppositis, et de his
quae simul sunt, et de priore, et de motu et de aequivocatione, habendi non
esse factam, quod hunc libellum ante Topica scripserit, quodque haec ad illud
opus non necessaria esse putaverit, sicut ipse Categoria possunt ad sensum
Topicorum, non ignorans scilicet quod sufficienter in Topicis, quantum ad
argumenta pertinebat, et de his omnibus quae adiecta eunt, et de praedicamentis
fuisse propositum. Sed haec Andronicus. Porphyrius vero hanc adiectionem uacare
et carere ratione non putat. Cuius hanc prodidit causam. Ut enim multa sunt
quae quod communibus animi conceptionibus esse suggererent, in huius libri
principiis ab Aristotele praedicta sunt, ut de aequivocis, et univocis, et
denominativis, et de his omnibus, quaecumque usque ad substantiae disputationem
ad ipsorum praedicamentorum utilitatem cognitionemque praedicta sunt, ita
quaedam fuisse quae essent quidem in communibus sensibus, egerent tamen
subtilioris divisionis modo, haec diligenter supposita sunt, ut quid essent
proprie teneretur, ne falsis opinionibus traductus non firmus animus luderetur.
Docet autem hoc, inquit, etiam ipse ordo congruus rationique conveniens
titulorum, hanc adiectionem fuisse perutilem atque necessariam. Prius enim de
oppositis, post vero de his quae simul sunt, et de his quae posteriora sunt.
Post autem de motu, ad postremum de habendi aequivocatione sermonem faciens,
libri seriem terminavit. Idcirco quod in omnibus quidem praedicamentis ante
quaesivit, utrum possint habere contraria. In his vero quae sunt ad aliquid,
dixit magnum paruo non posse esse contrarium sed oppositum. Quid vero esse
oppositum dicere praetermisit, ne ordo disputandi continuus rumperetur. Hic
igitur recte quod illic praetermiserat, prius edocuit. In relativis quoque de
his quae sunt prius, quaeque simul natura gignuntur, strictim tetigit, quod
nunc diligenter explicat. Faciendi vero patiendique praedicamenta sunt, in
quibus quidam quasi motus agitatioque consideratur; necesse igitur fuit motu
dicere, qui naturam faciendi atque patiendi vellet ostendere. Quis autem
dubitet cuiuslibet sermonis aequivocationem monstrare, esse perutile? Quare
quoniam habere quoque praedicamentum est, non fuit inconveniens neque perfluum
de habendi aequivocatione tractasse. DE OPPOSITIS QUOTIENS SOLENT OPPONI,
DICENDUM EST. DICITUR AUTEM ALTERUM ALTERI OPPONI QUADRUPLICITER, AUT UT AD
ALIQUID, AUT UT CONTRARIA, AUT UT HABITUS ET PRIVATIO, AUT UT AFFIRMATIO ET
NEGATIO. OPPONITUR AUTEM UNUMQUODQUE ISTORUM, UT SIT FIGURATIM DICERE, UT
RELATIVA UT DUPLUM MEDIO, UT CONTRARIA UT BONUM MALO, UT SECUNDUM PRIVATIONEM
ET HABITUM UT CAECITAS ET VISUS, UT AFFIRMATIO ET NEGATIO UT SEDET Ñ NON SEDET.
Illud quoque quaeritur utrum oppositionis nomen aequivoce praedicetur. Dicimus
enim quattuor modis opponi, aut ut contraria, aut ut aliquid, aut ut habitum et
privationem, aut ut affirmationem et negationem. Hic ergo contenditur utrum aequivocatio
quaedam circa has quattuor diversitates sit, an id ipsum quod dicimus oppositum
generis vice praedicetur, ut sit univocum. Sed in hoc Stoicorum
Peripateticorumque diversa sententia fuit, et ut ipsi inter se Peripatetici,
diverse sectati sunt. Stoicorum quoniam longa sententia est, praetermittatur,
aliis autem Peripateticis placet nomen hoc oppositi de subiectis aequivoce
praedicari, ita affirmantibus, quoniam Aristoteles ita dixit: De oppositis
quoties solent opponi dicendum est hoc, id est quoties ad multiplicitatem
pertinet aequivocationis. Sed qui melius iudicavere, si oppositionis nomen
generis loco dicunt debere praedicari, idcirco quod cum nomen opposilionis de
subiectis quattuor oppositionibus praedicetur, ab his quoque definitio non oberret.
Sunt enim opposita quae in eodem, secundum idem, in eodem tempore, circa unam
eamdemque rem, simul esse non posunt, quod per singula quaeque pergentibus in
singulis oppositis invenitur. Namque album et nigrum, quae sunt contraria, unu
eodemque tempore circa unum idemque corpus partemque corporis simul esse non
possunt, nec seruus atque dominus eiusdem, eodem tempore idem seruus idem
dominus est, nec habitus et privatio; quis enim dicat in eodem oculo uno
eodemque tempore et visum posse esse et caecitatem? Iam vero affirmatio et
negatio quam repugnantes sint, quamque in eodem simul esse non possint, nulli
dubium est. Quare si ea quae sub oppositione ponuntur oppositionis nomen
definitionemque suscipiunt, quid est dubium oppositionem non aequivoce praedicari?
His igitur positis, ad eorum distantias differentiasque veniamus. QUAECUMQUE
IGITUR UT RELATIVA OPPONUNTUR, EA IPSA QUAE SUNT OPPOSITORUM DICUNTUR, AUT
QUOMODOLIBET ALITER AD EA; UT DUPLUM MEDII, HOC IPSUM QUOD EST, DICITUR DUPLUM;
ET SCIENTIA SCIBILIS REI SCIENTIA UT AD ALIQUID OPPONITUR, ET DICITUR SCIENTIA,
HOC IPSUM QUOD EST, SCIBILIS; ET SCIBILE, HOC IPSUM QUOD EST, AD OPPOSITUM
DICITUR, SCILICET SCIENTIAM (SCIBILE ENIM ALIQUA SCIENTIA SCIBILE DICITUR). QUAECUMQUE
ERGO OPPONUNTUR UT AD ALIQUID, EA IPSA QUAE SUNT OPPOSITORUM VEL ALIO QVOLIBET
MODO AD SE INVICEM DICUNTUR. Ea quidem huius oppositionis quae secundum
relationem dicuntur, et per seipsa plana atque uulgata sunt et superiori
relationis disputatione iam cognita. Illa enim sunt ad aliquid quaecumque id
quod sunt aliorum dicuntur, vel quomodolibet aliter ad ea, ut seruus domini
seruus, et dominus serui dominus, et magnum ad paruum dicitur, et rursus paruum
refertur ad magnum. Quod si hoc in relativis omnibus invenitur, nulla est
dubitatio quin etiam in his hoc deprehendi possit, quae secundum ad aliquid
opponuntur, ut ea ipsa id quod sunt oppositorum dicantur vel quomodolibet
aliter ad opposita, ut si est seruus domino oppositus, dominus serui dicatur,
id est oppositi sui, et rursus si dominus seruo oppositus est, domini seruus
dicatur. Paruum vero ad magnum, et magnum ad paruum, id est ad oppositum sibi.
Atque hoc quidem in omnibus secundum ad aliquid oppositionibus inveniri necesse
est. Quocirca sit haec proprietas eorum quae secundum ad aliquid opponuntur,
quod ea ipsa quae sunt ad opposita referuntur, et ipsorum esse dicuntur. His
ergo ante constitutis docet differentiam qua inter se ea quae secundum
contrarietatem dicuntur, vel ea quae secundum ad aliquid, discrepant atque
dissentiunt; ait enim. ILLA VERO QUAE UT CONTRARIA, IPSA QUIDEM QUAE SUNT NULLO
MODO AD INVICEM DICUNTUR, CONTRARIA VERO SIBI INVICEM DICUNTUR; NEQUE ENIM
BONUM MALI DICITUR BONUM SED CONTRARIUM; NEC ALBUM NIGRI ALBUM SED CONTRARIUM.
QUARE DIFFERUNT ISTAE OPPOSITIONES INVICEM. Dictum est in his quae secundum ad
aliquid opponuntur, quod ea ipsa id quod sunt ad id quod sibi est oppositum
dicerentur. Contraria vero et ipsa quidem opponuntur sibi sed id quod sunt ad
opposita non dicuntur, contraria autem dicuntur. Hoc autem huiusmodi est. Bonum
malo contrarium dicimus esse, et rursus malum bono. Nigrum quoque albo
contrarium putamus, nihilominus quoque album nigro. Sed cum hoc arbitramur, non
tamen dicimus ea id quod sunt esse oppositorum. Si enim diceremus ea id quod
est bonum esse oppositi sui, non diceretur bonum malo esse contrarium sed bonum
esse mali bonum. Nec ila praedicationem quis faceret nigrum albo esse
contrarium sed nigrum albi esse nigrnm. Hoc est enim id quod est nigrum dici ad
oppositum suum, si quis dicat nigrum albi esse nigrum; quod quoniam non
dicitur, ea ipsa quae sunt non dicuntur oppositorum, ea scilicet quae sibi ut
contraria videntur opponi. Sed quoniam dicimus bonum malo contrari uni, et
nigrum albo contrarium, quamquam id quod sunt oppositorum non dicantur, tamen
ad opposita ut contraria nominantur. Atque hoc est quod ait: Ipsa quidem quae
sunt nullo modo ad seinvicem dicuntur. Contraria vero sibi invicem dicuntur.
Non enim dicitur bonum mali bonum, hoc est enim id quod est opposili praedicare
sed dicimus bonum malo cootrarium. Quocirca differunt ea quae similiter ad
aliquid opponuntur his quae secundum contrarietatem sibi sunt opposita, quod ea
quidem quae secundum relationem opposita sunt id quod sunt oppositorum dicuntur.
Illa vero quae ut contraria, ipsa quidem quod sunt oppositorum nomine minime
sed tantum contraria praedicantur, ut bonum contrarium esse dicatur oppositi
sui non boni. Dicimus enim bonum malo contrarium, eum non dicamus bonum mali
bonum. Sed quoniam differentiam secundum ad aliquid oppositionis
contrariorumque monstravit, ipsorum inter se contrariorum differentiam discrepantiamque
persequitur. QUAECUMQUE VERO CONTRARIORUM TALIA SUNT UT IN QUIBUS NATA SUNT
FIERI ET DE QUIBUS PRAEDICANTUR, NECESSARIUM SIT ALTERUM IPSORUM INESSE, NIHIL
EORUM MEDIUM EST (QUORUM AUTEM NON EST NECESSARIUM ALTERUM INESSE, HORUM OMNIUM
EST ALIQUID MEDIUM); UT AEGRITUDO ET SANITAS IN CORPORE ANIMALIS NATA EST
FIERI, ET NECESSE EST ALTERUM IPSORUM INESSE ANIMALIS CORPORI, AUT AEGRITUDINEM
AUT SANITATEM; ET PAR QUIDEM ET IMPAR DE NUMERO PRAEDICATUR, ET NECESSE EST
HORUM ALTERUM NUMERO INESSE, VEL PAR VEL IMPAR; ET NON EST HORUM ALIQUID
MEDIUM, NEQUE AEGRITUDINIS NEQUE SANITATIS, NEQUE IMPARIS NEQUE PARIS. QUORUM
AUTEM NOR EST NECESSARIUM ALTERUM INESSE, HORUM EST ALIQUID MEDIUM; UT ALBUM ET
NIGRUM IN CORPORE NATUM EST FIERI, ET NON EST NECESSE ALTERUM EORUM INESSE
CORPORI (NON ENIM OMNE CORPUS VEL ALBUM VEL NIGRUM EST); ET PROBUM ET IMPROBUM
DICITUR QUIDEM DE HOMINE ET DE ALIIS PLURIBUS, NON EST AUTEM NECESSE ALTERUM
INESSE HIS DE QUIBUS PRAEDICATUR; NON ENIM OMNIA AUT PROBA SUNT AUT IMPROBA. ET
EST ALIQUID HORUM MEDIUM, UT ALBI ET NIGRI venETUM VEL PALLIDUM VEL QUICUMQUE
ALII COLORES SUNT, FOEDI VERO ET PULCHRI QUOD NEQUE PULCHRUM EST NEQUE FOEDUM.
IN ALIQUIBUS QUIDEM MEDIETATIBUS POSITA SUNT NOMINA, UT ALBI ET NIGRI venETUM
ET PALLIDUM; IN ALIQUIBUS VERO NON EST NOMINE ASSIGNARE MEDIETATEM, UTRIUSQUE
VERO NEGATIONE DEFINITUR, UT NEC BONUM NEC MALUM, NEC IUSTUM NEC INIUSTUM. Brevis
contrariorum partitio hoc modo facienda est. Contrariorum alia sunt habentia
medietatem, alia vero non habentia, et eorum quorum est aliquid medium, in
aliis plures medietates, in aliis vero una tantum medietas invenitur. Atque
horum aliquae medietates propriis nominibus appellantur in aliquibus 267B vero
ipsae quidem medietates propriis appellationibus carent, contrariorum vero
negatione signantur. Sed haec quae dicta sunt a primordio repetentes propriis
probemus exemplis. Illa vero contraria quae medio carent talia sunt, ut necesse
sit alterum eorum proprio inesse subiecto, ut est aegritudo et sanitas. Omne
enim corpus in quo aegritudo sanitasque versatur, aut aegrum aut sanum est.
Atque ideo quoniam aegritudo et sanitas medietate carent, alterutrum eorum
inerit ei subiecto, in quo utraque nata sunt fieri, et de quo praedicantur. Nam
quoniam in corpore animalis sanitas et aegritudo fieri nata est, id est ita
fieri solet, et ita omne natum est aninial, ut aut sanum esse possit aut
aegrum. Et quoniam de animalis corpore aut sanum, aut aegrum praedicatur,
necesse est quoniam haec medio carent in omni corpore animalis aut
aegritudinem, aut sanitatem esse. Quocirca eorum quae medio carent, necesse
alterum interesse subiecto, et quaecumque talia sunt, ut alterum ipsorum
subiecto inesse necesse sit, nulla inter ea medietas clauditur. Illa vero
contraria in quibus aliqua medietas est non sunt talia, ut eorum necesse sit
alterum inesse subiecto. Nam in illis quae medio carent idcirco alterutrum
subiecto inesse necesse est, quod eorum medietas nulla est quae possit interea
subiectae inesse substantiae, ut in numero quoniam paritas et imparitas medium
nihil habenti (omnis enim numerus aut par aut impar est nec est quod propterea
numero inesse possit), ideo omnis numerus aut par aut impar est. In his vero quae
inter se medietatem aliquam complectuntur, non est necesse semper alterum
contrariorum inesse. Potest namque inesse medietas, ut in colore, quoniam album
atque nigrum contrarietatis vice diversa sunt, habent autem medium quod est
rubrum vel pallidum, idcirco non omne corpus vel album vel nigrum est, quoniam
potest aliquando in subiectis corporibus albi atque nigri medietas inveniri.
Videmus namque rubrum corpus, ut rosam multosque praeterea flores, quos verni
temporis clementia parturit. Recte igitur dictum est, eorum quorum non sunt
aliquae medietates, alterum semper inesse subiectis, et in quibus necesse est
alterum inesse, fieri non posse quin illic medietas ulla sit. Eodem quoque modo
et quae medietates habent, non necessario alterutra subiectis inesse, et quae
non est necesse alterutra subiectis inesse, non est dubium quin illic quaedam
possit esse medietas sed in aliquibus quidam plures, in aliquibus autem una est
medietas, ut in colore inter album alque nigrum plures medietates sunt. Est
enim (ut dictum est) rubrum, et quoque pallidum, eodem quoque modo venetum, et
multa praeterea huiusmodi. In calido vero atque frigido una medietas est, quae
dicitur tepor. Horum autem quibus una medietas est, in aliis nornen est
positum, in aliis non. Et positum quidem nomen est, ut inter calidum
frigidumque, hanc enim medietatem tepidum esse praedicamus. Non est vero
positum in eo quod Aristoteles ipse sic dixit: Improbi vero et probi, quod
neque probum est, neque improbum. Nam quoniam bonum atque in ulum sibi sunt contraria,
non autem necesse est omne quod boni malive susceptibile est, vel bonum esse
vel malum, idcirco dixit bonum malumque, cum sint contraria, habere quamdam
medietatem, cui nomen positum quidem non sit sed nihilominus eam quis inter has
contrariorum naturas inveniet. Nam quod dictum est a posterioribus inter bonum
malam qua esse ea quae dicantur indifferentia, ut interest virtutem atque
turpitudinem, quae utraque sibi sunt contraria, divitiae et pulchritudo, quae
(ut Stoici putant) neque mala neque bona sunt, atque idcirco indifferentia
nominavere sed hoc ipsum quod dicimus indifferens apud priores nomen non erat,
et a posterioribus inventum est. Aristoteles autem qui hoc nomine usus nunquam est,
ait probum atque improbum habere quidem aliquam medietatem, verumtamen eam
nullo nomine nuncupari sed eam utriusque contrarii negotiatione definivit. Ait
enim medietatem probi atque improbi esse, quod neque probum esset neque
improbum, ut iusti atque iniusti medietas est, quod neque iustum, neque
iviustum est. Sed ne videatur inconveniens aliquid negationibus definiri, ipse
ait: In aliquibus vero non est nomine assignare medietatem, utriusque vero
negatione definitur. Namque ubi est una medietas, si utraque contraria sint
remota, sola tantum medietas permanebit, ut in eo quod est bonum et malum,
quoniam his una medietas est, sublato bono atque malo, solum quod neque bonum,
neque malum est relinquitur. Quocirca tota rursus divisio breviter assumenda
est. Eorum quae sunt contraria quorum necesse est semper alterum inesse in his,
in quibus ea secundum propriam naturam inesse contingunt, ea nullam inter se
retinent medietatem, ut in corpore sanitas et aegritudo, in numero paritas
atque im paritas. Quaecumque vero in his in quibus esse possunt, non ita sunt,
ut eorum necesse si alterum inesse, haec aliquam inter se qualitatem medietatis
amplectuntur, ut albedo atque nigredo, rubrum, frigidum atque calidum teporem.
Horum autem alia sunt quae unam solam continent medietatem, alia vero quae
multas, et multas, ut inter album atque nigrum, pallidum, venetum, quae
medietates sunt. Inter calidum atque frigidum una sola est medietas, tepor.
Horum autem quae unam retinent medietatem, in aliis nomina sunt posita, ut in
eo ipso calore ac frigore. Est enim tepor medietas caloris atque frigoris. In
aliquibus vero nomen positum non est, ut in eo quod est bonum atque malum,
iustum atque in iustum. In his enim medietas nomen positum non habet sed
utrorumque contrariorum negationibus definitur, ut dicamus eam esse boni atque
mali medietatem, quod neque bonum est malum, eamque esse iusti et iniusti
medietatem, quae utraque contrarietate summota, utrorumque negatione
relinquitur, ut est neque iustum, neque iniustum. PRIVATIO VERO ET HABITUS
DICUNTUR QUIDEM CIRCA IDEM ALIQUID, UT VISIO ET CAECITAS CIRCA OCULUM;
UNIVERSALITER AUTEM DICERE EST IN QUO NASCITUR HABITUS FIERI, CIRCA HOC DICITUR
UTRUMQUE EORUM. Ordine tertiam speciem propositae oppositionis exsequitur eam
quae secundum habitum privationemque dicitur, atque in ea unam similitudinem posuit
quae illi est cum contrarietate coniuncta. Nam sicut ea quae sunt contraria
circa idem sunt, ut album, quoniam semper in corpore est, nigrum quoque semper
est in corpore, et iustitia, quoniam semper animo inserta est, iniustitia
quoque mentis est vitium, ita quoque ea quae secundum privationem habitumque
dicuntur, circa idem semper necesse est inveniri, ut quoniam visus habitus est
(habemus enim visum) et visus est in oculos circa oculum, caecitas quoque, quae
privatio visus est, praeter oculum non est. Auditus etiam, qui habitus est,
quoniam circa aures est, eius quoque privatio quae surditas dicitur, ab auribus
non recedit; ita quoque et circa quod fuerit habitus, circa idem ipsum illius
habitus privatio consideratur. Atque hinc regulam dat. Universaliter enim dicit
in quo sit in eo fieri privationem. Quid vero sit privari, continuata
dispositione subiunxit: PRIVARI VERO TUNC DICIMUS UNUMQUODQUE HABITUS
SUSCEPTIBILIUM, QUANDO IN QUO NATUM EST INESSE VEL QUANDO NATUM EST HABERE
NULLO MODO HABET. Quid sit privatio hac Aristoteles definitione conclusit.
Neque enim quaecumque non habent visum, caeca dicuntur, nec vero surdum est
omne quod non sentit auditum, nemo enim neque parietem caecum dixerit, nec
surdum lapidem, neo quidquid huiusmodi est. Sed ea sola privari dicimus habitu,
quaecumque aut habuere habitum eoque caruere, aut habere potuere et non habent.
Parietem autem idcirco non dicimus caecum, quod in eo visus naturaliter venire
non potuit. Paruos vero catulos quibus visus non est, non satis digne aliquis
caecos esse pronuntiet. Eo enim tempore nondum naturaliter visum habere
possunt. Si vero exhaustis diebus quibus his oculi patefieri et lucem haurire
naturaliter possunt, non habeant visum, eos caecos esse manifestum est. At vero
neque ostrea dicuntur edentula, quoniam naturaliter non habeant dentes sed nec
infantulos quibus adhuc nondum huiusmodi aetas est, ut habeant dentes, vocamus
edentulos sed si aut is qui ante habuit, dentes amiserit, aut quo iam tempore habere
naturaliter debet, dentes non habet, ut si quis puerorum septimo anno omnino
nullum creaverit, illos iure edentulos appellamus, atque hoc est, quod ait: EDENTULUM
ENIM DICIMUS NON QUI NON HABET DENTES, NEC CAECUM QUI NON HABET VISIONEM SED
QUI, QUANDO CONTIGIT HABERE, NON HABET (MULTA ENIM EX NATIVITATE NEQUE DENTES
HABENT NEQUE VISIONEM SED NON DICUNTUR EDENTULA NEQUE CAECA). Hoc est, non omne
quod non videt caecum, nec quod dentes non habet edentulum appellamus. Plura
enim sunt quae aut omnino aut certo tempore naturaliter haec habere non possunt
sed est illa privatio quoties si habitum non habet, qui habere naturaliter
potest, et eo tempore cum iam per naturam illius 270B esse compos habitus
possit, vel si habens quis retinensque habitum, illum cuiuslibet incursione
casus amiserit, ut in pueris iam adultis si non habeant dentes. Nam quoniam
homines sunt, possunt habere; quod si habentes amiserint, edentuli dicuntur; si
vero omnino non creuerint dentes, quoniam iam pueris aeque adultis ut dentes
haberent, naturaliter poterat evenire, id quo casu aliquo vel aegritudine
officiente factum est, eos edentulos et habitudentium privatos esse nominamus. PRIVARI
VERO ET HABERE HABITUM NON EST HABITUS ET PRIVATIO; HABITUS ENIM EST VISUS,
PRIVATIO VERO CAECITAS, HABERE AUTEM VISUM NON EST viSUS, NEC CAECUM ESSE
CAECITAS (PRIVATIO ENIM QUAEDAM EST CAECITAS, CAECUM VERO ESSE PRIVARI, NON
PRIVATIO EST). Hic verissima ratione monstratur utrum ea que sub privatione
atque habitu cadant privationes sint atque habitus an minime: nam quoniam
habitus est visus, privatio vero caecitas, sub habitu vero est habere visum, et
sub privatione esse caecum, utrum habere visum idem sit quod ipse qui habetur
visus, et utrum idem sit caacum esse quod caecitas, perspicaciter intuentibus
aliud quoddam est habere aliquid quod habetur. Tres namque res sunt in eo in
quo est habitus, is qui habet ea res quae habetur, et habere, ut est is qui
videt, et ipse visus, et hoc ipsum quod ex utrisque, fit ex eo scilicet qui
videt et visu, quod est videre. Distat autem et videre ab eo qui videt, et hoc
ipsum videre rursus a visu. Aliud est enim id quod fit quam is qui facit.
Videre autem videns operatur, aliud est igitur videre quam videns. Distat autem
videre etiam a visu, aliud namque est id quod fit quam id per quod aliquid
geritur, videre autem per visum fit. Distat ergo videre ab eo ipso (qui ipsum
videre efficit) visu sed videre visum habere est, visum autem habere habitum
retinere est, et visus habitus est. Non est igitur idem habitus et quid est sub
habitu, id est quemlibet habitum retinere. Eodem quoque modo etiam in
privatione, et illic quoque tres sunt res, is qui privatur, hoc ipsum quod fit,
id est privari, et ipsum quo quis privatur, id est ipsa privatio. Quod si
distat is qui habet eo ipso quod est habitum habere, distat et is qui privatur
eo quod est privari. Quod si etiam distat quod est habere habitum illo ipso habitu qui habetur. Distat
necessario id quod est privati illa ipsa scilicet privatione qua quisque
privatur. Quare neque id quod sub habitu est habitus appellari potest neque id
quod sub privatiove privatio. Recte igitur dictum est habitum habere non esse
habitum privarique non esse privationem: cui rei aliqua quaedam validior vis
argumentationis adiungitur, quam Aristoteles ita pronuntiat. NAM SI IDEM ESSET
CAECITAS ET CAECUM ESSE, UTRAQUE DE EODEM PRAEDICARENTUR; NUNC VERO MINIME SED
CAECUS QUIDEM DICITUR HOMO, CAECITAS VERO NULLO MODO DICITUR. Si idem inquit
esset caecitas quod est esse caecum, de quocumque caecum esse diceretur, de eo
quoque caecitas praedicaretur sed caecum dicimus esse hominem, caecitatem vero
ipsum hominem nullus dicit: quare quoniam in utrisque diversa est praedicatio,
et de quo caecitas dicitur, non de eo dicitur caecum, rursumque de quo caecum
esse praedicatur, is caecitas dici non potest, non est dubium quin aliud sit
caecum esse quam caecitas, id est privationem esse aliud quam privari: sed
quamvis distent, aequali tamen oppositionis vice funguntur, quod ipse loquitur
sic: OPPONI QUIDEM ET ISTA VIDENTUR, PRIVARI SCILICET ET HABERE HABITUM, QUEMADMODUM
PRIVATIO ET HABITUS; IDEM ENIM MODUS EST OPPOSITIONIS; Aequa namque proportione
sibi privatio atque habitus opponuntur, et ea quae sub privatione habituque
clauduntur. Cur enim si privatio atque habitus, id est visus et caecitas sibi
sunt opposita, non etiam videre atque esse caecum eodem modo invicem sibimet
opponantur. Quare quamquam haec distent, tamen modus in his oppositionis
aequalis est. NON EST AUTEM NEC QUOD SUB AFFIRMATIONE VEL NEGATIONE EST NEGATIO
VEL AFFIRMATIO; AFFIRMATIO ENIM ORATIO EST AFFIRMATIVA ET NEGATIO ORATIO
NEGATIVA, EORUM VERO QUAE SUNT SUB AFFIRMATIONE YEL NEGATIONE NIHIL EST ORATIO.
DICUNTUR AUTEM ET ISTA SIBI OPPONI UT AFFIRMATRO ET NEGATIO; NAM ETIAM IN HIS
MODUS OPPOSITIONIS IDEM EST; QUEMADMODUM ENIM AFFIRMATIO AD NEGATIONEM
OPPONITUR, UT SEDET - NON SEDET, SIC RES QUAE SUB UTRISQUE EST SIBI OPPONITUR
SEDERE ET NON SEDERE. Ad quartam oppositionis speciem transitum fecit, quae
secundum affirmationem negationemque dicitur. Affirmatio autem est quae aliquam
rem alicui quadam participatione coniungit, negatio vero quae aliquam rem ab
aliqua re quadam separatione disiungit, ut est: Omnis homo est animal animal
enim ad hominem haec oratio iungit. Participat enim homo proprio genere, scilicet
animal, negatio vero: Homo lapis non est. Disiungit enim naturam lapidis ab
humanitate qui negat sed multa de his in libro de interpretatione dicenda sunt.
Quare plenior horum disputatio in tempus aliud differatur. Aristoteles vero
simplicissime et pene incuriose propter eos qui instituuntur definitiones
affirmationis negationisque signavit, dicens negationem affrmationemque,
affirmativas esse negativasque orationes. Quod si examinatius ac subtilius
definisset, affirmationem per affirmativam orationem non definiret. Nam si
dubium est quid sit affirmatio, nihilo magis clarum atque perspicuum est quid
sit affirmativa oratio. Idcirco quod si quis nescit quid sit affirmatio, idem
sine dubio nesciturus est quid oratio sit affirmativa. Sed idcirco hic indulgentius
terminavit, quod in libro Perihermeneias utriusque veram plenamque vim
definitionis aptavit. Eadem quoque in his ratio est qua sunt sub affirmatione
et negatione, quae in his quae sub privatione atque habitu ponebantur, nam
sicut non est idem habitus atque privatio quod habere habitum atque privari,
ita non idem est affirmationem et negationem esse quod est sub affirmatione et
negatione. Affirmatio est, verbi gratia sedet Socrates, negatio vero, non sedet
Socrates. Sub affirmatione autem hoc ipsum sedere Socratem, id est hoc quod sub
affirmatione dicit facere. Sub negatione vero non sedere Socratem, id est non
facere id quod negatio submovet. Hoc autem ita probatur, quod omnis affirmatio
omnisque negatio orationes sunt, sicut eorum supradicta definitio
determinatioque monstravit. Sedere autem et non sedere, id est facere et non
facere, orationes non sunt, quod si affirmatio et negatio orationes sunt,
dicitur id quod sub affirmatione et negatione est, ea ipsa affirmatione et
negatione distare. Sed in hoc servant illam quoque similitudinem quod ea ipsa
sibi sunt opposita, quae secundum affirmationem negationemque dicuntur. Sicut
enim ipsa affirmatio quae dicit sedet Socrates, et quae dicit, non sedet
Socrates, ita quoque id ipsum quod est sedere Socratem, et non sedere, certa
ratione similitudinis opponuntur. Sed quoniam quattuor species oppositionis
dictae sunt, nunc Aristotelis uestigia persequentes, earum differentias
colligamus, quae sunt numero sex: nam si quae res sint quattuor, easque
differre a se ac distare volumus, sex solas differentias invenimus. Cum enim
primam differre a secunda ac tertia atque quarta ponimus, tres sunt
differentiae. Item secundam rem a prima re differre ostendere atque demonstrare
superfluum est. Cum enim primae rei ad secundam distantiam colligeremus, quid
secunda distaret a prima docuimus. Relicta igitur primae ad secundam rem
differentia, secundae et tertiae, item secundae quartaeque differentiae
monstrabuntur, quae sunt duae, quae tribus superioribus iunctae quinque solas
efficiunt. Restat tertiae rei quartaeque distantia. Nam primae ad secundam
atque tertiam demonstrata est discrepantia, cum prima a secunda distaret, atque
eodem modo a tertia monstrabamus. Id his probatur exemplis. Nam cum oppositio
ea quae est secundum ad aliquid, ab his oppositionibus quae sunt secundum
contrarietatem, privationem atque habitum, atque affirmationem et negationem,
distare proponitur, tres sunt differentiae. Cum vero ea quae secundum
privationem atque habitum oppositio est, a contrariis et ab affirmatione
negationeque discrepat, duae sunt differentiae quae iunctae superioribus
quinque perficiunt. Idcirco enim quid distaret habitus atque privatio, ea
oppositione quae relativa est praetermisimus, quoniam prius monstravimus quid
relativa oppositio ab habitu privationeque differret; non est enim dubium
aequam esse in utrisque differentiam, cum una ab alia discrepaverit. Restat una
sola differentia, quae est contrariorum ad affirmationem scilicet et
negationem; praetermissa namque est contrariorum differentia, de relativa
scilicet et secundum habitum privationemque oppositione, quid haec superius a
contrarietate distaret, monstratum est. Quare quoniam quot sunt horum
differentiae cognitum est, ad sequentis operis ordinem veniamus. QUONIAM AUTEM
PRIVATIO ET HABITUS NON SIC OPPONUNTUR UT AD ALIQUID, MANIFESTUM EST; NEQUE
ENIM DICITUR HOC IPSUM QUOD EST OPPOSITI; VISUS ENIM NON EST CAECITATIS VISUS,
NEC ALIO ULLO MODO AD IPSUM DICITUR; SIMILITER AUTEM NEC CAECITAS DICITUR
CAECITAS VISUS SED PRIVATIO VISUS CAECITAS DICITUR. AMPLIUS OMNIA QUAECUMQUE AD
ALIQUID DICUNTUR CONVERSIM DICUNTUR, QUARE ETIAM CAECITAS, SI ESSET EORUM QUAE
SUNT AD ALIQUID, CONVERTERETUR ILLUD AD QUOD DICITUR; SED NON CONVERTUNTUR;
NEQUE ENIM DICITUR VISUS CAECITATIS. Et caetera quidem quae sunt differentia
perspicue superius in contrariorum differentia relativa oppositione ante
praemissa sunt. Unam namque differentiam contrariorum relativorumque dixit
esse, quod contraria non ita ut ea quae sunt ad aliquid converterentur. Neque
enim quis pronuntiat malitiam bonitatis esse malitiam, neque bonitatem malitiae
esse bonitatem, velut filium patris esse filium, rursusque patrem filii patrem.
Eadem quoque et in his quae secundum privationem habitumque redduntur, dicitur
differentia. Nam sicut ea qua sunt ad aliquid opposita, adversum semetipsa
redduntur, et omnia ad opposita praedicantur, non eodem modo in habitu atque
privatione est. Nullus enim dicit caecitatis esse visum, nec rursus visus esse
caecitatem. Quocirca si ea quae sunt relativa ad opposita praedicantur,
conversimque dicuntur -- cum enim sit oppositus filio pater, pater filii
dicitur, scilicet ad oppositum, rursusque convertitur ut patris filius
appelletur -- quoniam hoc in his quae sunt secundum privationem et habitum non
dicitur. Neque enim cum sit visus oppositus caecitati, secundum privationem
atque habitum dicitur visus caecitatis, id est nunquam secundum hanc
oppositionem aliquid oppositi praedicatur neque convertitur, neque enim dicitur
caecitas visus, recte privatio atque habitus non in eadem qua relativa sed in alia
specie numerata sunt. QUONIAM AUTEM NEQUE UT CONTRARIA OPPONUNTUR EA QUAE
SECUNDUM PRIVATIONEM ET HABITUM DICUNTUR, EX HIS MANIFESTUM EST. QUORUM ENIM
CONTRARIORUM NIHIL EST MEDIUM, NECESSE EST, IN QUIBUS NATA SUNT FIERI AUT DE
QUIBUS PRAEDICARI, ALTERUM IPSORUM INESSE SEMPER; HORUM ENIM NIHIL ERAT MEDIUM,
QUORUM NECESSE ERAT ALTERUM INESSE EORUM SUSCEPTIBILI, UT IN AEGRITUDINE ET
SANITATE ET IMPARI ATQUE PARI. QUORUM AUTEM EST ALIQUID MEDIUM NUNQUAM NECESSE
EST OMNI INESSE ALTERUM; NAM NEQUE ALBUM AUT NIGRUM NECESSE EST OMNE ESSE EORUM
SUSCEPTIBILI, NEC FRIGIDUM NEC CALIDUM (NIHIL ENIM PROHIBET ALIQUAM IPSORUM
INESSE MEDIETATEM); ERAT ETIAM ISTORUM MEDIETAS, QUORUM NON NECESSE ESSET
ALTERUM INESSE EORUM SUSCEPTIBILI, NISI FORTE ALIQUIBUS NATURALITER CONTIGERIT
UNUM IPSORUM INESSE, UT IGNI CALIDUM ESSE ET NIVI ALBUM (IN HIS AUTEM NECESSE
EST DEFINITE UNUM IPSORUM INESSE, ET NON HOC AUT ILLUD; NEQUE ENIM POTEST IGNIS
ESSE FRIGIDUS NEC NIX ESSE NIGRA); QUARE NON NECESSE EST OMNIBUS EORUM
SUSCEPTIBILIBUS ALTERUM HORUM INESSE SED SOLIS HIS QUIBUS NATURALITER UNUM
INEST, ET HIS DEFINITE UNUM, NON AUTEM HOC AUT ILLUD. Prolixitatem textus
idcirco contraxi quod et ea ipsa quae dicuntur supra iam dicta sunt, nec
longior ordo possit aliquod creare fastidium, quod nos hac textus divisione
seiunximus. Et prius quidem proponit ante oculos omnes inter se contrariorum
differentias, quas ipse quantum potero brevissime commemorabo; ait enim
contrariorum quae mediis carent semper alterum inesse ei quod illas
contrarietates 274C suscipere potest, ut aegritudo et sanitas, quoniam semper
in animalis corpore reperitur, et ea sine ullo est adversus suum contrarium
medio. Idcirco omne corpus animalis semper aut aegrotat aut sanum est, et semper
alterum aut sanitatis aut aegritudinis inest ei quod has suscipit
contrarietates. Eorum vero contrariorum quae habent aliquam medietatem, non
necesse est semper alterum inesse ei cui accidunt, ut album atque nigrum, cum
sint utraque contraria, quoniam habent aliquam medietatem, ut rubrum, veniunt
autem semper in corpora, non necesse est omne corpus fieri, aut album aut
nigrum, quoniam potest aliquando contingere ut illa eorum medietas corpori
cuilibet eveniat. Atque hoc ita est in iis quae medio non carent, quae ipsa
mediata vocamus, exceptis his quibus una contrarietas est insita per naturam,
ut nix alba est, ignis calidus. In his enim unam semper necesse est evenire non
aliam, nec utrumlibet sed definite unam. Id enim non venit in ignem, ut
aliquando sit calidum, aliquando frigidum, aliquando vero quod horum medietas
est tepidum sed semper naturali calore succenditur; nec nix aliquando fit
nigra, nec rursus rubea, nec ullis aliis coloribus permutatur sed solum semper
alba est. Cum haec ita sint, ea quae secundum habitum privationemque
opponuntur, si et ab his contrariis distare monstrata sint quae mediis carent,
et ab his quae intra se quamdam medietatem qualitatis includunt, et ab his
quoque quae, cum mediate sint, tamen definite alicui insunt, perfecte
monstratum est ea quae secundum habitum et privationem sunt a contrariis
discrepare. Quare quid distent Aristotele teneamus auctore. IN PRIVATIONE VERO
ET HABITU NEUTRUM VERUM EST EORUM QUAE DICTA SUNT, NEQUE ENIM SEMPER EORUM
SUSCEPTIBILI NECESSE EST ALTERUM IPSORUM INESSE; QUOD ENIM NONDUM NATUM EST
HABERE VISUM NEQUE CAECUM NEQUE viSUM HABERE DICITUR, HABENS VISUM DICITUR; ET
HORUM NON DEFINITE ALTERUM SED AUT HOC AUT ILLUD (NEQUE ENIM NECESSE EST AUT
CAECUM AUT HABENTEM VISUM ESSE SED AUT HOC AUT ILLUD); IN CONTRARIIS VERO,
QUORUM EST MEDIETAS, NUMQUAM NECESSE EST OMNI ALTERUM INESSE SED ALIQUIBUS, ET
HIS DEFINITE UNUM. QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM SECUNDUM NEUTRUM MODUM QUEMADMODUM
CONTRARIA OPPONUNTUR ITA SIBI SUNT EA QUAE SUNT SECUNDUM PRIVATIONEM ET HABITUM
OPPOSITA. Dat primo differentias quibus ea quae sunt secundum habitum et
privationem opposita, ab iis quae sunt immediata contrariis distent. In his
enim contrariis quae medium non habent, semper necesse est ipsorum alterum
inesse ei quod his ipsis subiectum est. In habitu vero et privatione non ita
est. Non enim semper quaelibet res aut habitum habet aut privationem sed est tempus
quando utrumque non habeat, ut catuli quibus nondum per naturam oculi patent.
Illos enim nec habere habitum dicimus, quoniam non vident, nec privatos visu,
quoniam paruuli adhuc visum per naturam habere non possunt Igitur horum quae
sibi secundum privationem habitumque sunt opposita, non semper alterum subiecto
inest eorum. Sed eorum quae sunt contraria immediata, id est medio carentia,
semper alterum susceptibili inest. Distat igitur ea quae secundum habitum et
privationem est oppositio, iis quae secundum contraria putantur opponi. Sed
quoniam sunt quaedam contraria quae insunt alicui per naturam, ut nivi album,
igni calidum, coruo nigrum, etiam ab his discrepat oppositio privationis et
habitus. Ea enim quae per naturam insunt definita sunt et nullo modo permutantur,
ut est album nivi. Non enim nix aut alba aut nigra est sed tantum alba, et
coruus non aut albus aut niger sed solum niger. In privatione vero et habitu
una res esse non potest definita sed semper aut privatio contingit, aut
habitus, et hoc est quod ait, et horum non definite alterum sed aut hoc aut
illud. Neque enim necesse est aut caecum esse aut habentem visum definite
subaudiendum est, catulus enim qui per naturam non dum videt, aut habitum
habiturus est, id est visum, aut eo privandus est, ut sit caecus sed non
definite unum sed aut hoc aut illud indefinite contingit. Distat igitur haec
oppositio his contrariis quae aliquibus per naturam immutabiliter accidunt.
Restat igitur ut his contrariis quae mediata sunt hanc oppositionem differre
doceamus. In illis enim non semper necesse erit contraria inesse subiecto,
idcirco quod eorum medietates possint subiectis evenire substantiis, ut album
vel nigrum quod non est alicui per naturam sed tantum secundum accidens.
Possunt enim utraque non esse in corporibus, quoniam his vel rubrum vel
pallidum, quae sunt eorum medietates eveniunt. In privatione vero id et habitu
non est. Quando enim poterit per naturam habere habitum, utrisque quae ea
suscipiunt, carere non possunt. Catulus enim cum per naturam videre potuerit,
aut habitum habere dicitur, et est videns, aut privationem, si fuerit caecus.
Ita semper ab eo tempore 276B quo illi per naturam utrumlibet habere concessum
est, alterutrum retinebit, id est aut privationem retinebit, aut habitum.
Quocirca si in his contrariis quae medio non carent, potest fieri ut utraque
contraria in subiecto non sint, in privatione vero et habitu ab eo tempore quo
per naturam potest utrumque retinere, fieri non potest nisi eorum habeat
alterum, distant haec quoque mediata ab his quae secundum vim privationis atque
habitus opponuntur. Sed ante monstratum est et his contrariis quae per naturam
essent, et iis quae medio carerent, hanc oppositionem esse dissimilem. Recte
igitur positum est privationis atque habitus oppositionem ab his quae opponuntur
ut contraria, discrepare. AMPLIUS IN CONTRARIIS, CUM SIT EORUM SUSCEPTIBILE,
POTEST FIERI IN ALTERNA MUTATIO, NISI 276C CUI NATURALITER UNUM INSIT, UT IGNI
CALIDO ESSE; QUOD ENIM SANUM EST POTEST AEGRESCERE, ET ALBUM NIGRUM FIERI, ET
FRIGIDUM CALIDUM, ET EX PROBO IMPROBUM ET EX IMPROBO PROBUM FIERI POTEST
(IMPROBUS ENIM IN MELIOREM CONSUETUDINEM SERMONEMQUE PERDUCTUS VEL PARUM SESE
DABIT IN MELIUS; SIN VERO VEL SEMEL PARUAM INTENTIONEM SUMAT, MANIFESTUM EST
QUONIAM AUT PERFECTISSIME PERMPOMBAUR AUT MAGNAM SUMAT INTENTIONEM; SEMPER ENIM
MOBILIOR AD VIRTUTEM FIT, SI QUAMLIBET A PRINCIPIO SUMPSERIT INTENTIONEM, QUARE
ERIT POSSIBILE MAIOREM ILLUM INTENTIONEM SUMERE; ET HOC SAEPIUS FACTUM PERFECTE
IN CONTRARIAM HABITUDINEM CONSISTERE, NISI TEMPORE PROHIBEATUR). IN PRIVATIONE
VERO ET HABITU IMPOSSIBILE EST AD INVICEM FIERI MUTATIONEM; AB HABITU ENIM AD PRIVATIONEM
FIT PERMUTATIO, 276D A PRIVATIONE VERO AD HABITUM IMPOSSIBILE EST; NEQUE ENIM
FACTUS ALIQUIS CAECUS RURSUS vidIT, NEC CALUUS RURSUS CRINITUS FACTUS EST, NEC
EDENTULUS DENTES CREAVIT. Aliam rursos contrariorum et huius oppositionis quae
secundum habitum privationemque dicitur, discrepantiam ponit. Ea enim quae
contraria sunt, possunt in alterna variatis vicibus permutari. Quod enim
calidum est potest effici frigidum, rursusque quod frigidum est potest in
caloris verti qualitatem. His tamen (ut dictum est) solis exceptis, quibus una
quaelibet res contrariorum naturaliter insita est, in his enim solis fieri non
potest alterna mutatio: in his vero quae accidenter et non per naturam
subiectis eveniunt, fit semper in contraria permutatio, ut ex sano aegrum, ex
aegro rursus sanum corpus efficitur animalis. Iam vero illud verum est, ex bono
proclivior semper semita videtur ad malum, et facillima esse ex probitate ad
malitiam permutatio, quod Terentiano docetur exemplo: A labore proclivem ad
libidinem. Sed quamquam difficilis sit transitus ad virtutes a turpitudine
vitiorum, Aristoteles tamen fieri posse hunc transitum confirmat. Huius enim
philosophi sententia est, virtutes non esse scientias, ut Socrates ait, neque
ut Stoici naturaliter eas esse sed discibiles, et per quamdam boni
consuetudinem hominum mentibus inseriri. Atque ideo si quis sit quibuslibet
prioribus vitiis obnoxius, si eum melior sermo susceperit, et sapientium
consuetudine confabulationeque comatur, aliquid ex ante actis vitiorum
illecebris emendabitur, et sese aliquantulum exuet, et paululum liberior ad
meliora procedet. Ita ut sit primo quidem minus malus, post vero non malus,
deinde iam iamque aliquantulum bonus. Cui si huiusmodi intensio frequentissime
fiat, nec paruitate temporis praeveniatur, aut ei terminus mortis offecerit,
non est dublum illum ex pessimo per probas consuetudines confabulationesque
sapientum, in perfectam virtutis habitudinem permutari. Est igitur ex bono in
malum, et ex malo in bonum rursus permutatio, atque hoc quidem fit in
contrariis. In habitu vero et privatione non fit, est namque permutatio sed
haec una tantum, nulla ratione sese convertens; ait enim: Ab habitu ad
privationem 277C permutatio, a privatione vero ad habitum impossibile est. Et
hoc planissime docet exemplis. Quis enim unquam ex caeco factus est videns?
quis aliquando caluus crinitus efficitur? cui amissis aetate dentibus rursus
alii procreantur? Quare si in contrariis fit alterna mutatio, in privatione
vero atque habitu non fit, distat haec oppositio ab ea scilicet oppositione
quae fit secundum contrarias qualitates. QUAECUMQUE VERO UT AFFIRMATIO ET
NEGATIO OPPONUNTUR, MANIFESTUM EST QUONIAM SECUNDUM NULLUM MODUM EORUM QUI DICT
SUNT OPPONUNTUR; IN HIS ENIM SOLIS NECESSE EST HOC QUIDEM ESSE VERUM ILLUD VERO
FALSUM. NAM NEQUE IN CONTRARIIS NECESSE EST SEMPER ALTERUM ESSE VERUM, ALTERUM
VERO FALSUM, NEC IN RELATIVIS, NEQUE IN HABITU ET PRIVATIONE; UT SANITAS ET
AEGRITUDO CONTRARIA SUNT SED NEUTRUM IPSORUM NEQUE VERUM NEQUE FALSUM EST;
SIMILITER AUTEM ET DUPLUM ET MEDIUM QUAE UT AD ALIQUID OPPONUNTUR, NON EST
EORUM ALTERUM FALSUM ALTERUM VERUM; NEC VERO EA QUAE SECUNDUM HABITUM ET
PRIVATIONEM SUNT, UT VISUS ET CAECITAS. OMNINO AUTEM NIHIL EORUM QUAE SECUNDUM
NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR AUT VERUM AUT FALSUM EST; OMNIA AUTEM QUAE DIXIMUS
SINE COMPLEXIONE DICUNTUR. Expositis his differentiis quibus vel contrariis
relativa, vel privatio et habitus relativis, vel rursus privatio et habitus
contrariis discreparent, nunc sequitur quid his omnibus secundum affirmationem
negationemque opposita distent, et dat signum proprium affirmationis et
negationis, ut eas semper quaeramus agnoscere, ut si qua sint quae hoc signo
minime teneantur, illa ab affirmationis negationisque oppositione deferre
dicamus. In affirmatione enim et negatione fieri non potest, ut si affirmatio
vera sit, statim falsa negatio non sit; si negatio vera, aftirmatio mendacii
nota carere possit, ut si qu is dicat. Socrates ambulat, Socrates non ambulat.
Si verum est Socratem ambulare, falsum est non ambulare, et rursus si verum est
non ambulare, falsum est ambulare. Hanc autem veri falsique divisionem nullus
unquam in aliis oppositionibus poterit invenire. Nam in his quae sunt ad
aliquid non solum non est necesse oppositionem ipsam sibi verum falsumque dividere
sed in his nulia omnino neque veritas, neque falsitas invenitur. Si quis enim
dicat hoc tantum, pater, vel rursus, filius, neque verum aliquid neque falsum
pronuntiat. Et in contrariis quoque idem est, nam cum bono malum sit
contrarium, si quis nominet bonum, et si quis rursus simpliciter pronuntiet
malum, nulla in hac praedicatione neque falsitas, neque veritas est. Eodem
quoque se modo habet etiam in his quae secundum habitum privationemque
dicuntur. Similiter evim nihil neque verum, neque falsum est, si quis visum
nominet vel caecitatem, hoc autem idcirco evenit, quia omnia, quaecumque sunt,
in quibus aut falsitas, aut veritas invenitur, secundum aliquam complexionem
dicuntur. Ea vero quae simpliciter proferuntur, veri atque falsi prolatione carent,
ut ipse ait, cum in principio omnia praedicamenta numeraret, dicens singula
eorum quae essent dicta in nulla affirmatione dici, quadam vero complexione
inter se horum praedicamentorum veritatem falsitatemque gigni, de quibus
Aristoteles edocuit praeter complexionem aliquam in sermonibus veritatem
falsitatemque inveniri non posse. Si quidem exemplo quoque hoc manifestum est.
Si enim dixero, Socrates homo est, aut verum aut falsum est. Quod si hoc tantum
dicam Socrates, aut rursus, homo, nihil in eo neque veritatis neque falsitatis
est. Quocirca quoniam omnis affirmatio cum complexione profertur, potest in ea,
aut veritas, aut falsitas inveniri. Ea vero quae sunt ad aliquid simpliciter et
sine ulla complexione dicuntur. Similiter autem et contraria, et ea quae sunt
secundum habitum privationemque sibimet opposita, ut est pater filius, bouum
malum, visus caecitas, qua, quoniam sine complexione dicuntur (ubi autem
complesio non est, illic nec falsitas neque veritas est. In affirmationibus
vero solis et negationibus quae secundum complexionem dicuntur, aut veritas aut
falsitas reperitur, secundum affirmationem et negationem oppositio a cunctis
aliis superioribus distat. AT VERO MAGIS HOC VIDETUR CONTINGERE IN HIS QUAE
SECUNDUM COMPLEXIONEM DICUNTUR (SANUM ENIM ESSE SOCRATEM ET AEGROTARE SOCRATEM
CONTRARIA SUNT) SED NEC IN HIS QUOQUE NECESSE EST SEMPER ALTERUM VERUM ESSE,
ALTERUM AUTEM FALSUM; CUM ENIM 279A SIT SOCRATES, EST HOC QUIDEM VERUM ILLUD
VERO FALSUM, CUM AUTEM NON SIT, UTRAQUE FALSA SUNT; NAM NEQUE AEGROTARE NEQUE
SANUM ESSE VERUM EST CUM IPSE SOCRATES NON SIT OMNINO. IN PRIVATIONE VERO, CUM
NON SIT, NEUTRUM VERUM EST, ET CUM SIT, NON SEMPER ALTERUM VERUM EST; VISUM
ENIM HABERE SOCRATEM ET CAECUM ESSE SOCRATEM OPPONUNTUR UT HABITUS ET PRIVATIO,
ET CUM SIT, NON EST NECESSE ALTERUM VERUM ESSE VEL FALSUM (QUANDO ENIM NON EST
NATUS UT HABEAT, UTRAQUE FALSA SUNT), CUM AUTEM NON SIT OMNINO SOCRATES, SIC
QUOQUE UTRAQUE FALSA SUNT, ET HABERE EUM VISUM ET EUM ESSE CAECUM. Quoniam
videntur quaedam contraria secundum complexionem dici, in quibus aut falsitas
reperitur aut veritas sed neque ut affirmatio sit neque ut negatio, de his
quoque dicit, quid distent his complexionibus, quae secundum affirmationem
negationemque dicuntur. Nam sicut aegritudo est contraria sanitati, ita quoque
aegrotum esse Socratem, ei quod est sanum esse contrarium est. Oratio quoque
quae dicit Socrates sanus est, contraria est ei quae pronuntiat Socrates
aegrotat. In his ergo et veritas invenitur et falsitas. Quod igitur haec
distant ea oppositione quae secundum vim affirmationis aut negationis
opponitur, hoc scilicet quod subsistente re, de qua utraque dicuntur,
utrumlibet eorum verum est, si tamen ea contraria praedicantur, quae mediis
carent, nam vivente et subsistente Socrate, quoniam aegritudo et sanitas
immediata contraria sunt, si quis de Socrate dicat: Socrates sanus est,
rursusque alius pronuntiet: Socrates aegrotat, unam veram, unam falsam esse
necesse est. Socrates enim vivens aut aegrotat aut sanus est, et si verum est
eum aegrotare, sanum esse falsum est, et si falsum est aegrotare, sanum esse
verum est; si vero Socrates ipse non subsistat neque omnino sit, utrumque de eo
falsum est dicere, quoniam aegrotat et sanus est. Qui enim omnino non est,
neque omnino poterit aegrotus esse nec sanus. Ergo in contrariis subsistente re
de qua praedicantur, semper una praedicatio vera est, alia falsa, in his
scilicet contrariis quae secundum complexionem dicuntur et carent medio. Non
subsistente autem re, contrarietates utraeque sunt falsae. Illa vero quae
secundum privationem habitumque dicuntur, si cum complexione praedicentur, et
subsistat res, non necesse est aliam veram esse, aliam falsam, et eum res
omnino non sit, utraeque sunt falsae. Socrates enim cum sit iam in suae matris
aluo, et nondum sit genitus in lucem quidem editus non est, ipse tamen est
atque vivit sed tunc neque videns est neque caecus, et videns quidem non est;
quoniam nondum in lucem est editus. Caecus vero idcirco non dicitur, quoniam
adhuc videre non poterat. Ergo cum sit atque subsistat res de qua habitus et
privatio praedicantur, potest fieri ut de ea falsa utraque praedicentur; si
vero res de qua dicitur non sit, omnino utrasque falsas esse necesse est, ut
cum Socrates omnino non est, falsum est eum dicere vel videntem 280A esse vel
caecum. Ille enim videt atque caecus est qui vivit atque subsistit, cum vero de
quo dicitur non sit omnino, utraque de eo falso dicuntur. In catulis quoque
idem est, nam cum iam sunt editi, subsistunt quidem; sed neque caeci sunt neque
videntes, quia nondum per naturam visum habere potuerunt. Sin vero omnino non
sint, rursus falsum est de his utrumque praedicari. In affirmatione vero et
negatione non ita est, ut ipse pronuntiat. IN AFFIRMATIONE VERO VEL NEGATIONE
SEMPER, VEL SI SIT VEL SI NON SIT, ALTERUM IPSORUM VERUM, ALTERUM FALSUM ERIT;
AEGROTARE ENIM SOCRATEM ET NON AEGROTARE SOCRATEM, CUM SIT IDEM IPSE,
MANIFESTUM EST QUONIAM ALTERUM EORUM VERUM VEL FALSUM EST, CUM NON SIT, SIMILITER
(NAMQUE AEGROTUM ESSE, CUM NON SIT, FALSUM EST, NON AEGROTARE VERO VERUM EST).
QUARE IN SOLIS HIS ERIT SEMPER ALTERUM IPSORUM VERUM ESSE VEL FALSUM,
QUAECUMQUE UT AFFIRMATIO ET NEGATIO OPPONUNTUR. In affirmatione, inquit, et
negatione sive res subiecta subsistat, sive non sit omnino, semper in una
veritas, in alia falsitas inveniuntur. Non esse enim idem dicere aegrotare
aliquem quod non esse sanum, neo idem caecum esse quod non videre
perspicacissime docet. Nam qui aegrotat nisi subsistat non potest aegrotare.
Non esse autem sanum, non ita est, nam etiamsi non sit omnino aliquis, potest
de eo qui non est haec negatio praedicari. Quod enim omnino non est, sanum esse
non potest, quod sanum esse non potest non est utique sanum. Eodem quoque modo
est et de caecitate et de visu, neque enim idem est dicere caecum esse aliquem
quod non videre; qui enim caecus est, subsistit vivitque, ut sit caecus, non
videre vero etiam de omnino non subsistente dici potest. Qui enim non subsistit
omnino videre non potest, et qui videre non potest non videt. Quocirca in
affirmatione et negatione sive sit de quo dicitur sive non sit, una semper vera
est, altera falsa. Nam cum sit Socrates et vivat, si de eo verum est dicere,
quoniam videt, falsum est dicere, quoniam non videt, et si de eo verum est
dicere, quoniam sanus est, falsum est dicere de eo quoniam non est sanus. Si
negationes verae sunt, falsae sunt affirmationes. Si vero res subiecta non
subsistat omnino, de ea quidem affirmatio falsa est, negatio semper vera. Nostro
enim tempore cum Socrates non est neque subsistit, si quis dicat Socrates
videt, et alius dicat Socrates non videt, falsum quidem est de eo dicere,
quoniam videt, verum autem quoniam non videt. Qui enim omnino non est, videre
non potest, qui videre non potest, non videt. Ita firmum immutabileque semper
manet in affirmationibus et negationibus alteram semper veram, alteram falsam
in praedicatione constitui. Quocirca quoniam in contrariis et in iis quae
secundum privationem habitumque sunt, si cum complexione utraque dicantur de re
non subsistente, falsa sunt utraque quae praedicantur. Cum hoc idem in
affirmationibus et negationibus non sit, omnes caeterae oppositiones ab
affirmatione et negatione dissentiunt. Monstratae sunt igitur oppositiones quattuor
et sex differentiae: una quidem contrariorum et eius quae est ad aliquid;
secunda contrariorum et eorum quae sunt secundum habitum et privationem; tertia
contrariorum et eius oppositionis quae est secundum affirmationem et
negationem; quarta relativorum et eius quae est secundum habitum et
privationem; quinta relativorum et eius quae est affirmationis et negationis;
sexta privationis et habitus ad negationem et affirmationem. Sed post has
oppositionum differentias quaedam de contrariis ad multas proficientia
quaestiones ab Aristoteles traduntur. CONTRARIUM AUTEM EST BONO QUIDEM EX
NECESSITATE MALUM (HOC AUTEM MANIFESTUM EST EX UNAQUAQUE INDUCTIONE, UT
SANITATI AEGRITUDO ET IUSTITIAE INIUSTITIA ET FORTITUDINI 281B TIMIDITAS,
SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS), MALO VERO ALIQUOTIENS BONUM CONTRARIUM EST,
ALIQUOTIENS MALUM (DIMINUTIONI ENIM, QUAE MALA EST, SUPERFLUITAS QUAE ET IPSA
MALA EST CONTRARIUM EST). IN PAUCIS AUTEM HOC ALIQUIS VIDEBIT, IN PLURIBUS
AUTEM SEMPER MALO BONUM CONTRARIUM EST. Hoc loco monstratur quod omne bonum
semper malo contrarium est, non autem omni malo semper bonum, nam quodcumque
fuerit bonum, solum illi malum contrarium est, malo autem et bonum potest esse
contrarium et malum. Sanitati enim quae bona est, aegritudo quae est mala,
contraria est. Rursus felicitati quae est bona, infelicitas quae ipsa quoque est
mala, contraria est. Est autem invenire malum quod duas habet contrarietates,
boni scilicet et alterius mali. Nam cum ea sunt contraria quae a se plurimum
distent, cum sit timiditas habitus animi pessimus, duas habet contrarietates,
temeritatem scilicet et fortitudinem, nam qui omnia timet et est timidus et qui
nihil timet omnino in quo est temeritas, longe a sese distant et discrepant,
quocirca sibi contraria sunt, cum utraque sint mala. Rursus quoniam bonum malo
contrarium, et fortitudo bona est, timiditas mala erit, et erit fortitudini
contraria oppositaque timiditas. Duae igitur contrarietates opponuntur
timiditati, temeritas et fortitudo; sed temeritas contraria est secundum
longissimam distantiam quantitatemque discrepantis habitus atque contrarii.
Timiditas vero fortitudini videtur opposita, secundum qualitatem bonitatis
atque malitiae. Quare sufficienter est demonstratum bona semper malis esse
contraria, mala vero etiam malis. Inductio autem est singulorum exemplorum
collectio, et ad universalem per ea cognitionem collectionemque reductio, ut si
quis dicat qui musicam novit musicus est, et ab ea denominatur, et medicus qui
medicinam, rursus qui grammaticam grammaticus, et ex his singulis rebus
colligat universaliter, et quicumque aliquam artem novit eiusdem denominatione
signatur, ut a grammatica grammaticus, a medicina medicus, et caetera
huiusmodi. Quocirca hoc quod supra diximus de contrariis, Aristoteles
exemplorum planissima inductione 282A firmavit Illud quoque addidit mala posse
malis esse contraria, in paucissimis inveniri, semper autem mala bonis esse
contraria. Nam et in his ipsis in quibus mala malis contraria sunt, inest tamen
ut etiam simul bonis contraria esse videantur, ut timiditas, quoniam temeritati
contraria est, simul est etiam fortitudini contraria. Sed non necesse est, ut
quodcumque malum bono est contrarium, mox etiam mali esse contrarium, ut
aegritudo sanitati quidem, quod est bonum contraria est, alii vero malo
contraria non est. Recte igitur dictum est, malum malo contrarium in
paucioribus inveniri. AMPLIUS IN CONTRARIIS NON EST NECESSE, SI ALTERUM FVERIT,
ET RELIQUUM ESSE; SANIS ENIM OMNIBUS, SANITAS QUIDEM ERIT, AEGRITUDO VERO
MINIME; SIMILITER ET ALBIS OMNIBUS ALBEDO QUIDEM ERIT, NIGREDO VERO NON ERIT. AMPLIUS
SI SOCRATEM SANUM ESSE ET SOCRATEM AEGROTARE CONTRARIUM EST, ET NON CONTINGIT
SIMUL EIDEM UTRAQUE INESSE, NUMQUAM CONTINGET, CUM ALTERUM CONTRARIORUM SIT,
RELIQUUM ESSE; NAM CUM SIT SANUM ESSE SOCRATEM, NON ERIT AEGROTARE SOCRATEM. Dictum
est in relatione, quaedam relativa simul esse naturaliter, ut cum sit filius,
pater est, cum vero sit pater, sine filio esse non posse. Quocirca simul semper
sunt pater et filius, hoc vero in contrariis non est. Ait enim non necesse est
simul semper esse contraria. Si enim nullus aegrotet et sint omnes sani, cum
sit sanitas, non erit aegritudo, et una contrarietate manente, alia omnino non
erit, ut si quis hoc idem dicat de cygnis, etenim omnes cygni sunt albi, in
cygnis nigredo non erit. Atque hoc idem ad universalia referendum est. Nam si
omnia quae sunt alba sunt, omnino nigredo non erit. Tractum autem hoc videtur
esse sigillatim a partibus. Nam quod duo contraria in eodem uno eodemque
tempore esse non possunt, ut Socrates cum sanus est, aegrotus non est, et cum
sanus est, manente sanitate, non esse poterit aegritudo. Et non erit
necessarium uno contrario posito, mox subsequi alterum. Nam si necesse esset
uno contrario constituto, mox aliquid sequi, posset idem Socrates uno eodemque
tempore, et sanus esse et aeger, quod fieri non potest. Non est igitur necesse
cum sit una contrarietas mox aliam sequi. Quocirca fieri potest ut cum unum
contrarium sit, 282D aliud non sit. Idque in singularibus etiam necesse est, ut
in eo quod est Socratem esse sanum, non est Socratem aegrotare, quod Socratis
sanitati est contrarium Socrates enim quamquam contrariorum susceptibilis sit,
quoniam substantia est, tamen uno eodemque tempore contraria utraque non
suscipit. MANIFESTUM EST AUTEM QUONIAM CIRCA IDEM VEL SPECIE VEL GENERE NATA
SUNT FIERI CONTRARIA; AEGRITUDO NAMQUE ET SANITAS CIRCA CORPUS ANIMALIS, ALBEDO
VERO ET NIGREDO SIMPLICITER CIRCA CORPUS, ET IUSTITIA ET INIUSTITIA IN ANIMA. Docet
circa quae semper possint esse contraria. Ait enim circa eas res quae aut
genere eadem sint aut specie, ut est corpus quidem animalis unum secundum
genus, omnium enim animalium unum genus est, et circa hoc aegritudo vel sanitas
invenitur. Similiter et circa corpus omne indiscrete, vel animalia vel
inanimati, albedo et nigredo est, quod scilicet omne corpus et ipsum secundum
genus est, unum, namque his genus est substantia. Iustitia quoque et iniustitia
in anima est. Omnis autem anima quae iustitiam iniustitiamque suscipit,
rationalis est, id est hominis; sed omnes homines idem sunt secundum speciem,
omnes igitur animae eaedem secundum speciem sunt; iustitia ergo et iniustitia
circa easdem res secundum speciem reperiuntur. Quocirca recto iam conclusum
est, omnia contraria circa easdem res vel secundum genus, vel secundum speciem
iveniri. NECESSE EST AUTEM OMNIA CONTRARIA AUT IN EODEM GENERE ESSE AUT IN
CONTRARIIS GENERIBUS, VEL IPSA ESSE GENERA; ALBUM QUIDEM ET NIGRUM IN EODEM
GENERE (COLOR ENIM IPSORUM GENUS EST), IUSTITIA VERO ET INIUSTITIA IN
CONTRARIIS GENERIBUS (HUIUS ENIM VIRTUS, HUIUS VITIUM GENUS EST); BONUM VERO ET
MALUM NON SUNT IN ALIQUO GENERE SED IPSA SUNT GENERA. Monstrat id quod reliquum
est, id est ubi possunt remper contraria uestigari, omnia enim quae sunt
contraria, aut sub eodem genere sunt, aut sub contrariis generibus, aut ipsa
sunt genera. Sub eodem genere sunt contraria, ut album et nigrum sub uno genere,
id est colore, color enim albedinis et nigredinis est genus. Haec igitur sub
uno sunt genere. Alia vero contraria in contrariis generibus inveniuntur, ut
iustitia et iniustitia. Iustitiae enim genus est bonum, iniustitia a vero
malum, malum vero bono contrarium est, iustitiae ergo et iniustitia sub
contrariis generibus sunt. Rursus alia ipsa sunt genera, ut bonum et malum,
utraque sunt genera sub se malorum bonorumque positorum, et non hoc nunc
dicitur quod bonitas et malitia nulli alii generi subduntur, ponuntur enim sub
qualitate. Sed particularium bonorum et malorum non esse alia genera, nisi
ipsum bonum et malum generaliter. Recte igitur bonum et malum aliorum
particularium bonorum, malorumque genera sunt numerata. Quare rectissime dictum
est omnia contraria, aut sub eodem esse genere, ut album et nigrum sub colore,
aut in contrariis generibus, ut iustitia atque iniustitia sub bono et malo, aut
ipsa esse genera, ut est ipsum bonum et malum, qua genera iustitiae atque
iniustitiae numerata sunt. DE MODIS PRIORIS. PRIUS ALTERUM ALTERO DICITUR
QUADRUPLICITER. PRIMO QUIDEM ET PROPRIE SECUNDUM TEMPUS, SECUNDUM QUOD SCILICET
ANTIQUIUS ALTERUM ALTERO ET SENIUS DICIMUS (EO ENIM QUOD PLUS EST TEMPORIS
LONGAEVIUS ET ANTIQUIUS DICITUR). Postquam vero de oppositis disputationem
quantum ad praesens tempus attinebat explicavit, nunc quae priora dici possint,
quae posteriora disserit. Et ait, primo quidem et proprie, et quod in usu prius
284A dicimus, hoc est quando aliquam rem alia res tempore praecedit, et
superat, et dum proprie loquimur secundum temporis praecessionem, aliud
antiquius dicimus, aliud senius. Antiquius quidem in iis quae inanimata sunt,
ut Porphyrio placet, senius vero in iis quae anima non carent: ut si quis dicat
antiquius fuisse bellum Thebanorum atque Graecorum Troiae excidio, idcirco quod
tempore praecedat, filii namque ducum qui Thebano perire praelio, Troiae
praeliis interfuerunt, ut Diomedes Tydaei filius, et Stenelus filius Capanei.
Atque hoc quidem ita, quoniam est et in rebus inanimatis quod antiquius
dicitur, ut eum dicimus antiquiorem esse dominationem regum in civitate Romana,
quam consulum et magistratuum. In rebus vero animatis senius vocamus. Seniorem
namque dicimus Pythagoram Socrate, Socratem Aristotele, idcirco quod se
temporibus antecedant. Ergo prius alterum altero dicitur proprie secundum
tempus, prioris autem quattuor fuere distantiae, ut ipse Aristoteles dicit, cum
ait: Prius alterum altero dicitur quadrupliciter. Easque sigillatim breviter
enumerat, ad quae ipse addidit quintam, quae priscis philosophis esset
incognita. Et quoniam de primo prioris modo dictum est, de secundo dicemus. SECUNDO
QUOD NON CONVERTITUR SECUNDUM SUBSISTENDI CONSEQUENTIAM, UT UNUS DUOBUS PRIUS
EST (CUM ENIM DUO SINT, CONSEQUITUR MOX UNUM ESSE, CUM VERO SIT UNUM NON EST
NECESSE DUO ESSE; QUARE NON CONVERTITUR AB UNO CONSEQUENTIA ALTERIUS
SUBSISTENTIAE); PRIUS AUTEM VIDETUR ESSE ILLUD A QUO NON CONVERTITUR
SUBSISTENTIAE CONSEQUENTIA. Secunda, inquit, significatio prioris est quae non
tempore intelligitur sed natura, et hoc ait a quo non convertitur subsistendi
consequentia. Nam si duae res ita sint oppositae, ut si una sit necesse sit
esse aliam, et si alia sit non necesse sit esse aliam, illa prior est qua
posita ut sit, non est aliam esse necesse, et hoc quidem universaliter dictum
est. Planius vero his fiet exemplis. Binarius enim numerus et unitas eam
retinet naturam, ut si quis duo esse proponat, unum quoque esse monstraverit,
unum enim in ipsis duobus concluditur, nec praeter duas unitates poterit esse
binarius. Quocirca si quis binarium numerum esse posuerit, unum quoque esse consequitur,
idcirco binarius ut sit indiget unitate. At vero si quis ponat esse unitatem,
nondum necesse est esse binarium. Ergo ab unitate subsistendi consequentia non
convertitur. Posita enim unitate necesse non fuit binarii numeri subsequi
quantitatem, idcirco quod binario non indiget unitas, sicut indigens erat
unitate binarius. Quare prior est unitas binario: quod si ita est, et quidquid
ita fuerit, ut ab eo subsistendi consequentia non convertatur, prius Aristotele
auctore probabitur, ut in eo quod est homo et animal. Cum dico hominem, mox
dixi animal; cum animal dixero, nihil adhuc de homine dictum est. Omnis enim
homo animal est, non omne animal homo. TERTIO VERO SECUNDUM QUENDAM ORDINEM
PRIUS DICITUR, QUEMADMODUM ET IN DISCIPLINIS ET IN ORATIONIBUS; IN
DEMONSTRATIVIS ENIM DISCIPLINIS INEST PRIUS ET POSTERIUS SECUNDUM ORDINEM
(ELEMENTA ENIM PRIORA SUNT DESCRIPTIONIBUS SECUNDUM ORDINEM, ET IN GRAMMATICA
ELEMENTA PRIORA SUNT SYLLABIS), ET IN ORATIONIBUS SIMILITER (EXORDIUM ENIM
NARRATIONE PRIUS EST ORDINE). Ponit tertiam prioris significationem, ut in
geometria priora sunt, inquit, elementa descriptionibus. Elementa vero ait quos
terminos appellamus, id est ubi quid punctum sit, quid linea, quid figura
praedicitur. His enim cognitis et fideliter animo apprehensis, postea omnes
geometriae descriptiones fiunt, quae problemata et tbeoremata nuncupantur. Ergo
quoniam prius discuntur elementa, post ad descriptiones est transitum, priora
sunt elementa descriptionibus, ordine scilicet, quoniam ut descriptio possit
intelligi, prius elementa traduntur, et in grammatica quoque prius singulae
traduntur litterae quam quae ex his syllabae coniungitur, quocirca ipso quoque
ordine prior ea sunt syllabis. Rhetores vero non saepe a narratione sed ab
exordio agere causas incipiunt, ideo quod exordia narrationibus priora sunt
ordine, quare tertius modus prioris iste est qui secundum nexum cuiusdam
ordinis in qualibet arte est constitutus. AMPLIUS PRAETER HAEC OMNIA, QUOD
MELIUS ET HONORABILIUS EST, PRIUS NATURA ESSE VIDETUR; SOLENT AUTEM PLURES
HONORATIORES MAGIS ET QUOS IPSI MAXIME venERANTUR PRIORES ESSE DICERE; EST
AUTEM HIC MODUS PAENE ALIENISSIMUS. ATQUE HI QUIDEM QUI DICUNTUR MODI PRIORIS
ISTI SUNT. Dicit prius videri, quod neque secundum tempus aliquoties neque
secundum subsistendi consequentiam nec secundum ordinem sit sed quodcumque
pretiosius fuerit, prius esse videatur, ut sol, luna prior est, et anima
corpore, et animus anima. Hoc vero tali argumento probat, quod hi qui aliquos
venerantur, et honorabiliores existimant, dicant eos apud se esse priores, et
hi qui in rebus publicis plurimum possunt, priores dicuntur ab his qui eos
maxime venerantur. Sed ut ipse ait, alienissimus est a significatione prioris
hic quartus in nunc est dictus modus, etenim de his melius dici potest, ut
dicantur venerabiliores et honorabiles, ut vero priores dicantur, abusio potius
quam ulla proprietas est. Quintus modus quem ipse addidit huiusmodi est: VIDETUR
AUTEM PRAETER EOS QUI DICTI SUNT ALTER ESSE PRIORIS MODUS; EORUM ENIM QUAE
CONVERTUNTUR SECUNDUM ESSENTIAE CONSEQUENTIAM, QUOD ALTERIUS QUOMODOLIBET CAUSA
EST DIGNE PRIUS NATURA DICITUR. QUONIAM AUTEM SUNT QUAEDAM TALIA, MANIFESTUM
EST; NAM ESSE HOMINEM CONVERTITUR SECUNDUM SUBSISTENTIAE CONSEQUENTIAM AD VERUM
DE EO SERMONEM; NAM, SI EST HOMO, VERUS SERMO EST QUO DICIMUS QUONIAM EST HOMO,
ET CONVERTITUR (NAM, SI VERUS EST: SERMO QUO DICIMUS QUONIAM EST HOMO, HOMINEM
ESSE NECESSE EST); EST AUTEM VERUS SERMO NULLO MODO CAUSA SUBSISTENDI REM, RES
AUTEM VIDETUR QUODAMMODO CAUSA ESSE UT SERMO VERUS SIT; NAM, QUONIAM EST RES
VEL NON EST, VERUS SERMO VEL FALSUS DICITUR. QUARE SECUNDUM QUINQUE MODOS PRIUS
ALTERUM ALTERO DICITUR. Novimus quasdam res in praedicatione posse converti.
Quod si una earum quae convertuntur alteri causa est, et veluti naturalem
subsistentiam subministrat, illa naturaliter prius esse perhibetur. Ipse autem
aptissimo quod proposuit affirmavit exemplo. Nam si est aliqua res, verum est
de ea dicere, quoniam est. Rursus si de ea verum est dicere quoniam est, illam
ipsam rem esse necesse est: ut quoniam est homo, verum est dicere quoniam est
homo. Quod si verum est dicere quoniam est homo, nulla est dubitatio quin homo
sit. Ergo quoniam duo haeo sibimet convertuntur, respiciamus nunc quae sit
harum causa alteri, ut subsistere valeat, atque ut essa possit. Video autem rem
dicto vero subsistentiae dare principium, nam quia homo est, idcirco verum est
dicere de eo quoniam est sed non idcirco homo est, quoniam de eo vere dici
potest, quoniam est. Res enim ut veritas adsit, dicto principium est sed non ut
res subsistat, vero efficitur dicto. Quocirca prius est, esse hominem,
posterius, verum de eo esse dictum. Idcirco quoniam quamvis convertantur, tamen
una harum rerum alteri subsistendi causa est. Ait enim id esse prius inter ea
quae convertuntur secundum essentiae consequentiam, quod alterius quomodolibet
causa est. Ut in hoc ipso sermone de homine, convertuntur utraque quidem sed
homo ut sit sermo verus, causa est atque principium. Quod Aristoteles ita ait:
Est autem verus sermo nullo modo causa subsistendi rem. Res autem videtur
quodammodo causa esse ut sermo verus sit. Neque enim idcirco res est, quoniam
sermo est sed idcirco verus est sermo, quoniam res ipsa subsistit. Quocirca
quinque hi prioris modi sunt, quorum superius quattuor dixit, secundum tempus,
scilicet secundum id quod non convertitur ad subsistendi consequentiam,
secundum ordinem, secundum reuerentiam, et secundum conversionem, cum altera res
alii subsistendi causa est. Sed quoniam de priori dictum est, nunc de his quae
simul sunt incipit. DE MODIS SIMUL SIMUL AUTEM DICUNTUR SIMPLICITER ET PROPRIE
286D QUORUM GENERATIO IN EODEM TEMPORE EST; NEUTRUM ENIM NEUTRO PRIUS EST AUT
POSTERIUS; SIMUL AUTEM SECUNDUM TEMPUS ISTA DICUNTUR. Cum de prioribus
disputaret, illa propria priora esse contenderat, quae secundum vim
praecedentis temporis dicerentur, quare cum de his quae simul sun. disputat,
idem reuocat, et recte. Nam si maximum modum prioris solum efficiet tempus, cur
quoque non simul editam naturam tempus efficiet? Ait ergo, et simpliciter et
proprie dici simul esse ea, quae unius temporis ortu prolata sint, ut si illa
sint antiquiora atque priora, quaecumque non aequali sed praecedenti tempore
proferuntur, quae se temporibus non praecedunt, rectissime simul esse ponuntur.
Quae enim uno tempore edita atque prolata sunt, illa secundum tempus simul esse
dicuntur, id est simul naturale principium substantiamque sortitu, atque haec
quidem secundum tempus simul esse dicuntur. Secundum naturam vero simul esse
perhibentur, quaecumque invicem ad se convertuntur, cum altera res alteri
subsistendi, neque causa sit, neque principium, ut sunt huiusmodi, duplum et
medium: nam cum sit duplum, medium est; cum rursus sit medium, duplum est.
Seruus quoque et dominus eodem modo sunt, filius quoque et pater. Haec enim
quaecumque illata quidem inferunt alia, sublata vero aut erunt simul, sibimet
semper invicem convertuntur: nam si dicam patrem, filium quoque intelligi
necesse est; si dixero filium, pater mox sub intelligentiam cadit. Quod si
alterum sustulero, utraque perimo: nam si tollam filium, pater non est; si patrem
abstulero, filium quoque perire necesse est. Atque haec ita sibimet ipsa
convertuntur, ut tamen altera res alteri causa penitus non sit: nam quoniam
pater filio in praedicatione convertitur manifestum est sed neque pater fiiio
causa est ut sit, nec filius patri, hoc autem huiusmodi est. Si Aeneas habuit
Ascanium filium, non dicimus, quoniam non fuit Aeneas causa ut esset Ascanius
sed non fuit pater causa ut esset filius. Nam quod dico Ascanius, quaedam
propria substantia est, quod dico filius, esse non potest, nisi ad aliquid
referatur, et cum Aeneam nomino, substantiam dixi, si patrem appello, nulla
ratione constat, nisi ad filium referatur. Igitur causa fuit Aeneas ut esset Ascanius sed
non est causa pater ut esset filius. Pater namque tunc fit cum filius fuerit.
Quod si haec tempore ipso priora non sunt, causa autem cuiuslibet rei prior est
quam illa cuius causa est, ut oriatur, nulla dubitatio est, quin pater atque
filius, quae utraeque praedicationes aequales sunt tempore, neutra neutri causa
sit, cum tamen substantiae ipsae sibi ut sint, causa sint praedicationis. Nec
ullo modo simile debet videri ei quod paulo ante dictum est de homine, esse
verum de eo sermonem, scilicet quoniam est. Illic enim cum res esset, tunc
poterat esse verus de ea sermo. Prius enim est ut sit aliquid, post vero ut de
eo verum aliquid esse dicatur. Nunc vero non ita est ut prius aliquis sit
pater, post vero filius. Mox enim ut pater est, filium esse necesse est, mox ut
est filius, patris sine dubio praedicatio consequitur, quemadmodum ergo iste
modus fit, qui scilicet simul secundum naturam est, Aristoteles ita pronuntiat.
NATURALITER AUTEM SIMUL SUNT QUAECUMQUE CONVERTUNTUR QUIDEM SECUNDUM
SUBSISTENDI CONSEQUENTIAM, SI NULLO MODO ALTERUM ALTERI SUBSISTENDI CAUSA SIT,
UT DUPLUM ET MEDIUM; CONVERTUNTUR ENIM ISTA (NAM CUM SIT DUPLUM EST MEDIUM, ET
CUM SIT MEDIUM EST DUPLUM), NEUTRUM VERO NEUTRI SUBSISTENDI CAUSA EST. In his
quae ita priora esse dicebatur, ut couuerterenlur, quamvis secundum essentiam
eorum consequentia esset, tamen quia in his alia res alii causa atque
principium est, hoc erat quod una prior esse 288A videretur, ea quidem cuius
causa erat. Quod distat ab iis quae convertuntur, et se invicem auferunt, quae
cum neutra neutri causa sit, et tamen convertuntur, digne simul naturaliter
esse perhibentur.ET EA QUAE EX EODEM GENERE IN CONTRARIUM DIVIDUNTUR SIMUL
NATURA ESSE DICUNTUR. IN CONTRARIUM VERO DIVIDI DICUNTUR SECUNDUM EANDEM
DIVISIONEM, UT VOLATILE, GRESSIBILE ET AQUATILE; HAEC ENIM IN CONTRARIUM
DIVIDUNTUR, CUM EX EODEM GENERE SINT; ANIMAL ENIM DIVIDITUR IN VOLATILE,
GRESSIBILE ET AQUATILE, ET NULLUM HORUM PRIUS EST VEL POSTERIUS SED SIMUL HAEC
VIDENTUR ESSE NATURA. Tertium modum eorum quae simul sunt hunc addidit, illa
quoque simul esse, quae aequali divisione sub genere ponantur, ut si ponat quis
animal genus hominis et equi, hominem vero et equum a genere, id est ab animali
dividat, homo vero et equus quoniam sub eodem genere sunt, simul esse natura
dicuntur. Et conveniens regula est in omnibus quibuscumque generibus, cum enim
specierum divisiones fiunt, illic species natura simul sunt, et si sub his
ipsis speciebus quaedam alia ponantur, inter se etiam ipsa simul esse natura
dicuntur. Dividatur enim genus, id est animali in volatile atque in gressibile,
et quoniam sunt sub eodem genere, simul natura sunt. Et si quid horum in
subiectas partes speciesque solvatur, ut volutile quidem in his avibus quae
seminibus uescuntur, et in iis quae carnibus, et in his quae herbis, hae tres
species rursus, quae sub volatili sunt, simul esse naturaliter appellantur, quod
Aristoteles ita dicit. DIVIDITUR AUTEM ET UNUMQUODQUE EORUM IN SPECIES ITERUM
SECUNDUM EANDEM DIVISIONEM, UT GRESSIBILE ANIMAL ET VOLATILE ET AQUATILE. ERUNT
IGITUR ET ILLA SIMUL NATURA, QUAECUMQUE EX EODEM IPSO GENERE SECUNDUM EANDEM
SUBDIVISIONEM SUNT, GENERA AUTEM SEMPER PRIORA SUNT; NON ENIM CONVERTUNTUR
SECUNDUM SUBSTANTIAE CONSEQUENTIAM, UT AQUATILE QUIDEM CUM SIT EST ANIMAL,
ANIMAL VERO CUM SIT, NON NECESSE EST ESSE AQUATILE. SIMUL ERGO NATURA ESSE
DICUNTUR QUAECUMQUE CONVERTUNTUR QUIDEM SECUNDUM ESSENTIAE CONSEQUENTIAM, NULLO
AUTEM MODO ALTERUM ALTERI SUBSISTENDI CAUSA EST, ET EX EODEM GENERE QUAE IN
CONTRARIUM SIBI DIVIDUNTUR; SIMPLICITER AUTEM SIMUL SUNT QUORUM GENERATIO IN
EODEM TEMPORE EST. Atque idcirco fieri non potest ut genus habeat unam speciem.
Nam si quaecumque sub genere sunt, simul sunt. Simul autem nisi plura esse non
possunt, genus igitur sub se unam speciem habere non potest Si enim una fuerit,
fieri non potest ut simul esse dicatur, quia illud est, quod eub eodem genere
quaedam res solent quae simul sint naturaliter inveniri. Sed haec de speciebus.
Genera autem semper priora sunt, non enim convertuntur secundam subsistentiae
consequentiam. Prioris unus modus est secundum quem illa priora esse dicerentur
quaecumque ad subsistendum nullo modo converterentur, quod hoc idem in
generibus cadit. Genera enim non convertuntur ad eubsistentiae consequentiam
hoc modo. Sit enim animal genus, homo vero species. Cum vero dico hominem esse,
animal quoque esse consequitur. Si animal dixero, ad hominem subsistentiae
consequentia non convertitur. Potest enim esse animal, non tamen homo. Quocirca
ab animali ad hominem non convertitur subsistentiae consequentia. Quod si
posito homine animal constat, animali vero nominato non est necesse hominem
esse, animal est prive homine. Illa quoque priorum descriptio est, quod ea quae
sunt priora sublata quidem auferunt, illata non inferunt Animal enim sublatum
secum quoque hominem tollet, illatum vero ut dicatur esse animal, non secum
statim hominem infert. Posteriora vero et diverso sunt. Illata enim simul
inferunt, sublata non auferunt. Dictus quidem homo, simul secum animal infert,
omnis namque homo animal est. Quod si homo substantialiter auferatur, non est
necesse animal quoque autem, quod hoc nomen animalis in pluribus speciebus
valet aptari. Quod si ita contingit, sublato homine permanebit animal. Quocirca
concludit tres esse species eorum quae simul sunt secundum tempus, secundum
naturam cum ulraque ita convertuntur, ut neutra neutri causa sit. Tertium genus
est secundum eamdem sub eodem genere divisionem. Quoniam in faciendo atque
patiendo inerat quidam motus, facere autem et pati praedicamentis ad iunxerat,
idcirco nunc de motibus tractat, et sex numero esse pronuntiat. DE SPECIEBUS
MOTUS MOTUS VERO SUNT SPECIES SEX: GENERATIO, CORRUPTIO, CREMENTUM, DIMINUTIO,
COMMUTATIO, SECUNDUM LOCUM TRANSLATIO. ALII QUIDEM MOTUS MANIFESTUM EST QUONIAM
A SE INVICEM DIVERSI SUNT; NEQUE ENIM EST GENERATIO CORRUPTIO, NEC CREMENTUM DIMINUTIO
NEC SECUNDUM LOCUM TRANSLATIO; SIMILITER AUTEM ET CAETERAE. In physicis
Aristoteles motus species alia ratione partitus est. Ait enim aliud esse
permutationem, aliud motum, et permutationis quidem duas esse species ait
generationem et corruptionem. Motus verotres secundum quantitatem, secundum
qualitatem, secundum locum. Igitur, quoniam hic liber ad introductionem
quodammodo factus est, noluit nimis divisionis attenuare rationem, ne
ingredientium animos subtiliori divisione confunderet: facit igitur divisionem
motus hoc modo. Est enim una species motus secundum substantiam, alia secundum
quantitatem, alia secundum qualitatem, alia secundum locum. Et secundum
substantiam quidem est generatio et corruptio, haec enim utraque in substantia
fiunt. Nam et secundum substantiam generatur aliquid, et secundum substantiam
corrumpitur. Secundum quantitatem vero, ut crementum et diminutio. Etenim secundum
quantitatem vel aucta crevisse, vel detracta diminuta esse dicuntur. Secundum
qualitatem vero quae dicitur commutatio, secundum aliquas scilicet passiones,
quas qualitates esse manifestum est. Secundum locum vero, ut intus in
longitudinem, vel in curuaturam flexus; et intus quidem in longitudinem est ut
a sursum in deorsum, a prioribus retrorsum, a dextra in sinistram; et rursus si
haec convertas et in directum pergas, idem motus 290A erunt. Illud quoque verum
est has esse omnes species motus, nullo namque sibi participant, nisi solo
generis nomine, quod motus dicuntur nam neque generatio idem est quod corruptio,
namque generatio est in substantia ingressus, corruptio vero ex substantia
egressus. Nec diminutio idem quod crementum, nec secundum locum translatio
alicui superiorum consimilis est. Commutatio autem habet forte aliquam
dubitationem, quod non videatur a superioribus discrepare, quam quaestionem ita
proposuit. IN COMMUTATIONE VERO EST ALIQUA DUBITATIO, NE FORTE NECESSE SIT QUOD
COMMUTATUR SECUNDUM ALIQUEM RELIQUORUM MOTUUM COMMUTARI. HOC AUTEM NON EST
VERUM; PAENE ENIM SECUNDUM OMNES PASSIONES VEL 290B MULTAS COMMUTARI NOBIS
CONTINGIT NULLO ALIORUM MOTUUM COMMUNICANTE; NAM NEQUE CRESCERE NECESSE EST
QUOD SECUNDUM PASSIONEM MOVETUR NEC DIMINUI, SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS: QUARE
DIVERSUS ERIT MOTUS AB ALIIS COMMUTATIONIBUS (NAM SI IDEM ESSET, OPORTERET OMNE
QUOD COMMUTATUR MOX AUT CRESCERE AUT MINUI AUT ALIQUEM ALIORUM MOTUUM CONSEQUI;
SED NON EST NECESSE). SIMILITER AUTEM ET QUOD CRESCIT VEL SECUNDUM QUEMLIBET
ALTERUM MOTUM MUTATUR. In commutatione vero est aliqua dubitatio, ne forte
necesse sit quod commutatur secundum aliquem reliquorum motaum commutari. Nam
si omne quod commutatur, aut generatur, aut corrumpitur, aut minuitur aut
crescit, aut id secundum locum transferri 290C necesse est, dubium non est
nihil a superioribus caeteris hanc differe speciem, qua secundum commutationem
dicitur; quod Aristoteles respuit, dicens: HOC AUTEM NON EST VERUM. Sed quoniam
quod oommutatur non omnino neque generatur, neque corrumpitur: ut qui in sole
diutius stetit, si ex candido niger est factus, commutatus quidem secundum
colorem dicitur, non tamen generatus est aut corruptus, nec vero illi aliquod
vel crementum factum est vel diminutio sed nec loci translatio nulla est,
potest enim aliquis uno eodemque loco consistens, aliquibus extrinsecus
venientibus passionibus permutari, potest quoque et crescere et decrescere,
praeter qualitatis commutationem: quod ipse Aristoteles ita pronuntiat. SED
SUNT QUAEDAM QUAE CRESCUNT ET NON COMMUTANTUR, UT QUADRATUM CIRCUMPOSITO
GNOMONE CREVIT QUIDEM SED COMMUTATUM NON EST; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS
HUIUSMODI. QUARE A SE INVICEM MOTUS ISTI DIVERSI SUNT. Quod dicit tale est: Si
quadrato, inquit, addatur gnomo, crescit quidem quadratus, non tamen
commutatur. Ideoque sublato gnomone quadratus diminuitur sed non commutatur. Si
enim quadratus a b c d, et ducatur ei angularis b c, et dividantur quattuor
latera a c, a b, b d, a c, in aequalia g e h f punctis, et ducantur g h f e
lineae. Divisus igitur quadratus a d in quattuor quadratos qui sunt e g, f g, e
h, h f, quorumlibet tres qui circa eamdem angularem sunt si demantur, figura
ipsa gnomo vocatur. ut si quis tollat hos tres, e g, g f, f h, invenitur m n
291A gnomo, qui m n gnomo separatur a b e h quadrato. Totus quidem a d
quadratus imminutus est, qui ex tam magno factus est paruus, non tamen formam
tetragoni commutavit. Quod si e h tetragonus solus sit, et ei circumponatur
gnomo, qui est m n, crevit quidem tetragonus, et maior factus est sed non
commutatus est. Omnes enim tetragoni sibi sunt propria qualitate consimiles.
Quod si commutatio huiusmodi motus esset, ut non omnino a superioribus
separaretur, nulla esset dubitatio quin semper oporteret quidquid commutatur
secundum aliquem priorum motuum modum commutari. Ita ut aut nasceretur, aut
corrumperetur, aut minveretur, aut cresceret, aut secundum locum fieret aliqua
permutatio. Quod quoniam non est, ab omnibus superioribus 291B motibus haec
motus species distat. Sed monstratum superius est quinque superiores motus
species a se omni ratione substantia, discrepare. Quocirca distant a se similiter
hi sex motus, atque diversi sunt. SIMPLICITER AUTEM MOTUS QUIETI CONTRARIUS
EST; SINGULIS VERO MOTIBUS, GENERATIONI QUIDEM CORRUPTIO, DIMINUTIO VERO
CREMENTO, SECUNDUM LOCUM TRANSLATIONI SECUNDUM LOCUM QUIES. MAXIME AUTEM
VIDETUR OPPONI IN CONTRARIUM LOCUM PERMUTATIO, UT DE EO QUOD EST DEORSUM AD ID
QUOD EST SURSUM ET DE EO QUOD EST SURSUM AD ID QUOD EST DEORSUM. Nunc iam
motuum contrarietates exsequitur, et ipsi 291D quidem generi, id est motui,
dicit quietem esse contrariam, habet enim motus quietem contrariam. Singulis
vero speciebus motuum motus ipsi contrarii sunt, ut generationi corruptio, et
cum generatio sit motus atque corruptio, utraque tamen sibimet contraria sunt,
cremento quoque diminutio contraria est. Quare diverso modo hae species motus
contrarietstem habent, quam genus dudum babere monstravimus: motus enim ipse
habet quietem contrariam. Specierum vero motibus non quies tantum sed alii
motus contrarii sunt, ut generationi corruptio et cremento diminutio, secundum
vero locum translationis contrarietas similis est generi. Nam et ipsa habet
contrariam secundum locum quietem, contrarium namque est moveri de loco in
locum, et 292A non moveri, et est non moveri quidem secundum locum quies,
moveri vero secundum locum translation. Maxime autem, inquit, secundum locum
mutationi, contraria est in contrarium locum permutatio. Ut si qua res sursum
sit atque ibi maneat, et sit quieta, postea sit ei motus talis, ut deorsum
moveatur, quamquam ipsi superiori motui quies contraria sit, multo magis quidem
huiusmodi motus, qui in contrarium fit locum, illi superiori motui contrarius
est. Atque hoc quidem et in aliis motibus accidit: ut si quis sit ad dexteram,
si ei in sinistram motus sit, in contrarium locum factus dicitur motus. Atque
hoc idem id aliis motibus licet videre; sed Aristoteles dubitat si reliquo
motui, id est commutationi, aliquid possit esse contrarium, quam quaestionem
ita proponit: RELIQUO VERO DE HIS QUI ASSIGNATI SUNT MOTUI NON EST FACILE
ASSIGNARE QUID SIT CONTRARIUM, VIDETUR AUTEM NEQUE ESSE ALIQUID EI CONTRARIUM,
NISI QUIS OPPONAT SECUNDUM QUALITATEM QUIETEM SECUNDUM QUALITATEM TRANSLATIONI
QUAE IN CONTRARIUM, QUEMADMODUM ETIAM IN EA QUAE EST SECUNDUM LOCUM
TRANSLATIONE SECUNDUM LOCUM QUIETEM VEL IN CONTRARIUM LOCUM TRANSLATIONEM (EST
ENIM COMMUTATIO TRANSLATIO SECUNDUM QUALITATEM). Ex similitudine motuum
contrarietates quoque colligimus. Nam quoniam superius motui secundum locum
contrariam reperit secundum locum quietem, et quoniam omnis commutatio quae
secundum aliquam passionem fit secundum qualitatem commutatur, 292C motus eius
contrarietatem posuit secundum qualitatem quietem: ut si lapis cum frigidus
est, si ita permaneat, qualitas illa mansit et quievit, quod si tepeat,
qualitas illa commutat est, et est ipsa commutatio contraria, et factus est
quidem motus, et in tepore lapidis secundum qualitatem facta est permutatio,
fuit autem in frigore quies secundum eamdem qualitatem. Quocirca licet videatur
hic motus quidem omnino contrarium non habere, tamen, sicut superius dictum est
secundum locum translationi contrariam esse secundum locum quietem, cur non
quoque secundum qualitatem commutationi dicatur quies secundum qualitatem esse
contraria? Definitio namque commutationis est translatio secundum qualitatem,
cum enim qualitas cuiuslibet rei movetur, fit translatio, scilicet secundum
qualitatem. Quod si maxime videatur secundum locum translationi esse contraria,
non solum secundum locum quies sed etiam in contrarium locum translatio,
secundum qualitatem quoque mutationi non solum erit contraria secundum
qualitatem quies sed maxime in contrariam qualitatem commutatio: ut ei quid cum
est album, si rubrum fiat, quieti quidem ei quae in albo colore poterat
permanere contraria fuit qualitatis ipsa mutatio, ut ex albo in rubrum
mutaretur; si quid enim ex albo vertatur in nigrum, illud maxime permutatur, et
illud superiori mutationi contrarium est, quoniam permutatum est in contrariam
qualitatem. Atque hoc est quod ait: QUARE OPPONITUR EI SECUNDUM QUALITATEM
QUIES VEL IN CONTRARIUM QUALITATIS TRANSLATIO, UT ALBUM FIERI QUOD EST NIGRUM;
COMMUTATUR ENIM, IN CONTRARIUM QUALITATIS FACTA TRANSLATIONE. Id quoque
apertissimo uulgatur exemplo. Quare quoniam de motibus expeditum est, habendi
aequivocationem quae sequitur explicemus. DE MODIS HABERE HABERE SECUNDUM
PLURES MODOS DICITUR AUT ENIM UT HABITUM VEL AFFECTIONEM VEL ALIAM ALIQUAM
QUALITATEM (DICIMUR ENIM SCIENTIAM HABERE ET VIRTUTEM); AUT UT QUANTITATEM, UT
QUAM QUISQUE HABET MAGNITUDINEM (DICITUR ENIM BICUBITAM VEL TRICUBITAM HABERE
MAGNITUDINEM); AUT CIRCA CORPUS UESTITUM AUT TUNICAM; AUT IN PARTE (UT IN MANU
ANULUM); AUT PARTEM (UT MANUM VEL PEDEM); AUT IN UASE (UT MODIUS TRITICUM VEL
DOLIUM VINUM; VINUM ENIM DOLIUM HABERE DICITUR, ET MODIUS TRITICUM; HAEC IGITUR
HABERE DICUNTUR UT IN VASE); VEL UT POSSESSIONEM (HABERE ENIM DOMUM VEL AGRUM
DICIMUR). DICIMUR VERO ET HABERE UXOREM ET UXOR VIRUM; VIDETUR AUTEM
ALIENISSIMUS ESSE HABENDI MODUS QUI NUNC DICTUS EST; NIHIL ENIM ALIUD HABERE
UXOREM SIGNIFICAT QUAM COHABITARE. FORTASSE AUTEM ET ALII HABENDI MODI vidEBUNTUR;
QUI AUTEM SOLENT DICI PAENE OMNES SUNT ANNUMERATI. Aequivocum esse habendi
modum manifestum est, 293C habere enim ita multis dicitur modis, ut tamen
aequivoce praedicetur. Dicimur enim habere aliquam qualitatem, ut habitum vel
dispositionem. Dicimur quoque habere scientiam vel virtutem; quantitatem quoque
habere perhibemur, dicimur enim in mensura habere quinque vel quattuor pedes.
Necnon etiam in ipsis partibus corporis aliquid, et ipsas partes habere
praedicamur, dicimur enim et habere digitos, et in digito annulos. Circa corpus
quoque aliquid habere dicimur, ut tunicam, vel quodlibet aliud uestimentum.
Necnon etiam in uase haberi aliquid dicitur, ut triticum in modio, et vinum in
dolio; haec, scilicet, ita haberi dicuntur, ut in uase. Dicitur etiam quis
habere uxorem, quae, scilicet significatio nulli supradictae communis est sed
(ut ipsi Aristoteli videtur) longe diversa est haec significatio ab habendi
praedicamento; non enim proprie habemus uxores sed quod habere quis dicatur
uxorem, hoc significat habitare cum eo uxorem, habere enim habitare dicimus, ut
est Socratem habent, id est cum Socrate habitant atque eum colunt. Quare ipse
quoque Aristoteles inquit esse aliquos fortasse praeter eos qui dicantur
habendi modos, hortaturque nos ad ulteriorem aliquam inquisitionem, ut nos
quoque quaeramus per quos, praeter priores dictos modos, alios possit habere
praedicari. Et de hac aequivocatione quidem habendi sufficienter dictum est. Sed
forte quis dubitet cur cum habere superius in genere nominaverit, nunc id ipsum
aequivocum ponat sed haec quaestio ita solvitur. Non absurdum est idem
praedicamentum nunc univoce, nunc aequivoce praedicari. Univoce quidem ut
superius cum eiusdem specierum exempla proposuit, ut est calceatum esse vel
armatum, horum enim talium genus est. Aequivoce vero ut in his modis quos
superius exposuimus. Quod si et habet aliquas proprias species habendi
praedicatio, dicitur autem et ipsum nomen multipliciter, nihil est incongruum
in genere numerari, sufficit enim ad demonstrandum genus esse et habendi
praedicationem quod sub se aliquas partes speciesque contineat. EXPLICIT
FELICITER. Alexander in commentariis suis hac se impulsum causa
pronuntiat sumpsisse longissimum expositionis laborem, quod in multis ille a
priorum scriptorum sententiis dissideret: mihi maior persequendi operis causa
est quod non facile quisquam vel transferendi vel etiam commentandi continuam
sumpserit seriem – nisi quod Vetius Praetextatus priores ƿ postremosque
analyticos non vertendo Aristotelem Latino sermoni tradidit sed transferendo
Themistium, quod qui utrosque legit facile intellegit; Albinus quoque de isdem
rebus scripsisse perhibetur, cuius ego geometricos quidem libros editos scio,
de dialectica vero diu multumque quaesitos reperire non valui, sive igitur ille
omnino tacuit, nos praetermissa dicemus, sive aliquid scripsit, nos quoque
docti viri imitati studium in eadem laude versabimur. Sed quamquam multa sint
Aristotelis quae subtilissima philosophiae arte celata sint, hic tamen ante omnia
liber nimis et acumine sententiarum et verborum brevitate constrictus est.
Quocirca plus hic quam in decem praedicamentis expositione sudabitur. Prius
igitur quid vox sit definiendum est. Hoc enim perspicuo et manifesto omnis
libri patefiet intentio. Vox est aeris per linguam percussio quae per quasdam
gutturis partes, quae arteriae vocantur, ab animali profertur. Sunt enim quidam
alii soni, qui eodem perficiuntur flatu, quos lingua non percutit, ut est
tussis. Haec enim flatu fit quodam per arterias egrediente sed nulla linguae
impressione formatur atque ideo nec ullis subiacet elementis, scribi enim nullo
modo potest. Quocirca vox haec non dicitur sed tantum sonus. Illa quoque potest
esse definitio vocis, ut eam dicamus sonum esse cum quadam imaginatione significandi.
Vox namque cum emittitur, significationis alicuius causa profertur. Tussis vero
cum sonus sit, nullius significationis causa subrepit ƿ potius quam profertur. Quare
quoniam noster flatus ita sese habet ut si ita percutitur atque formatur ut eum
lingua percutiat, vox sit: si ita percutiat ut terminato quodam et
circumscripto sono vox exeat, locutio fit quae Graece dicitur *lexis*. Locutio
enim est articulata vox – neque enim hunc sermonem (id est *lexin*) dictionem
dicemus, idcirco quod *phasin* dictionem interpretamur, *lexin* vero locutionem
– cuius locutionis partes sunt litterae, quae cum iunctae fuerint unam
efficiunt vocem coniunctam compositamque, quae locutio praedicatur. Sive autem
aliquid quaecumque vox significet, ut est hic sermo 'homo'; sive omnino nihil;
sive positum alicui nomen significare possit, ut est 'blityri' (haec enim vox
per se cum nihil significet, posita tamen ut alicui nomen sit significabit);
sive per se quidem nihil significet, cum aliis vero iuncta designet, ut sunt coniunctiones
– haec omnia locutiones vocantur, ut sit propria locutionis forma vox composita
quae litteris describatur. Ut igitur sit locutio, voce opus est – id est eo
sono quem percutit lingua, ut et vox ipsa sit per linguam determinata in eum
sonum qui inscribi litteris possit. Sed ut haec locutio significativa sit,
illud quoque addi oportet, ut sit aliqua significandi imaginatio, per quam id
quod in voce vel in locutione est proferatur: ut certe ita dicendum sit: si in
hoc flatu, quem per arterias emittimus, sit linguae sola percussio, vox est;
sin vero talis percussio sit ut in litteras redigat sonum, locutio; quod si vis
quoque quaedam imaginationis addatur, ƿ illa significativa vox redditur. Concurrentibus
igitur his tribus: linguae percussione, articulato vocis sonitu, imaginatione
aliqua proferendi fit interpretatio. Interpretatio namque est vox articulata
per se ipsam significans. Quocirca non omnis vox interpretatio est. Sunt enim
caeterorum animalium voces, quae interpretationis vocabulo non tenentur. Nec
omnis locutio interpretatio est, idcirco quod (ut dictum est) sunt locutiones
quaedam quae significatione careant et cum per se quaedam non significent,
iunctae tamen cum aliis significant, ut coniunctiones. Interpretatio autem in
solis per se significativis et articulatis vocibus permanet. Quare convertitur,
ut quidquid sit interpretatio, illud significet, quidquid significat, interpretationis
vocabulo nuncupetur. Unde etiam ipse quoque Aristoteles in libris quos de
poetica scripsit locutionis partes esse syllabas vel etiam coniunctiones
tradidit, quarum syllabae in eo quod sunt syllabae nihil omnino significant,
coniunctiones vero consignificare quidem possunt, per se vero nihil designant.
Interpretationis vero partes hoc libro constituit nomen et verbum, quae
scilicet per se ipsa significant, nihilominus quoque orationem, quae et ipsa
cum vox sit ex significativis partibus iuncta significatione non caret. Quare
quoniam non de oratione sola sed etiam de verbo et nomine, nec vero de sola
locutione sed etiam de significativa locutione quae est interpretatio hoc libro
ab Aristotele tractatur, idcirco quoniam in ƿ verbis atque nominibus et in
significativis locutionibus nomen interpretationis aptatur, a communi nomine
eorum, de quibus hoc libro tractabitur, id est ab interpretatione, ipse quoque
"De interpretatione" liber inscriptus est. (Cuius expositionem nos
scilicet quam maxime a Porphyrio quamquam etiam a caeteris transferentes Latina
oratione digessimus; hic enim nobis expositor et intellectus acumine et
sententiarum dispositione videtur excellere.) Erunt ergo interpretationis duae
primae partes nomen et verbum. His enim quidquid est in animi intellectibus
designatur; his namque totus ordo orationis efficitur. Et in quantum vox ipsa
quidem intellectus significat, in duas (ut dictum est) secatur partes, nomen et
verbum, in quantum vero vox per intellectuum medietatem subiectas intellectui
res demonstrat, significantium vocum Aristoteles numerum in decem praedicamenta
partitus est. Atque hoc distat libri huius intentio a praedicamentorum in
denariam multitudinem numerositate collecta, ut hic quidem tantum de numero
significantium vocum quaeratur, quantum ad ipsas attinet voces, quibus
significativis vocibus intellectus animi designentur, quae sunt scilicet
simplicia quidem nomina et verba, ex his vero compositae orationes:
praedicamentorum vero haec intentio est: de significativis rerum vocibus in
tantum, quantum eas medius animi significet intellectus. Vocis enim quaedam
qualitas est nomen et verbum, quae nimirum ipsa illa decem praedicamenta
significant. Decem namque praedicamenta numquam sine aliqua verbi qualitate vel
nominis proferentur. Quare erit libri huius intentio de significativis vocibus
in tantum, quantum conceptiones ƿ animi intellectusque significent. De decem
praedicamentis autem libri intentio in eius commentario dicta est, quoniam sit
de significativis rerum vocibus, quot partibus distribui possit earum
significatio in tantum, quantum per sensuum atque intellectuum medietatem res
subiectas intellectibus voces ipsae valeant designare. In opere vero de poetica
non eodem modo dividit locutionem sed omnes omnino locutionis partes apposuit
confirmans esse locutionis partes elementa, syllabas, coniunctiones, articulos,
nomina, casus, verba, orationes. Locutio namque non in solis significativis
vocibus constat sed supergrediens significationes vocum ad articulatos sonos
usque consistit. Quaelibet enim syllaba vel quodlibet nomen vel quaelibet alia
vox, quae scribi litteris potest, locutionis nomine continetur, quae Graece
dicitur *lexis*. Sed non eodem modo interpretatio. Huic namque non est satis,
ut sit huiusmodi vox quae litteris valeat annotari sed ad hoc ut aliquid quoque
significet. Praedicamentorum vero in hoc ratio constituta est, in quo hae duae
partes interpretationis res intellectibus subiectas designent. Nam quoniam
decem res omnino in omni natura reperiuntur, decem quoque intellectus erunt,
quos intellectus quoniam verba nominaque significant, decem omnino erunt
praedicamenta, quae verbis atque nominibus designentur, duo vero quaedam id est
nomen et verbum, quae ipsos significent intellectus. Sunt igitur elementa
interpretationis verba et nomina, propriae vero partes quibus ipsa constat
interpretatio sunt orationes. Orationum vero aliae sunt perfectae, aliae
imperfectae. Perfectae sunt ex quibus plene id quod dicitur valet intellegi;
imperfectae in quibus aliquid adhuc plenius animus exspectat audire, ut est:
Socrates cum Platone nullo enim addito orationis intellectus pendet ac
titubat et auditor aliquid ultra exspectat audire. Perfectarum vero orationum
partes quinque sunt: deprecativa ut: Iuppiter omnipotens, precibus si flecteris
ullis, Da deinde auxilium, pater atque haec omina firma imperativa ut:
Vade age, nate, voca Zephyros et labere pennis interrogativa ut: Dic
mihi, Damoeta, cuium pecus? An Meliboei? vocativa: O pater, o hominum
rerumque aeterna potestas enuntiativa, in qua veritas vel falsitas
invenitur, ut: Principio arboribus varia est natura serendis. Huius autem
duae partes sunt. Est namque et simplex oratio enuntiativa et composita.
Simplex ut: ‘Dies est’, ‘Lucet’, conposita ut: ‘Si dies est, lux est.’ In hoc
igitur libro Aristoteles de enuntiativa simplici oratione disputat et de eius
elementis, nomine scilicet atque verbo. Quae quoniam et significativa sunt et
significativa vox articulata interpretationis nomine continetur, de communi (ut
dictum est) vocabulo librum de interpretatione appellavit. Et Theophrastus
quidem in eo libro, quem de affirmatione et negatione composuit, de enuntiativa
oratione tractavit. Et Stoici quoque in his libris, quos *Peri axiomaton*
appellant, de isdem ƿ nihilominus disputant. Sed illi quidem et de simplici et
de non simplici oratione enuntiativa speculantur, Aristoteles vero hoc libro
nihil nisi de sola simplici enuntiativa oratione considerat. Aspasius quoque et
Alexander sicut in aliis Aristotelis libris in hoc quoque commentarios
ediderunt sed uterque Aristotelem de oratione tractasse pronuntiat. Nam si
oratione aliquid proferre (ut aiunt ipsi) interpretari est, de interpretatione
liber nimirum veluti de oratione perscriptus est, quasi vero sola oratio ac non
verba quoque et nomina interpretationis vocabulo concludantur. Aeque namque et
oratio et verba ac nomina, quae sunt interpretationis elementa, nomine
interpretationis vocantur. Sed Alexander addidit imperfecte sese habere libri
titulum: neque enim designare, de qua oratione perscripserit. Multae namque (ut
dictum est) sunt orationes; sed adiciendum vel subintellegendum putat de oratione
illum scribere philosophica vel dialectica, id est qua verum falsumque valeat
expediri. Sed qui semel solam orationem interpretationis nomine vocari recipit,
in intellectu quoque ipsius inscriptionis erravit. Cur enim putaret imperfectum
esse titulum, quoniam nihil de qua oratione disputaret adiecerit? Ut si quis
interrogans "Quid est homo?" alio respondente "Animal"
culpet ac dicat imperfecte illum dixisse, quid sit, quoniam non sit omnes
differentias persecutus. Quod si huic, id est homini, sunt quaedam alia
communia ad nomen animalis, nihil tamen impedit perfecte demonstrasse, quid
homo esset, eum qui animal dixit: sive enim differentias addat quis sive non,
hominem animal esse necesse est. Eodem quoque modo et de oratione, si quis hoc
concedat primum, nihil aliud interpretationem dici nisi orationem, ƿ cur qui de
interpretatione inscripserit et de qua interpretatione dicat non addiderit
culpetur, non est. Satis est enim libri titulum etiam de aliqua continenti
communione fecisse, ut nos eum et de nominibus et verbis et de orationibus, cum
haec omnia uno interpretationis nomine continerentur, supra fecisse docuimus,
cum hic liber ab eo de interpretatione notatus est. Sed quod addidit illam
interpretationem solam dici, qua in oratione possit veritas et falsitas
inveniri, ut est enuntiativa oratio, fingentis est (ut ait Porphyrius)
significationem nominis potius quam docentis. Atque ille quidem et in
intentione libri et in titulo falsus est sed non eodem modo de iudicio quoque
libri huius erravit. Andronicus enim librum hunc Aristotelis esse non putat,
quem Alexander vere fortiterque redarguit. Quem cum exactum diligentemque
Aristotelis librorum et iudicem et repertorem iudicarit antiquitas, cur in
huius libri iudicio sit falsus, prorsus est magna admiratione dignissimum. Non
esse namque proprium Aristotelis hinc conatur ostendere, quoniam quaedam
Aristoteles in principio libri huius de intellectibus animi tractat, quos
intellectus animae passiones vocavit, et de his se plenius in libris de anima
disputasse commemorat. Et quoniam passiones animae vocabant vel tristitiam vel
gaudium vel cupiditatem vel alias huiusmodi affectiones, dicit Andronicus ex
hoc probari hunc librum Aristotelis non esse, quod de huiusmodi affectionibus
nihil in libris de anima tractavisset – non intellegens in hoc libro
Aristotelem passiones animae non pro affectibus sed pro intellectibus posuisse.
His Alexander multa alia addit argumenta, cur hoc opus Aristotelis maxime esse
videatur. Ea namque dicuntur hic, quae sententiis Aristotelis quae sunt de
enuntiatione ƿ consentiant; illud quoque, quod stilus ipse propter brevitatem
pressior ab Aristotelis obscuritate non discrepat; et quod Theophrastus, ut in
aliis solet, cum de similibus rebus tractat, quae scilicet ab Aristotele ante
tractata sunt, in libro quoque de affirmatione et negatione, isdem aliquibus
verbis utitur, quibus hoc libro Aristoteles usus est. Idem quoque Theophrastus
dat signum hunc esse Aristotelis librum: in omnibus enim, de quibus ipse
disputat post magistrum, leviter ea tangit quae ab Aristotele dicta ante
cognovit, alias vero diligentius res non ab Aristotele tractatas exsequitur.
Hic quoque idem fecit. Nam quae Aristoteles hoc libro de enuntiatione
tractavit, leviter ab illo transcursa sunt, quae vero magister eius tacuit,
ipse subtiliore modo considerationis adiecit. Addit quoque hanc causam, quoniam
Aristoteles quidem de syllogismis scribere animatus numquam id recte facere
potuisset, nisi quaedam de propositionibus annotaret. Mihi quoque videtur hoc
subtiliter perpendentibus liquere hunc librum ad Analyticos esse praeparatum.
Nam sicut hic de simplici propositione disputat, ita quoque in Analyticis de
simplicibus tantum considerat syllogismis, ut ipsa syllogismorum
propositionumque simplicitas non ad aliud, nisi ad continens opus Aristotelis
pertinere videatur. Quare non est audiendus Andronicus, qui propter passionum
nomen hunc librum ab Aristotelis operibus separat. Aristoteles autem idcirco
passiones animae 'intellectus' vocabat, quod intellectus, quos sermone dicere
et oratione proferre consuevimus, ex aliqua causa atque utilitate profecti
sunt: ut enim dispersi homines colligerentur et legibus vellent esse subiecti
civitatesque condere, utilitas quaedam fuit et causa. Quocirca ƿ quae ex aliqua
utilitate veniunt, ex passione quoque provenire necesse est. Nam ut divina sine
ulla sunt passione, ita nulla illis extrinsecus utilitas valet adiungi. Quae
vero sunt passibilia semper aliquam causam atque utilitatem quibus sustententur
inveniunt. Quocirca huiusmodi intellectus, qui ad alterum oratione proferendi
sunt, quoniam ex aliqua causa atque utilitate videntur esse collecti, recte passiones
animi nominati sunt. Et de intentione quidem et de libri inscriptione et de eo,
quod hic maxime Aristotelis liber esse putandus est, haec dicta sufficiunt. Quid
vero utilitatis habeat, non ignorabit qui sciet qua in oratione veritas constet
et falsitas. In sola enim haec enuntiativa oratione consistunt. Iam vero quae
dividant verum falsumque quaeue definite vel quae varie et mutabiliter
veritatem falsitatemque partiantur, quae iuncta dici possint, cum separata
valeant praedicari, quae separata dicantur, cum iuncta sint praedicata, quae
sint negationes cum modo propositionum, quae earum consequentiae aliaque plura
in ipso opere considerator poterit diligenter agnoscere, quorum magnam
experietur utilitatem qui animum curae alicuius investigationis adverterit. Sed
nunc ad ipsius Aristotelis verba veniamus. [BEGINNING OF SECTION THAT MIGNE
SUBTITLES ‘SIGNUM’ -- Primum oportet CONSTITUERE, QUID NOMEN ET QUID VERBUM,
POSTEA QUID EST NEGATIO ET AFFIRMATIO ET ENUNTIATIO ET ORATIO. Librum inchoans
de quibus in omni serie tractaturus sit ante proposuit. Ait enim prius oportere
de quibus disputaturus est definire. Hic enim CONSTITUERE "definire"
intellegendum est. Determinandum namque est quid haec omnia sint – id est QUID
NOMEN sit, QUID VERBUM et caetera, quae elementa interpretationis esse
praediximus. Sed AFFIRMATIO atque NEGATIO sub interpretatione sunt. Quare nomen
et verbum affirmationis et negationis elementa esse manifestum est. His enim
compositis affirmatio et negatio coniunguntur. Exsistit hic quaedam quaestio
cur duo tantum nomen et verbum se determinare promittat, cum plures partes
orationis esse videantur. Quibus hoc dicendum est tantum Aristotelem hoc libro
definisse, quantum illi ad id quod instituerat tractare suffecit. Tractat
namque de simplici enuntiativa oratione, quae scilicet huiusmodi est ut iunctis
tantum verbis et nominibus componatur. Si quis enim nomen iungat et verbum ut
dicat: Socrates ambulat simplicem fecit enuntiativam orationem.
Enuntiativa namque oratio est (ut supra memoravi) quae habet in se falsi
verique designationem. Sed in hoc quod dicimus "Socrates ambulat" aut
veritas necesse est contineatur aut falsitas. Hoc enim si ambulante Socrate
dicitur, verum est, si non ambulante, falsum. Perficitur ergo enuntiativa
oratio simplex ex solis verbis atque nominibus. Quare superfluum est quaerere
cur alias quoque quae videntur orationis partes non proposuerit, qui non totius
simpliciter orationis sed tantum simplicis enuntiationis instituit elementa
partiri. Quamquam duae propriae partes orationis esse dicendae sint, nomen
scilicet atque verbum. Haec enim per sese utraque significant, coniunctiones
autem vel praepositiones nihil omnino nisi cum aliis iunctae designant;
participia verbo cognata sunt, vel quod a gerundivo modo ƿ veniant vel quod
tempus propria significatione contineant; interiectiones vero atque pronomina
necnon adverbia in nominis loco ponenda sunt, idcirco quod aliquid significant
definitum, ubi nulla est vel passionis significatio vel actionis. Quod si
casibus horum quaedam flecti non possunt, nihil impedit. Sunt enim quaedam
nomina quae "monoptota" nominantur. Quod si quis ista longius et non
proxime petita esse arbitretur, illud tamen concedit, quod supra iam diximus,
non esse aequum calumniari ei, qui non de omni oratione sed de tantum simplici
enuntiatione proponat, quod tantum sibi ad definitionem sumpserit, quantum
arbitratus sit operi instituto sufficere. Quare dicendum est Aristotelem non
omnis orationis partes hoc opere velle definire sed tantum solius simplicis
enuntiativae orationis, quae sunt scilicet nomen et verbum. Argumentum autem
huius rei hoc est. Postquam enim proposuit dicens: PRIMUM OPORTET CONSTITUERE,
QUID SIT NOMEN ET QUID VERBUM, non statim inquit QUID SIT ORATIO sed mox
addidit ET QUID SIT NEGATIO, QUID AFFIRMATIO, QUID ENUNTIATIO, postremo vero
QUID ORATIO. Quod si de omni oratione loqueretur, post nomen et verbum non de
affirmatione et negatione et post hanc de enuntiatione sed mox de oratione
dixisset. Nunc vero quoniam post nominis et verbi propositionem affirmationem,
negationem et enuntiationem et post orationem proposuit, confitendum est, id
quod ante diximus, non orationis universalis sed simplicis enuntiativae
orationis, quae dividitur in affirmationem atque negationem, divisionem partium
facere voluisse, quae sunt nomina et verba. Haec enim per se ipsa intellectum
simplicem servant, ƿ quae eadem dictiones vocantur sed non sola dicuntur. Sunt
namque dictiones et aliae quoque: orationes vel imperfectae vel perfectae,
cuius plures esse partes supra iam docui, inter quas perfectae orationis
species est enuntiatio. Et haec quoque alia simplex, alia composita est. De
simplicis vero enuntiationis speciebus inter philosophos commentatoresque
certatur. Aiunt enim quidam affirmationem atque negationem enuntiationi ut
species supponi oportere, in quibus et Porphyrius est; quidam vero nulla
ratione consentiunt sed contendunt affirmationem et negationem aequivoca esse
et uno quidem enuntiationis vocabulo nuncupari, praedicari autem enuntiationem
ad utrasque ut nomen aequivocum, non ut genus univocum; quorum princeps
Alexander est. Quorum contentiones apponere non videtur inutile. Ac prius
quibus modis affirmationem atque negationem non esse species enuntiationis
Alexander pPomba dicendum est, post vero addam qua Porphyrius haec
argumentatione dissoluerit. Alexander namque idcirco dicit non esse species
enuntiationis affirmationem et negationem, quoniam affirmatio prior sit.
Priorem vero affirmationem idcirco conatur ostendere, quod omnis negatio
affirmationem tollat ac destruat. Quod si ita est, prior est affirmatio quae
subruatur quam negatio quae subruat. In quibus autem prius aliquid et posterius
est, illa sub eodem genere poni non possum, ut in eo titulo praedicamentorum
dictum est qui de his quae sunt simul inscribitur. Amplius: negatio omnis,
inquit, divisio est, affirmatio compositio atque coniunctio. Cum enim dico: Socrates
vivit vitam cum Socrate coniunxi; cum dico: Socrates non vivit
vitam a Socrate disiunxi. Divisio igitur quaedam negatio est, coniunctio
affirmatio. Compositi autem est coniunctique ƿ divisio. Prior est igitur
coniunctio, quod est affirmatio; posterior vero divisio, quod est negatio.
Illud quoque adicit, quod omnis per affirmationem facta enuntiatio simplicior
sit per negationem facta enuntiatione. Ex negatione enim particula negative si
sublata sit, affirmatio sola relinquitur. De eo enim quod est: Socrates non
vivit si non particula quae est adverbium auferatur, remanet Socrates
vivit. Simplicior igitur affirmatio est quam negatio. Prius vero sit necesse
est quod simplicius est. In quantitate etiam quod ad quantitatem minus est
prius est eo quod ad quantitatem plus est. Omnis vero oratio quantitas est. Sed
cum dico: Socrates ambulat minor oratio est quam cum dico: Socrates non
ambulat. Quare si secundum quantitatem affirmatio minor est, eam priorem quoque
esse necesse est. Illud quoque adiunxit affirmationem quendam esse habitum,
negationem vero privationem. Sed prior habitus privatione: affirmatio igitur
negatione prior est. Et ne singula persequi laborem, cum aliis quoque modis
demonstraret affirmationem negatione esse priorem, a communi eas genere separavit.
Nullas enim species arbitratur sub eodem genere esse posse, in quibus prius vel
posterius consideretur. Sed Porphyrius ait sese docuisse species enuntiationis
esse affirmationem et negationem in his commentariis quos in Theophrastum
edidit; hic vero Alexandri argumentationem tali ratione dissolvit. Ait enim non
oportere arbitrari, quaecumque quolibet modo priora essent aliis, ea sub eodem
genere poni non posse sed quaecumque secundum esse unum atque substantiam
priora vel posteriora sunt, ea sola sub eodem genere non ponuntur. Et recte
dicitur. Si enim omne quidquid ƿ prius est cum eo quod posterius est sub uno
genere esse non potest, nec primis substantiis et secundis commune genus
poterit esse substantia; quod qui dicit a recto ordine rationis exorbitat. Sed
quemadmodum quamquam sint primae et secundae substantiae, tamen utraque
aequaliter in subiecto non sunt et idcirco esse ipsorum ex eo pendet, quod in
subiecto non sunt, atque ideo sub uno substantiae genere collocantur: ita
quoque quamquam affirmationes negationibus in orationis prolatione priores
sint, tamen ad esse atque ad naturam propriam aequaliter enuntiatione
participant. Enuntiatio vero est in qua veritas et falsitas inveniri potest.
Qua in re et affirmatio et negatio aequales sunt. Aequaliter enim et affirmatio
et negatio veritate et falsitate participant. Quocirca quoniam id quod sunt
affirmatio et negatio aequaliter ab enuntiatione participant, a communi eas
enuntiationis genere dividi non oportet. Mihi quoque videtur quod Porphyrii sit
sequenda sententia, ut affirmatio et negatio communi enuntiationis generi
supponantur. Longa namque illa et multiplicia Alexandri argumenta soluta sunt,
cum demonstravit non modis omnibus ea quae priora sunt sub communi genere poni
non posse sed quae ad esse proprium atque substantiam priora sunt illa sola sub
communi genere constitui atque poni non posse. Syrianus vero, cui Philoxenus
cognomen est, hoc loco quaerit cur proponens prius de negatione, post de
affirmatione pronuntiaverit dicens: PRIMUM OPORTET CONSTITUERE, QUID NOMEN ET
QUID VERBUM, POSTEA QUID EST NEGATIO ET AFFIRMATIO. Et primum quidem nihil
proprium dixit quoniam in quibus et affirmatio ƿ potest et negatio provenire,
prius esse negatio, postea vero affirmatio potest, ut de Socrate sanus est.
Potest ei aptari talis affirmatio, ut de eo dicatur: Socrates sanus est
etiam huiusmodi potest aptari negatio, ut de eo dicatur: Socrates sanus non
est. Quoniam ergo in eum affirmatio et negatio poterit evenire prius evenit ut
sit negatio quam ut affirmatio. Ante enim quam natus esset: qui enim natus non
erat, nec esse poterat sanus. Huic illud adiecit: servare Aristotelem conversam
propositionis et exsecutionis distributionem. Hic enim prius post nomen et
verbum de negatione proposuit, post de affirmatione, dehinc de enuntiatione,
postremo vero de oratione sed proposita definiens prius orationem, post
enuntiationem, tertio affirmationem, ultimo vero loco negationem determinavit,
quam hic post propositionem verbi et nominis primam locaverat. Ut igitur ordo
servaretur conversus, idcirco negationem prius ait esse propositam. Qua in
expositione Alexandri quoque sententia non discedit. Illud quoque est additum,
quod non esset inutile, enuntiationem genus affirmationis et negationis accipi
oportere, quod quamquam (ut dictum est) ad prolationem prior esset affirmatio,
tamen ad ipsam enuntiationem id est veri falsique vim utrasque aequaliter sub
enuntiatione ab Aristotele constitui. Id etiam Aristotelem probare. Praemisit
enim primam negationem, secundam posuit affirmationem, quae res nihil habet
vitii, si ad ipsam enuntiationem affirmatio et negatio ponantur aequales. Quae
enim natura aequales sunt, nihil retinent contrarii indifferenter acceptae. Est
igitur ordo quo proposuit: primum totius orationis ƿ elementum, nomen scilicet
et verbum, post haec negationem et affirmationem, quae species enuntiationis
sunt. Quorum genus (id est enuntiationem) tertiam nominavit, quartam vero
orationem posuit, quae ipsius enuntiationis genus est. Et horum se omnium
definitiones daturum esse promisit, quas interim relinquens atque praeteriens
et in posteriorem tractatum differens illud nunc addit quae sint verba et nomina
aut quid ipsa significent. Quare antequam ad verba Aristotelis ipsa veniamus,
pauca communiter de nominibus atque verbis et de his quae significantur a
verbis ac nominibus disputemus. Sive enim quaelibet interrogatio sit atque
responsio, sive perpetua cuiuslibet orationis continuatio atque alterius
auditus et intellegentia, sive hic quidem doceat ille vero discat, tribus his
totus orandi ordo perficitur: rebus, intellectibus, vocibus. Res enim ab
intellectu concipitur, vox vero conceptiones animi intellectusque significat,
ipsi vero intellectus et concipiunt subiectas res et significantur a vocibus.
Cum igitur tria sint haec per quae omnis oratio collocutioque perficitur, res
quae subiectae sunt, intellectus qui res concipiant et rursus a vocibus
significentur, voces vero quae intellectus designent, quartum quoque quiddam
est, quo voces ipsae valeant designari, id autem sunt litterae. Scriptae namque
litterae ipsas significant voces. Quare quatuor ista sunt, ut litterae quidem
significent voces, voces vero intellectus, intellectus autem concipiant res,
quae scilicet habent quandam non confusam neque fortuitam consequentiam sed
terminata naturae suae ordinatione constant. Res enim semper comitantur eum qui
ab ipsis concipitur intellectum, ipsum vero intellectum vox sequitur sed voces
elementa id est ƿ litterae. Rebus enim ante propositis et in propria substantia
constitutis intellectus oriuntur. Rerum enim semper intellectus sunt, quibus
iterum constitutis mox significatio vocis exoritur. Praeter intellectum namque
vox penitus nihil designat. Sed quoniam voces sunt, idcirco litterae, quas
vocamus elementa, repertae sunt quibus vocum qualitas designetur. Ad
cognitionem vero conversim sese res habet. Namque apud quos eaedem sunt
litterae et qui eisdem elementis utuntur, eisdem quoque nominibus eos ac verbis
(id est vocibus) uti necesse est; et qui vocibus eisdem utuntur idem quoque
apud eos intellectus in animi conceptione versantur. Sed apud quos idem
intellectus sunt, easdem res eorum intellectibus subiectas esse manifestum est.
Sed hoc nulla ratione convertitur. Namque apud quos eaedem res sunt idemque
intellectus, non statim eaedem voces eaedemque sunt litterae. Nam cum Romanus,
Graecus ac barbarus simul videant equum, habent quoque de eo eundem intellectum
quod equus sit et apud eos eadem res subiecta est, idem a re ipsa concipitur
intellectus sed Graecus aliter equum vocat, alia quoque vox in equi
significatione Romana est et barbarus ab utroque in equi designatione
dissentit. Quocirca diversis quoque voces proprias elementis inscribunt. Recte
igitur dictum est apud quos eaedem res idemque intellectus sunt, non statim apud
eos vel easdem voces vel eadem elementa consistere. Praecedit autem res
intellectum, intellectus vero vocem, vox litteras – sed hoc converti non
potest. Neque enim si litterae sint, mox aliqua ex his significatio vocis
exsistit. Hominibus namque qui litteras ignorant nullum nomen quaelibet
elementa significant, quippe quae nesciunt. Nec si voces ƿ sint, mox
intellectus esse necesse est. Plures enim voces invenies quae nihil omnino
significent. Nec intellectui quoque subiecta res semper est. Sunt enim intellectus
sine re ulla subiecta, ut quos centauros vel chimaeras poetae finxerunt. Horum
enim sunt intellectus quibus subiecta nulla substantia est. Sed si quis ad
naturam redeat eamque consideret diligenter, agnoscet cum res est, eius quoque
esse intellectum quod si non apud homines, certe apud eum, qui propriae
divinitate substantiae in propria natura ipsius rei nihil ignorat. Et si est
intellectus, et vox est quod si vox fuerit, eius quoque sunt litterae, quae si
ignorantur, nihil ad ipsam vocis naturam. Neque enim, quasi causa quaedam vocum
est intellectus aut vox causa litterarum, ut cum eaedem sint apud aliquos
litterae, necesse sit eadem quoque esse nomina: ita quoque cum eaedem sint vel
res vel intellectus apud aliquos, mox necesse est intellectuum ipsorum vel
rerum eadem esse vocabula. Nam cum eadem sit et res et intellectus hominis,
apud diversos tamen homines huiusmodi substantia aliter et diverso nomine
nuncupatur. Quare voces quoque cum eaedem sint, possunt litterae esse diversae,
ut in hoc nomine quod est 'homo': cum unum sit nomen diversis litteris scribi
potest. Namque Latinis litteris scribi potest, potest etiam Graecis, potest
aliis nunc primum inventis litterarum figuris. Quare quoniam apud quos eaedem
res sunt, eosdem intellectus esse necesse est, apud quos idem intellectus sunt,
voces eaedem non sunt; et apud quos eaedem voces sunt, non necesse ƿ est eadem
elementa constitui – dicendum est res et intellectus, quoniam apud omnes idem
sunt, esse naturaliter constitutos, voces vero atque litteras, quoniam diversis
hominum positionibus permutantur non esse naturaliter sed positione. Concludendum
est igitur quoniam apud quos eadem sunt elementa, apud eos eaedem quoque voces
sunt et apud quos eaedem voces sunt, idem sunt intellectus; apud quos autem
idem sunt intellectus, apud eosdem res quoque eaedem subiectae sunt: rursus
apud quos eaedem res sunt, idem quoque sunt intellectus; apud quos idem
intellectus, non eaedem voces; nec apud quos eaedem voces sunt, eisdem semper
litteris verba ipsa vel nomina designantur. Sed nos in supra dictis sententiis
elemento atque littera promiscue usi sumus, quae autem sit horum distantia
paucis absolvam. Littera est inscriptio atque figura partis minimae vocis
articulatae, elementum vero sonus ipsius inscriptionis: ut cum scribo litteram
quae est 'a', formula ipsa quae atramento vel graphio scribitur littera
nominatur, ipse vero sonus quo ipsam litteram voce proferimus dicitur
elementum. Quocirca hoc cognito illud dicendum est, quod is qui docet vel qui
continua oratione loquitur vel qui interrogat, contrarie se habet his qui vel
discunt vel audiunt vel respondent in his tribus, voce scilicet, intellectu et
re (praetermittantur enim litterae propter eos qui earum sunt expertes). Nam
qui docet et qui dicit et qui interrogat a rebus ad intellectum profecti per
nomina et verba vim propriae actionis exercent atque officium (rebus enim
subiectis ab his capiunt intellectus et per nomina verbaque ƿ pronuntiant), qui
vero discit vel qui audit vel etiam qui respondet a nominibus ad intellectus
progressi ad res usque perveniunt. Accipiens enim is qui discit vel qui audit
vel qui respondet docentis vel dicentis vel interrogantis sermonem, quid
unusquisque illorum dicat intellegit et intellegens rerum quoque scientiam
capit et in ea consistit. Recte igitur dictum est in voce, intellectu atque re
contrarie sese habere eos qui docent, dicunt, interrogant atque eos qui discunt,
audiunt et respondent. Cum igitur haec sint quatuor – litterae, voces,
intellectus, res – proxime quidem et principaliter litterae verba nominaque
significant. Haec vero principaliter quidem intellectus, secundo vero loco res
quoque designant. Intellectus vero ipsi nihil aliud nisi rerum significativi
sunt. Antiquiores vero quorum est Plato, Aristoteles, Speusippus, Xenocrates hi
inter res et significationes intellectuum medios sensus ponunt in sensibilibus
rebus vel imaginationes quasdam, in quibus intellectus ipsius origo consistat.
Et nunc quidem quid de hac re Stoici dicant praetermittendum est. Hoc autem ex
his omnibus solum cognosci oportet, quod ea quae sunt in litteris eam
significent orationem quae in voce consistit et ea quae est vocis oratio quod
animi atque intellectus orationem designet quae tacita cogitatione conficitur,
et quod haec intellectus oratio subiectas principaliter res sibi concipiat ac
designet. Ex quibus quatuor duas quidem Aristoteles esse naturaliter dicit, res
et animi conceptiones, id est eam quae fit in intellectibus orationem, idcirco
quod apud omnes eaedem atque immutabiles sint; ƿ duas vero non naturaliter sed
positione constitui, quae sunt scilicet verba nomina et litterae, quas idcirco
naturaliter fixas esse non dicit, quod (ut supra demonstratum est) non eisdem
vocibus omnes aut isdem utantur elementis. Atque hoc est quod ait: SUNT ERGO EA
QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE ET EA QUAE
SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE. ET QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM,
SIC NEC VOCES EAEDEM. QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS
PASSIONES ANIMAE ET QUORUM HAE SIMILITUDINES, RES ETIAM EAEDEM. DE HIS QUIDEM
DICTUM EST IN HIS QUAE SUNT DICTA DE ANIMA, ALTERIUS EST ENIM NEGOTII. Cum
igitur prius posuisset nomen et verbum et quaecumque secutus est postea se
definire promisisset, haec interim praetermittens de passionibus animae deque
earum notis, quae sunt scilicet voces, pauca praemittit. Sed cur hoc ita
interposuerit, plurimi commentatores causas reddere neglexerunt sed a tribus
quantum adhuc sciam ratio huius interpositionis explicita est. Quorum Hermini
quidem a rerum veritate longe disiuncta est. Ait enim idcirco Aristotelen de
notis animae passionum interposuisse sermonem, ut utilitatem propositi operis
inculcaret. Disputaturus enim de vocibus, quae sunt notae animae passionum,
recte de his quaedam ante praemisit. Nam cum suae nullus animae passiones
ignoret, notas quoque cum animae passionibus non nescire utilissimum est. Neque
enim illae cognosci possunt nisi per voces quae sunt ƿ earum scilicet notae. Alexander
vero aliam huiusmodi interpositionis reddidit causam. Quoniam, inquit, verba et
nomina interpretatione simplici continentur, oratio vero ex verbis nominibusque
coniuncta est et in ea iam veritas aut falsitas invenitur, sive autem quilibet
sermo sit simplex sive iam oratio coniuncta atque composita ex his quae
significant momentum sumunt (in illis enim prius est eorum ordo et continentia,
post redundat in voces): quocirca quoniam significantium momentum ex his quae
significantur oritur, idcirco prius nos de his quae voces ipsae significant
docere proponit. Sed Herminus hoc loco repudiandus est. Nihil enim tale quod ad
causam propositae sententiae pertineret explicuit. Alexander vero strictim
proxima intellegentia praeteruectus tetigit quidem causam, non tamen
principalem rationem Aristotelicae propositionis exsolvit. Sed Porphyrius ipsam
plenius causam originemque sermonis huius ante oculos collocavit, qui omnem
apud priscos philosophos de significationis vi contentionem litemque retexuit.
Ait namque dubie apud antiquorum philosophorum sententias constitisse quid
esset proprie quod vocibus significaretur. Putabant namque alii res vocibus
designari earumque vocabula esse ea quae sonarent in vocibus arbitrabantur.
Alii vero incorporeas quasdam naturas meditabantur, quarum essent significationes
quaecumque vocibus designarentur: Platonis aliquo modo species incorporeas
aemulati dicentis hoc ipsum homo et hoc ipsum equus non hanc cuiuslibet
subiectam substantiam sed illum ipsum hominem specialem et illum ipsum equum,
universaliter et incorporaliter cogitantes ƿ incorporales quasdam naturas
constituebant, quas ad significandum primas venire putabant et cum aliis item
rebus in significationibus posse coniungi, ut ex his aliqua enuntiatio vel
oratio conficeretur. Alii vero sensus, alii imaginationes significari vocibus
arbitrabantur. Cum igitur ista esset contentio apud superiores et haec usque ad
Aristotelis pervenisset aetatem, necesse fuit qui nomen et verbum significativa
esset definiturus praediceret quorum ista designativa sint. Aristoteles enim
nominibus et verbis res subiectas significari non putat, nec vero sensus vel
etiam imaginationes. Sensuum quidem non esse significativas voces nomina et
verba in opere de iustitia sic declarat dicens: *phusei gar euthus dieretai ta
te noemata kai ta aisthemata* quod interpretari Latine potest hoc modo:
Natura enim divisa sunt intellectus et sensus. Differre igitur aliquid
arbitratur sensum atque intellectum. Sed qui passiones animae a vocibus
significari dicit, is non de sensibus loquitur. Sensus enim corporis passiones
sunt. Si igitur ita dixisset passiones corporis a vocibus significari, tunc
merito sensus intellegeremus. Sed quoniam passiones animae nomina et verba
significare proposuit, non sensus sed intellectus eum dicere putandum est. Sed
quoniam imaginatio quoque res animae est, dubitaverit aliquis ne forte
passiones animae imaginationes, ƿ quas Graeci *phantasias* nominant, dicat. Sed
haec in libris De anima verissime diligentissimeque separavit, dicens:*estin de
phantasia heteron phaseos kai apophaseos; symploke gar noematon estin to
alethes kai to pseudos. ta de prota noemata ti dioisei tou me phantasmata
einai; e houde tauta phantasmata, all' ouk aneu phantasmaton.* quod sic
interpretamur: Est autem imaginatio diversa affirmatione et negatione;
complexio namque intellectuum est veritas et falsitas. Primi vero intellectus
quid discrepabunt, ut non sint imaginationes? An certe neque haec sunt
imaginationes sed sine imaginationibus non sunt. Quae sententia demonstrat
aliud quidem esse imaginationes, aliud intellectus; ex intellectuum quidem
complexione affirmationes fieri et negationes: quocirca illud quoque dubitavit,
utrum primi intellectus imaginationes quaedam essent. Primos autem intellectus
dicimus qui simplicem rem concipiunt, ut si qui dicat "Socrates"
solum dubitatque utrum huiusmodi intellectus, qui in se nihil neque veri
continet neque falsi, intellectus sit an ipsius Socratis imaginatio. Sed de hoc
quoque aperte quid videretur ostendit. Ait enim an certe neque haec sunt
imaginationes sed non sine imaginationibus sunt – id est quod hic sermo
significat qui est "Socrates" vel alius simplex non est quidem
imaginatio sed intellectus, qui intellectus praeter imaginationem fieri non
potest. Sensus enim atque imaginatio ƿ quaedam primae figurae sunt, supra quas
velut fundamento quodam superveniens intellegentia nitatur. Nam sicut pictores
solent designare lineatim corpus atque substernere ubi coloribus cuiuslibet
exprimant uultum, sic sensus atque imaginatio naturaliter in animae perceptione
substernitur. Nam cum res aliqua sub sensum vel sub cogitationem cadit, prius
eius quaedam necesse est imaginatio nascatur, post vero plenior superveniat
intellectus cunctas eius explicans partes quae confuse fuerant imaginatione
praesumptae. Quocirca imperfectum quiddam est imaginatio, nomina vero et verba
non curta quaedam sed perfecta significant. Quare recta Aristotelis sententia
est: quaecumque in verbis nominibusque versantur, ea neque sensus neque
imaginationes sed solam significare intellectuum qualitatem. Unde illud quoque
ab Aristotele fluentes Peripatetici rectissime posuerunt tres esse orationes,
unam quae scribi possit elementis, alteram quae voce proferri, tertiam quae
cogitatione conecti unamque intellectibus, alteram voce, tertiam litteris
contineri. Quocirca quoniam id quod significaretur a vocibus intellectus esse
Aristoteles putabat, nomina vero et verba significativa esse in eorum erat
definitionibus positurus, recte quorum essent significativa praedixit
erroremque lectoris ex multiplici ueterum lite venientem sententiae suae
manifestatione compescuit. Atque hoc modo nihil in eo deprehenditur esse
superfluum, nihil ab ordinis continuatione seiunctum. Quaerit vero Porphyrius,
cur ita dixerit: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE, et non sic: sunt ƿ igitur
voces; et rursus cur ita et ea quae scribuntur et non dixerit: et litterae. Quod
resolvit hoc modo. Dictum est tres esse apud Peripateticos orationes, unam quae
litteris scriberetur, aliam quae proferretur in voce, tertiam quae
coninugeretur in animo. Quod si tres orationes sunt, partes quoque orationis
esse triplices nulla dubitatio est. Quare quoniam verbum et nomen principaliter
orationis partes sunt, erunt alia verba et nomina quae scribantur, alia quae
dicantur, alia quae tacita mente tractentur. Ergo quoniam proposuit dicens:
PRIMUM OPORTET CONSTITUERE QUID NOMEN ET QUID VERBUM, triplex autem nominum
natura est atque verborum, de quibus potissimum proposuerit et quae definire
velit ostendit. Et quoniam de his nominibus loquitur ac verbis, quae voce
proferuntur, idem ipsum planius explicans ait: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE
EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT
IN VOCE, velut si diceret: ea verba et nomina quae in vocali oratione
proferuntur animae passiones denuntiant, illa autem rursus verba et nomina quae
scribuntur eorum verborum nominumque significantiae praesunt quae voce
proferuntur. Nam sicut vocalis orationis verba et nomina conceptiones animi
intellectusque significant, ita quoque verba et nomina illa quae in solis
litterarum formulis iacent illorum verborum et nominum significativa sunt quae
loquimur, id est quae per vocem sonamus nam quod ait: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN
VOCE; subaudiendum est verba et nomina. Et rursus cum dicit: ET EA QUAE
SCRIBUNTUR, idem subuectendum rursus est verba scilicet vel nomina. Et quod
rursus ƿ adiecit: eorum quae sunt in voce, addendum eorum nomimum atque
verborum quae profert atque explicat vocalis oratio. Quod si nihil deesset
omnino, ita foret totius plenitudo sententiae: sunt ergo ea verba et nomina
quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum notae et ea verba et
nomina quae scribuntur eorum verborum et nominum quae sunt in voce. Quod
communiter intellegendum est, licet ea quae subiunximus deesse videantur. Quare
non est disiuncta sententia sed primae propositioni continua. Nam cum quid sit
verbum, quid nomen definire constituit, cum nominis et verbi natura sit
multiplex, de quo verbo et nomine tractare vellet clara significatione
distinxit. Incipiens igitur ab his nominibus ac verbis quae in voce sunt,
quorum essent significativa disseruit. Ait enim haec passiones animae
designare. Illud quoque adiecit quibus ipsa verba et nomina quae in voce sunt
designentur, his scilicet quae litterarum formulis exprimuntur. Sed quoniam non
omnis vox significativa est, verba vero vel nomina numquam significationibus
uacant quoniamque non omnis vox quae significat quaedam positione designat sed
quaedam naturaliter, ut lacrimae, gemitus atque maeror (animalium quoque caeterorum
quaedam voces naturaliter aliquid ostentant, ut ex canum latratibus iracundia
eorumque alia quadam voce blandimenta monstrantur), verba autem et nomina
positione significant neque solum sunt verba et nomina voces sed voces
significativae nec solum significativae sed etiam quae positione designent
aliquid, non natura: non dixit: sunt igitur voces earum quae sunt in anima
passionum notae. Namque neque omnis vox significativa ƿ est et sunt quaedam
significativae quae naturaliter non positione significent. Quod si ita
dixisset, nihil ad proprietatem verborum et nominum pertineret. Quocirca noluit
communiter dicere voces sed dixit tantum ea quae sunt in voce. Vox enim
universale quiddam est, nomina vero et verba partes. Pars autem omnis in toto
est. Verba ergo et nomina quoniam sunt intra vocem, recte dictum est ea quae
sunt in voce, velut si diceret: quae intra vocem continentur intellectuum
designativa sunt. Sed hoc simile est ac si ita dixisset: vox certo modo sese
habens significat intellectus. Non enim (ut dictum est) nomen et verbum voces
tantum sunt. Sicut nummus quoque non solum aes impressum quadam figura est, ut
nummus vocetur sed etiam ut alicuius rei sit pretium: eodem quoque modo verba
et nomina non solum voces sunt sed positae ad quandam intellectuum
significationem. Vox enim quae nihil designat, ut est garalus, licet eam
grammatici figuram vocis intuentes nomen esse contendant, tamen eam nomen
philosophia non putabit, nisi sit posita ut designare animi aliquam
conceptionem eoque modo rerum aliquid possit. Etenim nomen alicuius nomen esse
necesse erit; sed si vox aliqua nihil designat, nullius nomen est; quare si
nullius est, ne nomen quidem esse dicetur. Atque ideo huiusmodi vox id est
significativa non vox tantum sed verbum vocatur aut nomen, quemadmodum nummus
non aes sed proprio nomine nummus, quo ab alio aere discrepet, nuncupatur. Ergo
haec Aristotelis sententia qua ait ea quae sunt in voce nihil aliud designat
nisi eam vocem, quae non solum vox sit sed quae cum vox sit habeat tamen aliquam
proprietatem et ƿ aliquam quodammodo figuram positae signicationis impressam.
Horum vero id est verborum et nominum quae sunt in voce aliquo modo se habente
ea sunt scilicet significativa quae scribuntur, ut hoc quod dictum est quae
scribuntur de verbis ac nominibus dictum quae sunt in litteris intellegatur.
Potest vero haec quoque esse ratio cur dixerit et quae scribuntur: quoniam
litteras et inscriptas figuras et voces, quae isdem significantur formulis,
nuncupamus (ut a et ipse sonus litterae nomen capit et illa quae in subiecto
cerae vocem significans forma describitur), designare volens, quibus verbis
atque nominibus ea quae in voce sunt apparerent, non dixit litteras, quod ad
sonos etiam referri potuit litterarum sed ait quae scribuntur, ut ostenderet de
his litteris dicere quae in scriptione consisterent id est quarum figura vel in
cera stilo vel in membrana calamo posset effingi. Alioquin illa iam quae in
sonis sunt ad ea nomina referuntur quae in voce sunt, quoniam sonis illis
nomina et verba iunguntur. Sed Porphyrius de utraque expositione iudicavit
dicens: id quod ait ET QUAE SCRIBUNTUR non potius ad litteras sed ad verba et
nomina quae posita sunt in litterarum inscriptione referendum. Restat igitur ut
illud quoque addamus, cur non ita dixerit: sunt ergo ea quae sunt in voces
intellectuum notae sed ita earum quae sunt in anima passionum notae. Nam cum ea
quae sunt in voce res intellectusque significent, principaliter quidem
intellectus, res vero quas ipsa intellegentia comprehendit secundaria significatione
per intellectuum medietatem, intellectus ipsi non sine quibusdam passionibus
sunt, quae in animam ex subiectis veniunt rebus. Passus enim quilibet eius rei
proprietatem, ƿ quam intellectu complectitur, ad eius enuntiationem
designationemque contendit. Cum enim quis aliquam rem intellegit, prius
imaginatione formam necesse est intellectae rei proprietatemque suscipiat et
fiat vel passio vel cum passione quadam intellectus perceptio. Hac vero posita
atque in mentis sedibus collocata fit indicandae ad alterum passionis voluntas,
cui actus quidam continuandae intellegentiae protinus ex intimae rationis
potestate supervenit, quem scilicet explicat et effundit oratio nitens ea quae
primitus in mente fundata est passione, sive, quod est verius, significatione
progressa oratione progrediente simul et significantis se orationis motibus
adaequante. Fit vero haec passio velut figurae alicuius impressio sed ita ut in
animo fieri consuevit. Aliter namque naturaliter inest in re qualibet propria
figura, aliter vero eius ad animum forma transfertur, velut non eodem modo
cerae vel marmori vel chartis litterae id est vocum signa mandantur. Et
imaginationem Stoici a rebus in animam translatam loquuntur sed cum adiectione
semper dicentes ut in anima. Quocirca cum omnis animae passio rei quaedam
videatur esse proprietas, porro autem designativae voces intellectuum
principaliter, rerum dehinc a quibus intellectus profecti sunt significatione
nitantur, quidquid est in vocibus significativum, id animae passiones designat.
Sed hae passiones animarum ex rerum similitudine procreantur. Videns ƿ namque
aliquis sphaeram vel quadratum vel quamlibet aliam rerum figuram eam in animi
intellegentia quadam vi ac similitudine capit. Nam qui sphaeram viderit, eius
similitudinem in animo perpendit et cogitat atque eius in animo quandam passus
imaginem id cuius imaginem patitur agnoscit. Omnis vero imago rei cuius imago
est similitudinem tenet: mens igitur cum intellegit, rerum similitudinem
comprehendit. Unde fit ut, cum duorum corporum maius unum, minus alterum
contuemur, a sensu postea remotis corporibus illa ipsa corpora cogitantes illud
quoque memoria servante noverimus sciamusque quod minus, quod vero maius corpus
fuisse conspeximus, quod nullatenus eveniret, nisi quas semel mens passa est
rerum similitudines optineret. Quare quoniam passiones animae quas intellectus
vocavit rerum quaedam similitudines sunt, idcirco Aristoteles, cum paulo post
de passionibus animae loqueretur, continenti ordine ad similitudines transitum
fecit, quoniam nihil differt utrum passiones diceret an similitudines. Eadem
namque res in anima quidem passio est, rei vero similitudo. Et Alexander hunc
locum: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE
ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE. ET QUEMADMODUM NEC LITTERAE
OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES EAEDEM hoc modo conatur exponere: proposuit,
inquit, ea quae sunt in voce intellectus animi designare et hoc alio probat
exemplo. Eodem modo enim ea quae sunt in voce passiones animae significant,
quemadmodum ea quae scribuntur voces designant, ut id quod ait et ea quae ƿ
scribuntur ita intellegamus, tamquam si diceret: quemadmodum etiam ea quae
scribuntur eorum quae sunt in voce. Ea vero quae scribuntur, inquit Alexander,
notas esse vocum id est nominum ac verborum ex hoc monstravit quod diceret et
quemadmodum nec litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. Signum namque
est vocum ipsarum significationem litteris contineri, quod ubi variae sunt
litterae et non eadem quae scribuntur varias quoque voces esse necesse est. Haec
Alexander. Porphyrius vero quoniam tres proposuit orationes, unam quae litteris
contineretur, secundam quae verbis ac nominibus personaret, tertiam quam mentis
euolueret intellectus, id Aristotelem significare pronuntiat, cum dicit: SUNT
ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE, quod
ostenderet si ita dixisset: sunt ergo ea quae sunt in voce et verba et nomina
animae passionum notae. Et quoniam monstravit quorum essent voces
significativae, illud quoque docuisse quibus signis verba vel nomina
panderentur ideoque addidisse et ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce,
tamquam si diceret: ea quae scribuntur verba et nomina eorum quae sunt in voce
verborum et nominum notae sunt. Nec disiunctam esse sententiam nec (ut
Alexander putat) id quod ait: ET EA QUAE SCRIBUNTUR ita intellegendum, tamquam
si diceret: sicut ea quae scribuntur id est litterae illa quae sunt in voce
significant, ita ea quae sunt in voce notas esse animae passionum. Primo quod ad
simplicem sensum nihil addi oportet, deinde tam brevis ordo tamque necessaria
orationis non est intercidenda partitio, tertium vero quoniam, si similis
significatio est litterarum vocumque, ƿ quae est vocum et animae passionum,
oportet sicut voces diversis litteris permutantur, ita quoque passiones animae
diversis vocibus permutari, quod non fit. Idem namque intellectus variatis
potest vocibus significari. Sed Alexander id quod eum superius sensisse
memoravi hoc probare nititur argumento. Ait enim etiam in hoc quoque similem
esse significationem litterarum ac vocum, quoniam sicut litterae non
naturaliter voces sed positione significant, ita quoque voces non naturaliter
intellectus animi sed aliqua positione designant. Sed qui prius recepit, ut id
quod Aristoteles ait: ET EA QUAE SCRIBUNTUR ita dictum esset, tamquam si
diceret: sicut ea quae scribuntur, quidquid ad hanc sententiam videtur
adiungere, aequaliter non dubitatur errare. Quocirca nostro indicio qui rectius
tenere volent Porphyrii se sententiis applicabunt. Aspasius quoque secundae
sententiae Alexandri, quam supra posuimus, valde consentit, qui a nobis in
eodem quo Alexander errore culpabitur. Aristoteles vero duobus modis esse has
notas putat litterarum, vocum passionumque animae constitutas: uno quidem
positione, alio vero naturaliter. Atque hoc est quod ait: et quemadmodum nec
litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. Nam si litterae voces, ipsae
vero voces intellectus animi naturaliter designarent, omnes homines isdem
litteris, isdem etiam vocibus uterentur. Quod quoniam apud omnes neque eaedem
litterae neque eacdem voces sunt, constat eas non esse naturales.Sed hic duplex
lectio est. Alexander enim hoc modo legi putat oportere: QUORUM AUTEM HAEC
PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE ET QUORUM EAEDEM SIMILITUDINES,
RES ETIAM EAEDEM. Volens enim Aristoteles ea quae positione significant ab his
quae aliquid designant naturaliter segregare hoc interposuit: ea quae positione
significant varia esse, ea vero quae naturaliter apud omnes eadem. Et inchoans
quidem a vocibus ad litteras venit easque primo non esse naturaliter
significativas demonstrat dicens: ET QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM,
SIC NEC VOCES EAEDEM. Nam si idcirco probantur litterae non esse naturaliter
significantes, quod apud alios aliae sint ac diversae, eodem quoque modo
probabile erit voces quoque non naturaliter significare, quoniam singulae
hominum gentes non eisdem inter se vocibus colloquantur. Volens vero
similitudinem intellectuum rerumque subiectarum docere naturaliter constitutam
ait: QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE. Quorum,
inquit, voces quae apud diversas gentes ipsae quoque diversae sunt
significationem retinent, quae scilicet sunt animae passiones, illae apud omnes
eaedem sunt. Neque enim fieri potest, ut quod apud Romanos homo intellegitur
lapis apud barbaros intellegatur. Eodem quoque modo de caeteris rebus. Ergo
huiusmodi sententia est, qua dicit ea quae voces significent apud omnes hominum
gentes non mutari, ut ipsae quidem voces, sicut supra monstravit cum dixit
QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES EAEDEM, apud plures
diversae sint, illud vero quod voses ipsae significant apud omnes homines idem
sit nec ulla ratione ƿ valeat permutari, qui sunt scilicet intellectus rerum,
qui quoniam naturaliter sunt permutari non possunt. Atque hoc est quod ait:
QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, id est voces, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES
ANIMAE, ut demonstraret voces quidem esse diversas, QUORUM autem ipsae voces
significativae essent, quae sunt scilicet animae passiones, EASDEM APUD OMNES
esse nec ulla ratione, quoniam sunt constitutae naturaliter, permutari. Nec
vero in hoc constitit, ut de solis vocibus atque intellectibus loqueretur sed
quoniam voces atque litteras non esse naturaliter constitutas per id
significavit, quod eas non apud omnes easdem esse proposuit, rursus intellectus
quos animae passiones vocat per hoc esse naturales ostendit, quod apud omnes
idem sint, a quibus id est intellectibus ad res transitum fecit. Ait enim
QUORUM HAE SIMILITUDINES, res etiam eaedem hoc scilicet sentiens, quod res
quoque naturaliter apud omnes homines essent eaedem: sicut ipsae animae
passiones quae ex rebus sumuntur APUD OMNES homines EAEDEM sunt, ita quoque
etiam ipsae res quarum similitudines sunt animae passiones eaedem apud omnes
sunt. Quocirca quoque naturales sunt, sicut sunt etiam rerum similitudines,
quae sunt animae passiones. Herminus vero huic est expositioni contrarius.
Dicit enim non esse verum eosdem apud omnes homines esse intellectus, quorum
voces significativae sint. Quid enim, inquit, in aequivocatione dicetur, ubi
unus idemque vocis modus plura significat? Sed magis hanc lectionem veram
putat, ut ita sit: QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, HAE OMNIBUS PASSIONES
ANIMAE ET QUORUM HAE SIMILITUDINES, RES ETIAM HAE: ut demonstratio videatur ƿ
quorum voces significativae sint vel quorum passiones animae similitudines. Et
hoc simpliciter accipiendum est secundum Herminum, ut ita dicamus quorum voces
significativae sunt, illae sunt animae passmnes, tamquam diceret: animae
passiones sunt, quas significant voces, et rursus quorum sunt similitudines ea
quae intellectibus continentur, illae sunt res, tamquam si dixisset: res sunt
quas significant intellectus. Sed Porphyrius de utrisque acute subtiliterque
iudicat et Alexandri magis sententiam probat, hoc quod dicat non debere
dissimulari de multiplici aequivocationis significatione. Nam et qui dicit ad
unam quamlibet rem commodat animum, scilicet quam intellegens voce declarat, et
unum rursus intellectum quemlibet is qui audit exspectat. Quod si, cum uterque
ex uno nomine res diversas intellegunt, ille qui nomen aequivocum dixit
designet clarius, quid illo nomine significare voluerit, accipit mox qui audit
et ad uuum intellectum utrique conveniunt, qui rursus fit unus apud eosdem
illos apud quos primo diversae fuerant animae passiones propter aequivocationem
nominis. Neque enim fieri potest, ut qui voces positione significantes a natura
eo distinxerit quod easdem apud omnes esse non diceret, eas res quas esse
naturaliter proponebat non eo tales esse monstraret, quod apud omnes easdem
esse contenderet. Quocirca Alexander vel propria sententia vel Porphyrii
auctoritate probandus est. Sed quoniam ita dixit Aristoteles QUORUM AUTEM HAEC
PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE sunt, quaerit Alexander: ƿ si
rerum nomina sunt, quid causae est ut primorum intellectuum notas esse voces
diceret Aristoteles? Rei enim ponitur nomen, ut cum dicimus homo significamus
quidem intellectum, rei tamen nomen est id est animalis rationalis mortalis.
Cur ergo non primarum magis rerum notae sint voces quibus ponuntur potius quam
intellectuum? Sed fortasse quidem ob hoc dictum est, inquit, quod licet voces
rerum nomina sint, tamen non idcirco utimur vocibus, ut res significemus sed ut
eas quae ex rebus nobis innatae sunt animae passiones. Quocirca propter quorum
significantiam voces ipsae proferuntur, recte eorum primorum esse dixit notas. In
hoc vero Aspasius permolestus est. Ait enim: qui fieri potest, ut eaedem apud
omnes passiones animae sint, cum tam diversa sententia de iusto ac bono sit?
Arbitratur Aristotelem passiones animae non de rebus incorporalibus sed de his
tantum quae sensibus capi possunt passiones animae dixisse. Quod perfalsum est.
Neque enim intellexisse dicetur, qui fallitur, et fortasse quidem passionem
animi habuisse dicetur, quicumque id quod est bonum non eodem modo quo est sed
aliter arbitratur, intellexisse vero non dicitur. Aristoteles autem cum de
similitudine loquitur, de intellectu pronuntiat. Neque enim fieri potest, ut
qui quod bonum est malum esse arbitratur boni similitudinem mente conceperit.
Neque enim intellexit rem subiectam. Sed quae sunt iusta ac bona ad positionem
omnia nuturamue referuntur. Et si de iusto ac bono ita loquitur, ut de eo quod
civile ius aut civilis iniuria ƿ dicitur, recte non eaedem sunt passiones
animae quoniam civile ius et civile bonum positione est, non natura. Naturale
vero bonum atque iustum apud omnes gentes idem est. Et de deo quoque idem:
cuius quamuis diversa cultura sit, idem tamen cuiusdam eminentissimae naturae
est intellectus. Quare repetendum breviter a principio est. partibus enim ad
orationem usque pervenit: nam quod se prius quid esset verbum, quid nomen
constituere dixit, hae minimae orationis partes sunt; quod vero affirmationem
et negationem, iam de composita ex verbis et nominibus oratione loquitur, quae
eaedem rursus partes sunt enuntiationis. Et post enuntiationis propositionem de
oratione loqui proposuit, cuius ipsa quoque enuntiatio pars est. Et quoniam (ut
dictum est) triplex est oratio, quae in litteris, quae in voce, quae in
intellectibus est, qui verbum et nomen definiturus esset eaque significativa
positurus, dicit prius quorum significativa sint ipsa verba et nomina et
inchoat quidem ab his nominibus et verbis quae sunt in voce dicens: SUNT ERGO
EA QUAE SUNT IN VOCE et demonstrat quorum sint significativa adiciens EARUM
QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE. Rursus nominum ipsorum verborumque quae in
voce sunt ea verba et nomina quae essent in litteris constituta significativa
esse declarat dicens ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE. Et quoniam
quatuor ista quaedam sunt: litterae, voces, intellectus, res, quorum litterae
et voces positione sunt, natura vero res atque intellectus, demonstravit voces
non esse naturaliter sed positione per hoc quod ait non easdem esse apud omnes
sed varias, ut est ET QUEMADMODUM NEC ƿ LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES
EAEDEM. Ut vero demonstraret intellectus et res esse naturaliter, ait apud
omnes eosdem esse intellectus, quorum essent voces significativae, et rursus
apud omnes easdem esse res, quarum similitudines essent animae passiones, ut
est QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, SCILICET QUAE SUNT IN VOCE, EAEDEM
OMNIBUS PASSIONES ANIMAE ET QUORUM HAE SIMILITUDINES, RES ETIAM EAEDEM.
Passiones autem animae dixit, quoniam alias diligenter ostensum est omnem vocem
animalis aut ex passione animae aut propter passionem proferri. Similitudinem
vero passionem animae vocavit, quod secundum Aristotelem nihil aliud
intellegere nisi cuiuslibet subiectae rei proprietatem atque imaginationem in
animae ipsms reputatione suscipere, de quibus animae passionibus in libris se
de anima commemorat diligentius disputasse. Sed quoniam demonstratum est,
quoniam et verba et nomina et oratio intellectuum principaliter significativa
sunt, quidquid est in voce significationis ab intellectibus venit. Quare prius
paululum de intellectibus perspiciendum ei qui recte aliquid de vocibus
disputabit. Ergo quod supra passiones animae et similitudines vocavit, idem
nunc apertius intellectum vocat dicens: EST AUTEM, QUEMADMODUM IN ANIMA
ALIQUOTIENS QUIDEM INTELLECTUS SINE VERO VEL FALSO, ALIQUOTIENS AUTEM CUI IAM
NECESSE EST HORUM ALTERUM INESSE, SIC ETIAM IN VOCE; CIRCA COMPOSITIONEM ENIM
ET DIVISIONEM EST FALSITAS VERITASQUE NOMINA IGITUR IPSA ET VERBA CONSIMILIA
SUNT SINE COMPOSITIONE VEL DIVISIONE INTELLECTUI, UT HOMO VEL ALBUM, QUANDO NON
ADDITUR ALIQUID, NEQUE ENIM ADHUC VERUM AUT FALSUM S EST. HUIUS AUTEM SIGNUM
HOC EST: HIRCOCERVUS ENIM SIGNIFICAT ALIQUID SED NONDUM VERUM VEL FALSUM, SI
NON VEL ESSE VEL NON ESSE ADDATUR, VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Quoniam
nomen et verbum atque omnis oratio significativa sunt animae passionum, ex
ipsis sine dubio quae designant in eisdem vocibus proprietas significationis
innascitur hic vero est totus atque continuus Aristotelicae ordo sententiae:
quoniam, inquit, ea primum vocibus significantur quae animo et cogitatione
versamus, intellectuum vero alios quidem simplices et sine veri vel falsi
enuntiatione perpendimus, ut cum nobis hominis proprietas tacita imaginatione
suggeritur (nulla namque ex hac intellegentiae simplicitate vel veritatis
nascitur vel falsitatis agnitio), sunt vero intellectus quidam compositi atque
conioncti in quibus inest iam quaedam veritatis vel falsitatis inspectio, ut
cum ad quamlibet simplicem perceptionem mentis adinugitur aliud quod esse
aliquid vel non esse constituat, ut si ad hominis intellectum esse vel non esse
vel album esse vel album non esse copuletur (fient enim cogitabiles orationes
veritatis vel falsitatis participes hoc modo: homo est, homo non est, homo
albus est, homo albus non est, quarum quidem homo est vel homo albus est
compositione dicitur. Nam prior esse atque hominem, posterior hominem albo
composita intellectus praedicatione conectit): sin vero ad hominis intellectum
adiciam quiddam, ut ita sit homo ƿ est vel non est vel albus est aut aliquid
tale, tunc in ipsa cogitatione veritas aut falsitas nascitur: ergo, inquit, quemadmodum
aliquotiens quidam simplices intellectus sunt, qui vero falsoque careant,
quidam vero in quibus horum alterum reperiatur, sic etiam et in voce. Nam quae
voces denuntiant simplices intellectus, ipsae quoque a falsitate et veritate
seiunctae sunt, quae vero huiusmodi significant intellectus in quibus iam vel
veritas vel falsitas constituta est, in ipsis quoque horum alterum inveniri
necesse est. Nam si quis hoc solum dicat HOMO vel ALBUM vel etiam HIRCOCERVUS,
quamquam ista quiddam significent, quoniam tamen significant simplicem
intellectum, manifestum est omni veritatis vel falsitatis proprietate carere.
Et tota quidem sententia se hoc modo habet. Diligentius tamen est attendendum
quid est quod ait: CIRCA COMPOSITIONEM ENIM ET DIVISIONEM EST FALSITAS
VERITASQUE; quid etiam quod dictum est: NOMINA IGITUR IPSA ET VERBA CONSIMILIA
SUNT SINE COMPOSITIONE VEL DIVISIONE INTELLECTUI; illud quoque; cur composito
nomine vel cur etiam usus est non rei subsistentis exemplo, ut diceret
HIRCOCERVUS ENIM SIGNIFICAT ALIQUID. Nec illud praetereundum est quid est quod
dictum sit VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Et primum quidem de eo dicendum
est quod ait: CIRCA COMPOSITIONEM ENIM ET DIVISIONEM EST FALSITAS VERITASQUE.
Quaeritur namque, utrumne omnis veritas circa compositionem divisionemque sit,
an quaedam est, quaedam vero minime. Illud quoque, an in omni compositione vel
divisione veritas falsitasque constituta sit, an hoc non generaliter sed in
quadam compositionis vel divisionis parte veritas falsitasque versetur. In
opinionibus namque veritas est, quotiens ex subiecta ƿ re capitur imaginatio
vel etiam quotiens ita, ut sese res habet, imaginationem accipit intellectus;
falsitas vero est quotiens aut non ex subiecto aut non ut sese habet res imaginatio
subicitur intellectui. Sed adhuc in veritate atque falsitate nihil equidem
aliud reperitur nisi quaedam opinionis habitudo ad subiectam rem. Qua enim
habitudine et quomodo sese habeat imaginatio ad rem subiectam, hoc solum in hac
veritate vel falsitate perspicitur. Quam quidem habitudinem nullus dixerit
compositionem. In hoc vero divisionis nullus ne fictus quidem modus intellegi
potest. Illud quoque considerandum est, numne aliqua sit in his compositio vel
divisio, quae secundum substantiam suam vera dicuntur, ut est vera voluptas
bene vivendi, ut est falsa voluptas bellandi. Etiam illud quoque respiciendum
est, quod in omnium maximo deo quidquid intellegitur non in eo accidenter sed
substantialiter intellegitur. Etenim quae bona sunt substantialiter de eo non
accidenter credimus. Quod si substantialiter credimus deum, deum vero nullus
dixerit falsum nihilque in eo accidenter poterit evenire, ipsa veritas deus
dicendus est. Ubi igitur compositio vel divisio in his quae simplicia
naturaliter sunt nec ulla cuiuslibet rei collatione iunguntur? Quare non omnis
veritas neque falsitas circa compositionem divisionemque constat sed sola
tantum quae in multitudine intellectoum fit et in prolatione dicendi. Nam in
ipsa quidem habitudine imaginationis et rei nulla compositio est, in
coniunctione vero intellectuum compositio fit. Nam cum dico: Socrates
ambulat hoc ipsum quidem, ƿ quod eum ambulare concepi, nulla compositio
est; quod vero in intellectus progressione ambulationem cum Socrate coniungo,
quaedam iam facta est compositio. quod si hoc oratione protulero, rursus eadem
compositio est et circa eam vis veritatis et falsitatis apparet. Quocirca in
his solis compositionibus invenitur veritas atque mendacium, de quibus tota
nunc quaestio est, in nomine scilicet et verbo, in negatione et affirmatione et
enunti atione et oratione. Quae scilicet compositiones veritatis et falsitatis
naturam ab intellectibus accipientes in significationis prolatione conservant.
De divisione autem quae ad negationem pertinet deque compositione quae ad
affirmationem paulo post enucleatius dicam. Nunc illud videndum est, utrum
verum sit circa omnem compositionem circaque omnem divisionem veritatem vel
mendacium provenire, quod omnino falsum est. Quis enim dixerit huiusmodi
nominum coniunctionem: et Socrates et Plato vel si a se haec nomina
dividantur nec Socrates nec Plato veri aliquam falsive tenere
significantiam? Quare confitendum est non circa omnem divisionem neque circa
omnem compositionem, eam scilicet quae in oratione versatur, mendacium
veritatemque subsistere. Sed illud verissimum est, quod omnis quae est in
oratione veritas falsitasque in compositione et divisione nascitur, non tamen
omnis orationis compositio vel divisio verum retinet aut falsum. Ergo si sic
dixisset: circa omnem compositionem vel divisionem veritas falsitasque est,
mentiretur. Sed quoniam dixit simpliciter: veritas falsitasque circa
compositionem divisionemque est, verissime subtilissimeque dixisse putandus
est. Illa enim ƿ nomina quae ita dicuntur simplicia, ut veritatem aut
falsitatem quodammodo valeant designare, huiusmodi sunt, ut intra se atque
intra significationem suam quandam retineant compositionem, ut si qui dicat:
Lego hoc est enim dicere "lego" tamquam si dicat "Ego lego".
Hoc autem compositio est. Vel quotiens interrogante alio respondet alius uno
tantum sermone, videtur quoque tunc simplex sermo veritatem mendaciumque
perficere. Quod perfalsum est. Audientis namque responsio ad totum ordinem
superioris enuntiationis adiungitur: ut si quis interroganti mundusne animal
sit, est responderit, videtur haec una particula veritatem vel mendacium
continere sed falso. Non enim una est sed ad vim ipsius responsionis intuenti
tale est ac si diceret "Mundus animal est". Quod vero ait NOMINA IPSA
ET VERBA CONSIMILIA ESSE SINE COMPOSITIONE VEL DIVISIONE INTELLECTUI, illud
designat, quod supra iam dixit, ea quae sunt in voce notas esse animae
passionum. Quod si notae sunt, sicut litterae vocum in se similitudinem gerunt,
ita voces intellectuum. Et quoniam dictum est, cur de similitudine verborum
nominumque atque animae passionum dixerit, cur etiam circa compositionem et
divisionem falsum verumque esse proposuerit, dicendum est quid sit ipsa
compositio vel divisio, in qua veritas et falsitas invenitur. Nam quoniam de
simplici enuntiativa oratione perpendit, ut posterius ipse in divisione
declarat dicens: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE
NEGATIO, illam nunc compositionem designare uult, quae alicuius vel substantiam
constituit vel aliquid secundum esse coniungit. Nam cum dico: Socrates
est hoc ipsum esse Socrati applico et substantiam eius esse constituo.
Sin vero ƿ dixero: Socrates philosophus est philosophiam et Socratem
secundum esse composui, vel si dicam Socrates ambulat, huiusmodi est tamquam si
dicam Socrates ambulans est. Igitur quotiens huiusmodi fuerit compositio, quae
secundum esse verbum vel substantiam constituat vel res coniungat, affirmatio
dicitur et in ea veri falsique natura perspicitur. Et quoniam omnis negatio ad
praedicationem constituitur (huius enim affirmationis quae est "Socrates
est" negatio est non ea quae dicit "Non Socrates est" sed ea
quae pronuntiat "Socrates non est" et ad id quod esse Socrates dictus
est negatio apponitur, ut eum id dicamus non esse, quod ante dictus est esse):
igitur quoniam id quod in affirmatione secundum esse vel constitutum vel
coniunctum fuerit ad id addita negatio separat, vel ipsam substantiae
constitutionem vel etiam factam per id quod dictum est esse aliquid
coniunctionem, divisio vocatur. Quando enim dico: Socrates non est esse a
Socrate seiunxi, et cum dico: Socrates philosophus non est Socratem ab eo
quod est philosophum esse separavi, quam separationem, quae ad negationem
pertinet, divisionem vocavit. Ergo manifestum est, quoniam si simplex in animae
passionibus intellectus fuerit, cum ipse intellectus nullam adhuc veri falsique
retineat naturam, eius quoque prolationem ab utrisque esse separatam. Sed cum
compositio secundum esse facta vel etiam divisio in intellectibus, in quibus
principaliter veritas et falsitas procreatur, euenerit, quoniam ex
intellectibus voces capiunt significationem, eas quoque secundum intellectuum
qualitatem veras vel falsas esse necesse est. Maximam vero vim habet exempli
novitas ƿ et exquisita subtilitas. Ad demonstrandum enim quod unum solum nomen
neque verum sit neque falsum, posuit huiusmodi nomen, quod compositum quidem
esset, nulla tamen eius substantia reperiretur. Si quod ergo unum nomen
veritatem posset falsitatemue retinere posset huiusmodi nomen, quod est
hircocervus, quoniam omnino in rebus nulla illi substantia est, falsum aliquid
designare sed non designat aliquam falsitatem. Nisi enim dicatur hircocervus
vel esse vel non esse quamquam ipsum per se non sit, solum tamen dictum nihil
falsi in eo sermone verive perpenditur. Igitur ad demonstrandam vim simplicis
nominis, quod omni veritate careat atque mendacio, tale in exemplo posuit
nomen, cui res nulla subiecta sit. Quod si quid verum vel falsum unum nomen
significare posset, nomen quod eam rem designat, quae in rebus non sit, omnino
falsum esset. Sed non est: non igitur ulla veritas falsitasque in simplici
umquam nomine reperietur. Nec illud paruae curae fuit non ponere nomen quod
omnino nihil significaret sed quod cum significaret quiddam, tamen verum aut
falsum esse non posset, ut non videretur veritatis falsitatisque cassum esse,
eo quoniam nihil significaret sed quoniam esset simpliciter dictum. Quamquam in
eodem illud quoque conficit, ut ostenderet non solum simplex nomen veritate atque
mendacio esse alienissimum sed etiam composita quoque nomina, si non habeant
aliquam secundum es se vel non esse (sicut superius dictum est) compositionem,
verum vel falsum significare non posse: tamquam si diceret: non solum simplex
nomen praeter aliquam compositionem nihil verum falsumue significat sed etiam
composita ƿ utroque carent (sicut ipse iam dixit) nisi illis aut esse aut non
esse addatur, VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Hoc vero idcirco addidit,
quod in quibusdam ita enuntiationes fiunt, ut quod de ipsis dicitur secundum
substantiam proponatur, in quibusdam vero hoc ipsum esse quod additur non
substantiam sed praesentiam quandam significet. Cum enim dicimus deus est, non
eum dicimus nunc esse sed tantum in substantia esse, ut hoc ad immutabilitatem
potius substantiae quam ad tempus aliquod referatur. Si autem dicamus: Dies
est ad nullam diei substantiam pertinet nisi tantum ad temporis
constitutionem. Hoc est enim quod significat est, tamquam si dicamus: Nunc
est Quare cum ita dicimus esse ut substantiam designemus, simpliciter est
addimus, cum vero ita ut aliquid praesens significetur, secundum tempus. Haec
una quam diximus expositio. Alia vero huiusmodi est: esse aliquid duobus modis
dicitur: aut simpliciter aut secundum tempus. Simpliciter quidem secundum
praesens tempus, ut si quis sic dicat hircocervus est. Praesens autem quod
dicitur tempus non est sed confinium temporum: finis namque est praeteriti
futurique principinm. Quocirca quisquis secundum praesens hoc sermone quod est
esse utitur, simpliciter utitur, qui vero aut praeteritum inugit aut futurum,
ille non simpliciter sed iam in ipsum tempus incurrit. Tempora namque (ut
dictum est) duo ponuntur: praeteritum atque futurum. Quod si quis cum praesens
nominat, simpliciter dicit, cum utrumlibet praeteritum vel futurum dixerit,
secundum tempus utitur enuntiatione. Est quoque tertia huiusmodi expositio,
quod aliquotiens ita ƿ tempore utimur, ut indefinite dicamus: ut si qui dicat:
Est hircocervus Fuit hircocervus Erit hircocervus hoc indefinite et
simpliciter dictum est. Sin vero aliquis addat: Nunc est vel: Heri
fuit vel: Cras erit ad hoc ipsum esse quod simpliciter dicitur
addit tempus. Quare secundum unam trium harum expositionum intellegendum est
quod ait: SI NON VEL ESSE VEL NON ESSE ADDATUR, VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM
TEMPUS. Sed ei quod ante proposuit, QUEMADMODUM esset ALIQUOTIENS QUIDEM IN
ANIMA INTELLECTUS SINE VERO VEL FALSO, post quasi consequens reddidit nomina
ipsa per se verbaque esse simplicibus intellectibus consimilia, ut homo vel
album; ei vero quod ait CUI IAM NECESSE EST HORUM ALTERUM INESSE nihil interim
reddidit sed hoc eo supplevisse putabitur, quod ait: SED NONDUM VERUM VEL
FALSUM EST, SI NON VEL ESSE VEL NON ESSE ADDATUR. Haec est enim intellectuum
quaedam compositio, cui iam necesse est horum alterum inesse qua in oratione vel
esse vel non esse additur. Quocirca quoniam de nomine verboque proposuit et
quam potuit breviter vocum, litterarum, intellectuum rerumque consequentias
altissima ratione monstravit, ad id quod primo proposuit dicens: PRIMUM OPORTET
CONSTITUERE QUID NOMEN ET QUID VERBUM, ad haec inquam, quae promiserat definire
revertitur. Nomen enim definiens ita subiecit: [THIS IS THE END OF THE SECTION
‘SIGN’ – from now it’s specifically on NOMEN] NOMEN ERGO EST VOX SIGNIFICATIVA
SECUNDUM PLACITUM SINE TEMPORE, CUIUS NULLA PARS EST SIGNIFICATIVA SEPARATA. Omnis
definitio generis constitutione formatur, differentiarum vero compositione
perficitur. Nam si ad propositum genus differentias colligamus easque ad unam
quam definire volumus speciem aptemus, usque dum uni tantum speciei collectio
illa conveniat, nihil est quod ultra ad faciendam definitionem desideretur: ut
ipsum hominem si quis definiat, generi eius quod est animal duas necesse est
differentias iungat rationale scilicet atque mortale facietque huiusmodi
ordinem: animal rationale mortale; quae definitio si ad hominem referatur,
plena est rationis substantiaeque descriptio. Volens ergo Aristoteles definire
quid esset nomen prius eius genus sumpsit dicens nomen esse vocem, idcirco
scilicet ut hoc quod dicimus nomen ab aliis, quae non voces sed tantum soni
sunt, separaret. Distat enim sonus voce: sonus enim est percussio aeris
sensibilis, vox vero flatus per quasdam gutturis partes egrediens, quae arteriae
vocantur, qui aliqua linguae impressione formetur. Et vox quidem nisi
animantium non est, sonus vero aliquotiens inanimorum quoque corpori
conflictatione perficitur. Quare quia nomen vocem monstravit, ab aliis quae
voces non sunt sed tantum soni, hanc orationis partem separavit atque
distribuit. Et vocem quidem nominis velut genus sumpsit. Habet namque aliud
quiddam speciei loco differens a nomine quod est verbum, habet quoque quasdam
locutiones quae nihil ulla ratione significent, ut sunt articulatae voces,
quarum per se significatio non potest inveniri, ut "scindapsos". Huic
ergo generi alias differentias rursus apponit, quae nomen sicut vox a sonis
aliis segregavit, ita quoque hae differentiae nomen ab aliis speciebus sub voce
positis dividant atque discernant. ƿ Quod enim addidit nomen vocem esse
significativam, ab his, inquam, vocibus disgregavit nomen quae nihil omnino
siguificent, ut sunt syllabae. Syllabae enim, cum ex his totum nomen constet,
adhuc ipsae nihil omnino significant. Sunt quoque quaedam voces litteris
syllabisque compositae, quae nullam habeant significationem, ut est
"Blityri". Ergo quoniam videbantur esse quaedam voces quae
significatione carerent, nomen quod vox est et alicuius designationis semper
causa profertur non aliter definiendum erat nisi illud a non significantibus
vocibus segregaret. Itaque ait nomen esse vocem significativam ut voce quidem
ab aliis sonis, significatione vero addita ab his quae sub voce sunt nihil
designantia segregaretur. Sed hoc nondum ad totam definitionem valet neque
solum nomen vox significativa est sed sunt quaedam voces quae significent
quidem sed nomina non sint, ut ea quae a nobis in aliquibus affectibus
proferuntur, ut cum quis gemitum edit vel dolore concitus emittit clamorem.
Illud enim doloris animi, illud corporis signum est. Et cum sint voces et
significent quandam vel animi vel corporis passionem, nullus tamen gemitum
clamoremque dixerit nomen. Mutorum quoque animalium sunt quaedam voces quae
significent: ut canum latratus iras significat canum, alia vero mollior quaedam
blandimenta designat. Quare adiecta differentia separandum erat nomen ab his
omnibus quae voces quidem essent et significarent sed nominis vocabulo non
tenerentur. Quid igitur adiecit? Nomen vocem esse significativam non
simpliciter sed secundum placitum. Secundum placitum vero est, quod secundum
quandam positionem ƿ placitumque ponentis aptatur. Nullum enim nomen
naturaliter constitutum est neque umquam sicut subiecta res natura est, ita
quoque a natura venienti vocabulo nuncupatur sed hominum genus, quod et ratione
et oratione vigeret, nomina posuit eaque quibus libuit litteris syllabisque
coniungens singulis subiectarum rerum substantiis dedit. Hoc autem illo
probatur, quod, si natura essent nomina, eadem apud omnes essent gentes: ut
sensus, quoniam naturaliter sunt, idem apud omnes sunt. Omnes enim gentes non
aliis nisi solis oculis intuentur, audiunt auribus, naribus odorantur, ore
accipiunt gustatus, tactu calidum vel frigidum, lene vel asperum indicant.
Atque haec huiusmodi sunt, ut apud omnes (ut dictum est) gentes eadem
videantur. Ipsa vero quae sentiuntur, quoniam naturaliter constituta sunt, non
mutantur. Dulcedo enim et amaritudo, album et nigrum et quaequae alia sensibus
quinque sentimus, eadem apud omnes sunt. Neque enim quod Italis dulce est in
sensu, idem Persis videtur amarum nec quod album apud nos oculis apperet, apud
Indos nigrum est, nisi forte aliqua sensus aegritudine permPombaur sed hoc
nihil attinet ad naturam. Igitur quoniam ista sunt naturaliter, apud omnes
gentes eadem manent. Si ergo et nomina naturalia esse viderentur, eadem essent
apud omnes gentes nec ullam susciperent mutationem: nunc autem ipsum hominem
alio vocabulo Latini, alio Graeci diversis quoque vocabulis barbarae gentes
appellant. Quae in ponendis nominibus dissensio signum est non naturaliter sed
ad ponentium placitum voluntatemque rebus nomina fuisse composita. Idem quoque
monstrat, quod saepe ƿ singulorum hominum sunt permutata vocabula. Quem enim
nunc vocamus Platonem, Aristocles ante vocabatur et qui Theophrastus nunc
dicitur, ante Aristotelen a suis parentibus Tyrtamus appellabatur. In eadem
quoque lingua quando plura vocabula uni adduntur rei, monstratur rem illam non
naturalibus sed appositis nominibus nuncupari. Si enim naturalibus nominibus
res quaeque vocaretur, unam rem uno tantum nomine signaremus. Quid enim
attinet, si naturalia sunt vocabula, unius rei plures esse nominum voces, quae
ad unam designationem demonstrationemque concurrerent? Dicimus enim gladius,
ensis, mucro et haec tria ad unam subiectam substantiam currunt. Ergo
monstratum est nomina esse secundum placitum id est secundum ponentium
placitum, ac si diceret nomen esse vocem quidem et significativam sed non
naturaliter significativam sed secundum placitum voluntatemque ponentis, hoc
scilicet dividens ab his vocibus quae naturaliter designarent, ut sunt hae vel
quas nos in passionibus affectibusque proloquimur vel edere animalia muta
conantur. Sed nondum supra dicta differentia plenam nominis formam
definitionemque constituit. Est namque verbo commune eum nomine, quod vox
designativa et secundum placitum est sed addita differentia quae est SINE
TEMPORE nomen a verbo distinxit. Neque enim nomen ullum consignificat tempus.
Verbi namque est, cum aut passio significatur aut actio, aliquam quoque secum
trahere vim temporis, qua illud cum vel facere vel pati dicitur proferatur. Cum
enim dico: Socrates nullius est temporis; cum vero: Lego vel:
Legi vel: Legam tempore non caret. Addito ergo nomini quod sine
tempore esse dicatur ƿ nomen a verbo disiungitur. Sane nemo nos arbitretur
opinari, quod nullum nomen significet tempus. Sunt enim nomina, quae tempus
significatione demonstrent: velut cum dico hodie vel cras, temporis nomina
sunt. Sed illud dicimus, quod cum eodem nomine tempus non significatur. Aliud est
enim significare tempus, aliud consignifiaare. Verbum enim cum aliquo proprio
modo tempus quoque significat: ut cum vel agentis vel patientis modum
demonstrat, sine tempore ipsa passio vel actio non profertur. Unde non dicimus,
quod nomen non significet tempus sed quod nomen significatio temporis non
sequatur. Restat autem sola una differentia, quae si superioribus
adiungatur, plenissima fere nomen definitione formabitur. Haec autem est qua
nomen ab oratione separetur. Inveniuntur enim quaedam sine dubio orationes,
quae cum voces sint et significativae et secundum placitum, quippe quae sunt
nominibus colligatae, tamen sint sine tempore, ut cum dico: Socrates et
Plato haec namque oratio, cum ex nominibus iuncta sit, nomen quidem non
est, vox vero est significativa secundum placitum et tempore uacat. Ut igitur
nomen ab huiusmodi oratione divideret, addidit hanc differentiam, quae est
CUIUS NULLA PARS EST SIGNIFICATIVA SEPARATA. Oratio enim quoniam verbis
nominibusque coniungitur, verba vero vel nomina significativa esse palam est,
partes quoque orationis significare aliquid dubium non est. Nominis vero pars,
quoniam simplex est, nihil omnino significat. Sed cum omnis oratio omneque
nomen et verbum ex subiectis intellectibus vim significandi sumat, est
aliquotiens, ut unum nomen multos significet intellectus. Quocirca erit quoque,
ut non simplex nomen ƿ unam tantum animi passionem intellectumque designet. Nam
cum dico suburbanum, imaginationem significandi sed ita ut a toto nomine
separatum, cum ad ipsum refertur nomen, significet nihil: ut in eo quod dicimus
equiferus ferus uult quidem aliquid significare sed si a tota compositione
separatur, nihil omnino designat in eo scilicet nomine in quo cum equi
particula iunctum equiferum consignificabat. Omnis namque haec compositio unius
intellectus designativa est. Quare in oratione quidem ferus significat (etenim
equus ferus oratio duos retinet intellectus), in nomine vero nihil, quoniam hoc
quod dicimus equiferus unius intellectus designativum est. Sed fortasse ferus
cum ea parte qua iunctum est simul quidem consignificet, separatum vero nihil.
Hoc est ergo quod ait: AT VERO NON QUEMADMODUM IN SIMPLICIBUS NOMINIBUS, SIC SE
HABET ETIAM IN COMPOSITIS IN ILLIS ENIM NULLO MODO PARS SIGNIFICATIVA EST; IN
HIS AUTEM VULT QUIDEM SED NULLIUS SEPARATI, UT IN EQUIFERUS FERUS. Simplex enim
nomen nec imaginationem aliquam partium significationis habet, compositum vero
tales habet partes, ut quasi conentur quidem aliquid significare sed
consignificeut potius quam quidquam extra significent. Addito igitur nomini,
quod eius partes nihil separatae significent, nomen ab oratione disiunctum est.
Postquam adiectionem quae est CUIUS ƿ NULLA PARS EST SIGNIFICATIVA SEPARATA
quid in nominis definitione valeret explicuit (hoc scilicet quo nomen ab
oratione seiungeret), illud quoque disserit, cur sit additum quod dictum est
secundum placitum. Nam quoniam nulla nominum significatio naturaliter est sed
omne nomen positione designat, idcirco dictum est secundum placitum. Quod enim
placuit ei qui primus nomina indidit rebus, hoc illis vocabulis designatur. Age
enim quis naturaliter nomina esse confirmet, quorum apud omnes gentes est tam
diversa varietas? Nec vero dicitur quod nulla vox naturaliter aliquid designet sed
quod nomina non naturaliter sed positione significent. Aliqui habent hoc
ferarum mutorumque animalium soni, quorum vox quidem significat aliquid (ut
hinnitus equi consueti equi inquisitionem, latratus canum latrantium iracundiam
monstrat et alia huiusmodi) sed cum voces mutorum animalium propria natura
significent, nullis tamen elementorum formulis conscribuntur. Nomen vero
quamquam subiaceat elementis, prius tamen quam ad aliquam subiectae rei
significationem ponatur per se nihil designat, ut cum dicimus scindapsos vel
hereceddy. Haec per se nihil quidem significant sed si ad subiectae alicuius
rei significationem ponantur, ut dicatur vel homo scindapsos vel lapis
hereceddy, tunc hoc quod per se nihil significat positione et secundum ponentis
quoddam placitum designabit. Ergo tum nomen significativum est, quando (ut ipse
ait) fit nota. Tunc autem fit nota, cum secundum ponentis placitum vocabulum
quod naturaliter nihil designabat ad subiectae rei significationem datur. Hoc ƿ
est enim quod ait fit. Si enim naturaliter nomina significarent, numquam de his
Aristoteles diceret fit nota. Tunc enim non fieret nota sed esset. Ergo quoniam
nomina secundum placitum significativa sunt, ferarum vero inlitterati soni
secundum naturam, idcirco harum voces esse nomina non dicuntur. Universaliter
autem dicimus: omnium vocum aliae sunt quae inscribi litteris possunt, aliae
vero quae non possunt. Et rursus earum quae vel inscribuntur vel minime, aliae
significant, aliae vero nihil. Amplius quoque omnium aliae secundum placitum
designant, aliae vero naturaliter. Nomen ergo secundum placitum est: positione
enim factum est subiectae rei nota. Nihil enim nominum est quod naturaliter
significet. Non enim nomen informat significatio sed secundum placitum
significatio. Nam et inlitterati soni significant, ut sunt ferarum, quos ideo
sonos vocavit, quoniam sunt quaedam muta animalia quae vocem omnino non habent
sed tantum sonitu quodam concrepant. Quidam enim pisces non voce sed branchis
sonant et (ut Porphyrius autumat) cicada per pectus sonitum mittit, QUORUM
omnium NIHIL EST NOMEN. Hoc autem dictum est, non quod nullum nomen sit harum
vocum quas animalia proferunt sed quod his non velut nominibus utantur. Nam
quamuis vox inlitterata sit et natura significet latratus canum, dicitur tamen
latratus et leonis fremitus et tauri mugitus. Haec sunt. Nomina ipsarum vocum
quae a mutis animalibus proferuntur. Sed non hoc dicimus quoniam earum nihil
est nomen sed quoniam horum sonorum nihil tale est, ut nomen esse possit id est
ut secundum ea velut ƿ nominibus utentes ferae sibi inuicem colloquantur.
Habent enim significationem sed (ut dictum est) naturalem, nomen autem secundum
placitum est. NON HOMO VERO NON EST NOMEN. AT VERO NEC POSITUM EST voMEN, QUO
ILLUD OPORTEAT APPELLARI. NEQUE ENIM ORATIO AUT NEGATIO EST SED SIT NOMEN
INFINITUM. Superius omnia quaecumque extra nomen essent praedictis
adiectionibus a nomine separavit. Nunc vero quoniam sunt quaedam quae sub
definitionem quidem nominis cadant, videantur tamen a nomine discrepare, de his
disserit, ut quid esse nomen integre videatur expediat. Quod enim dicimus non
homo vel non equus oratio quidem non est. Omnis enim oratio aut nominibus
constat et verbis aut solis duobus vel pluribus verbis vel solis nominibus. In
eo autem quod est non homo unum tantum nomen est, quod dicitur homo, id autem
quod est non neque nomen est neque verbum. Quare neque ex duobus verbis aut ex
verbo et nomine. Verbum enim in eo nullum est. Quare id quod dicimus non homo
oratio non est. Iam vero nec verbum esse monstrare superfluum est, cum in
verbis semper tempora reperiantur, in hoc vero nullum omnino quisquam tempus
inveniat. Sed nec negatio est. Omnis enim negatio oratio est, non homo vero cum
oratio non sit nec negatio esse potest. Illud quoque, quod omnis negatio aut
vera est aut falsa, non homo vero neque verum est neque falsum. Sensus enim
plenus non est: quare negatio esse propter hoc quoque non dicitur. Nomen vero
esse quis dicat, cum omne nomen sive proprium sive sit appellativum definite
significet? Cum enim dico: ƿ Cicero unam personam unamque substantiam
nominavi, et cum dico: Homo quod est nomen appellativum, definitam
significavi substantiam. Cum vero dico: Non homo significo quidem
quiddam, id quod homo non est sed hoc infinitum. Potest enim et canis
significari et equus et lapis et quicumque homo non fuerit. Et aequaliter
dicitur vel in eo quod est vel in eo quod non est. Si quis enim de Scylla quod
non est dicat non homo, significat quiddam quod in substantia atque in rerum
natura non permanet. Si quis autem vel de lapide vel de ligno vel de aliis quae
sunt rebus dicat non homo, idem tamen aliquid significabit et semper praeter id
quod nominal huiusmodi vocabuli significatio est. Sublato enim homine quidquid
praeter hominem est hoc significat non homo, quod a nomine plurimum differt.
Omne enim nomen (ut dictum est) definite id significat quod nominatur nec
similiter et de eo quod est et quod non est dicitur. Sed haec huiusmodi vox et
designativa est et ad placitum et sine tempore et (ut dictum est) partes eius
extra nihil designant. Quare dubia apud antiquos sententia fuit, utrum nomen
hoc non dicerent, an hoc aliqua adiectione nominis definitioni subicerent. Et
qui hoc a nomine separabant, ita nomen definitione claudebant dicentes: nomen
esse vocem designativam secundum placitum sine tempore circumscriptae
significationis, cuius partes extra nihil designarent, ut quoniam non homo rem
circumscriptam non significaret a nomine separaretur. Alii vero non eodem modo
sed dicebant quidem esse nomen sed non simpliciter. Quadam namque adiectione
sub nomine poni posse putabant hoc modo, ut sicut homo mortuus non ƿ dicitur
simpliciter homo sed homo mortuus, ita quoque et nomen hoc, quod nihil
definitum designaret, non diceretur simpliciter nomen sed nomen infinitum. Cuius
sententiae Aristoteles auctor est, qui se hoc ei vocabulum autumat invenisse.
Ait enim: AT VERO NEC POSITUM EST NOMEN, QUO ILLUD OPORTEAT APPELLARI, dicens:
id quod dicimus non homo quo vocabulo debeat appellari non vocavit antiquitas.
Et usque ad Aristotelem nullus noverat quid esset id quod non homo diceretur
sed hic huic sermoni vocabulum posuit dicens: SED SIT NOMEN INFINITUM, non
simpliciter nomen, quoniam nulla circumscriptione designat sed infinitum nomen,
quoniam plura et ea infinita significat. Sed hoc non solis huiusmodi vocibus
contingit, ut simpliciter sub nomine poni non possint sed sunt quaedam aliae
quae omnia quidem nominis habeant et definite significent sed quadam alia
discrepantia nomina simpliciter dici non possint, ut sunt obliqui casus cum
dicimus: Catonis Catoni Catonem et caeteros. Horum enim discrepantia est
a nomine, quod nomen rectum iunctum cum est vel non est affirmationem facit: ut
si quis dicat: Socrates est hoc verum est vel falsum. Si enim vivente Socrate
diceretur, verum esset, mortuo vero falsum est: quare affirmatio est. Si quis
autem dicat: Socrates non est rursus faciet negationem et in ea quoque
veritas et falsitas invenitur. Ergo omne rectum nomen iunctum cum est vel non
est enuntiationem conficit. Hi vero obliqui easus iuncti cum est vel non est
enuntiationem nulla ratione perficiunt. Enuntiatio namque est perfectus
orationis intellectus in quem veritas ƿ aut falsitas cadit. Si quis ergo dicat:
Catonis est nondum plena sententia est. Quid enim sit Catonis non
dicitur. Atque eodem modo Catoni est vel Catonem est. In his ergo, quoniam cum
est vel non est iuncta enuntiationem non perficiunt, est quaedam a nomine
discrepantia, quamquam sint nomini omni definitione coniuncta. Magna est enim
discrepantia quod rectum nomen cum est iunctum perfectam orationem facit,
obliqui casus imperfectam. Quod autem dictum est obliquos casus cum est verbo
iunctos orationem perfectam non facere, non dicimus quoniam cum nullo verbo
obliqui casus iunguntur ita, ut nihil indigentem perficiant orationem. Cum enim
dico: Socratem paenitet enuntiatio est. Sed non cum omni verbo sed tantum
cum est vel non est hi casus iuncti perfectam orationem nulla ratione
constituunt. Atque hoc est quod ait: CATONIS AUTEM VEL CATONI ET QUAECUMQUE TALIA
SUNT NON SUNT NOMINA SED CASUS NOMINIS. Unde etiam discrepare videntur. Haec
enim nomina non vocantur. Illa enim rectius dicuntur nomina quae prima posita
sunt id est quae aliquid monstrant. Genetivus enim casus non aliquid sed
alicuius et dativus alicui et caeteri eodem modo. Rectus vero qui est primus
rem monstrat, ut si qui dicat Socrates, atque ideo hic nominativus dicitur,
quod nominis quodammodo solus teneat vim nomenque sit. Et verisimile est eum
qui primus nomina rebus imposuit ita dixisse: vocetur hic homo et rursus
vocetur hic lapis. Posteriore vero usu factum est, ut in alios casus primitus
positum nomen derivaretur. Illud quoque maius est, quod omnis casus nominis
alicuius casus est. Ergo nisi sit nomen, cuius casus sit, casus ƿ nominis dici
recte non potest. casus autem omnis inflexio est. Sed genetivus et dativus et
caeteri nominativi inflexiones sunt: quare nominativi casus erunt. Sed omnis
casus qui secundum nomen est nominis casus est. Nomen igitur nominativus est.
Aliud vero est casus alicuius quam est id ipsum cuius casus est. Casus igitur
nominis nomen non est. Quod vero adiecit: RATIO AUTEM EIUS EST IN ALLIS QUIDEM
EADEM, hoc inquit: ratio et definitio obliqui casus et nominis eadem est in
omnibus aliis (nam et voces sunt et significativae et secundum placitum et sine
tempore et circumscripte designant) sed (ut ipse ait) DIFFERT QUONIAM CUM EST
VEL FUIT VEL ERIT IUNCTUM NEQUE VERUM NEQUE FALSUM EST, quod a recto nomine
sine ulla dubitatione perficitur, ut cum est vel fuit vel erit iunctum verum
falsumue conficiat. Quod designavit per hoc quod ait: NOMEN VERO SEMPER,
subaudiendum est scilicet: facit verum falsumque CUM EST VEL FUIT VEL ERIT
IUNCTUM. Eorumque ponit exemplum: CATONIS EST VEL NON EST. In his enim (ut ipse
ait) neque verum aliquid dicitur neque falsum. Quare integra nominis definitio
est huiusmodi: nomen est vox designativa secundum placitum sine tempore
circumscripte significans, cuius partes nihil extra designant, et cum est vel
fuit vel erit iunctum nullius indigentem orationis perficiens intellectum
enuntiationemque constituens. Quoniam igitur de nomine expeditum, ad definitionem
verbi veniamus. VERBUM AUTEM EST QUOD CONSIGNIFICAT TEMPUS, CUIUS PARS NIHIL
EXTRA SIGNIFICAT, ET EST SEMPER EORUM QUAE DE ALTERO DICUNTUR NOTA. Verbi
quidem integra definitio huiusmodi est: verbum est vox significativa secundum
placitum, quae consignificat tempus, cuius nulla pars extra designativa est.
Sed quoniam commune est illi cum nomine esse voci et significativae et secundum
placitum, idcirco illa reticuit. Ab his autem quae propria verbi sunt inchoavit
verbi autem est proprium, quo a definitione nominis segregetur, quod
consignificat tempus. Omne enim verbum consignificationem temporis retinet, non
significationem. Nomina enim significant tempus, verbum autem cum principaliter
actus passionesque significet, cum ipsis actibus et passionibus temporis quoque
vim trahit, ut in eo quod dico lego. Actionem quidem quandam principaliter
monstrat hoc verbum sed cum ea ipsa agendi significatione praesens quoque
tempus adducit. Atque ideo non ait verbum significare tempus sed
consignificare. Neque enim principaliter verbum tempus designat (hoc enim
nominis est) sed cum aliis quae prineipaliter significat vim quoque temporis
inducit et inserit. Ergo cum nomen et verbum voces significativae sint et
secundum placitum, addito verbo, quod consignificat tempus, a nomine
segregatur. Ut enim saepe dictum est, nomen significare tempus poterit, verbum
vero consignificare. Et sicut in definitione nominis addidit nihil nominis
partes separatas a tota compositione nominis designare propter orationes quae
nominibus essent compositae, ut est: Et Plato et Socrates ita quoque in
verbo addidit nihil extra verbi ƿ partes significare propter eas orationes quas
verba componunt, ut est et ambulare et currere. Haec enim oratio ex verbis est
composita et singula verba et in ipsa oratione et praeter eam per se ipsa
significant. In verbo vero nullo modo. Et sicut in nomine pars nominis nihil
significat separata, ita in verbo pars verbi nihil separata designat. Dicit
autem esse verbum semper eorum quae de altero praedicantur notam, quod
huiusmodi est ac si diceret nihil aliud nisi accidentia verba significare. Omne
enim verbum aliquod accidens designat. Cum enim dico: Cursus ipsum quidem
est accidens sed non ita dicitur ut id alicui inesse vel non inesse dicatur. Si
autem dixero: Currit tunc ipsum accidens in alicuius actione proponens
alicui inesse significo. Et quoniam quod dicimus "Currit" praeter
aliquid subiectum esse non potest (neque enim dici potest praeter eum qui
currit), idcirco dictum est omne verbum eorum esse significativum quae de
altero praedicantur, ut verbum quod est currit tale significet quiddam quod de
altero, id est de currente, praedicetur. His igitur expeditis quod ait verbum
consignificare tempus exemplis aperuit. Ait enim: DICO AUTEM QUONIAM
CONSIGNIFICAT TEMPUS, UT CURSUS QUIDEM NOMEN EST, CURRIT VERO VERBUM,
CONSIGNIFICAT ENIM NUNC ESSE. Expeditissime quid verbum distaret a nomine verbi
et nominis interpositione monstravit. Etenim quoniam cursus accidens est et
nominatum est ita ut sit nomen, non significat tempus, currit vero idem
accidens in verbo positum praesens tempus designat. Et hoc verbum distare
videtur a nomine, quod illud consignificat tempus, illud praeter omnem
consignificationem ƿ temporis praedicatur. Sed postquam verbum consignificare
tempus ostendit, id quod supra iam dixerat verbum semper de altero praedicari,
id nunc memoriter quemadmodum praedicatur ostendit. Ait enim: ET SEMPER EORUM
QUAE DE ALTERO DICUNTUR NOTA EST, UT EORUM QUAE DE SUBIECTO VEL IN SUBIECTO,
hoc scilicet dicens: ita verbum significat aliquid, ut id quod significat de
altero praedicetur sed ita ut accidens. Omne namque accidens et in subiecto est
et de subiecta sibi substantia praedicatur. Nam cum dico "Currit", id
de homine si ita contigit praedico scilicet de subiecto et ipse cursus in
homine est, unde verbum currit inflexum est. Ergo quod dicit semper eorum esse
notam verbum quae de altero praedicentur hoc monstrat: verbum accidentia semper
significare, quoniam ait eas res verbi significatione monstrari quae vel in
subiecto essent vel de subiecto dicerentur. Vel certe ut sit alius intellectus,
quoniam solet indifferenter uti de subiecto praedicari, tamquam si dicat in subiecto
esse, et saepe cum dicit de subiecto aliquid praedicari in subiecto esse
significat, cum vellet ostendere accidentium significationem contineri verbis,
ait ea semper designari verbis QUAE DE SUBIECTO essent. Sed quoniam hoc
videbatur obscurius, patefecit addito VEL IN SUBIECTO, ut quid esset de quo
supra dixerat DE SUBIECTO exponeret cum addidit VEL IN SUBIECTO: tamquam [enim]
si ita dixisset: verbum quidem semper eorum nota est, quae de altero
praedicantur subiecto sed ne hoc fortasse cuipiam videatur obscurius, hoc dico
esse de subiecto, quod est esse in subiecto. Vel melior haec expositio est, si
similiter eum dixisse arbitremur, tamquam si diceret: ƿ omne verbum significat
quidem accidens sed ita ut id quod significat aut particulare sit aut universale,
ut id quod ait de subiecto ad universalitatem referamus, quod in subiecto ad
solam particularitatem. Cum enim dico movetur, verbum quidem est et accidens
sed universale. Motus enim plures species sunt, ut cursus sub motu ponitur.
Ergo cursus si definiendus est, motum de cursu praedicamus. Quocirca motus
genus quoddam est cursus atque ideo motus de cursu ut de subiecto
praedicabitur, cursus vero ipse, quoniam species alias non habet, in subiecto
tantum est id est in currente. Motus autem quamquam et ipse sit in subiecto, tamen
de subiecto praedicatur. Ideo dicit eorum esse notam verbum quae de altero
praedicentur atque addidit, ut EORUM QUAE DE SUBIECTO VEL IN SUBIECTO. Hoc
dicit: accidentium quidem vim verba significant sed talium quae aut universalia
sint aut particularia, ut cum dico moveor universale quiddam est et de subiecto
dicitur, ut de cursu, cum vero dico curro, particulare est et quoniam de
subiecto non dicitur, in subiecto solum est. NON CURRIT VERO ET NON LABORAT NON
VERBUM DICO. CONSIGNIFICAT QUIDEM TEMPUS ET SEMPER DE ALIQUO EST, DIFFERENTIAE
AUTEM HUIC NOMEN NON EST POSITUM; SED SIT INFINITUM VERBUM, QUONIAM SIMILITER
IN QUOLIBET EST, VEL QUOD EST VEL QUOD NON EST. Quemadmodum dixit in nomine non
homo nomen non esse, idcirco quod multis aliis conveniret, quae homines non
essent, quoniamque id quod diceret auferret nihilque definitum in eadem
praedicatione relinqueret (quod enim non homo est potest ƿ esse et centaurus,
potest esse et equus et alia quae vel sunt vel non sunt atque ideo infinitum
nomen vocatum est): ita quoque etiam in verbo quod est "non currit"
vel "non laborat" infinitum quoque ipsum est, quoniam non solum de eo
quod est verum est sed etiam de eo quod non est praedicari potest. Possum
namque dicere: Homo non currit et id quod aio, "non currit", de
ea re quae est praedico id est de homine, possum rursus dicere: Scylla non
currit sed Scylla non est: igitur hoc quod dico "non currit" et
de ea re quae est valet et de ea quae nihil est praedicari. Sed forte aliquis
hoc quoque in verbis finitis esse contendat. Possum namque dicere: Equus currit
Hippocentaurus currit et de ea re scilicet quae est et de ea quae non est
et praeterito, quod futurum quidem ante praesens tempus est, praeteritum vero
retro relinquitur. Et nouo admirabilique sermone usus est: quod complectitur.
Et nos id quantum Latinitas passe est transferre diu multumque laborantes hoc
solo potuimus, Graeca vero oratione luculentius dictum est. Ita ƿ enim habet
*ta de ton perix*. Quod qui Graecae linguae peritus est quantum melius Graeca
oratione sonet agnoscit. IPSA QUIDEM SECUNDUM SE DICTA VERBA NOMINA SUNT ET
SIGNIFICANT ALIQUID. CONSTITUIT ENIM QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT
QUIESCIT. SED SI EST VEL NON EST, NONDUM SIGNIFICAT; NEQUE ENIM ESSE SIGNUM EST
REI VEL NON ESSE, NEC SI HOC IPSUM EST PURUM DIXERIS. IPSUM QUIDEM NIHIL EST,
CONSIGNIFICAT AUTEM QUANDAM COMPOSITIONEM, QUAM SINE COMPOSITIS NON EST
INTELLEGERE. Hoc loco Porphyrius de Stoicorum dialectica aliarumque scholarum
multa permiscet et in aliis quoque huius libri partibus idem in expositionibus
fecit, quod interdum nobis est neglegendum. Saepe enim superflua explanatione
magis obscuritas comparatur. Nunc autem Aristotelis huiusmodi sententia est:
VERBA, inquit, IPSA SECUNDUM SE DICTA NOMINA SUNT, non secundum id quod omnis
pars orationis commune nomen vocatur, ut dicimus nomina rerum sed quod omne
verbum per se dictum neque addito de quo illud praedicatur tale est, ut nomini
sit affine. Nam si dicam: Socrates ambulat id quod dixi ambulat totum pertinet
ad Socratem, nulla ipsius intellegentia propria est. At vero cum dico solum:
Ambulat ita quidem dixi, tamquam si alicui insit, id est tamquam si
quilibet ambulet sed tamen per se est propriamque retinens sententiam huius
verbi significatio est. Unde fit ut apud Graecos ƿ quoque articularibus
praepositivis sola verba dicta proferantur, ut est: to perimatein tou
perimatein toi perimatein Quod si verba cum nominibus coniungantur, in
oratione Graeca articularia praepositiva addi non possunt, nisi sola dicta
sint. Quoniam significant rem et ita ut, quamuis eam significent quae alicui
insit, tamen secundum se et per suam sententiam dicantur, idcirco sunt nomina.
Et quod Aristoteles ait IPSA QUIDEM SECUNDUM SE DICTA VERBA NOMINA SUNT, tale
est ac si diceret: ipsa quidem sola neque cum aliis iuncta verba nomina sunt.
Cuius rei hoc argumentum reddit: CONSTITUIT ENIM, inquit, QUI DICIT INTELLECTUM
ET QUI AUDIT QUIESCIT. Hoc autem tale est: omni nomine audito quoniam per
syllabas progrediens vox aliquantulum temporis spatium decerpit, in ipsa
progressione temporis qua dicitur nomen audientis quoque animus progreditur: ut
cum dico "imperterritus", sicut per syllabas "in" et
"per" et "ter" et caeteras progreditur nomen, ita quoque
animus audientis per easdem syllabas uadit. Sed ubi quis expleuerit nomen et
dixerit "imperterritus", sicut nomen finitum a syllabarum
progressione consistit, ita quoque audientis animus conquiescit. Nam cum totum
nomen audit, totam significationem capit et animus audientis, qui dicentis
syllabas sequebatur volens quid ille diceret intellegere, cum significationem
ceperit, consistit et ems animus perfecto demum nomine constituitur. Hoc est
enim quod ait: CONSTITUIT ENIM QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT.
Etenim is qui loquitur postquam totum sermonem dixerit, ƿ audientis animum
constituit. Non est enim quo progrediatur intellegentia ipsoque nomine
terminato animus auditoris qui progrediebatur explicatione nominis constituitur
et quiescit et ultra ad intellegentiam, quippe expedita significatione nominis,
non procedit. Sed hoc verbo nominique commune est sed si verbum solum dicatur.
Namque si cum nomine coniungatur, nondum audientis constituitur intellectus.
Est enim quo ultra progredi animus audientis possit, quod cum dico: Socrates
ambulat hoc ambulat non per se intellegitur sed ad Socratem refertur et
in tota oratione consistit intellectus, non in solo sermone. At vero si solum
dictum sit, ita in significatione consistit, quemadmodum in nomine. Recte
igitur dictum est IPSA SECUNDUM SE DICTA VERBA NOMINA esse, quoniam CONSTITUIT
IS QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. Vel certe erit melior
expositio, si ita dicamus: verba ipsa secundum se dicta nomina esse, idcirco
quoniam cuiusdam rei habeant significationem. Neque enim si talis rei
significationem retinet verbum, quae semper aut in altero sit aut de altero
praedicetur, idcirco iam nihil omnino significat. Nec si significat aliquid
quod praeter subiectum esse non possit, idcirco iam etiam illud significat quod
subiectum est. Ut cum dico sapit, non idcirco nihil significat, quoniam hoc
ipsum sapit sine eo qui sapere possit esse non potest. Nec rursus cum dico:
Sapit illum ipsum qui sapit significo sed id quod dico
("sapit") nomen est cuiusdam rei, quae semper si in altero et de altero
praedicetur. Unde fit ut intellectus quoque sit. Nam qui audit
"Sapit", licet per se constantem rem non audiat (in altero namque ƿ
semper est et in quo sit dictum non est), tamen intellegit quiddam et ipsius
verbi significatione nititur et in ea constituit intellectum et quiescit, ut ad
intellegentiam ultra nihil quaerat omnino, sicut fuit in nomine. Quemadmodum
enim nomen cuiusdam rei significatio propria est per se constantis, ita quoque
verbum significatio rei est non per se subsistentis sed alterius subiecto et quodammodo
fundamento nitentis. Est hic quaestio. Non enim verum videri potest quod ait:
CONSTITUIT ENIM QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. Nam neque qui
dicit constituit intellectum neque qui audit quieseit. Deest enim quiddam
sermoni vel nomini: ut si qui dicat: Socrates mox audientis animus
requirit quid Socrates? Facitne aliquid an patitur? Et nondum audientis
intellectus quietus est, cum horum aliquid requirit. Et in verbo idem est: cum
dico: Legit quis legat, animus audientis inquirit. Nondum ergo qui dicit
constituit intellectum nec qui audit quiescit. Sed ad hoc Aristotelem
rettulisse putandum est, quoniam quilibet audiens cum significativam vocem
ceperit animo, eius intellegentia nitetur: ut cum quis audit homo, quid sit hoc
ipsum quod accipit mente comprehendit constituitque animo audisse se animal rationale
mortale. Si quis vero huiusmodi vocem ceperit, quae nihil omnino designet,
animus eius nulla significatione neque intellegentia roboratus errat ac
vertitur nec ullis designationis finibus conquiescit. Quare Aristotelis recta
sententia est: et verba secundum se dicta esse nomina et dicentem constituere
intellectum audientemque quiescere. Sed huiusmodi quaestio ab Aspasio proposita
est ab eodemque resoluta. Postquam igitur Aristoteles secundum se ƿ dicta verba
nomina esse constituit, quid inquit? SED SI EST VEL NON EST, NONDUM SIGNIFICAT.
Quod huiusmodi est ac si diceret: significatur quidem quiddam a verbis velut a
nominibus sed nulla inde tamen negatio affirmatiove perficitur. Cum enim dico
"Sapit", est quidem quaedam significatio sed nihil aut esse aut non
esse demonstrat, id est neque affirmativum aliquid nec negativum est. Nam si
affirmatio et negatio in intellectuum compositionibus invenitur, ut supra iam docuit,
neque nomina sola dicta nec verba aut affirmationem aut ullam facient
negationem. Pluribus enim modis docuit alias Aristoteles non in rebus sed in
intellectibus veritatem falsitatemque esse constitutam. Quod si in rebus esset
veritas falsitasue, una res sola dicta aut affirmatio esset aut quae ei
contraria est negatio. Nunc vero quoniam in intellectibus iunctis veritas et
falsitas ponitur, oratio vero opinionis atque intellectus passionumque animae
interpres est: [quare] sine compositione intellectuum verborumque veritas et
falsitas non videtur exsistere. Quocirca praeter aliquam compositionem nulla
affirmatio vel negatio est. Verba igitur per se dicta significant quidem
quiddam et sunt rei nomina sed nondum ita significant ut vel esse aliquid vel
non esse constituant, id est aut affirmationem faciant aut negationem. Nam
sicut in nominis partibus aut verbi partes ipsae nihil significant, omnes vero
simul designant, ita quoque in affirmationibus aut negationibus partes quidem
significant, totae vero coniunctae verum falsumue designant: ut cum dico:
Socrates philosophus est Socrates philosophus non est Singillatim positae
partes propria significatione nituntur sed nihil verum falsumue significant,
omnes vero simul iunctae, ut est: ƿ Socrates philosophus est veritatem
faciunt vel quod est huic contrarium falsitatem. Quare cum verba secundum se
dicta nomina sint et significent aliquid et partes quaedam eius compositionis
sint, quae verum falsumque faciat, non tamen ipsa in propria significatione vel
esse, quod affirmationis est, vel non esse quod est negationis, designant. Nisi
enim cui insit verbum illud fuerit additum, non fit enuntiatio: ut cum dico:
Sapit nisi quid sapiat dicam, propositio non est. Quod autem addidit:
NEQUE ENIM SIGNUM EST REI ESSE VEL NON ESSE, tale quiddam est. ESSE quod verbum
est, vel NON ESSE, quod infinitum verbum est, NON EST SIGNUM REI, id est nihil
per se significat. Esse enim nisi in aliqua compositione non ponitur. Vel certe
omne verbum dictum per se significat quidem aliquid sed SI EST VEL NON EST,
nondum significat. Non enim cum aliquid dictum fuerit, idcirco aut esse aut non
esse significat. Atque hoc est quod ait: NEQUE ENIM SIGNUM EST REI ESSE VEL NON
ESSE. Etenim quam rem verbum designat esse eius vel non esse non est signum
ipsum verbum quod de illa re dicitur, ac si sic diceret: neque enim signum est
verbum quod dicitur rei esse vel non esse hoc est de qua dicitur re, ut id quod
dico rei esse vel non esse tale sit, tamquam si dicam rem ipsam significare
esse vel non esse. Atque hic est melior intellectus, ut non sit signum verbum
eius rei de qua dicitur esse vel non esse, subsistendi scilicet vel non
subsistendi, quod illud quidem affirmationis est, illud vero negationis, et ut
sit talis sensus: neque enim verbum quod dicitur signum est subsistendi rem vel
ƿ non subsistendi. Sed quod addidit: NEC SI HOC IPSUM EST PURUM DIXERIS vel si
ita dicamus NEC SI HOC IPSUM ENS PURUM DIXERIS, Alexander quidem dicit est vel
ens aequivocum esse. Omnia enim praedicamenta, quae nullo communi generi
subduntur, aequivoca sunt et de omnibus esse praedicatur. Substantia est enim
et qualitas est et quantitas et caetera. Ergo nunc hoc dicere videtur: ipsum
ENS vel EST, unde esse traductum est, per se nihil significat. Omne enim
aequivocum per se positum nihil designat. Nisi enim ad res quasque pro
voluntate significantis aptetur, ipsum per se eo nullorum significativum est,
quod multa significat. Porphyrius vero aliam protulit expositionem, quae est
huiusmodi: sermo hic, quem dicimus est, nullam per se substantiam monstrat sed
semper aliqua coniunctio est: vel earum rerum quae sunt, si simpliciter
apponatur, vel alterius secundum participationem. Nam cum dico: Socrates
est hoc dico: Socrates aliquid eorum est quae sunt et in rebus his
quae sunt Socratem iungo; sin vero dicam: Socrates philosophus est hoc
inquam: Socrates philosophia participat. Rursus hic quoque Socratem
philosophiamque coniungo. Ergo hoc est quod dico vim coniunctionis cuiusdam
obtinet, non rei. Quod si compositionem aliquam copulationemque promittit,
solum dictum nihil omnino significat. Atque hoc est quod ait: NEC SI IPSUM EST
PURUM DIXERIS, id est solum: non modo neque veritatem neque falsitatem designat
sed omnino NIHIL est. Et quod secutus est planum fecit: CONSIGNIFICAT, inquit,
AUTEM QUANDAM ƿ COMPOSITIONEM, QUAM SINE COMPOSITIS NON EST INTELLEGERE. Nam si
est verbum compositionis. Coniunctionisque cuiusdam vim et proprium optinet
locum, purum et sine coniunctione praedicatum nihil significat sed eam ipsam
compositionem quam designat, cum fuerint coniuncta ea quae componuntur,
significare potest, sine compositis vero quid significet non est intellegere. Vel
certe ita intellegendum est quod ait IPSUM QUIDEM NIHIL EST, non quoniam nihil
significet sed quoniam nihil verum falsumue demonstret, si purum dictum sit.
Cum enim coniungitur tunc fit enuntiatio, simpliciter vero dicto verbo nulla veri
vel falsi significatio fit. Et sensus quidem totus huiusmodi est: ipsa quidem
verba per se dicta nomina sunt (nam et qui dicit intellectum constituit et qui
audit quiescit) sed quamquam significent aliquid verba, nondum affirmationem
negationemue significant. Nam quamuis rem designent, nondum tamen subsistendi
eius rei signum est, nec si hoc ipsum est vel ens dixerimus, aliquid ex eo
verum vel falsum poterit inveniri. Ipsum enim quamquam significet aliquid,
nondum tamen verum vel falsum est sed in compositione fit enuntiatio et in ea
veritas et falsitas nascitur, quam veritatem falsitatemque sine his quae
componuntur coniungunturque intellegere impossibile est. Et de verbo quidem et
de nomine sufficienter dictum est, secundo vero volumine de oratione est
considerandum. In quantum labor humanum genus excolit et
beatissimis ingenii fructibus complet, si tantum cura exercendae mentis
insisteret, non tam raris hominum virtutibus uteremur: sed ubi desidia demittit
animos, continuo feralibus seminariis animi uber horrescit. Nec hoc cognitione
laboris evenire concesserim sed potius ignorantia. Quis enim laborandi peritus
umquam labore discessit? Quare intendenda vis mentis est verumque est amitti
animum, si remittitur. Mihi autem si potentior divinitatis annuerit favor, haec
fixa sententia est, ut quamquam fuerint praeclara ingenia, quorum labor ac
studium multa de his quae nunc quoque tractamus Latinae linguae contulerit, non
tamen quendam quodammodo ordinem filumque et dispositione disciplinarum gradus
ediderunt, ego omne Aristotelis opus, quodcumque in manus venerit in Romanum
stilum vertens eorum omnium commenta Latina oratione perscribam, ut si quid ex
logicae artis subtilitate, ex moralis gravitate peritiae, ex naturalis acumine
veritatis ab Aristotele conscriptum sit, id omne ordinatum transferam atque
etiam quodam lumine commentationis illustrem omnesque Platonis dialogos
vertendo vel etiam commentando ƿ in Latinam redigam formam. His peractis non
equidem contempserim Aristotelis Platonisque sententias in unam quodammodo
revocare concordiam eosque non ut plerique dissentire in omnibus sed in
plerisque et his in philosophia maximis consentire demonstrem. Haec, si vita
otiumque suppetit cum multa operis huius utilitate necnon etiam labore
contenderim, qua in re faveant oportet, quos nulla coquit invidia. Sed nunc ad
proposita reuertamur. Aristoteles namque inchoans librum prius nomen
definiendum esse proposuit, post verbum, hinc negationem, post hanc
affirmationem, consequenter enuntiationem, orationem vero postremam. Sed nunc
cum de nomine et verbo dixit, converso ordine, quod ultimum proposuit, nunc
exsequitur primum. De oratione namque disputat quam postremam in operis dispositione
proposuit. Ait enim: ORATIO AUTEM EST VOX SIGNIFICATIVA, CUIUS PARTIUM ALIQUID
SIGNIFICATIVUM EST SEPARATUM, UT DICTIO, NON UT AFFIRMATIO. DICO AUTEM, UT HOMO
SIGNIFICAT ALIQUID SED NON QUONIAM EST AUT NON EST SED ERIT AFFIRMATIO VEL
NEGATIO, SI QUID ADDATUR. SED NON UNA HOMINIS SYLLABA. NEC IN EO QUOD EST SOREX
REX SIGNIFICAT SED VOX EST NUNC SOLA. IN DUPLICIBUS VERO SIGNIFICAT QUIDEM SED
NON SECUNDUM SE, QUEMADMODUM DICTUM EST. Videtur Aristoteles illas quoque voces
orationes putare, quaecumque vel ex nominibus vel ex verbis constent, non tamen
integrum colligant intellectum, ƿ ut sunt: Et Socrates et Plato Et ambulare et
dicere Haec enim quamquam pleni intellectus non sint, verbis tamen et
nominibus componuntur. Ait enim orationem esse vocem significativam, cuius
partes significarent aliquid separatim, significarent, inquit, non
consignificarent, ut in nomine atque verbo. Docet autem illa quoque res eum
etiam imperfectas, compositas tamen ex nominibus ac verbis voces orationes
dicere, quod ait, cum de nomine loqueretur, in eo quod est equiferus nihil
significare ferus, QUEMADMODUM IN ORATIONE QUAE EST EQUUS FERUS. Namque equus
ferus vox composita ex nominibtls est sed sententiam non habet plenam et ille
ait quemadmodum in oratione quae est equus ferus. Nam si secundum Aristotelem
equus ferus oratio est, cur non aliae quoque quae nominibus verbisque constent,
quamquam sint imperfectae sententiae, tamen orationes esse videantur? Cum
praesertim orationem ipse ita definiat: ORATIO EST VOX SIGNIFICATIVA CUIUS
PARTIUM ALIQUID SIGNIFICATIVUM EST SEPARATUM. In his ergo vocibus, quae verbis
et nominibus componuntur, partes extra significant, non consignificant. Nam si
nomen et verbum significativum est separatum, in his vero vocibus quae verbis
et nominibus componuntur partes extra significant, non consignificant, etiam
voces imperfectae nominibus verbisque compositae orationes sunt. Nam si nomen
omne et verbum significativum est, hae autem voces id est orationes nominibus
componuntur et verbis, dubium non est in his vocibus, quae ex nominibus et
verbis coniunctae sunt, partes per se significare. Quod si hoc est, et vox
cuius partium aliquid separatum et ƿ per se significat, licet sit imperfectae
sententiae, orationem tamen esse manifestum est. Sed quod addit orationis
partes significare, UT DICTIONEM, NON UT AFFIRMATIONEM, Alexander ita dictum
esse arbitratur: sunt, inquit, aliae quidem simplices orationes, quae solis
verbis et nominibus coniungantur, aliae vero compositae, quarum corpus iunctae
iam faciunt orationes. Et simplices quidem orationes partes habent eas ex
quibus componuntur, verba et nomina, ut est: Socrates ambulat Compositae
autem aliquotiens quidem tantum orationes, aliquotiens vero etiam
affirmationes, ut cum dico: Socrates ambulat et Plato loquitur utraeque
sunt affirmationes, vel: Aio te, Aeacida, Romanos vincere posse ex
orationibus non ex affirmationibus componitur talis oratio. Prior autem
simplicitas est, posterior compositio. In quibus autem prius est aliquid et
posterius, illud sine dubio definiendum est priore loco, quod natura quoque
praecedit. Ita ergo quoniam prior simplex oratio est, posterior vero composita,
prius simplicem orationem definitione constituit dicens: cuius partes
significant UT DICTIO, NON UT AFFIRMATIO, dictionem simplicis nominis aut verbi
nuncupationem ponens. In simplicibus enim orationibus huiusmodi partes sunt. In
compositis vero aliquotiens quidem orationes tantum, aliquotiens vero affirmationes,
ut supra monstravimus. Addit quoque illud: omnem, inquit, definitionem vel
contractiorem esse definita specie vel excedere non oportet. Quod si
Aristoteles ita constituisset ƿ definitionem, ut significare partes orationis
diceret ut orationes ac non ut dictiones, simplices orationes ab hac definitione
secluderet. Orationum namque simplicium partes, non ut orationes sed ut
simplicia verba nominaque significant. Nam si omnis oratio orationes habebit in
partibus, rursus ipsae partes quae sunt orationes aliis orationibus
coniungentur. Et rursus partium partes, quae eaedem quoque orationes sunt,
alias orationes in partibus habebunt. Ac si hoc intellegentia sumpserit, ad
infinitum procedit nec ulla erit prima oratio quae simplices habeat partes.
Neque enim fieri potest, ut prima dicatur oratio quae alias orationes habet in
partibus. Partes enim priores sunt propria compositione. Quod si in infinitum
ducta intellegentia nulla prima oratio reperitur, cum nulla sit oratio prima,
nec ulla postrema est. Quocirca interempta prima atque postrema omnes quoque
interimuntur et nulla omnino erit oratio. Quare non recta fuisset definitio, si
ita dixisset: oratio est vox significativa, cuius partes aliquid extra
significant ut orationes. At vero, inquit Alexander, nec si quaedam orationes
in partibus continent, idcirco iam necesse est ipsarum orationum partes
affirmationes esse, ut cum dico: Desine meque tuis incendere teque
querellis Sunt ergo huius orationis partes: una "Desine meque tuis
incendere", alia "teque querellis". Neutra harum est affirmatio,
quamquam esse videatur oratio. Quocirca nec illa fuisset recta definitio, si
ita dixisset: oratio est vox significativa, ƿ cuius partes aliquid extra
significent, ut affirmatio. Huiusmodi enim orationis cum sint partes ex
orationibus iunctae, non tamen affirmationibus totum ipsius orationis corpus
efficitur. Sed quoniam in omni oratione verba sunt et nomina, quae simplices
sunt dictiones, non autem in omnibus orationibus aut affirmationes aut
orationes partes sunt, quod commune erat id in definitione constituit, tamquam si
ita diceret: oratio est vox significativa secundum placitum, cuius partes
aliquid extra significent, ex necessitate quidem ut dictio, non tamen semper ut
affirmatio aut oratio. Neque enim fieri potest, ut inveniatur oratio, cuius
partes non ita aliquid extra significent ex necessitate, ut nomen aut verbum,
cum inveniri possit, ut ita significent orationis partes, ut tamen orationes
aut affirmationes non sint. Quare si ita dixisset: oratio est vox
significativa, cuius partes aliquid extra significant ut affirmatio, illas
orationes hac definitione non circumscripsisset, quarum partes orationes quidem
sunt sed non affirmationes, ut ille versus est quem supra iam posui. Sin vero
sic dixisset: oratio est vox significativa cuius partes aliquid extra significant
ut oratio, illas orationes in definitione reliquisset, quarum partes sunt
simplices, ut est: Socrates ambulat Sed cum dicit orationis partes ita
significare, ut dictiones, non omnino ut affirmationes, et simplices et
compositas hac definitione conclusit. Simplices quidem idcirco, quod quaelibet
simplex paruissimaque oratio nomine et verbo coniungitur, quae sunt simplices
dictiones, compositas vero, quia, cum habeant orationes in partibus, partes
ipsae habent simplices dictiones, quae ipsae simplices dictiones totius
corporis partes sunt. Ut cum dico: Si dies est, lux est "dies
est" et "lux est" partes sunt totius orationis sed harum rursus
partium partes sunt "dies" et "est", et rursus
"lux" et "est", quae rursus totius orationis, per quam dico
"Si dies est, lux est", partes sunt; sed "dies" et
"est" et rursus "lux" et "est" sunt simplices
dictiones. Quocirca etiam compositarum orationum partes indubitanter semper ita
significant, ut dictiones, non ut affirmationes aut quaedam orationes. Quare
hanc definitionem Aristoteles recte constituit. Ad hanc ergo sententiam locum
hunc Alexander expedit, illud quoque addens saepe Aristotelem de
affirmationibus dicere dictiones, quod distinguere volens, cum diceret ita
significare partes orationis tamquam dictionem, ne forte dictionem hanc aliquis
et in affirmatione susciperet, addidit ut dictio non ut affirmatio, tamquam si
diceret: duplex quidem est dictio: una simplex, alia vero affirmatio sed ita
partes orationis aliquid extra significant, ut ea dictio, quae est simplex, non
ut ea dictio, quae est affirmatio. Et huiuscemodi quodammodo intellectum tota
Alexandri sententia tenet. Porphyrius vero in eadem quoque sententia est sed in
uno discrepat. Cuius expositio talis est: dictio, inquit, est simplex nomen,
simplex etiam verbum vel ex duobus compositum, ut cum dico "Socrates"
vel rursus "ambulat" vel "equiferus". Procedit etiam nomen
hoc dictionis ad orationes quidem sed simplicibus verbis nominibusque
coniunctas, ut cum dico: Et Socrates et Plato et si sit ex composito nomine,
ut est equiferus et homo. Hae orationes quamquam ƿ coniunctae sint atque
imperfectae, tamen dictionis nomine nuneupantur. Necnon etiam transit nomen hoc
dictionis usque ad perfectas orationes, quas enuntiationes nuncupari posterius
est dicendum. Est autem enuntiatio simplex, ut si quis dicat: Socrates
ambulat et haec dicitur affirmatio. Huius negatio est: Socrates non
ambulat Simplices ergo enuntiationes sunt affirmationes vel negationes,
quae singulis verbis ac nominibus componuntur. Itaque eum dico: Si dies est,
lux est tota quidem huiusmodi oratio dictio esse non dicitur. Composita
namque est coniunctaque ex orationibus, quae sunt "dies est" et
"lux est". Hae autem sunt affirmationes et dicuntur dictiones. Ipsae
vero affirmationes quae dictiones sunt habent rursus alias dictiones simplices,
ut est dies et est et rursus lux et est. Ergo cum dico: Socrates ambulat
haec oratio partes habet dictiones, nomen scilicet et verbum, quae dictiones
quidem sint, non tamen affirmationes. Sin vero dicam: Socrates in lycio cum
Platone et caeteris discipulis disputavit haec pars orationis quae est
"Socrates in lycio cum Platone" ipsa quoque est dictio sed non ut
simplex nomen vel verbum neque ut affirmatio sed tantum ut imperfecta oratio
verbis tamen nominibusque composita. Quod si sic dicam: Si homo est, animal
est haec rursus oratio habet dictiones in partibus sed neque ut simplices
dictiones neque ut imperfectas orationes sed ut perfectas simplicesque
affirmationes. Et est una affirmatio "animal est", alia vero est
"homo est", tota vero ipsa oratio dictio non est. Quod si dicam: Si
animal non est, homo non est rursus haec oratio ex duabus simplicibus
dictionibus negativis videtur esse composita, quae nihilominus ƿ tota dictio
non est. Ita ergo dictio inchoans a simplicibus nominibus atque verbis usque a
orationes, quamuis imperfectas, provehitur nec in his tantummodo consistit sed
ultra etiam ad simplices affirmationes negationesque transit et in eo
progressionis terminum facit. Ergo quoniam non omnis oratio artes habet
affirmationes et negationes, quae sunt perfectae enuntiationes simplicium
dictionum, quoniamue non omnis oratio imperfectas orationes habet in partibus,
omnis tamen oratio simplices dictiones retinet, quippe cum omnis ex verbis
nominibusque iungatur, hoc ait orationis partes significare semper quidem ut
dictiones, non tamen semper ut affirmationes, consentiente Alexandro, cuius
expositionem supra iam docui. Atque ita diligentior lector differentias eorum
recte perspiciet et consentientes communicat intellectus. Hoc loco Aspasius
inconvenienter interstrepit. Ait enim non in omnes orationes Aristotelem
definitionem constituere voluisse sed tantum simplices, quae ex duobus
constant, verbo scilicet et nomine. Sed ille perfalsus est. Neque enim si sim
otatio simplicibus verbis nominibusque consistit, idirco non composita quoque
oratio verba et nomina bimiliter in partibus habet. Quod si hoc commune est
simplicibus orationibus atque compositis, ut habeant artes dictiones quidem
simplices, non etiam affirmationes, ut etiam quae affirmationes orationes
habent, hae tamen habeant in partibus simplices dictiones, cur hanc quaestionem
in Aristotelem iaciat, ratione relinquitur. Syrianus vero, qui Philoxenus
cognominatur, non putat orationes esse quarum intellectus ƿ sit imperfectus
atque ideo nec eas aliquas habere partes. Nam cum dicit: Plato in Academia
disputans haec quoniam perfecta non est, partes, inquit, non habet,
arbitrans omne quod imperfectum est nullis partibus contineri. Atque ideo, cum
dicit Aristoteles: oratio est vox significativa cuius partes aliquid extra
significent, illam orationem constitui putat, quae perfectum retinet sensum.
Ipsarum enim partes esse verba et nomina. Sed hoc ridiculum est. Neque enim
compositum aliquid fieri potest nisi propriis partibus. Quod si quaelibet res
ut componatur habeat decem partes, eas tamen singillatim apponi necesse sit,
antequam ad decimam veniamus partem: nihilo tamen minus partes erunt quas
sibimet ad componendam totius corporis summam singillatim superponimus etiam si
ad illud quod componendum fuit minime peruentum est. Quocirca si antequam
perveniatur ad ultimam partem priores partes effecti compositique partes sunt,
nulla ratio est imperfectae rei partes dici non posse. Neque enim dicitur
totius compositi partes esse, quae sint imperfecti. Ut si sit integrum nomen
habeatque partes quatuor, id est syllabas, ut Mezentius, si unam syllabam demam
dicamque mezenti, vel si unam rursus duasque ponam, ut sunt mezen, huius tamen
utraque syllaba me scilicet et zen partes sunt, et cum sit compositio ipsa
sensu uacua ac sit imperfecta, tamen partibus continetur Syrianus igitur minime
audiendus est sed potius Porphyrius, qui ita Aristotelis mentem sententiamque
persequitur, ut eius definitionem, sicut vera est, labare et in aliquibus aliis
discrepare non faciat. ƿDe his quidem hactenus. Porphyrius autem ita dicit:
voleus, inquit, Aristoteles ostendere omnem orationem aut simplices tantum
habere partes aut compositas, a simplicibus sumpsit exemplum, ut diceret
significare orationis partes, UT DICTIONEM NON UT AFFIRMATIONEM, ut cum est
oratio: Plato disputat dictiones quidem sunt sed non ut affirmationes. Si
vero sic esset oratio: Si Plato disputat, verum dicit "Plato
disputat" et "verum dicit", cum sint dictiones, non sunt tamen
ut simplices sed ut iam affirmationes. Neque enim simplex dictio affirmatio est
aut negatio sed tunc fit, cum additur aliquid, quod aut affirmationis vim
teneat aut negationis. Atque hoc est quod ait: DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT
ALIQUID SED NON QUONIAM EST AUT NON EST SED ERIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO, SI
QUID ADDATUR. Hoc huiusmodi est, tamquam si diceret: nomen quidem simplex
affirmationem aut negationem non facit, nisi aut "est" verbum
addatur, quae est affirmatio, aut "non est", quae est negatio. Quod
autem addit: SED NON UNA HOMINIS SYLLABA. NEC IN EO QUOD EST SOREX REX
SIGNIFICAT' SED VOX EST NUNC SOLA. IN DUPLICIBUS VERO SIGNIFICAT QUIDEM SED
NIHIL SECUNDUM SE, QUEMADMODUM DICTUM EST, huius loci duplex est expositio.
Quod enim dixerat prius: SED ERIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO SI QUID ADDATUR EI
DICTIONI, quam supra simplicem esse proposuit, cum de significativa orationis
parte loqueretur, nunc id implet et explicat dicens non si quodlibet addatur
simplici dictioni, statim fieri affirmationem vel negationem, nec vero
orationem neque enim si quid non per se significativum dictioni ƿ simplici
copuletur, idcirco iam vel oratio vel affirmatio vel etiam negatio
procreabitur. Neque enim si una hominis syllaba quae significativa per se non
est dictioni eidem ipsi addatur, iam ulla inde procreatur oratio. Quod si
oratio non fit, nec affirmatio nec negatio. Hae enim orationes quaedam sunt. Ut
si quis ex eo quod est homo tollat unam syllabam eamque totae dictioni simplici
aptet dicatque homo mo vel alio quolibet modo deeidens partem toti corpori
dictionis adiciat, non faciet orationem. Quod si hoc est, nec affirmationem nec
negationem, quae quaedam sunt orationes. Ergo ita accipiendum est, tamquam si
hoc modo dixisset: DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT ALIQUID SED NON QUONIAM EST
AUT NON EST SED ERIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO, SI QUID ADDATUR SED NON UT UNA
HOMINIS SYLLABA ADDATUR nec cuiuslibet alterius dictionis, si quid per se non
significat, ut in eo quod est sorex rex non significat sed vox est nunc sola. Atque
ideo si quis velut partem tollat, id quod est rex, apponatque ei quod est sorex
et dicat sorex rex, ut rex tamquam pars sit eius quod est sorex, oratio nulla
est atque ideo neque affirmatio nec negatio. Hae enim ex vocibus per se
significativis constant. Rex vero in eo quod est sorex quoniam pars est nominis,
nihil ipsa significat. Vel certe erit melior intellectus, si hoc quod ait SED
NON UNA HOMINIS SYLLABA non aptemus ad orationis perfectionem sed potius ad
dictionis significationem, ut quoniam superius dixit orationis partes ita
significare ut dictionem non ut affirmationem, ƿ quae esset dictio, manifeste
monstraret. Dictionem namque constituit vocem per se significantem. Ergo cum
dicit SED NON UNA HOMINIS SYLLABA, tale est ac si diceret: significat quidem
pars orationis ut dictio sed hae ipsae dictiones perfecta nomina sunt et verba,
non partes nominum verborumque. In eo enim quod est: Equiferus currit
equiferus quidem dictio est totius orationis significans ut pars orationis sed
'ferus' consignificat ut pars nominis atque ideo 'ferus' dictio non est.
Quocirca nec si qua alia syllaba in parte orationis sit, id est in nomine vel
verbo, nihil per se significans. Quamquam sit in parte nominis, quod nomen pars
orationis est, nihil tamen ipsa significabit in tota oratione: quare nec dictio
erit. Audiendum ergo ita est tamquam si sic diceret: ORATIO AUTEM EST VOX
SIGNIFICATIVA, CUIUS PARTIUM ALIQUID SIGNIFICATIVUM EST SEPARATUM, UT DICTIO,
NON UT AFFIRMATIO. DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT ALIQUID et est quaedam dictio
et simplex. Nam neque oratio est, quoniam simplex est, nec affirmatio neque
negatio, quoniam non significat esse aut non esse sed erit tunc affirmatio,
quando aliquid additur, quod affirmationem negationemue constituit. Sed quod
aio dictionem esse id quod dicimus homo, idcirco dictio est, quoniam per se
significat. Syllaba vero eius nominis quod est ƿ homo, quoniam nihil designat,
non est dictio (hoc est enim SED NON UNA HOMINIS SYLLABA) vel si videatur
quidem significare, pars tamen sit nominis et consignificet in nomine, in tota
oratione nihil significat. Neque enim pars orationis est. Quod per hoc dixit
quod ait: NEC IN EO QUOD EST SOREX REX SIGNIFICAT SED VOX EST NUNC SOLA nihil
significans. Unde probatur huiusmodi particulas non esse dictiones. Vox enim
sola non est dictio sed vox per se significans. Si qua autem sunt, inquit,
nomina, quae sint composita ex aliis, ut est equiferus, emittunt quidem quandam
imaginem significandi sed per se nihil significant, consignificant autem. In
simplicibus vero nominibus nec imaginatio ulla significandi est, ut in eo quod
est Cicero: partes eius cum simplices sono, tum etiam intellectu praeter
cuiuslibet imaginationis similitudinem sunt. In duplicibus vero uult quidem
pars significare sed nullius separati significatio est, idcirco quoniam solum
consignificat id quod totum compositi nominis corpus designat, ipsum vero
separatum (ut saepius dictum est) nihil extra significat. EST AUTEM ORATIO
OMNIS QUIDEM SIGNIFICATIVA NON SICUT INSTRUMENTUM SED (QUEMADMODUM DICTUM EST)
SECUNDUM PLACITUM. Secundum placitum esse orationes illa res approbat, quod
earum partes secundum placitum sunt, id est verba et nomina. Quod si omne
compositum ab his, ex quibus est compositum, sumit naturam, vox quae positione
constitutis vocibus iungitur ipsa quoque secundum placitum positionemque
formatur. Quare manifestum est orationem secundum placitum esse. Plato autem in
eo libro, qui inscribitur "Cratylus", aliter esse constituit eamque
dicit supellectilem quandam atque instrumentum esse significandi res eas, quae
naturaliter intellectibus concipiuntur, eorumque intellectuum vocabulis
dispertiendorum. Quod omne instrumentum, quoniam naturalium rerum, secundum
naturam est, ut videndi oculus, nomina quoque secundum naturam esse arbitratur.
Sed hoc Aristoteles negat et Alexander multis in eo nititur argumentis
monstrans orationem non esse instrumentum naturale. Aristoteles vero ita utitur
dicens: EST AUTEM ORATIO OMNIS QUIDEM SIGNIFICATIVA NON SICUT INSTRUMENTUM,
tamquam si diceret: est quidem omnis oratio significativa, non tamen
naturaliter. Instrumentum enim hoc demonstrat, tamquam si diceret naturaliter,
quod qui instrumentum orationem esse negat, negat eam naturaliter significare
sed ad placitum. Naturalium enim rerum naturalia sunt instrumenta. Idcirco
autem instrumentum pro natura posuit, quod (ut dictum est) Plato omnium artium
instrumenta secundum naturam ipsarum artium consistere proponebat. Et Alexander
quidem non esse instrumentum orationem sic ingreditur approbare: omnis, inquit,
naturalium actuum supellex ipsa quoque naturalis est, ut visus quoniam natura
datur, eius quoque supellex ƿ est naturalis, ut oculi. Eodem quoque modo
auditus cum naturalis sit, aures nobis, quae sunt audiendi instrumenta,
naturaliter datas esse cognoscimus. Quare quoniam oratio ad placitum, non
naturaliter est (partes enim manifestum est orationis ad placitum positas, quae
sunt scilicet verba et nomina, sicut monstrat apud omnes gentes diversitas
vocabulorum): quoniam ergo per haec secundum placitum omnis oratio esse
monstratur, quod autem secundum placitum est, non est secundum naturam: non est
ergo oratio supellex. Significandi enim ratio atque potestas naturaliter est.
Quod si oratio naturaliter non est, non est supellex. His aliisque similibus
monstrat non esse supellectilem orationem. Quocirca dicendum nobis est
naturaliter quidem nos esse vocales potentesque naturaliter vocabula rebus
imprimendi, non tamen naturaliter significativos sed positione: sicut artium
singularum naturaliter sumus susceptibiles sed eas non naturaliter habemus sed
doctrina concipimus: ita ergo vox quidem naturaliter est sed per vocem
significatio non naturaliter. Neque enim vox sola est nomen aut verbum sed vox
quadam addita significatione. Et sicut naturaliter est moveri, saltare vero
cuiusdam iam artificii et positionis, et quemadmodum aes quidem naturaliter
est, statua vero positione aut arte: ita quoque possibilitas quidem ipsa
significandi et vox naturalis est, significatio vero per vocem positionis est,
non naturae. Hactenus quidem de communi oratione locutus est, nunc autem transit
ad species eius. Ait enim: ENUNTIATIVA VERO NON OMNIS SED IN QUA VERUM VEL
FALSUM INEST. NON AUTEM IN OMNIBUS, UT DEPRECATIO ORATIO QUIDEM EST SED NEQUE
VERA NEQUE FALSA. ET CAETERAE QUIDEM RELINQUANTUR; RHETORICAE ENIM VEL POETICAE
CONVENIENTIOR CONSIDERATIO EST; ENUNTIATIVA VERO PRAESENTIS EST SPECULATIONIS.
Species quidem orationis multae sunt sed eas varie partiuntur. At vero
Peripatetici quinque partibus omnes species orationis ac membra distribuunt.
Orationis autem species dicimus perfectae, non eius quae imperfecta est.
Perfectas autem voco eas quae complent expediuntque sententiam. Et sit nobis
hoc modo divisio: sit oratio genus: orationis aliud est imperfectum, quod
sententiam non expedit, ut si dicam: Plato in lycio aliud vero perfectum.
Perfectae autem orationis alia est deprecativa, ut: Adsit laetitiae Bacchus
dator alia imperativa, ut: Accipe daque fidem alia interrogativa,
ut: Quo te, Moeri, pedes? An quo via ducit? Alia vocativa, ut: O qui res
hominumque deumque Aeternis regis imperiis alia enuntiativa, ut: Dies
est et: Dies non est In hac sola, quae est enuntiativa, veri
falsive natura perspicitur. In caeteris enim neque veritas neque falsitas
invenitur. Et multi quidem plures species esse dicunt perfectae orationis, alii
autem innumeras earum differentias produnt sed nihil ad nos. Cunctae enim
species orationis aut oratoribus accommodatae sunt aut poetis, sola enuntiativa
philosophis. Ergo hoc dicit: non omnis oratio enuntiativa est. Sunt enim
plurimae quae enuntiativae non sunt, ut hae quas supra proposui. Haec autem
sola est, in qua verum falsumque inveniri queat. Quocirca quoniam de ista, in
qua veritas et falsitas invenitur, dialecticis philosophisque est quaerendum,
caeterae autem aut poetis aut oratoribus accommodatae sunt, iure de hac sola
tractabitur, id est de enuntiativa oratione. Hucusque ergo de partibus
interpretationis et de communi oratione locutus est. Nunc autem adstringit
modum disputationis in speciem et de una specie orationis tractat deque una
interpretatione, quae est enuntiativa. Species namque est enuntiatio
interpretationis, negatio vero et affirmatio enuntiationis. Quare de
enuntiativa oratione considerandi hinc cum ipso Aristotele commodissimum
sumamus initium. EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE
NEGATIO; ALIAE VERO CONIUNCTIONE UNAE. NECESSE EST AUTEM OMNEM ORATIONEM
ENUNTIATIVAM EX VERBO ESSE VEL CASU. ETENIM HOMINIS RATIO, SI NON AUT EST AUT
ERIT AUT FUIT AUT ALIQUID HUIUSMODI ADDATUR, NONDUM EST ORATIO ENUNTIATIVA.
QUARE AUTEM UNUM QUIDDAM EST ET NON MULTA ANIMAL GRESSIBILE BIPES, NEQUE ENIM
EO QUOD PROPINQUE DICUNTUR UNUM ERIT, EST ALTERIUS HOC TRACTARE NEGOTII. Una
oratio duplici tractatur modo: vel cum per se una est vel cum per aliquam
coniunctionem coniungitur. Vel certe ita dicendum est: aliae orationes
naturaliter unae sunt, aliae positione. Et naturaliter quidem unae sunt
orationes, quae non dissoluuntur in alias orationes, ut est: Sol oritur
Quae autem positione sunt unae in alias orationes dissoluuntur, ut est: Si homo
est, animal est haec enim in orationes alias separatur. Et quemadmodum
lignum vel lapis singillatim in propria natura consistunt et una sunt, ex his
autem facta navis vel domus cum pluribus quidem constent, unae tamen arte sunt,
non natura: ita quoque in orationibus simplices et per se naturaliter unas
orationes dicimus, quae verbo tantum et nomine iunguntur, compositas autem,
quae in alias (ut dictum est) orationes dividuntur. Multas enim orationes in
huiusmodi orationibus coniunctio iungit, ut si dicam: Et Plato est et
Socrates haec coniunctio et utrasque coniunxit atque ideo una videtur
positione, quae naturaliter et per se una non fuerat. Naturaliter autem unius
orationis duae partes sunt: affirmatio et negatio. Sed quoniam non ita dixit:
EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO VEL NEGATIO, DEINDE UNA
CONIUNCTIONE sed ait: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE
NEGATIO, huiusmodi oritur quaestio, utrum id quod ait prima ad affirmationem
referatur, ut sit posterior negatio, an id quod ait prima ad simplicem
rettulerit orationem, ut secunda sit, quae ex orationibus iungitur. Quam
dubietatem ipse dissolvit. Sic enim inquit: EST AUTEM PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA
AFFIRMATIO, et ut quam secundam diceret demonstraret ait DEINDE NEGATIO, ut
primam affirmationem poneret, secundam negationem. Quod si ita dixisset: EST
AUTEM UNA PRIMA ENUNTIATIVA ORATIO AFFIRMATIO VEL NEGATIO, DEINDE CONIUNCTIONE
UNAE, ita oporteret intellegi tamquam si diceret illam esse primam unam
orationem, quae simplex esset, cuius partes affirmatio essent atque negatio,
secundam vero illam, quae coniunctione quadam una fieret, cum ex orationibus
iungeretur. Sed quoniam id quod ait prima ad affirmationem iunxit dicens EST
AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, ad negationem vero 'deinde'
subiunxit dicens DEINDE NEGATIO, dicendum est primam eum orationem esse
arbitrari affirmationem, secundam vero negationem, cui 'deinde' continenter
apposuit. Sed rursus incurrimus Alexandri quaestionem. Per hoc enim negationem
affirmationemque negat sub uno genere poni oportere, sub enuntiatione, quod in
his, quae priora vel posteriora sunt, commune genus non potest inveniri. Sed
huic supra iam dictum est, non oportere omnia quaecumque quolibet modo priora
vel posteriora sunt a genere communi secernere (alioquin sic primae et secundae
substantiae sub uno genere substantiae non ponentur, sic etiam simplices et
compositae orationes, quarum simplices propositiones primae sunt, posteriores
compositae, uno genere non continebuntur) sed illa sola putanda sunt sub eodem
genere poni non posse, quae ad substantiam priora vel posteriora esse
cognoscimus, quae vero ad suum esse aequalia sunt nihil prohibet sub eodem
genere utraque constitui. Ergo quoniam affirmationi et negationi hoc est esse,
quod ƿ in his veritas et falsitas reperitur, hoc autem est enuntiatio, in qua
scilicet veritatis et falsitatis constituta sit ratio: quoniam ad id quod falsi
verique significativae sunt neque affirmatio prior neque negatio posterior est,
nullus dubitat a quo aequaliter participant affirmatio et negatio eidem generi
posse supponi. Sed affirmatio atque negatio aequaliter enuntiatione
participant, siquidem enuntiatio veri falsique utitur significatione et
affirmatio et negatio veritatem atque mendacium aequaliter monstrat: enuntiatio
igitur affirmationis et negationis genus esse ponenda est. Quod ergo ait: EST
AUTEM PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO; ALIAE VERO
CONIUNCTIONE UNAE, ita intellegendum est, quod affirmationem primam, secundam
vero negationem, cui addidit deinde, in prolatione posuerit. Prior enim est
affirmatio, posterior negatio, in prolatione dumtaxat, non secundum veri
falsique designationem. Quocirca nihil prohibet et priorem putari affirmationem
negatione et tamen utrasque sub uno genere id est enuntiatione constitui. Sed
quod secutus est: NECESSE EST AUTEM OMNEM ORATIONEM ENUNTIATIVAM EX VERBO ESSE
VEL CASU, huiusmodi est: volens Aristoteles distribuere dictionem,
affirmationem, negationem, enuntiationem, contradictionem sensum confusa
brevitate permiscuit et nebulis obscuritatis implicuit. Oportuit namque prius
quid esset dictio, post autem quid affirmatio et negatio et rursus enuntiatio
et contradictio constituere. Sed haec interim praetermittit, nunc vero
quemadmodum constituatur enuntiatio docet dicens, quod omnis enuntiatio constet
in verbo. Quoniam simplex dictio est nomen ƿ aut verbum, omnis enuntiatio
simplex huiusmodi est, ut semper quidem vel vertum vel aliquid quod idem valeat,
tamquam si diceretur verbum vel casum verbi, in praedicatione retineat sed non
semper subiectus terminus fit ex nomine, semper tamen praedicatus ex verbo. Sit
enim huiusmodi propositio, quae est: Sol oritur in hac ergo propositione
quod dico "sol" subiectum est, quod vero dico "oritur"
praedicatur. Et utrasque has dictiones terminos voco sed quodcumque prius
dicitur in simplici enuntiatione, illud subiectum est, ut in hac
"sol", quod vero posterius, illud praedicatur, ut in eadem
"oritur". Ergo necesse est omnem enuntiativam orationem, si simplex
sit, verbum in praedicatione retinere, ut in eadem ipsa cum dico "Sol
oritur", "oritur" verbum est -- vel quod idem valeat, ut est:
Socrates non ambulat "Non ambulat" enim infinitum verbum est et
verbum quidem non est sed eandem vim retinet quam verbum. Casus etiam verbi
ponitur saepe, ut Socrates fuit Subiectus vero terminus non semper
consistit in nomine. Potest enim et infinitum nomen habere, ut cum dico: Non
homo ambulat potest etiam verbum, ut cum dico: Ambulare movere est
Ergo (ut arbitror) plene monstratum est non semper subiectum nomen esse, semper
autem praedicatum in solo verbo consistere. Approbans ergo verba semper in
praedicationibus poni hoc addidit: nisi enim aut est aut fuit aut aliquid huiusmodi
sit additum aut quod idem valeat apponatur, enuntiatio non fit. Cum enim dico:
Homo est 'est' verbum in praedicatione proposui, sin vero dixero: Homo
vivit idem valet tamquam si dicam homo vivus est. Ergo non posse sine
verbo affirmationem negationemue constitui ƿ docuit per id quod ait ETENIM
HOMINIS RATIO, SI NON AUT EST AUT ERIT AUT FUIT AUT ALIQUID HUIUSMODI ADDATUR,
NONDUM EST ORATIO ENUNTIATIVA. Hoc enim dicere videtur: definitio hominis est
verbi gratia animal gressibile bipes et haec est ratio humanae substantiae.
Ergo haec ratio, nisi ei aut est aut erit aut fuit aut quodlibet verbum (sicut
supra dictum est) apponatur, enuntiatio non fit; neque enim verum neque falsum
est. Si enim dicam tantum animal gressibile bipes, nulla me veritas mendaciumue
consequitur. Sin autem dixero animal gressibile bipes est vel non est,
affirmatio mox negatioque conficitur, quas enuntiationes esse quis dubitet? Sed
cum de simplicibus enuntiationibus loqueretur, ait hominis rationem id est
definitionem non esse enuntiationem, nisi ei aut est aut erit aut huiusmodi
aliquid apponatur, approbans scilicet unam esse et non multiplicem orationem
definitionis humanae, cui si est aut erit aut fuit adderetur, enuntiationem
simplicem faceret. Cur vero una sit talis oratio causa quaeritur. Neque enim ex
solis duobus terminis constat id quod dicimus animal gressibile bipes, ut quae
nomina plura sunt. Quare ipse sibi institit et de sua propositione rationem
quaesivit, quam nunc dicere supersedit. Ait enim: QUARE AUTEM UNUM QUIDDAM EST
ET NON MULTA ANIMAL GRESSIBILE BIPES, NEQUE ENIM EO QUOD PROPINQUE DICUNTUR
UNUM ERIT, EST ALTERIUS HOC TRACTARE NEGOTII, hoc scilicet quaerens, tamquam si
ita ipse ex persona sua diceret: de simplicibus enuntiationibus omnibus
loquebar deque his proposui eas praeter verbum esse ƿ non posse et ad hanc rem
probandam exemplum sumpsi definitionem hominis, cui nisi aut est aut erit aut
fuit apponeretur, enuntiationem non fieri dixi, quasi una et non multiplex
esset oratio ea per quam dicitur animal gressibile bipes, de qua fieri posset
simplex enuntiatio. Cur autem una erit oratio animal gressibile bipes,
ALTERIUS, inquit, EST HOC TRACTARE NEGOTII, cum de rebus non de propositionibus
perspiciendum est. Nam non idcirco una est oratio, quia continve dicitur et
coniuncte sibimet animal gressibile bipes. Hoc enim si ita esset, possemus et
hanc orationem, quae tam multa significat, unam dicere, si continve proferatur,
ut est: Socrates philosophus simus caluus senex Ergo quemadmodum
huiusmodi oratio sit multiplex et non una, posterius dicemus. Nunc ergo
manifestum sit hanc orationem quae dicit Socrates philosophus simus caluus
senex non esse unam sed multiplicem. Si ergo propinquitas proferendi ipsa
continuatione unam faceret orationem, posses haec quoque una esse oratio, quae
manifesto non una esse docebitur. Quare non idcirco erit una oratio ea quae
dicit animal gressibile bipes, quod propinque et continve profertur. Quae autem
causa sit ut una sit, ipse dicere distulit sed in libris eius operis, quod
*Meta ta physika* inscribitur, expediet. Theophrastus autem in libro de
affirmatione et negatione sic docuit: definitionem unam semper esse orationem
eamque oportere continuatim proferre. Illa enim una oratio esse dicitur, quae
unius substantiae designativa est. Definitio autem, ut verbi gratia hominis
animal gressibile ƿ bipes, una est oratio per hoc, quoniam unum subiectum id
est hominem monstrat. Si ergo continve proferatur et non divise, una est
oratio, et quia continve dicitur et quia unius rei substantiam monstrat; sin
vero quis dividat et orationem unam rem significantem proferendi intermissione
distriboat, multiplex fit oratio. Ut si dicam animal gressibile bipes, unam rem
mihi tota monstrat oratio et continve dicta est; sin vero dicam animal et
rursus gressibile et sub intermissione repetam bipes, multiplex fit distribute
intermissione oratio. Et rursus adversum id quaestio. Et quis hoc non iure
culpet posse eam quae una est orationem intermissione proferendi fieri
multiplicem, cum continuatio proferendi non faceret unam, quae esset multiplex
per naturam? Sicut enim in his, quae multiplices sunt naturaliter, non potest
continuatio proferendi unam facere orationem, sic quoque non debet quae est una
naturaliter oratio idcirco quod de uno subiecto dicatur fieri multiplex per
intermissionem. Sed hoc ita solvitur: nam cum dicimus animal et sub
intermissione rursus gressibile eodemque modo iterum bipes, non hoc ita
dicimus, tamquam si in unum cuncta coniuncta sins. Quocirca quoniam est quidem
animal, est rursus gressibile, est rursus bipes, quoniam plura sunt et
pluraliter dicta id est distributa, non videntur ad unum subiectum distributa
posse praedicari, sicut cum dico "Socrates philosophus caluus senex",
haec omnia non est simplex oratio, nec si continve proferatur, quod ad unam
substantiam non tendunt: accidentia enim sunt et extrinsecus veniunt. Probatur
autem neque eas orationes, quae per divisionem dicuntur, ƿ neque eas, quae non
ad unam substantiam tendunt, unas esse, hoc modo: si dicat quis animal et
rursus gressibile et iterum bipes, non unum est animal nec unum gressibile nec
unum bipes. Sin vero dixero "animal gressibile bipes" continve et
propinque, unum est, quod tria ista iuncta significant, id est homo. Convertamus
nunc animum ad eas quae plura quidem significant sed continve proferuntur, ut
cum dico "Socrates philosophus caluus senex": videtur quasi quaedam
Socratis esse definitio philosophus caluus senex sed non necesse est, si
huiusmodi Socrates fuit, omnem quicumque philosophus senex caluus est esse
etiam Socratem. In multis ergo continuatio ista valet accidere. Quocirca non
unum significat, quamquam continve proferatur. Ergo si ex omnibus unum quiddam
significetur et continve proferatur, una est oratio, ut partes quaedam rei
definitae sint ea quae in definitione ponuntur, non accidentia. Et proficit
quidem aliquid continua prolatio ad perficiendam unam orationem sed ipsa sola
non sufficit, nisi unum quoque subiectum sit. Atque ideo dixit Aristoteles
animal gressibile bipes non idcirco esse unam orationem, quod propinque
dicatur. Nam neque sufficit ad constituendam unam orationem propinquitas
proferendi nihilque prohiberet, quae naturaliter essent multiplices, eas
continve et propinque prolatas unas videri. Sed huius rei rationem Aristoteles
ponere distulit. Sensus ergo huiusmodi est: NECESSE EST, inquit, OMNEM
ENUNTIATIVAM ORATIONEM EX VERBO ESSE VEL CASU. ETENIM HOMINIS RATIO, quae et
ipsa quoque oratio est, SI NON AUT EST AUT ERIT AUT FUIT AUT ALIQUID HUIUSMODI
ILLI ADDATUR, NONDUM EST enuntiatio. Hoc vero in solis simplicibus
enuntiationibus evenit, in his autem quae coniunctione unae sunt (ut supra ait)
non omnino est. Cum enim dico dies est, vis tota in verbo est; si autem cum
coniunctione proferam: Si dies est, lux est tota vis in coniunctione
consistit, id est 'si'. Veritatis enim aut falsitatis rationem sola coniunctio
tenet, quae conditionem proponit, cum dicit "Si dies est, lux est":
si enim illud est, illud evenit. Igitur in coniunctione omnis vis huiusmodi
propositionis est, omnis autem simplex propositio totam vim in verbo habet
positam. Et quemadmodum in his, quae hypotheticae vel conditionales dicuntur,
coniunctiones propositionis vim tenent, sic in simplicibus propositionibus
praedicatio vim optinet, unde et Graece quoque tales propositiones praedicativae
dicuntur, scilicet quae simplices sunt, quod in his totam propositionem
optineat praedicatio. Atque ideo Aristoteles ait ex verbo vel casu fieri
simplicem enuntiationem. Nam praeter id quod totam continet propositionem
praedicativam scilicet, id est praeter praedicationem, enuntiatio non fit. Unde
est ut negatio quoque non ad subiectum sed ad praedicatum semper aptetur. Nam
cum dico: Sol oritur non est huius negatio: Non sol oritur sed illa
quae est: Sol non oritur Atque ideo negatio ad subiectum posita non facit
contrariam propositionem, ad praedicatum vero contrariam reddit. Recte igitur
Aristoteles de subiecto quidem nihil locutus est. Non enim praedicativam
propositionem subiectus terminus tenet sed tantum praedicatio, quae totam
enuntiationem propria virtute confirmat. EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE
UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL
INCONIUNCTAE. Hinc monstratur quoniam tum cum dixit: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO
ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO, primam non eum de ea oratione dixisse,
quae naturaliter una est sed de affirmatione. Alioquin hic quoque repetens ita
dixisset: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT. Sed
quoniam non ita dixit, manifestum est quod dudum ait primam non ad orationem,
quae praeter coniunctionem una est, rettulisse sed ad affirmationem, quam
negatione priorem esse constaret. Sed hoc iam superius dictum est. Quid autem
sibi velit haec enumeratio, paucis expromam multas enim confusiones multosque
in orationibus errores hic locus optime intellectus veraciterque perceptus
sustulit. Et est haec expositio quam nullus ante Porphyrium expositorum vidit.
Non est idem namque unam esse orationem et multiplicem, quod simplicem et
compositam, et distat una a simplici, distat etiam multiplex a composita. Est
ergo una oratio quae unum significat, multiplex autem quae non unum sed plura.
Fit autem hoc in huiusmodi orationibus, ut cum dico: Cato philosophus est
Haec oratio non est una: non enim unum significat potest enim monstrare et
Catonem Uticensem esse ƿ philosophum, potest etiam ostendere et Catonem
Censorium oratorem esse philosophum. Qua in re non una est oratio atque idcirco
in Uticensi quidem Catone vera est, in oratore vero falsa. Huiusmodi ergo orationes
multas vocamus. Sin vero unum significet, ut cum dicimus: In charta
scribitur illam dicimus unam. Ergo una quae sit vel multiplex oratio, ex
his intellegitur quae significant. Si enim unam significat rem, una est, si
multas, multiplex. Simplices autem et compositae orationes non ad
significationem sed ad terminos ipsos dictionesque, quae in propositionibus
sumuntur, referendae sunt. Et est quidem simplex oratio enuntiativa, quae ex
solis duobus terminis constat, ut est: Homo vivit Sive autem his
propositionibus omnis addatur, ut est: Omnis homo vivit sive nullus, ut:
Nullus lapis vivit sive aliquis, ut: Aliquis homo vivit quoniam
termini ipsi duo sunt, simplex vocatur propositio. Composita vero, si ultra
duos terminos enuntiat, ut est: Plato philosophus in lycio ambulat hic
enim quatuor sunt termini, vel si tres sint, ut: Plato philosophus
ambulat Hae quoque, si eis omnis aut nullus aut aliquis addatur, eodem
modo compositae sunt. Ergo una vel multiplex oratio intellegitur, si unum vel
multa significent, et de propria semper significatione iudicantur. Simplex
autem et composita non ex significatione sed ex verborum vel nominum
pluralitate cognoscitur. Si enim ultra duos terminos habet propositio,
composita est, sin duos tantum, simplex. Si ergo semper quae ƿ simplex oratio
est, id est quae duobus terminis constat, unam tantum significantiam retineret,
indifferenter dici posset una oratio et simplex (eadem enim una esset, quae
etiam simplex) sed quoniam non omnis simplex unum significat, non omnis simplex
una est. Potest ergo fieri ut simplex quidem sit propositio, multae tamen
orationes: simplex quidem ad compositionem dictionum, multae vero ad
significationem sententiarum. Quare erit in hoc gemina differentia, ut unam
dicamus simplicem unamque orationem, alteram simplicem et plures orationes. Rursus
si omnes compositae orationes plures etiam res significarent, indifferenter
diceremus multiplicem et compositam; sed quoniam fieri potest ut propositio
aliquotiens quidem constet ex numerosis pluribusque terminis quam sunt duo,
unam tamen sententiam monstret, potest fieri ut composita quidem sit, una tamen
oratio sit significatione, composita dictione, ut est animal rationale mortale
mentis et disciplinae capax: haec quidem plura sunt sed his una subiecta substantia
est id est homo, quare una quoque sententia. Sin vero quis dicat: Socrates et
ambulat et loquitur et cogitat multa sunt. Diversa enim sunt quod ambulat
et quod loquitur et quod cogitat. Quare erit aliquando composita quidem oratio,
una tamen. Sed quoniam composita oratio aliquotiens quidem continve sine
coniunctione dicitur, aliquotiens coniunctione copulatur, fiunt hinc quatuor
differentiae. Est enim una oratio composita ex terminis continuatim dictis et
sine coniunctione unam sententiam monstrans, ut est: ƿAnimal rationale mortale
mentis et disciplinae perceptibile. Haec enim oratio composita quidem est ex
multis terminis sed coniunctionem non habet (nam quod dictum est mentis et
disciplinae perceptibile, haec coniunctio quae est et nullam in tota
propositione vim optinet: neque enim coniungit propositionem sed artem addit,
cuius susceptibilis homo esse videatur) et habet unam sententiam subiectam,
quod est homo. Alia vero est composita ex terminis nulla coniunctione copulatis
multiplex et non unam significans propositionem, ut est: Plato Atheniensis
philosophus disputat Aliud enim est esse Platonem, aliud esse
philosophum, aliud Atheniensem, aliud disputantem, et haec coniuncta unum
aliquid non faciunt quasi substantiam. Quare haec multiplex est sed eam
manifestum est nulla coniunctione copulari.Alia vero est composita ex
propositionibus inconiunctis multiplex, ut est: Iuppiter optimus maximus est,
Iuno regina est, Minerua dea sapientiae est Quas si quis sub unum
continveque proferat, plures quidem propositiones sunt, et oratio multiplex sed
coniunctione carent. Alia vero est composita vel ex terminis vel ex
propositionibus coniunctione copulatis multiplex et multa significans. Et ex
terminis quidem composita, ut si quis dicat: Et Iuppiter et Apollo dii
sunt ex propositionibus autem coniuncta multa significans est, ut si quis
dicat: Et Apollo uates est et Iuppiter tonat Est autem praeter has alia
composita propositio ex propositionibus coniunctione coniuncta ƿ unam significans
orationem, ut cum dico: Si dies est, lux est Duae enim propositiones,
quae sunt istae "dies est", "lux est", si coniunctione
copulantur. Sed haec oratio non significat multa. Neque enim diem esse et lucem
proponit sed si dies est, lucem esse. Quocirca consequentiam quandam
significat, non exstantiam propositionis. Non enim dicit utrasque esse sed si
una est, aliam consequi, quod utrumque in unam quodammodo intellegentiam
congruit. Sed hanc Porphyrius propositionem extrinsecus ponit, idcirco quod
plura significare videbatur (ipsa enim propositionum pluralitas multitudinem
simulat significationum) sed (ut dictum est) non plures significat res sed unam
consequentiam. Compositarum igitur et unam rem significantium propositionum
duplex modus est. Aut enim est ex terminis inconiunctis unam rem significans
composita oratio, ut: Animal rationale mortale est aut ex propositionibus
composita et coniunctione copulata imaginem quidem emittens plura significandi,
unam vero rem significans oratio, ut si dicamus: Si dies est, lux est Cum
ergo haec sit distributio compositarum et simplicium orationum, duplici modo
unae orationes sunt et duplici multae, simplici autem inconpositae et simplici
compositae. Et uno quidem modo una oratio dicitur cum aliqua coniunctione copulatur,
alio vero cum unam rem significat; rursus uno modo dicitur multiplex ƿ oratio
cum sine coniunctione est, alio vero cum plura significat. Atque hoc est quod
ait: EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE
UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE. Est enim (ut dictum
est) dupliciter una oratio: vel quando cum coniunctione est, vel cum unam rem
significat. Multiplex autem oratio est vel quae multa significat, vel quae
coniunctione non iungitur. Multas enim orationes vocavit eas quae sint
multiplices et vel significationis pluralitatem teneant vel praeter
coniunctiones sint. Quod autem ait vel inconiunctae, totum complexus est.
Multiplex enim est propositio vel si fuerit incomposita, quemadmodum est: Cato
philosophatur multiplex etiam vel si fuerit composita ex terminis praeter
coniunctionem, ut est: Plato Atheniensis in lycio disputat vel si
composita sit ex propositionibus praeter coniunctionem, quemadmodum est: Homo
est, animal est Cur autem cum dixit PLURES AUTEM QUAE PLURA addit ET NON
UNUM? Hoc est quod sunt quaedam quae plura significent in sermonibus, unum
tamen in tota compositione demonstrent, ut est animal rationale mortale. Haec
enim omnia multa significant (aliud enim est animal, aliud rationale, aliud mortale)
sed totum simul unum est, quod ƿ est homo. Cum autem dico: Socrates Atheniensis
philosophus et singula plura sunt et omnia simul plura nihilominus sunt.
Haec enim accidentia sunt et nullam substantiam informant. Atque haec quidem
dixit de orationibus quae vel coniunctione unae essent vel significatione, et
rursus de multis quae vel praeter coniunctionem multae essent vel
significatione multiplici. Quae vero de simplicibus atque compositis posterius
dixerit, cum ad illum locum expositio venerit, explicabitur. Nunc autem
revertamur ad ordinem. Igitur quoniam supra dixerat simplicem propositionem,
quam categoricam Graeci dicunt, nos praedicativam interpretari possumus, semper
verbi praedicatione constitui, non autem semper nomine subiecto, quod
aliquotiens quidem vel infinitum nomen vel casus nominis vel verba subiecta
sunt: cum ergo dictionibus simplicibus constitui diceret simplicem orationem et
affirmationem negationemque orationes esse constaret, manifestum fecit
affirmationem et negationem dictione constitui et formari, ita quidem ut
affirmationem et negationem semper sola verbi dictio praedicata, non autem
semper nominis dictio subiecta perficeret. Cum igitur haec ita proposuisset,
nunc quid sit dictio, quae praedicativas id est simplices propositiones format,
exponit dicens: NOMEN ERGO ET VERBUM DICTIO SIT SOLA. Quod ideo ait DICTIO SIT
SOLA, quod sunt quaedam dictiones simul etiam affirmationes vel imperfectae
orationes, quod supra iam dictum est. Cur autem verbum et nomen solae sint
dictiones monstrat: QUONIAM NON EST DICERE SIC ALIQUID SIGNIFICANTEM ƿ VOCE
ENUNTIARE, VEL ALIQUO INTERROGANTE VEL NON SED IPSUM PROFERENTEM. Sensus
huiusmodi est: enuntiativa propositio his maxime duobus formatur: per propriam
naturam atque substantiam et per eius usum atque tractatum. Et natura quidem
ipsius est, ut in ea veritas inveniatur aut falsitas, usus autem cum aliquid
aut interrogando proponitur et respondetur, ut utrum anima immortalis est, aut
certe cum aliquis per suam sententiam enuntiat atque profert, ut si qui dicat
hoc ipsum ex propria voluntate: anima immortalis est. Unde definitio quoque
enuntiationis una quidem naturae atque substantiae talis redditur: enuntiatio
est oratio, in qua verum falsumue est. Ex usu vero eius atque actu enuntiativa
oratio est, quam interrogantes proponimus, ut verum vel falsum aliquid
audiamus, ex nostra vero prolatione, quam proponentes verum aliquid falsumue
monstramus. Ergo cum omnis enuntiativa oratio aut in interrogatione posita sit
aut in spontanea prolatione et in utrisque enuntiationis natura et substantia
illa versetur, ut sive in interrogatione sit posita cum responsione coniuncta
verum habeat vel falsum, sive per se prolata utrumlibet retineat: dictiones,
inquit, vel alio interrogante vel quolibet proferente et sponte dicente verum
falsumue non continent. Si enim quis dicat interrogans "Socratesne
disputat?" alius respondeat "Disputat", hoc quod respondit
"Disputat" si cum tota interrogatione iungatur, potest habere
intellectum verum falsumue significantis orationis, sin vero per se
intellegatur disputat, quamquam alio ƿ interrogante responderit, vero tamen
falsoque relinquitur. Similiter etiam si quis dicat "Socrates" vel
"Ambulat" nullo interrogante sed ipse proferens, nec verum aliquid
nec falsum designat. Ergo verba et nomina dictiones solum sunt, quoniam et
simplices sunt (erant enim aliae quaedam dictiones in orationibus verbisque
compositis sed nondum perfectae sententiae) quoniamque neque verum neque falsum
vel alio interrogante vel quolibet sponte proferente significant. Erant enim
aliae quaedam dictiones quae et alio interrogante et quolibet sponte proferente
verum falsumue retinerent, in his scilicet quae erant affirmationes aut
negationes. Quocirca sensus huiusmodi est, ordo autem verborum sese sic habet:
NOMEN ERGO ET VERBUM DICTIO SIT SOLA, quoniam non possumus dicere significantem
aliquid id est verbo vel nomine enuntiare. Non enim possumus dicere quoniam,
quisquis verbo vel nomine significat aliquid, ille enuntiat, VEL ALIQUO
INTERROGANTE VEL NON SED IPSUM PROFERENTEM, tamquam si sic diceret: verba ipsa
et nomina dictiones solae sunt, quoniam verbis et nominibus significantem
hominem aliquid non possumus dicere, quoniam enuntiat quidquam, sive eum
aliquis interroget, sive ipse sponte proferat simplicem dictionem. Enuntiare
autem est orationem dicere quae verum falsumque designat. HARUM AUTEM HAEC
QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ƿ ALIQUO,
HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO QUAEDAM IAM COMPOSITA. Quoniam
superius de unis orationibus atque pluribus dixit et unam quidem posuit, quae
aut coniunctione una esset secundum prolationem aut significatione secundum
propriam naturam, plures vero quae aut coniunctione carerent aut multa
significatione sua complecterentur, quoniam quidem aliud erat una oratio, aliud
simplex, aliud composita, aliud plures, post illa ad simplicem compositamque
reuertitur dicens simplicem esse orationem enuntiativam quae duobus terminis
continetur, quorum unum subiectum est, alterum praedicatur. Quod vero ait HARUM
AUTEM, enuntiativarum scilicet orationum dixit, quarum HAEC QUIDEM SIMPLEX EST
ENUNTIATIO, et quae simplex est enuntiatio, ipse proposuit dicens UT ALIQUID DE
ALIQUO, subaudiendum est praedicemus, ut sit hic sensus: harum autem enuntiativarum
orationum est simplex enuntiatio, si aliquid unum de uno aliquo praedicemus, ut
si dicam: Plato disputat de aliquo Platone aliquid id est disputat
praedicavi. Et haec simplex est enuntiatio, idcirco quoniam duobus terminis
partibusque coninugitur. Si qua vero plures habuerit terminos et eius partes
duorum terminorum multitudinem egrediantur, illae compositae orationes dicuntur
et est enuntiatio composita huiusmodi: Si dies est, lux est Dies est enim
et lux est duae sunt simplices enuntiationes, quae coniunctae unam compositam
perfecerunt. Atque hoc est quod ait: HAEC ƿ AUTEM ID EST ALIA ORATIO EX HIS
CONIUNCTA id est ex simplicibus enuntiationibus VELUT ORATIO QUAEDAM IAM
COMPOSITA est. Haec enim non simplex est oratio. Simplex enim oratio solas
dictiones duas habet in partibus, composita vero etiam orationes, sicut haec
quam supra proposui. Est ergo hic ordo quem ipse confudit: prius enim de
affirmatione et negatione, quae prima esset, quae posterior, expedivit; dehinc
de unis orationibus et pluribus dixit, postremo de simplicibus atque
compositis. Sed quoniam quaedam in medio permiscuit, ea paululum differentes
directam sententiae seriem continuavimus longum Aristotelis hyperbaton partium
coniunctione recidentes. Neque enim simile videatur quod ait: EST AUTEM UNA
PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO; ALIAE VERO CONIUNCTIONE
UNAE et rursus cum dicit: EST UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL
CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE VEL CUM
RURSUS ADDIT: HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE
ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO IAM
COMPOSITA sed illud quidem prius quod dixit EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO
ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO ad hoc rettulit, ut priorem
affirmationem esse monstraret, posteriorem vero negationem (ait enim DEINDE
NEGATIO, unde quod ait PRIMA ad affirmationem ponendum est), quod vero secutus
est paulo post: EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA ƿ QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL
CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE ad hoc
rettulit, ut doceret quas unas esse orationes putari oporteret (expediens aut
quae unum significarent aut quas coniunctio unas faceret) quas plures (aut quae
multa in significatione retinerent aut quarum corpus nulla esset coniunctione
compositum); quod vero postremo addit: HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST
ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS
CONIUNCTA VELUT ORATIO QUAEDAM IAM COMPOSITA ad simplices rettulit orationes
atque compositas, simplices dicens duobus solis terminis iunctas, compositas,
quae ex simplicibus orationibus enuntiativis coniungerentur: ut sit totus ordo
hoc modo: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO et
rursus intermissis quae sequuntur hoc subiciatur: EST AUTEM UNA ORATIO
ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA
ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE et post hoc intermissis quoque sequentibus hoc
sequatur: HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO
VEL ALIQUID AB ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO QUAEDAM IAM
COMPOSITA, tamquam si sic diceret: prima quidem inter enuntiationes oratio
affirmativa est, secunda vero negatio. Affirmationum autem et negationum una
oratio est, quae unum significat vel quae coniunctione una est, multiplex
autem, quae multa significat ƿ vel quae coniunctione non iungitur. Harum quoque
simplex est, quae duobus terminis constat, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB
ALIQUO; alia vero composita, quae ex simplicibus affirmationibus iungitur. Quod
autem dicit ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO tale est: aliquid enim de
aliquo affirmationem sign!ficat, ut cum dico: Socrates disputat de aliquo
Socrate aliquid id est disputat praedicavi et fit affirmatio. Si autem dicam:
Socrates non disputat a Socrate disputationem seiunxi et ab eo abstuli et
hoc est negatio. Affirmatio enim de alia re aliam rem praedicat eique
coniungit, negatio vero a qualibet re quamlibet rem praedicando tollit. Ergo
hoc quod ait ALIQUID DE ALIQUO, affirmationem simplicem significavit; quod
dixit ALIQUID AB ALIQUO, simplicem negationem. EST AUTEM SIMPLEX ENUNTIATIO VOX
SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA
SUNT. AFFIRMATIO VERO EST ENUNTIATIO ALICUIUS DE ALIQUO, NEGATIO VERO ENUNTIATIO
ALICUIUS AB ALIQUO. Postquam de multis atque unis necnon simplicibus
compositisque enuntiationibus expedivit, enuntiationem simplicem tractat et eam
definitione concludit dicens vocem eam esse significantem aliquid esse vel non
esse. Quod ergo ait vocem eam esse, ad genus rettulit, quod significativam ad
ipsius differentiam vocis, quod DE EO QUOD ESSET AUT NON ESSET ALIQUID, ad
significatarum rerum rursus differentiam ƿ rettulit. Habet enim secundum ipsam
vocem qua profertur, ut significet quiddam, quid autem significet aut circa
quid designationem enuntiatio teneat, ad differentiam significativarum pertinet
vocum. Ita enim dictum est, tamquam si diceret: non omnia enuntiatio significat
sed esse aliquid aut non esse. Est ergo enuntiatio simplex vox significativa de
eo quod est esse aliquid vel non esse, id est omnis enuntiatio aut affirmatio
est aut negatio. Esse enim ponit affirmatio non esse negatio. Sed quanta
definitionem brevitate constrinxit, quidam non videntes in errorem stolidum
falsitatis abducti sunt. Contendunt igitur affirmationis et negationis non esse
enuntiationem genus. Nam si haec, inquiunt, definitio est enuntiationis, omnis
autem generis definitio propriis speciebus accommodari potest (omne enim genus
univoce de speciebus propriis praedicatur), dubium non est quin haec quoque
definitio enuntiationis, si enuntiatio genus est, affirmationi negationique
conveniat, si tamen eius species hae sunt. Sed quis umquam dixerit affirmationi
convenire hanc definitionem, quae dicit vox significativa de eo quod est
aliquid esse vel non esse? Neque enim fieri potest, ut affirmatio vox
significativa sit de eo quod est esse et non esse sed tantum de eo quod est
esse. Negatio rursus non de eo quod est esse et de eo quod est non esse sed
tantum de non esse, numquam etiam de esse. Interimit enim semper negatio,
iungit affirmatio atque constituit. Quare si haec definitio enuntiationis ad
affirmationem negationemque non potest praedicari, affirmatio et negatio
enuntiationis species non sunt. Qui mihi nimium videntur errare: quasi vero
quidquam uetet utrasque ƿ affirmationem et negationem simul eadem definitione
concludere. Possum enim dicere: affirmatio et negatio est vox significativa de
eo quod est esse aliquid vel non esse, ut vox significativa utrisque communis
sit, de eo quod eat esse affirmationis solius, de eo quod est non esse solius
sit negationis. Sed nihil potuit fieri brevius, nisi ut in eadem definitione et
enuntiationis naturam constitueret et ipsius faceret divisionem. Tamquam enim
si ita dixisset: enuntiatio est vox significativa in qua verum falsumque
signatur, huius autem una species affirmativa est, alia negativa, ita ait:
ENUNTIATIO EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST. Nam quod
dixit: DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST tale est ac si diceret: quae verum
falsumque demonstrat. Omne enim quod esse ponit aliquid, ut si dicam: Dies
est vel non esse, ut si dicam: Dies non est verum falsumque demonstrat.
Si ergo aliquid ponatur esse aut non esse, in eo veritas et falsitas invenitur.
Est igitur ita hoc quod ait vocem esse significativam DE EO QUOD EST ALIQUID
VEL NON EST, tamquam si diceret: est enuntiatio vox significativa verum
falsumque significans. Significatio namque de eo quod est esse vel non esse
aliquid veri falsique demonstratio est. Sed in eadem definitione species
admirabili brevitate partitus est. Tamquam enim si diceret: vox significativa
est enuntiatio, in qua verum falsumue demonstratur sed una eius pars
affirmativa est, alia negativa, ita ait DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST.
Significatio enim de eo quod est aliquid affirmatio est, de eo vero quod non
est negatio. Ita id quod ait designativam ƿ esse vocem enuntiationem DE EO QUOD
EST ALIQUID AUT NON EST utrumque una colligit intellegentia. Hoc enim quod
dixit DE EO QUOD EST ALIQUID AUT NON EST utrumque significat et veri falsique
demonstrationem et affirmationis negationisque divisionem. Sed Alexander a
propria sententia non desistit nec alio quam caeteri tenetur errore. Ait enim
hic quoque apparere non esse genus enuntiationem affirmationis et negationis,
quoniam ita in definitione enuntiationis affirmatione et negatione ut partibus
usus est. Omne autem compositum atque omne aequivocum vel suis partibus vel
suis significatis definiri potest, ut si quis ternarium numerum definire volens
dicat: ternarius numerus est qui ex uno duobusque coniunctus est, vel si quis
hominem definire volens dicat: homo est aut animal rationale mortale aut huius
coloribus vel metallo facta simulatio: ita nomen aequivocum ex his, quae ipsum
nomen aequivocum designabat, ostensum est. Hic ergo eodem modo: ENUNTIATIO,
inquit, EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, tamquam si
diceret: enuntiatio est vox aut affirmativa aut negativa: in eundem scilicet
errorem labens nec videns quemadmodum una definitione et divisionem fecerit et
naturam enuntiationis ostenderit. Sed hanc expositionem (quod adhuc sciam)
neque Porphyrius nec ullus alius commentatorum vidit. Aspasius etiam consentit
Alexandro. Dicit enim Alexander eodem modo hic definisse Aristotelem
enuntiationem, sicut alibi quoque id est in resolutoriis. Illic enim ita
propositionem, quod est enuntiatio, definitione ƿ conclusit dicens: PROPOSITIO
ERGO EST ORATIO AFFIRMATIVA VEL NEGATIVA ALICUIUS DE ALIQUO. Idem quoque
Aspasius sequitur. Porphyrius autem sic dicit: admirabilem esse subtilitatem
definitionis. Ex sua enim vi affirmationis et negationis enuntiatio definita
est, ex terminis vero ipsa affirmatio atque negatio. Affirmatio namque in
duobus terminis constans aliquid alicui inesse significat, totam autem vim
ipsius esse aliquid adnuere. Negatio quoque aliquid alicui non inesse
significat sed tota vis ipsius est abnuere atque disiungere. Vel rursus affirmatio
aliquid alicui inesse designat sed vis ipsius tota ponere aliquid est (cum enim
aliquid alicui inesse demonstrat ponit aliquid), rursus negatio quidem aliquid
alicui non inesse declarat sed tota vis eius auferre est ergo nunc, inquit,
enuntiationem ex tota vi affirma tionis negationisque definivit dicens:
ENUNTIATIO EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST. Hoc autem
ad negationis pertinet affirmationisque vim, tamquam si diceret: enuntiatio est
vox significativa quae ponit aliquid aut tollit, quae propriae virtutes sunt
affirmationis et negationis. Si enim ita dixisset: enuntiatio est de eo quod
est aliquid alicui vel non est; tunc ex terminis affirmationis et negationis
enuntiationem definisse videretur; cum autem dicit DE EO QUOD EST ALIQUID VEL
NON EST, de tota utrarumque vi determinat. In hac enim affirmatione quae est:
Dies est aliquid alicui secundum ƿ terminos adesse monstravi (est enim
diei applicui) sed tota huius propositionis vis est aliquid esse declarare;
rursus cum dico: Dies non est aliquid alicui non esse pronuntio sed tota
eius vis est non esse dicere. Quare manifestum est secundum Porphyrium ex tota
vi affirmationis et negationis enuntiationem esse descriptam, ex suis vero
terminis ipsam affirmationem et negationem. Ait enim AFFIRMATIO VERO EST
ENUNTIATIO ALICUIUS DE ALIQUO in affirmationis definitione genus sumens.
Enuntiatio enim (ut dictum est) genus et affirmationis et negationis, quod ipse
Aristoteles clarius demonstrat, qui in utrarumque definitionem enuntiationis nomen
adscripsit dicens: AFFIRMATIO VERO EST ENUNTIATIO. Hoc enim rettulit ad genus,
quod vero addidit alicuius de aliquo reduxit ad terminos. In simplici enim
affirmatione aliquid de aliquo enuntiando praedicatur, ut in eo quod est: Dies
est esse diem. Negatio quoque ita definita est: ENUNTIATIO ALICUIUS AB
ALIQUO, quantum ad enuntiationem rursus a genere, quantum alicuius ab aliquo
rursus ad terminos. In hac enim negatione quae est: Dies non est esse a
die enuntiando tollimus. Sed ut non solum praesentis temporis enuntiationem
definisse videretur, addidit enuntiationis definitionem de aliis quoque
temporibus intellegi. Ait enim: ENUNTIATIO EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST
ALIQUID VEL NON EST adiecitque QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA SUNT. Divisa enim sunt
tempora in tribus. Omne enim tempus aut futurum est aut praesens aut
praeteritum aut ex his mixtum. Enuntiatio ergo est vox significativa
significans aut esse aliquid ƿ aut non esse sed quoniam hoc praesens tempus
designat, non solum de praesenti, inquit, loquimur sed etiam de his temporibus
quae dividuntur, ut hoc esse et non esse et in futurum veniat et in
praeteritum, ut aliquotiens sio esse et non esse significet id est sic ponat
atque auferat enuntiatio, ut et praesens tempus ponat et auferat, ut est:
Socrates est Non est Socrates et praeteritum ponat et auferat, ut est:
Socrates fuit Socrates non fuit eodem modo futurum: Socrates erit
Socrates non erit Ergo in his omnibus temporibus secundum esse aliquid
vel non esse id est secundum ponere et auterre tota enuntiationis vis est. Hoc
ergo est quod ait DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, QUEMADMODUM TEMPORA
DIVISA SUNT, tamquam si diceret: de eo quod est aliquid vel non est vox
enuntiativa significat vel in praesens vel in futurum vel in praeteritum
quemadmodum ipsa tempora dividuntur. Cur autem talis ordo fuerit definitionis,
paucis absolvam. Prius enim de nomine, post de verbo, hinc de oratione, rursus
de enuntiatione, dehinc de affirmatione, postremo de negatione disseruit. Omne
compositum suis partibus posterius est, omne genus suis partibus prius: ergo in
compositis partes toto priores sunt, in generibus et speciebus partes toto
posteriores. Rursus in compositis totum partibus posterius, in speciebus et
generibus totum partibus prius est. Ergo quoniam verba et nomina neque
affirmationis neque negationis neque enuntiationis neque orationis species
erant sed quaedam horum omnium partes, quibus haec omnia iungerentur, oratio
autem genus enuntiationis, enuntiatio ƿ affirmationis et negationis, affirmatio
prior negatione, scilicet secundum prolationem, sicut ipse testatus est: ergo
quoniam haec omnia et oratio et enuntiatio et affirmatio et negatio verbis et
nominibus coniunguntur, his omnibus nomina et verba priora sunt. Nomine autem
res aut per se subsistens aut tamquam per se subsistens significatur, verbo
vero accidens designatur et velut alii accidens, quod ex supra dictis plenum
est. Quod autem per se consistit prius est: ergo id quod nomen significat: quam
id quod verbum: quare verbo prius est nomen. Ergo quoniam nomen et verbum
oratione, enuntiatione, affirmatione et negatione priora sunt (partes enim
priores sunt his quae componuntur), iure haec ante omnia definita sunt. Quoniam
vero nomen prius est verbo, prius nomen, postea vero definitum est verbum. Sed
quia omne genus speciebus suis prius est, post haec id est nomen et verbum
orationem definitione descripsit, quae et proximum enuntiationis genus esset et
superius affirmationis et negationis; post orationem vero enuntiationem, quae
cum sit species orationis, affirmationis tamen et negationis esset genus; post
enuntiationem vero affirmationem, quae quamquam negation) aequaeua species
esset secundum genus proprium id est enuntiationem, in prolatione tamen prior
esset, ut ipse supra iam docuit dicens: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA
AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO. Sed quoniam superius nobis dictum ƿ est has eum
quinque res definire velle: quid sit dictio, quid enuntiatio, quid affirmatio,
quid negatio, quid contradictio, dictionem quid sit ostendit per id quod ait:
NOMEN ERGO ET VERBUM DICTIO SIT SOLA, enuntiationem vero per id quod ait: EST
AUTEM SIMPLEX ENUNTIATIO VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST,
QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA SUNT, affirmationem vero EST ENUNTIATIO ALICUIUS DE ALIQUO;
negationem quoque definivit dicens: NEGATIO VERO ENUNTIATIO ALICUIUS AB ALIQUO.
Restat ergo de contradictione disserere. Quid sit ergo contradictio ipse
persequitur dicens: QUONIAM AUTEM EST ENUNTIARE ET QUOD EST NON ESSE ET QUOD
NON EST ESSE ET QUOD EST ESSE ET QUOD NON EST NON ESSE, ET CIRCA EA QUAE SUNT
EXTRA PRAESENS TEMPORA SIMILITER OMNE CONTINGIT QUOD QUIS AFFIRMAVERIT NEGARE
ET QUOD QUIS NEGAVERIT AFFIRMARE: QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM OMNI
AFFIRMATIONI EST NEGATIO OPPOSITA ET OMNI NEGATIONI AFFIRMATIO. ET SIT HOC
CONTRADICTIO, AFFIRMATIO ET NEGATIO OPPOSITAE. Expeditis omnibus, quae sese
explicaturum esse promiserat, nunc ad reliquam contradictionem ordine venit
eamque ab affirmationibus negationibusque repetit dicens omnibus
affirmationibus posse proprias negationes opponi et omnibus negationibus
proprias ƿ rursus ex adverso affirmationes posse constitui. Hoc autem hinc
sumitur: quoniam novimus alias res esse, alias non esse et quoniam nos ipsi
dicere possumus et sentire alias res esse, alias non esse, ex his quatuor
enuntiationes fiunt, geminae contradictiones. Si quis enim id quod est dicat
non esse, ut si vivente Socrate dicat: Socrates non vivit quod est negat
et erit negatio false; rursus si quis id quod non est esse confirmet, ut si non
vivente Socrate dicat: Socrates vivit haec rursus affirmatio falsa est;
si quis etiam id quod est esse enuntiatione constituat, ut si vivente Socrate
dicat: Socrates vivit uera erit affirmatio; sin vero quod non est esse
negaverit, est negatio vera, ut si quis non vivente Socrate dicat: Socrates non
vivit Ex his igitur id est ex affirmatione vera et negatione falsa et
rursus ex negatione vera et affirmatione falsa quatuor quidem sunt
enuntiationes sed in duabus affirmatio, in duabus negatio continetur, contradictiones
vero duae. Hoc est enim quod ait: QUONIAM AUTEM EST ENUNTIARE ET QUOD EST NON
ESSE, falsam enuntiationem negationis ostendit; quodque addidit ET QUOD NON EST
ESSE, falsam affirmationem in enuntiatione proposuit. Illud quoque quod dixit
ET QUOD EST ESSE, enuntiationem designat, qua id quod est esse vera
affirmatione profertur; amplius quod ait ET QUOD NON EST NON ESSE, verae
negationis specimen dedit. Quare si et quod est vere potest dici esse et idem
quod est falso potest praedicari non esse et id quod non est vere potest
enuntiari non esse et id quod non est falso esse poterit ƿ affirmari,
manifestum est omnem affirmationem habere aliquam contradictionem negationis
oppositam et omnem rursus negation em affirmationis oppositionem facere contradictionem.
Etenim si omne quod quis affirmat negari poterit et quod quis negat poterit
affirmari, quis dubitet nec affirmationem posse constitui cui non negatio
contradicat nec negationem cuius nulla affirmatio valeat inveniri? Omnis igitur
affirmatio negationem et negatio habet oppositam affirmationem: est igitur
CONTRADICTIO AFFIRMATIO ET NEGATIO OPPOSITAE. Quid autem sit oppositio
posterius dicendum est aut quid sit contradictio post diligentissima ratione
monstrabo. Quod autem ait ET CIRCA EA QUAE SUNT EXTRA PRAESENS TEMPORA tale est
tamquam si diceret: sicut affirmatio et negatio in praesenti tempore fieri
potest, ita etiam vel in praeterito vel in futuro. Nam sicut potest id quod est
esse constitui, ita potest id quod fuit fuisse proponi et id quod futurum est
in spem futuri temporis affirmari, ut cum dicimus: Socrates fuit Sol aestate in
cancro futurus est Eodem ergo modo et de futuro et praeterito affirmatio
et negatio constituitur, quemadmodum de praesenti. Futurum autem et praeteritum
extrinsecus est et praeter praesens tempus: illud enim veniet, illud recessit.
Recte igitur etiam CIRCA EA QUAE SUNT EXTRA PRAESENS TEMPORA dixit huiusmodi
posse affirmationes negationesque evenire. Circa enim praeteritum et futurum,
quod est extrinsecus a praesenti tempore, SIMILITER OMNE CONTINGIT (ut ipse
ait) QUOD QUIS AFFIRMAVERIT NEGARE ET QUOD ƿ QUIS NEGAVERIT AFFIRMARE. Unde fit
ut in omnibus temporibus illud constet omni affirmationi posse opponi
negationem omnique negation) oppositam affirmationem posse constitui. Nunc
autem qualis debeat sumi oppositio in affirmatione et negatione demonstrat. Hoc
enim est contradictio affirmatio et negatio oppositae. Quod si hae oppositae
constitnunt contradictionem, qualis in his debet esse oppositio quae
contradictionem constituit recte persequitur. DICO AUTEM OPPONI EIUSDEM DE
EODEM, NON AUTEM AEQUIVOCE ET QUAECUMQUE CAETERA TALIUM DETERMINAMUS CONTRA
SOPHISTICAL IMPORTUNITATES. Cum duobus terminis simplex propositio constet et
unus subiectus sit, alius praedicetur, subiectus autem: sit qui primus dicitur,
praedicatus vero qui posterius, dicit illam oppositione affirmationem et
negationem integram constituere contradictionem, quae idem subiectum habeant,
idem etiam praedicatum, ut neque subiectum neque praedicatum plura significet.
Alioquin non erit contradictio nec aliqua oppositio. Ut cum dico: Socrates
albus est et alius dicit: Aethiops albus non est haec affirmatio
atque negatio non sunt oppositae, idcirco quia est aliud subiectum et idem
praedicatum. In affirmatione enim "Socrates" subiectus fuit, in
negatione Aethiops. Rursus cum dico: Socrates albus est et alius dicit:
Socrates philosophus non est nec haec rursus negatio contra affirmationem
retinet oppositionem, ideo quia aliud praedicatum in utrisque proponitur. ƿ In
affirmatione enim 'album' praedicatum est ad Socraten, in negatione
philosophus. Quod si utraque sint diversa, multo magis nulla. Fit oppositio: ut
cum dico: Socrates philosophus est si respondeat alius: Plato Romanus non
est hic neque idem subiectum est neque idem praedicatum et plus istae
diversae sunt et nulla contra se oppositione oppositae atque ideo possunt
utraeque esse verae et si ita contingit utraeque falsae necnon etiam una vera,
una falsa. Quae enim se non perimunt, nihil eas impedit aut utrasque falsas aut
utrasque veras aut unam veram, falsam aliam reperiri. Quare quorum vel aliud
subiectum est vel aliud praedicatum, illa opposita esse non dicimus. Unde fit
ut nec illa quoque quae plura significant, si subiecta aut praedicata sint,
contradictoriam negationem valeant custodire. Si quis enim nomen aequivocum subiciat
et aliud praedicet et si quis contra huiusmodi affirmationem constituat
negationem, non faciet oppositionem. Ut cum dico: Cato se Uticae occidit
nomen hoc quod dicitur 'Cato' aequivocum est. Potest enim et orator intellegi
et hic qui exercitum duxit in Africam. Si quis igitur dicat: Cato se Uticae
occidit potest fortasse intellegi de Catone Marciae, si quis respondeat
Cato se Uticae non occidit, potest de Catone Censorio constituisse negationem.
Sed quoniam diversus est Cato Censorius Catone Marciae et nomen ipsum Catonis
diversa significat, diversae a se erunt affirmatio et negatio et non id omnino
perimit negatio, quod affirmatio constituit. Affirmatio enim constituit Marciae
Catonem se Uticae peremisse, negatio ƿ vero dicit Catonem, si ita contigit, oratorem
non se Uticae peremisse. Quare non constituunt verum inter se falsumque,
idcirco quod a se diversae sunt. Nam utrumque verum est: et quod se Cato Uticae
occidit scilicet Marciae et quod se Cato Uticae non occidit scilicet orator.
Atque hic aequivocum subiectum fecit, ut haec affirmatio et negatio
oppositionem nullo modo constituerent. Quod si praedicatum fuerit aequivocum,
eodem modo contradictio non fit. Dicat enim quis quoniam Cato fortis est
et de Catone praedicet fortitudinem mentis dicens aliusque respondeat: Cato
fortis non est ad inbecillitatem corporis spectans: ita igitur
aequivocatio fortitudinis ambiguitatem fecit, quae oppositionem nulla ratione
componeret. Et si uterque terminus et subiectus et praedicatus aequivoci
fuerint, multo magis diversae a se erunt propositiones et non oppositae nec
inter se verum falsumque dividentes sed utrasque veras, interdum utrasque
falsas esse contingat. Quare unum oportet esse subiectum unumque praedicatum,
ut id quod affirmatio praedicavit et iunxit, idem negatio dividat et abiungat
et id de quo subiecto affirmatio praedicavit de eodem negatio neget. Nam si sit
uterque aequivocus terminus aut quilibet unus eorum, fieri potest ut aliud
tollat negatio quam affirmatio posuit itaque nulla fit oppositio. Quare non ita
faciendum est sed idem subiectum et praedicatum in affirmatione esse debet,
idem in negatione. Atque hoc est quod ait: DICO AUTEM OPPONI EIUSDEM DE EODEM.
ƿ Quod enim ait EIUSDEM ad praedicatum rettulit, quod DE EODEM ad subiectum et
subaudiendum est DICO AUTEM OPPONI negationem EIUSDEM praedicati DE EODEM
subiecto sed ut non sint aequivoca neque subiectum neque praedicatum et multo
magis utraque sed unum aliquid significent. Quod per hoc dixit NON AUTEM
AEQUIVOCE. Nec sola, si non sit, aequivocatio firma est ad constituendam
oppositionem. Multa enim sunt quae in Sophisticis Elenchis contra eos qui
argumentis fallacibus verae rationis viam conantur euertere determinavit, quemadmodum
faciendae essent propositiones et quemadmodum invenienda argumentatorum
fallacia. Quod hic ait: ET QUAECUMQUE CAETERA TALIUM DETERMINAMUS CONTRA
SOPHISTICAS IMPORTUNITATES, tamquam si diceret: dico quidem opponi affirmationi
negationem eiusdem praedicati de eodemque subiecto, non autem aequivoce: hoc et
quaecumque alia sunt, quae in sophisticis elenchis determinata sunt contra argumentatorum
importunitates. Et hic quidem, quoniam aliud negotium erat, commodissime
breviterque perstrinxit. Nos autem quid in sophisticis elenchis determinaverit
ad constituendam oppositionis contradictionem, quantum brevitas patitur, non
grauamur apponere. Non enim solum si aequivocatio in propositionibus collocetur
nulla fit contradictio, verum etiam si univocatio in negatione ponitur, illa
oppositio contradictionem penitus non habebit. Est enim oppositio habens
contradictionem, ƿ in qua affirmatio si vera est negatio falsa sit, si negatio
vera est fallax affirmatio videatur. Positis ergo secundum univocationem
terminis utrasque simul et affirmationem et negationem veras esse contingit, ut
si quis dicat: Homo ambulat Homo non ambulat affirmatio de quodam homine
vera est, negatio de speciali vera. Sed specialis homo et particularis univoca
sunt: quocirca sumptis univocis contradictio non fit. At vero nec si ad aliam
et aliam partem affirmatio negatioque ponatur, fit in ipsis ulla veri falsique
divisio sed utrasque veras esse contingit: cum dico: Oculus albus est Oculus
albus non est In alia enim parte albus est, in alia parte albus non est:
atque ita et negatio vera est et affirmatio. Nec si ad aliud atque aliud
referens dicat, ulla inde contradictio procreatur, ut cum dico: Decem dupli
sunt Decem dupli non sunt Nam si ad quinarium referam, vera est
affirmatio, si ad senarium, vera negatio. Nec si diversum tempus in
affirmatione ac negatione sumatur, ut cum dico: Socrates sedet Socrates non
sedet Alio enim tempore sumpto sedere veram facit affirmationem, alio
tempore non sedere veram negationem. Amplius quoque si diverso modo quis dicat
in negatione quod aliter in affirmatione proposuit, vim contradictionis
intercipit. Si quis enim dicat affirmationem potestate, negationem vero actu,
possunt et affirmatio et negatio uno tempore congruente veritate constitui: ut
si quis dicat: Catulus videt Catulus non videt Potestate enim videt, actu
non videt. Quocirca oportet fieri si facienda est ƿ contradictio EIUSDEM (ut
ipse ait) praedicati DE EODEM subiecto, non aequivoce, neque univoce, ad eandem
partem, ad idem relatum, ad idem tempus, eodem modo constitui. Quae omnia in
Sophisticis Elenchis diligentissime persecutus est. Nunc pauca commemorans
distulit in illius libri integram disputationem. Est autem enuntiatio de eo
quod est aliquid esse vel non esse: affirmatio quidem de eo quod est esse ut:
Plato philosophus est negatio vero de eo quod est non esse, ut: Plato
philosophus non est Haec utraque enuntiatio: Plato philosophus est Plato
philosophus non est sese perimentia et in contrarium quasi quodam locata
litigio faciunt contradictionem. Contradictio vero est oppositio affirmationis
et negationis, in qua neque ambas falsas neque ambas veras esse contingit sed
unam semper veram, alteram vero falsam. Si qua autem sunt huiusmodi, in quibus
verum falsumque affirmatio negatioque non dividat, in illis aliquid diversum et
non ad oppositionem integrum reperitur. Dicit autem Porphyrius argumentum esse
ad id quod dicimus affirmationem negationi ita oportere opponi, ut una vera
opposita in alteram mox falsitas veniat, communem inter nos consuetudinem
colloquendi. Quando enim quis aliquid esse dixerit, idem alius negarit, unum
ipsorum verum dicere, mentiri alium suspicamur. Amplius quoque si aliquid aut
est aut non est mediumque inter esse et non esse nihil poterit ƿ inveniri,
affirmatio autem ponit esse aliquid idemque aufert negatio et est contradictio
affirmatio et negatio oppositae, talis oppositio integram facit
contradictionem, in qua affirmatio et negatio utraeque verae esse non possint.
Affirmationis autem negationisque natura ad qualitatem quandam refertur.
Qualitas enim quaedam est affirmatio atque negatio. Praeter hanc vero
qualitatem est etiam quantitas propositionum, de qua posterius paulo dicendum
est. Sed volens Aristoteles quid esset contradictio nos docere, prius ubi esset
ostendit. In oppositione enim contradictionem omnem esse necesse est. Quare quoniam
contradictio in oppositione est, qualis autem oppositio hanc contradictionem
faciat, adhuc ignota est estque haec oppositio aut in qualitate propositionum
aut in quantitate aut in utroque et de qualitate propositionum, quae in
affirmatione et negatione consistit, dictum est: nunc de quantitate dicetur, ut
ea quoque cognita perspiciatur, in qualitate an in quantitate an in utroque
propositionum contradictio sit. QUONIAM AUTEM SUNT HAEC QUIDEM RERUM
UNIVERSALIA, ILLA VERO SINGILLATIM; DICO AUTEM UNIVERSALE QUOD IN PLURIBUS
NATUM EST PRAEDICARI, SINGULARE VERO QUOD NON, UT HOMO QUIDEM UNIVERSALE, PLATO
VERO EORUM QUAE SUNT SINGULARIA: NECESSE EST AUTEM ENUNTIARE QUONIAM INEST
ALIQUID AUT NON ALIQUOTIENS QUIDEM EORUM ALICUI QUAE SUNT UNIVERSALIA, ALIQUOTIENS
AUTEM EORUM QUAE SUNT SINGULARIA. Omnis propositio significationis suae
proprietates ex subiectis intellectibus capit. Sed quoniam necesse est
intellectus rerum esse similitudines, vis propositionum ad res quoque
continuatur. Atque ideo cum aliquid vel affirmare cupimus vel negare, hoc ad
intellectus et conceptionis animi qualitatem refertur. Quod enim imaginatione
intellectuque concipimus, id in affirmatione aut in negatione ponentes
affirmamus scilicet vel negamus. Et principaliter quidem ab intellegentia
propositiones vim capiunt et proprietatem, secundo vero loco ex rebus sumunt ex
quibus ipsos intellectus constare necesse est. Unde fit ut et quantitate
propositio et qualitate participet. Qualitate quidem in ipsa affirmationis et
negationis prolatione quam ex proprio quis iudicio emittit ac profert;
quantitate vero ex subiectis rebus quas capiunt intellectus. Videmus namque
alias esse in rebus huiusmodi qualitates, quae in alium convenire non possint
nisi in unam quamcumque singularem particularemque substantiam. Alia est enim
qualitas singularis, ut Platonis vel Socratis, alia est quae communicata cum
pluribus totam se singulis et omnibus praebet, ut est ipsa humanitas. Est enim
quaedam huiusmodi qualitas, quae et in singulis tota sit et in omnibus tota
quotienscumque enim aliquid tale animo speculamur; non in unam quamcumque
personam per nomen hoc mentis cogitatione deducimur sed in omnes eos quicumque
humanitatis definitione participant. Unde fit ƿ ut haec quidem sit communis
omnibus, illa vero prior incommunicabilis quidem cunctis, uni tamen propria.
Nam si nomen fingere liceret, illam singularem quandam qualitatem et
incommunicabilem alicui alii subsistentiae suo ficto nomine nuncuparem, ut
clarior fieret forma propositi. Age enim incommunicabilis Platonis illa
proprietas Platonitas appelletur. Eo enim modo qualitatem hanc Platonitatem
ficto vocabulo nuncupare possimus, quomodo hominis qualitatem dicimus
humanitatem. Haec ergo Platonitas solius unius est hominis et hoc non
cuiuslibet sed solius Platonis, humanitas vero et Platonis et caeterorum
quicumque hoc vocabulo continentur. Unde fit ut, quoniam Platonitas in unum
convenit Platonem, audientis animus Platonis vocabulum ad unam personam unamque
particularem substantiam referat; cum autem audit hominem, ad plures quosque
intellectum referat quoscumque humanitate contineri novit. Atque ideo quoniam
humanitas et omnibus hominibus communis est et in singulis tota est (aequaliter
enim cuncti homines retinent humanitatem sicut unus homo: si enim id ita non
esset, numquam specialis hominis definitio parti cularis hominis substantiae
conveniret): quoniam igitur haec ita sunt, idcirco homo quidem dicitur
universale quiddam, ipsa vero Platonitas et Plato particulare. His ergo ita
positis quoniam universalis illa qualitas et in omnibus potest et in singulis
praedicari, cum dicimus homo ambiguum est et dubitari potest utrum de speciali
dictum sit an de aliquo particulari, ƿ idcirco quod nomen hominis et de omnibus
dici potest et de singulis quibusque qui sub una humanitatis specie
continentur. Quare indefinitum est, utrum de omnibus dictum sit id quod diximus
homo an de una quaeumque individua hominis et particulari substantia hanc
igitur qualitatem humanitatis si ambiguitate in tellectus separare nitamur,
determinanda est et aut in pluralitatem distendenda aut in unitatem numeri
colligenda. Nam cum dicimus "Homo" indefinitum est utrum omnes
dicamus an unum, sin vero additum fuerit 'omnis', ut sit praedicatio
"Omnis homo" vel "Quidam", tunc fit distributio et
determinatio universalitatis et nomen quod universale est (id est 'homo')
universaliter proferimus dicentes "Omnis homo" aut particulariter
dicentes "Quidam homo". Omnis enim nomen universalitatis significativum
est. Quocirca si 'omnis' quod universale significat ad hominem quod idem ipsum
universale est adiungatur, res universalis quae est homo universaliter
praedicatur secundum id quod definitio ei adicitur quantitatis. Sin vero dictum
fuerit "Quidam homo" tunc universale quod est homo addita particularitate
per id quod ei adiectum est 'quidam' particulariter profertur et dicitur res
universalis prolata particulariter. Sed quoniam particularis est praedicatio
"Quidam homo", particularis rursus praedicatio Platonis (de uno enim
dicitur "Quidam homo" et de uno dicitur Plato), non eodem modo
utraeque particulares esse dicuntur. Plato enim unam ac definitam substantiam
proprietatemque demonstrat, quae convenire in alium non potest, quidam homo
vero quod dicitur particularitate quidem ipsum nomen universale ƿ determinat
sed si deesset 'quidam', id quod dicimus homo universale ac per hoc ambiguum
permaneret, quod vero dicimus Plato numquam esse poterit universale. Nam etsi
quando nomen hoc 'Plato' pluribus imponatur, non tamen idcirco erit hoc nomen
universale. Namque humanitas ex singulorum hominum collecta naturis in unam
quodammodo redigitur intellegentiam atque naturam, nomen vero hoc quod dicimus
Plato multis secundum vocabulum fortasse commune esse videretur, nulli tamen
illa Platonis proprietas conveniret, quae erat proprietatis aut naturae eius
Platonis qui fuit Socratis auditor, licet eodem vocabulo nuncuparetur. Hoc vero
ideo quoniam humanitas naturalis est, nomen vero proprium positionis. Nec hoc
nunc dicitur quod nomen de pluribus non potest praedicari sed proprietas
Platonis. Illa enim proprietas naturaliter de pluribus non dicitur, sicut
hominis, et ideo incommunicabilis (ut dictum est) qualitas est ipsa Platonitas,
communicabilis vero qualitas universalis quae et in pluribus et in singulis
est. Unde fit ut cum dico "Omnis homo" in numerum propositionem
tendam, cum vero dico Socrates aut Plato non in numerum emittam sed qualitatem
proprietatemque unius in suae individuae singularisque substantiae unitatem
constringam et praedicem. Quare in hoc quoque maxime hae duae particularitates
quidam homo et Plato distant, quod cum dico Plato quem hominem dixerim vocabulo
designavi proprietatemque uniuscuiusque quem nomino, cum vero dico ƿ quidam
homo, numerum tantum reieci et ad unitatem propositionem redegi, de quo autem
dicam haec particularitas mihi non subdidit. Quidam enim homo potest esse et
Socrates et Plato et Cicero et unusquisque singulorum quorum proprietates a se
in singularitatis ratione et natura diversae sunt. Unde commodissime
Theophrastus huiusmodi particulares propositiones, quales sunt: Quidam homo
iustus est particulares indefinitas vocavit. Partem namque tollit ex
homine quod est universale vel vocabulo vel natura, quae tamen ipsa sit pars et
qua proprietate descripta, non determinat nec definit. Unde universale vocavit
quod de pluribus naturaliter praedicatur, non quemadmodum nomen Alexandri de
Troiano et de Macedone Philippi filio et de pluribus dicitur. Hoc enim
positione de pluribus dicitur, illud natura. Et persubtiliter ait quod in
pluribus natum est praedicari. Est enim haec universalitas naturalis. Illam
vero nominis reique proprietatem quae particularis est singularem vocavit
dicens: PLATO VERO EORUM QUAE SUNT SINGULARIA. Quod autem secutus est dicens:
NECESSE EST AUTEM ENUNTIARE QUONIAM INEST ALIQUID AUT NON ALIQUOTIENS QUIDEM
EORUM ALICUI QUAE SUNT UNIVERSALIA, ALIQUOTIENS AUTEM EORUM QUAE SUNT
SINGULARIA, huiusmodi est tamquam si diceret: omnis quidem affirmatio et
negatio inesse aut non inesse demonstrat. Et quidquid enuntiatur aut de eo quod
est esse proponitur, ut: Plato philosophus est (haec enim propositio
Platoni philosophiam inesse constituit), aut de eo quod est ƿ non inesse, ut:
Plato philosophus non est (a Platone enim philosophiam dividens eidem
philosophiam non inesse proponit). Ergo quoniam necesse est aut aliquid alicui
inesse dicere aut aliquid alicui non inesse, illud quoque necesse est id cui
inesse aliquid dicimus aut universale esse (ut cum dicimus: Homo albus
est albedinem universali rei inesse monstramus id est homini) aut certe
particulare ac singulare, ut si quis dicat: Socrates albus est albedinem
enim Socrati singulari substantiae et proprietati incommunicabili inesse
signavit. Sed in singularibus sive affirmetur aliquid sive negetur unus
oppositionis modus est, qui vim contradictionis optineat. Nam quoniam singulare
atque individuum nulla sectione dividitur, secundum ipsum quoque facta
contradictio simplex erit. In his autem quae in universalibus fiunt non est
unus modus contradictionis. Nam cum dico Socrates homo est Socrates homo non
est sola huiusmodi oppositio, si omnia illa conveniant quae contra
argumentatorum importunitates supra iam dicta sunt, ad faciendam
contradictionem idonea reperitur. Sin vero tale aliquid subiectum sit de quo
aliquid praedicetur quod sit universale et in pluribus (ut ipse ait) natum sit
praedicari, non est simplex oppositio contradictionis. Sunt enim earum
propositionum quae de universalibus rebus fiunt tres differentiae: una quae
omnis complectitur, ut cum dico: Omnis homo animal est alia quae ex
indefinita multitudine et innumera pluralitate ad unum propositionis vim
colligit atque constringit. Haec huiusmodi est tamquam si quis dicat: Quidam
homo animal est Alia vero est quae neque in pluralitatem propositionem
tendit neque in particularitatem redigit, ut ea quae sine ulla determinatione
proponitur, ut est: Homo animal est Homo animal non est hic enim nec
'quidam', quod particularitatis, nec 'omnis', quod est universalitatis,
adiunximus. Unde fit ut singularitas simpliciter praedicetur, universalitas
vero aliquotiens universaliter, ut: Omnis homo animal est homo res
universalis universaliter praedicata est. Nam cum sit homo universalis, quod ei
adiectum est omnis universalitatem universaliter appellari fecit. Rursus est ut
universalitas particulariter praedicetur, ut cum dico Quidam homo animal
est 'quidam' particulare determinat sed iunctum ad hominem universalem
substantiam particulariter praedicari fecit. Est quoque universale non
universaliter praedicare, quotiens sine adiectione universalitatis vel
particularitatis simpliciter nomen universale ponitur, ut est: Homo animal
est Determinationes autem dicuntur quae rem universalem vel in totum
fundunt, ut 'omnis', vel in partem contrahunt, ut 'quidam'. 'Omnis' vero vel
'quidam' quantitatem propositionis determinant, quae quantitas iuncta cum
qualitate propositionum variatur quatuor modis (qualitas autem propositionum in
affirmatione et negatione est): aut enim universalem rem universaliter
praedicat affirmative, ut: Omnis homo animal est aut universalem rem
particulariter affirmative, ut: Quidam homo animal est aut universalem
rem universaliter negative, ut: Nullus homo lapis est aut universalem rem
particulariter negative, ut Quidam homo lapis non ƿ est Oportet autem in
his quae universali determinatione proponuntur in ipsis determinationibus fieri
negationem, ut quoniam determinatio universalis rei est universaliter, cum
dicimus: Omnis homo iustus est si universaliter negabimus, dicamus:
Nullus homo iustus est Et quod aio 'nullus' eam universalitatem quae est
omnis intercipit, non eam quae est homo. Rursus si idem ipsum: Omnis homo
iustus est negare particulariter velim, dicam: Non omnis homo iustus
est per particularem negationem universalitatis vim interimens. In
particularibus vero non item. Si enim eam quae est particularis determinatio
universalis rei, ut est: Quidam homo iustus est negare velim,
particulariter dicam: Quidam homo iustus non est Hoc autem idcirco fit,
quod habet quandam similitudinem atque ambiguitatem, utrum universaliter an sit
particulariter dictum, si in universalibus propositionibus negativae particulae
ad praedicationes potius quam ad terminationes ponantur. Si enim contra hanc
affirmationem quae est Omnis homo iustus est ponam hanc quae dicit: Omnis
homo iustus non est haec duas res significare videbitur: et quod nullus
homo iustus sit, omnem enim hominem iustum non esse proposuit, et quod sint
quidam homines non iusti, omnem enim hominem negavit iustum esse. Hoc autem
nihil impedit ut aliquis sit iniustus, aliquis iustus. Nam si est aliquis
iustus, non repugnat ne vera sit propositio quae dicit: Omnis homo iustus non
est Non est enim iustus omnis homo, si alii iusti sint, alii vero
iniusti. Quare quoniam duplicis significationis est, idcirco universalis
negationis definitio, quae est nullus, universalis affirmationis tollit determinationem,
quae est omnis. Atque ideo in particularibus negationibus ad ipsam
universalitatem affirmationum negatio necesse est apponatur, ut in eo quod est:
Omnis homo iustus est illa est ei opposita negatio quae est: Non omnis
homo iustus est non illa quae est: Omnis homo iustus non est ne sit
ambiguum utrum universaliter an particulariter neget. Dictum est enim hanc
negationem quae est: Omnis homo iustus non est et universalitatis
interemptionem designare et particularitatis propositionem. Quotiens vero
particulare aliquid tollitur, in his non iam ad determinationem sed ad
praedicatum particula negationis apponitur, ut in eo quod est: Quidam homo
iustus est nullus dicit: Non quidam homo iustus est Neque enim hic
ad determinationem particularem, quod est 'quidam', negatio ponitur sed
dicimus: Quidam homo iustus non est scilicet ad praedicatum quod est
iustus. Unde etiam ad indeterminatas propositiones, quae sunt sine 'omnis' aut
'nullius' aut 'alicuius' determinatione, ad praedicatum semper apponitur
particula negativa, ut est: Homo iustus est Nemo enim dicit: Non homo
iustus est sed: Homo iustus non est In singularibus quoque non
dico: Non Socrates iustus est sed: Socrates iustus non est Et nisi
aliquotiens ambiguitas impediret, ad praedicatum semper negatio poneretur. Sed
omnia quaecumque in determinatione ponuntur talia sunt, quae aut totum
colligant in affirmativo, ut est 'omnis', aut totum perimant in negativo, ut
est 'nullus', aut colligant in affirmativo partem, ut est 'quidam', aut
interimant in negativo partem, ut 'quidam non', aut in negativo perimant totum
particulariter, ut est 'non omnis'. Sed 'quidam non' et 'non omnis'
particulares negationes sunt. Sive ƿ enim quis partem ex toto subripiat,
particulare est quod relinquit, quia a totius perfectione discessit, sive quis
totum esse neget, partem relinquat, rursus particulare est quod fit reliquum.
Nam cum dico: Quidam homo iustus non est abstuli partem, et rursus cum
dico: Non omnis homo iustus est cum negavi omnem, aliquem qui iustus non
esset ostendi. Haec igitur, 'omnis' et 'quidam', determinationes planissimae
sunt et communi intellegentiae subiectae. Has duae particulares respiciunt
negationes, ut ea quae est quidam non determinationem particularem negat, ea
vero quae est non omnis universalem negat determinationem sed utraque
negationem (ut dictum est) in particularitatem constringunt. Quod autem dicimus
'nullus' proprium quoddam videtur esse vocabulum. 'Non omnis' enim quod dicitur
omnem per adverbium negativum quod est 'non' adimit. Rursus cum dicimus 'quidam
non', ei quod est 'quidam' adverbium quod est 'non' additum a subiecto termino
particulare separat. 'Nullus' vero quid separet in vocabulo ipso non
monstrat et videtur quodammodo non potius esse negatio quam affirmatio. Neque
enim adverbium est nec coniunctio. Adverbium namque atque coniunctio
declinationibus carent, nullus vero quod dicimus et generibus subiacet et
inflectitur casibus. Quid igitur est? An erit nomen? Sed nulla negatio nomen
esse monstratur. Quid sit ergo tali investigatione quaerendum est. Videtur enim
quod dicitur 'nullus' tale esse tamquam si dicamus nec ƿ unus. Nam qui dicit:
Nullus homo animal est tantundem valet quantum nec unus homo animal est.
Quod vero dicimus 'ullus' hoc ab eo derivatum est quod est unus. Diminutio
namque unius ullus est tamquam si diceremus unulus. Ergo plus negat quisquis
etiam diminutionem negat, ut si quis dicat non modo non habet gemmam, quod maius
est, verum etiam nec gemmulam, quod est minus. Sic ergo qui negare uult etiam
unum plus negat si dicat nec ipsum unius diminutivum illud esse quod dicitur:
ut si quis velit dicere nec unum esse hominem in theatro, ita dicat: non modo
illic unus homo non est, verum nec ullus. Cum ergo dicimus 'nullus' ita
proponimus tamquam si dicamus 'nec ullus'. Tenet igitur haec in se
determinatio, quae est 'nullus', vicem negationis et nominis. Negationis quidem
in eo quod est nec, nominis vero in eo quod est ullus, quod est diminutivum
unius. Ita igitur maxima fit negatio rei paruissimae quod est unus, si ipsius
diminutivum quoque subtrahat, quod est ullus. Quare et omnem et quendam statim
tollit negatio, quae unius quoque ipsius diminutivum praedicatione subducit, ut
ea quae est: Nullus homo iustus est Hoc enim tantum est, tamquam si dicat
"Non ullus homo iustus est", hoc idem valet tamquam si dicatur
"Nec unus homo iustus est". Quare quoniam de his sufficienter est
dictum, ad Aristotelis verba consequenti ordine veniamus. SI ERGO UNIVERSALITER
ENUNTIET IN UNIVERSALI QUONIAM EST AUT NON, ERUNT CONTRARIAE ENUNTIATIONES.
DICO AUTEM IN UNIVERSALI ENUNTIATIONEM ƿ UNIVERSALEM, UT OMNIS HOMO ALBUS EST,
NULLUS HOMO ALBUS EST. Demonstrare oppositionem contradictionis intendit. Sed
quoniam viam reperiendae ordinemque permiscuit, idcirco nos pauca quaedam prius
ordinata expositione praedicimus, ne lector confusionis caligine atque
obscuritate turbetur. Omnium propositionum quae sunt simplices, quas
categoricas Graeci vocant, nos praedicativas dicere possumus, quatuor sunt
diversitates: aut enim est affirmatio et negatio universalis, ut est: Omnis
homo iustus est Nullus homo iustus est aut affirmatio et negatio
particularis, ut est: Quidam homo iustus est Quidam homo iustus non est
aut affirmatio et negatio indefinita, ut: Homo iustus est Homo iustus non
est aut de singulari subiecto affirmatio et negatio, ut: Cato iustus est
Cato iustus non est Harum vero inter se veritas falsitasque non se habet
similiter sed diverse. Et prius de universalibus atque particularibus id est de
his quae determinatae sunt dicendum est, post de reliquis disputabitur. Disponantur
igitur affirmatio universalis quae est: Omnis homo iustus est et contra
hanc negatio universalis quae est: Nullus homo iustus est sub his autem,
sub affirmatione quidem universali particularis affirmatio quae est: Quidam
homo iustus est sub universali negatione particularis negatio quae est:
Quidam homo iustus non est Hoc autem monstrat subiecta descriptio: Omnis
homo iustus est Nullus homo iustus est Quidam homo iustus est Quidam homo
iustus non est. Hae igitur duae universalis affirmatio et particularis
affirmatio dicuntur subalternae, rursus universalis negatio ƿ et particularis
negatio dicuntur subalternae, idcirco quoniam particularitas semper sub
universalitate concluditur. In quibus illud est considerandum, quod ubi est
affirmatio universalis vera affirmatio quoque particularis vera est et ubi
negatio universalis vera est particularis quoque vera est. Nam si vera est:
Omnis homo animal est vera est: Quidam homo animal est Et si vera
est quoniam Nullus homo lapis est vera quoniam Quidam homo lapis non
est At si falsa sit particularis affirmatio, ut ea quae est: Quidam homo
lapis est falsa est universalis affirmatio: Omnis homo lapis est
Idem in negatione. Si enim negatio particularis falsa est, ut: Quidam homo
animal non est falsa est universalis: Nullus homo animal est Ita ut
praecedunt universales in vero, eodem modo praecedunt particulares in falso.
Dicuntur vero affirmatio universalis et negatio universalis contrariae. Hoc
autem idcirco quoniam contrariorum huiusmodi natura est, ut longissime a se
distent, et si aliquam inter se habeant medietatem, non semper alterum ipsorum
subiecto insit, ut album et nigrum: non possumus dicere quoniam omne corpus aut
album aut nigrum est. Potest enim nec album esse nec nigrum et utrumque falsum
esse quod dicitur, idcirco quoniam est medius color. Quod si non habent
medietatem, alterum ipsorum necesse est inhaerere subiecto, ut cum dicimus omne
corpus aut quietum est aut movetur, horum nihil est medium et necesse est omne,
corpus vel consistere vel moveri. Ut autem simul in eodem possint esse
contraria fieri non potest. Neque enim possibile est ut idem album nigrumque
sit. Quod in affirmationibus et negationibus universalibus apparet. ƿ Negativa
enim et affirmativa universalis plurimum quidem a se distant. Nam quod illa
ponit omnibus, illa omnibus tollit et totum negat. Namque dicit: Omnis homo
iustus est omnem hominem ponit, quae dicit: Nullus homo iustus est
nihil eorum quae in humanitatis definitione sunt iustum esse concedit. Ita ergo
a se longissime discrepant. Ad hoc si ea quae significant habent inter se
aliquam medietatem, unam veram, unam falsam esse non est necesse, ut in eo quod
est: Omnis homo iustus est Nullus homo iustus est quoniam potest quaedam
esse medietas, ut: Nec nullus homo iustus sit (cum sit quidam); Nec omnis
homo iustus sit (cum non sit quidam), et possunt utraeque falsae et
affirmatio et negatio reperiri. Neque enim verum est aut omnem hominem esse
iustum aut nullum hominem esse iustum. Quocirca potest fieri ut in his in
quibus aliqua medietas invenitur universalis affirmatio et universalis negatio
veritatem falsitatemque non dividant sed utraeque sint falsae, ad exemplum
scilicet contrariorum quae aliquam inter se continent medietatem. Potest enim
in illis fieri ut utraque contraria possint non inesse subiecto, sicut supra
monstravimus. In his vero quae medietate carent necesse est una vera sit semper,
altera semper falsa, ut in eo quod est: Omnis homo animal est Nullus homo
animal est Hae propositiones huiusmodi sunt, ut una vera sit, una falsa,
idcirco quoniam inter animal esse et non esse nihil interest, ad eorum scilicet
contrariorum similitudinem quae medietate carent. In illis ƿ enim necesse erat
alterum inesse subiecto. Sic ergo universalis affirmatio et universalis negatio
utraeque falsae esse possunt, ut vero una vera sit, altera falsa, id quoque
conceditur: ut utraeque sint verae fieri non potest, sicut illud quoque verum
est contraria simul esse non posse. Rectissime igitur universalis affirmatio
universalisque negatio contrariae nominantur.Particularis autem affirmatio quae
est: Quidam homo iustus est et particularis negatio quae est: Quidam homo
iustus non est universalibus et contrariis contrarias proprietates
habent. Illae enim simul verae esse non poterant, ut vero essent simul falsae
saepe nulla ratione uetabatur. Particulares vero ut utraeque verae sint evenire
potest, ut utraeque falsae sint fieri non potest: ut in eo quod est: Quidam
homo iustus est verum est, Quidam homo iustus non est id quoque
verum est; ut utraeque falsae sint inveniri non potest. Et hoc quidem sunt
contrariis dissimiles. Similes autem eisdem videntur quod sicut contrariae
aliquotiens verum falsumque dividunt, ut una vera sit, altera falsa, ita quoque
et particulares una vera potest esse, altera falsa, ut: Quidam homo animal est
Quidam homo animal non est Servant autem stabilem incommutabilemque ordinem
et similitudinis et contrarietatis. Contrariae enim quoniam possunt esse
utraeque falsae, in quibuscumque utraeque falsae contrariae reperiuntur, in his
subcontrariae utraeque verae sunt. Sed quoniam utraeque contrariae verae
inveniri non possunt, ideo utraeque subcontrariae falsse nequeunt reperiri, ut
in eo quod est: Omnis homo iustus est ƿNullus homo iustus est Quoniam hae
falsae sunt, hae quas sub se continent particulares verae sunt, ut est: Quidam
homo iustus estQuidam homo iustus non est Sed si universales inter se
verum falsumque dividunt et una vera est, altera falsa, particulares quoque
idem facient, ut in eo quod est: Omnis homo animal est Nullus homo animal
est universalis affirmatio vera est, falsa negatio. Sed cum dico: Quidam
homo animal est Quidam homo animal non est particularis affirmatio vera
est, falsa negatio particularis. Hae igitur dicuntur subcontrariae, vel quod
sunt sub contrariis positae vel quod ipsae superioribus sub quibus sunt
contrarias (ut dictum est) proprietates habent. In hac igitur recta oppositione
contrariarum et subcontrariarum in superioribus utrisque falsitas esse potest,
numquam veritas; in inferioribus vero utrisque quidem veritas inesse potest,
numquam falsitas. Sin vero quis respiciat angulares et universalem affirmationem
particulari opponat negationi universalemque negationem particulari comparet
affirmationi, una vera semper, falsa altera reperietur nec umquam fieri potest,
ut affirmatione universali vera particularis negatio non falsa sit vel hac vera
non illam falsitas continuo subsequatur. Rursus si negatio universalis vera
est, falsa particularis affirmatio; si particularis affirmatio vera, falsa
universalis negatio. Licet autem hoc et in subiecta descriptione metiri et in
aliis quoque terminis quoscumque sibi mens considerantis affinxerit idem
videbit. Nam in eo quod est: Omnis homo iustus est quoniam haec falsa
est, vera est: Quidam homo iustus non est et rursus in eo quod est:
Nullus homo iustus ƿ est falsa negatione vera est affirmatio: Quidam homo
iustus est Hae autem universalis affirmatio et particularis negatio quae
sunt angulares et universalis negatio et particularis affirmatio quae ipsae
quoque sunt angulares contradictoriae nominantur. Et haec illa est quam quaerit
contradictio, in qua una semper vera sit, altera semper falsa. Superioris autem
disputationis integrum descriptionis subdidimus exemplar quatenus quod animo
cogitationeque conceptum est oculis expositum memoriae tenacius infigatur. His
ergo ita sese habentibus indefinitas propositiones singularesque videamus. Et
primum de indefinitis disputandum est. Indefinitae igitur per se veritatem ƿ
falsitatemque non dividunt. Etenim cum dico: Homo iustus est Homo iustus non
est utrasque veras esse contingit indefinitas. Quocirca eas a
contradictione separamus: contradictio enim constituitur (ut saepe dictum est)
eo quod numquam utraeque verae aut utraeque falsae reperiri queant sed una
semper veritatis, altera falsitatis capax est. Sed quae universalitatem
proferunt indefinitam, illae definitarum particularium vim tenent. Tale est
enim quod dico homo iustus est, tamquam si dicam Quidam homo iustus est
et rursus tale est quod dico: Homo iustus non est tamquam si dicam:
Quidam homo iustus non est Hoc illa res approbat, quod quemadmodum
definitae et particulares in aliquibus verae esse possunt, in aliquibus falsum
verumque dividunt, numquam vero utrasque falsas esse contingit, ita quoque in
indefinitis universale significantibus utrasque simul veras esse contingit, ut
in eo quod dicimus: Homo iustus estHomo iustus non est utrasque falsas
proferre impossibile est sed unam veram, alteram falsam in his facillime
reperimus, in his scilicet terminis qui naturaliter et necessario subiectis
substantiis inhaerescunt vel his inesse non possunt: ut quoniam animal homini
ex necessitate inest, si quis dicat: Homo animal est idque negetur: Homo
animal non est vel: Homo lapis est Homo lapis non est una vera
statim falsa altera reperitur. Atque ideo hae contra universales universaliter
praedicatas faciunt contradictionem. Nam si contra illam quae est: Omnis homo
iustus est ea quae est: Homo iustus non est in oppositione
constituatur, una semper vera est, altera falsa; et si contra eam quae est:
Nullus homo iustus est indefinita propositio ƿ quae est homo iustus est
opponatur, verum inter se propositiones falsumque distribuunt, sicut definitae
quoque universalium propositiones secundum particulares atque universales
oppositae quantitates contradictorias faciunt oppositiones. Quare constat eas
quae universale non universaliter proferunt et sunt indefinitae neque
particulare neque universale proferentes ipsas quidem non semper inter se verum
falsumque dividere, particularibus tamen definitis esse consimiles. Singulares
vero quae sunt unum oppositionis inter se modum tenent: has si ad idem
subiectum, ad idem praedicatum, ad eandem partem, ad idem tempus, ad eandem
relationem, eodem modo proposueris, inter se verum falsumque distribuunt, ut
est: Socrates iustus est Socrates iustus non est Sunt igitur duae contradictiones:
una quae fit in universalibus angulariter particularibus contra positis, altera
quae fit in singularibus cum omnibus his quas in Sophisticis Elenchis exposuit
determinationibus opposita. Quare quoniam quemadmodum se habeant propositiones
quoque modo faciant contradictorias oppositiones ostendimus, ad ipsa
Aristotelis verba veniamus, in quibus per haec ante praecognita facilis poterit
evenire cognitio. SI ERGO UNIVERSALITER ENUNTIET IN UNIVERSALI QUONIAM EST AUT
NON, ERUNT CONTRARIAE ENUNTIATIONES. DICO AUTEM IN UNIVERSALI ENUNTIATIONEM
UNIVERSALEM, UT OMNIS HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST. Superioris
descriptionis intellegentiam plenius notat. Ait enim: quando res universalis
universaliter designatur ƿ et eam quis universaliter affirmat, si eandem alter
universaliter neget, ita sibimet comparatas propositiones esse contrarias.
Atque in hoc suam sententiam manifestius ostendit. Ait enim DICO AUTEM
UNIVERSALEM ENUNTIATIONEM IN UNIVERSALI, UT OMNIS HOMO ALBUS EST. Nam cum
universalis sit homo, in universali homine universalis est enuntiatio, per quam
dicitur omnis homo. Res ergo universalis (id est homo) per 'omnis' quae est
determinatio universaliter praedicata est et hoc affirmative. Negative vero
universaliter ita dicetur: Nullus homo albus est 'nullus' enim
universalitas universalitati quae est homo adiecta est. Hoc modo igitur in
universali universaliter enuntiantes affirmatio et negatio contrariae sunt,
sicut et ipse testatur et nos in superiore expositione digessimus. QUANDO AUTEM
IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER, NON SUNT CONTRARIAE, QUAE AUTEM
SIGNIFICANTUR EST ESSE CONTRARIA. DICO AUTEM NON UNIVERSALITER ENUNTIARE IN HIS
QUAE SUNT UNIVERSALIA, UT EST ALBUS HOMO, NON EST ALBUS HOMO. CUM ENIM
UNIVERSALE SIT HOMO, NON UNIVERSALITER UTITUR ENUNTIATIONE. OMNIS NAMQUE NON
UNIVERSALE SED QUONIAM UNIVERSALITER CONSIGNIFICAT. Volenti indefinitam
propositionem qualis esset ostendere non modo auferenda fuit ab universali
termino universalis determinatio, verum etiam particularis et oportuit dici hoc
modo: quando autem in universalibus non universaliter neque particulariter, non
sunt contrariae. Nunc autem quoniam ƿ non addidit particulariter, videtur non
de indefinitis, in quibus neque universalitas neque particularitas adest sed
tantum de particularibus loqui, a quibus solum universale non etiam particulare
subtraxit. Sed quid velit ostendere ipse convenientibus exemplis edocuit. Non
enim posuit exempla particularis propositionis sed indefinitae. Ait enim DICO
AUTEM NON UNIVERSALITER ENUNTIARE IN HIS QUAE SUNT UNIVERSALIA, UT EST ALBUS
HOMO, NON EST ALBUS HOMO. Quod si particularem monstrare voluisset, ita
diceret: ut est: Quidam homo albusNon est quidam homo albus Sed quoniam
per exemplum quid vellet ostendit, nos quoque superiori propositioni quae est:
quando autem in universalibus non universaliter, deesse putemus aut
particulariter, ut et particularitatem et universalitatem ex tota auferat
dictione ut post exempla docuerunt non eum loqui de particulari sed de
indefinita. Quare hoc dicit: at si neque universales sint propositiones neque
particulares, quod subaudiendum est, illae non sunt contrariae. Sunt enim
contrariae quae universaliter universalem terminum proponunt, indefinitae vero
ad universalem terminum universalem terminationem non habent. Idcirco autem ab
indefinitis universalitatem solam et non particularitatem quoque seiunxit, quod
indefinitas propositiones a contrariis solum, non etiam a particularibus
segregabat. Quod autem dico tale est: si vellet ostendere indefinitas
propositiones proprie, neque particulares esse neque universales diceret. Quae
ƿ autem in universali neque universaliter neque particulariter proponuntur, id
est quae neque universales sunt neque particulares, indefinitae sunt. Nam quae
neque universales sunt neque particulares, hae neque contrariae sunt neque
subcontrariae. Subcontrariae quidem idcirco non sunt, quia non habent additam
particularem determinationem; idcirco vero contrariae non sunt, quia
determinatio universalis in his non est. Nunc autem cum tantum vellet ostendere
eas contrarias non esse, de subcontrariis vero in praesenti vellet omittere,
has esse indefinitas quae universale determinatum universaliter non haberent
dixit, ut scilicet has non esse contrarias intellegeremus. Idcirco vero non
adiecit particularitatem eas non habere, quoniam a solis contrariis separare
indefinitas volebat, non etiam a subcontrariis. Ergo si indefinitas a
contrariis et subcontrariis separare voluisset, ita diceret: QUANDO AUTEM IN
UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER nec particulariter, NON SUNT CONTRARIAE neque
subcontrariae. Sed quoniam non eas volebat nunc non esse subcontrarias demonstrare
sed tantum non esse contrarias, idcirco ei dicto quod est QUANDO AUTEM IN
UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER non addidit vel particulariter. Hoc enim si
addidisset, ad subcontrarias tenderet, de quibus nihil est additum. Quare hoc
dicit: hae quae indefinitae sunt, quoniam non habent universalitatem,
contrariae non sunt. Sed cum per se quidem contrariae non sint, possunt tamen
quaedam significare contraria. Hoc quid sit multipliciter expositorum
sententiis expeditur. Herminus namque dicit idcirco indefinitas posse aliquando
significare ƿ contraria, cum ipsae careant contrarietate, quippe quae
universalium rerum sunt, additum tamen universale non habent, in solis his
quibus ea quae affirmantur aut negantur subiecto naturaliter insunt: ut cum
dicimus: Homo rationalis est Homo rationalis non est quoniam rationalitas
huiusmodi est quae in natura sit hominis, affirmatio et negatio inter se verum
falsumque dividunt et quaedam quodammodo ab his contraria designantur. Sed
nihil hoc attinet ad contraria significanda in his quae sunt indefinitae. Nam
etiam particulares ipsae quoque in talibus verum falsumque dividunt, ut est:
Quidam homo rationalis est Quidam homo rationalis non est Has ergo
secundum Herminum videmus posse significare contraria. Cur ergo in his quoque
dixit quoniam contrariae quidem non sunt, QUAE AUTEM SIGNIFICANTUR EST ESSE
CONTRARIA? Alexander autem hoc dicit: quoniam indefinitae sunt hae, nihil eas,
inquit, prohibet sicut ad particulares ita quoque ad universales reducere, quae
videntur esse contrariae, ut in eo quod est homo animal est, homo animal non
est, quoniam hae propositiones indefinitae sunt, possunt accipi et quasi
contrariae. Nam si dicimus homo animal est, potest ita accipi tamquam si
dicamus omnis homo animal est, et rursus homo animal non est ita audiri potest
tamquam si dicatur nullus homo animal est. Cum autem dicitur: Homo ambulat Homo
non ambulat non ad contrarias sed ad subcontrarias mens ducitur
auditoris. ƿ Quocirca possunt indefinitae aliquando significare contraria,
quoniam eo ipso quod sunt indefinitae nihil eas prohibet ad contrariorum
significationem universaliumque reduci. Et haec quidem sententia habet aliquid
rationis, non tamen integre id quod ab Aristotele dicitur ostendit. Et meliorem
sententiam sponte reiecit, quam post Porphyrius approbavit. Sunt enim quaedam
negationes quae intra se affirmationis eius quam negant retineant
contrarietatem, ut in eo quod est: Sanus est Non est sanus id quod
dicitur -- "Non est sanus" -- significat "Aeger est", quod
est contrarium sano esse. Rursus cum dicimus: Homo albus est si contra
hanc negemus per eam quae dicit: Homo albus non est significare poterit
quoniam homo niger est (nam qui niger est albus non est) sed nigrum esse et
album esse contrarium est. Quare significant quaedam negationes
affirmationesque contraria sed hoc non semper. Nam in eo quod est: Homo ambulat
Homo non ambulat nullum contrarium continetur. Ambulationi enim nihil est
contrarium. Atque ideo dicit has quidem contrarias non esse, idcirco quod cum
sint universales non universaliter enuntientur, posse autem aliquotiens
contraria significare, cum intra negationem contrarium affirmationis
includitur. Aspasius vero et Alexandri et hanc posteriorem probavit. Nos vero
dicimus non quidem Alexandri sententiam abhorrere ratione sed hanc esse
meliorem. ƿ Nam quod ait QUANDO AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER, NON
SUNT CONTRARIAE, QUAE AUTEM SIGNIFICANTUR EST ESSE CONTRARIA, ab Alexandro non
est expositum sed tantum dictum quando possint esse propositiones ipsae
contrariae. A Porphyrio vero expositum diligenter est quando ea quae
significantur possint esse contraria, quod ipse Aristotelis textus expressit.
Quamquam Alexander quoque eandem quam Porphyrius posuit viderit expositionem,
eam tamen ut dictum est sponte reiecit et sibi huius expositionis confirmavit
sententiam displicere. Mihi vero aut utraeque recipiendae expositiones videntur
aut melior iudicanda posterior. Hoc enim ipse quoque Aristoteles quodammodo
subter ostendit cum dicit: SIMUL ENIM VERUM EST DICERE QUONIAM EST HOMO ALBUS
ET NON EST HOMO ALBUS, ET EST HOMO PROBUS ET NON EST HOMO PROBUS. SI ENIM
TURPIS, ET NON PROBUS; ET SI FIT ALIQUID, ET NON EST. Cuius quidem loci quae
sit expositio, cum ad id venerimus, demonstrabimus. Cognoscendum autem est et
memoria retinendum, quod quaecumque propositiones universales universaliter
fuerint praedicatae, si hae affirmativae, illae vero sint negativae, semper
utrasque esse contrarias, si nihil aequivocationis aut temporis aut aliorum quae
supra determinata sunt ad faciendam oppositionem contrarietatis impediat. Non
tamen omnes quaecumque contrariae sunt, hae aut in universalibus universaliter
ponunt enuntiationem aut una affirmativa est, altera negativa, ut in eo quod
est: Socrates sanus est Socrates aeger est Hic enim neque in universali
universalitas posita est neque ƿ rursus una est affirmatio, altera vero negatio
sed sunt contrariae propositiones. Contraria enim sunt quae significant
quocirca rectissime dictum est, quod quaecumque in universalibus rebus
universaliter enuntiarent, si una earum esset affirmativa, altera negativa,
statim naturaliter essent contrariae: quae autem contrariae essent, non necesse
esse eas vel universale universaliter enuntiare vel unam esse affirmativam,
alteram negativam sed aliquotiens quidem posse has esse contrarias, quae
universale in universalibus non significarent sed hoc in his tantum quae essent
in subiecto de quo fit affirmatio naturaliter, ut in eo quod est animal et
homo. Cum dicimus: Homo animal est quoniam inest in natura hominis
animal, idcirco haec affirmans illa negans videntur esse contraria, quamquam
illic nulla determinatio neque particularitatis neque universalitatis addatur. IN
EO VERO, QUOD PRAEDICATUR UNIVERSALE, UNIVERSALE PRAEDICARE UNIVERSALITER NON
EST VERUM; NULLA ENIM AFFIRMATIO ERIT, IN QUA DE UNIVERSALI PRAEDICATO
UNIVERSALE PRAEDICETUR, UT OMNIS HOMO OMNE ANIMAL EST. Quod dicit huiusmodi
est: omnis propositio simplex duobus terminis constat. His saepe additur aut
universalitatis aut particularitatis determinatio. Sed ad ƿ quam partem hae
determinationes addantur exponit videtur enim Aristoteli praedicato termino
terminationem non oportere coniungi. In hac enim propositione quae est: Homo
animal est quaeritur, subiectumne debeat cum determinatione dici, ut sit:
Omnis homo animal est an praedicatum, ut sit: Homo omne animal est
an utrumque, ut sit: Omnis homo omne animal est Sed neutrum eorum quae
posterius dicta sunt fieri oportet. Namque ad praedicatum numquam determinatio
iungitur sed tantum ad subiectum. Neque enim verum est dicere: Omne animal
omnis homo est idcirco quoniam omnis praedicatio aut maior est subiecto
aut aequalis ut in eo quod dicimus omnis homo animal est plus est animal quam
homo, et rursus in eo quod dicimus homo risibilis est risibile aequatur homini,
ut autem minus sit praedicatum atque angustius subiecto fieri non potest. Ergo
in his praedicatis quae subiecto maiora sunt, ut in eo quod est animal,
perspicue falsa propositio est, si determinatio universalitatis ad praedicatum
terminum ponitur. Nam si dicamus: Homo omne animal est animal quod maius
est homine per hanc determinationem ad subiectum hominem usque contrahimus, cum
non solum ad hominem sed ad alia quoque nomen animalis possit aptari. Rursus in
his quae aequalia sunt idem evenit. Nam si dico: Omnis homo omne risibile
est primum si ad humanitatem ipsam referam superfluum est adicere
determinationem; quod si ad singulos quosque homines, falsa est propositio. Nam
cum dico: Omnis homo omne risibile est hoc videor significare: ƿ singuli
homines omne risibile sunt, quod fieri non potest. Non igitur ad praedicatum
sed ad subiectum ponenda determinatio est. Verba autem Aristotelis hoc modo
sunt et ad hanc sententiam dicuntur: in his praedicatis quae sunt universalia
his adicere universale aliquid, ut universale praedicatum universaliter
praedicetur, non est verum. Hoc enim est quod ait: IN EO VERO QUOD PRAEDICATUR
UNIVERSALE, id est quod habet praedicatum universale, ipsum UNIVERSALE
PRAEDICARE UNIVERSALITER NON EST VERUM. In praedicato enim universali, id est
quod universale est et praedicatur, id ipsum praedicatum, quod universale est,
universaliter praedicare, id est adiecta determinatione universalitatis, non
est verum. Neque enim potest fieri ut ulla sit affirmatio in qua de universali
praedicato universalis determinatio praedicetur. Eiusque rei notionem exemplo
aperit dicens, ut: Omnis homo omne animal Hoc autem quam sit inconveniens
supra iam diximus. OPPONI AUTEM AFFIRMATIONEM NEGATIONI DICO CONTRADICTORIE,
QUAE UNIVERSALE SIGNIFICAT EIDEM, QUONIAM NON UNIVERSALITER, UT: OMNIS HOMO
ALBUS EST, NON OMNIS HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO
ALBUS; CONTRARIE VERO UNIVERSALEM AFFIRMATIONEM ET UNIVERSALEM NEGATIONEM, UT:
OMNIS HOMO IUSTUS EST, NULLUS HOMO IUSTUS EST. QUOCIRCA HAS QUIDEM IMPOSSIBILE
EST SIMUL VERAS ESSE, HIS VERO OPPOSITAS CONTINGIT IN EODEM, UT: NON OMNIS HOMO
ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS. Quae sit integra contradictio his verbis
ostendit. Ait enim illam esse oppositionem contradictoriam, quaecumque dicit
non esse universaliter rem universalem anutra eam quae rem universalem
universaliter proponit. Atque hoc est quod ait: OPPONI AUTEM AFFIRMATIONEM
NEGATIONI DICO CONTRADICTORIE QUAE UNIVERSALE SIGNIFICAT EIDEM, QUONIAM NON
UNIVERSALITER, ut ei quae est: Omnis homo iustus est opponitur ea quae
universale significat non tamen universaliter, ut ea quae est: Quidam homo
iustus non est Hominem enim universalem significat non universaliter, ut
cum dicit: Non omnis homo iustus est Haec est contradictoria oppositio,
ut si sit universalis affirmatio, sit particularis negatio, si sit universalis
negatio, sit particularis affirmatio. Angulares enim (ut dictum est) solae
faciunt contradictionem. Verba igitur se obscure habent sed sententia manifesta
est. Dicit enim eam opponi contradictorie affirmationem negationi vel
negationem affirmationi, quaecumque id, quod res altera universale
universaliter significaret idem significaret non universaliter quod esset
universale, ut in his quas supra diximus: ut haec quae est: Omnis homo iustus
est rem universalem universaliter significavit; illa quae est: Non omnis
homo iustus est eidem affirmationi opposita de homine universali non
universaliter negavit dicens: Non omnis homo iustus est Rursus ea quae
dicit: Nullus homo iustus est ƿrem universalem universaliter negavit
dicens 'nullus'; ea vero quae dicit: Quidam homo iustus est rem
universalem particulariter affirmavit et non universaliter. Hominem enim
quendam iustum esse proposuit sed non hominem universaliter enuntiavit rem
universalem. Persequitur ergo proprietates omnes propositionum. Ait enim:
CONTRARIE VERO UNIVERSALEM AFFIRMATIONEM ET UNIVERSALEM NEGATIONEM. Sicut enim
supra dixit eas quae universaliter universale significarent vel in affirmatione
vel in negatione esse contrarias, ita nunc quoque idem repetit contrarias esse
dicens universalem affirmationem universalemque negationem. Earumque ponit exempla,
quae utrasque universales monstrarent, UT: OMNIS HOMO IUSTUS EST NULLUS HOMO
IUSTUS EST Harum autem quae proprietas esset proposuit dicens: huiusmodi
propositiones impossibile esse utrasque sibi in veritate inuicem consentire,
quae autem his essent oppositae contingere utrasque veras esse. Sunt autem
oppositae his utraeque particulares: universali enim affirmationi particularis
negatio opponitur et universali negationi particularis affirmatio opposita est.
Quocirca hae duae particularis affirmatio et particularis negatio, quae
oppositae sunt affirmationi et negationi universalibus angulariter, hae possunt
aliquando esse verae. Et in eodem, ut in eo quod est: Quidam homo iustus est
Quidam homo iustus non est Sed: Quidam homo iustus est opposita est
ei quae est: Nullus homo iustus est illa vero quae est: Quidam homo
iustus non est opposita est ei quae est: Omnis homo iustus est Sed
utraeque inter se, id est: Quidam homo iustus est et: ƿ Quidam homo
iustus non est in veritate consentiunt. Hoc est ergo quod ait: HIS VERO
OPPOSITAS CONTINGIT IN EODEM easque designat exemplis, UT NON OMNIS HOMO ALBUS
EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS. Positis ergo duabus propositionibus, affirmatione
universali et universali negatione, ars danda est, quatenus earum inveniantur
opposita. Opposita autem dico contradictorie, non contrarie neque ullo alio
modo. Sit enim haec affirmatio: Omnis homo iustus est et haec negatio:
Nullus homo iustus est Contra affirmationem quae est: Omnis homo iustus
est videntur ergo esse negationes hae -- una: Nullus homo iustus
est altera: Quidam homo iustus non est altera: Non omnis homo
iustus est et postrema indefinita: Homo iustus non est Quae harum
igitur contra eam quae est: Omnis homo iustus est contradictorie
constituitur? Contradictorie autem voco oppositionem, in qua affirmatio et
negatio neque verae utraeque sint neque falsae utraeque sed una semper vera,
alia falsa. Si ergo opponatur contra eam quae est: Omnis homo iustus est
ea quae est: Nullus homo iustus est universalis scilicet negatio, non est
oppositio; utraeque enim falsae sunt. Si vero opponatur ea quae est: Homo
iustus non est indefinita, nec ipsa quoque facit oppositionem. Quoniam
enim indefinita est, potest aliquotiens pro universali negatione pro exspectatione
auditoris intellegi. Quocirca nec ipsa facit oppositionem. Si enim hoc modo
audita sit, cum ita accipitur ut contraria, simul eas falsas inveniri
contingit. Restat ergo, ut aut ea sit quae est:ƿ Non omnis homo iustus
est aut ea quae est: Quidam homo iustus non est Sed hae sibi
consentiunt. Idem enim dicit qui proponit Quidam homo iustus non est et
idem qui dicit Non omnis homo iustus est Nam si quidam homo iustus non
est, non omnis homo iustus est; et si non omnis homo iustus est, quidam homo
iustus non est. Quare utraeque particulares negationes contradictorie
opponuntur contra universalem affirmationem. In his enim neque verae utraeque
sunt neque utraeque falsae sed una vera, altera falsa rursus sit negatio
universalis ea quae est: Nullus homo iustus est Contra hanc videntur
oppositae affirmationes hae: Omnis homo iustus est Homo iustus est Quidam homo
iustus est Sed contra eam quae est: Nullus homo iustus est si
opponitur ea quae est: Omnis homo iustus est possunt esse utraeque falsae;
quare non opponuntur contradictorie. At vero etiam ea quae dicit: Homo iustus
est quoniam indefinita est, potest ita in aliquibus intellegi tamquam si
dicat: Omnis homo iustus est Quod si sic est, poterit aliquando cum ea
negatione quae est: Nullus homo iustus est simul esse falsa; quare non
est opposita relinquitur ergo, ut ea quae est: Quidam homo iustus est
contra eam quae est: Nullus homo iustus est contradictorie videatur
opposita. Angulariter igitur requirendae sunt, ut contra universalem
affirmationem illa ponatur quae sub universali negatione est, contra
universalem negationem illa contradictorie constituatur quae est sub universali
affirmatione. Quod scilicet volens Aristoteles ostendere sic ait: QUAECUMQUE
IGITUR CONTRADICTIONES UNIVERSALIUM SUNT UNIVERSALITER, NECESSE EST ALTERAM
VERAM ESSE VEL FALSAM ET QUAECUMQUE IN SINGULARIBUS SUNT, UT EST SOCRATES ALBUS,
NON EST SOCRATES ALBUS. In illis enim quae contradictoriae sunt universalibus
universaliter praedicatis, in his verum semper falsumque dividitur. Contradictoriae
autem sunt universalis affirmationis particularis negatio et universalis
negationis particularis affirmatio. In his igitur una semper vera est, altera
semper falsa. Atque hoc est quod ait: QUAECUMQUE IGITUR CONTRADICTIONES
UNIVERSALIUM SUNT UNIVERSALITER, et hic distinguendum est ut intellegatur sic:
quaecumque igitur contradictiones sunt universalium propositionum universaliter
propositarum, necesse est alteram veram, alteram falsam esse. Et in his primum
dividitur veritas falsitasque, quae sibi et qualitate et quantitate oppositae
sunt: qualitate quod illa negatio est, illa affirmatio, quantitate quod illa
universalis, illa particularis est. Secundo autem modo in his quae sunt
singularia, si nullae argumentatorum nebulae sint, veritas falsitasque dividitur,
ut in eo quod est: Socrates albus est Socrates albus non est Una enim
vera est altera falsa, si (ut dictum est) nulla ambiguitas aequivocationis
impediat. QUAECUMQUE AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER, NON SEMPER HAEC
VERA EST, ILLA VERO FALSA. SIMUL ENIM VERUM EST DICERE QUONIAM ƿ EST HOMO ALBUS
ET NON EST HOMO ALBUS, ET EST HOMO PROBUS ET NON EST HOMO PROBUS. SI ENIM
TURPIS, ET NON PROBUS; ET SI FIT ALIQUID, ET NON EST. VIDEBITUR AUTEM SUBITO
INCONVENIENS ESSE, IDCIRCO QUONIAM VIDETUR SIGNIFICARE NON EST HOMO ALBUS SIMUL
ETIAM QUONIAM NEMO HOMO ALBUS. HOC AUTEM NEQUE IDEM SIGNIFICAT NEQUE SIMUL
NECESSARIO. Propositiones eas, quae in universalibus non universaliter
proferuntur, non semper veras esse vel falsas conatur ostendere. Hoc autem per
contraria monstrat. Ea enim propositio quae est: Homo albus est et huius
negatio quae est: Homo albus non est hoc modo ostenduntur verum et falsum
inter se interdum non posse dividere: nam si verum est, ut hae duae
affirmationes: Est homo albus et Est homo niger utraeque uno
tempore verae sint, verum est quoque affirmationem indefinitam et indefinitam
negationem utrasque veras aliquotiens inveniri. Nam si verum est quoniam est
homo albus, verum itidem quoniam est homo niger (nam cum Gallus sit candidus,
Aethiops nigerrimus invenitur): simul ergo verum est dicere quoniam est homo
albus et est homo niger. Sed qui niger est albus non est: simul ergo verum est
dicere quoniam est homo albus et non est homo albus. Idem quoque et de probo et
turpi. Nam si verum est dicere quoniam est homo probus, si quis hoc de
philosopho dicat, et rursus verum est quoniam ƿ est homo turpis, si quis hoc de
Sulla diceret, verum est utrumque, et quoniam est homo probus et quoniam est
homo turpis. Sed qui turpis est, probus non est: simul igitur verum est dicere
quoniam EST HOMO PROBUS ET NON EST HOMO PROBUS. Sed videbitur fortasse aliquid
sibi dixisse contrarium et difficilior procedit ostensio, quae per huiusmodi
exempla proponitur, quae contraria esse videantur. Albus enim et niger et
probus et turpis contraria sunt et fortasse dubitet quidam, utrum uno tempore
contraria haec in aliquibus valeant reperiri. Sed adiecit exemplum aliud, quod
cum contrarium non sit, tamen ex eo sicut in contrariis quoque negatio
procreatur: ut si quis dicat: Est homo probus et alius dicat: Fit homo
probus si quis vel alio docente vel se ipso corrigente aliqua disciplina
rationis eniteat. Nihil ergo contrarium habet esse probum et fieri probum;
neque enim ita contrarium est, ut esse hominem probum et esse hominem turpem.
Quare si nihil habet contrarium, dubium non est quin simul esse possint. Sed
quod fit nondum est adhuc cum fit: quare nondum est probus qui fit probus. Sed
verum erat dicere cum eo quod est: Est probus homo quoniam fit probus
homo. Sed qui fit probus homo, non est probus homo: verum est igitur dicere
simul, quoniam est probus homo et non est probus homo, licet non invalida
exempla sint posita de contrariis. Nihil enim prohibet uno tempore contraria
aliis atque aliis inesse subiectis. Quocirca constat indefinitas per id quod in
exemplis supra proposuit simul aliquotiens veras videri et non semper inter se
verum falsumque partiri. Quod vero ait: VIDEBITUR AUTEM SUBITO INCONVENIENS
ESSE, IDCIRCO ƿ QUONIAM VIDETUR SIGNIFICARE NON EST HOMO ALBUS, SIMUL ETIAM
QUONIAM NEMO HOMO ALBUS EST, huiusmodi est: dixit enim propositionem
affirmationis eam quae dicit: Est homo albus veram posse esse cum ea quae
dicit: Non est homo albus Nunc hoc notat: videtur, inquit, aliquotiens
inconveniens esse et incongruum dicere eam quae dicit: Est homo albus et
eam quae est: Non est homo albus simul veras esse posse, idcirco quod ea
quae est: Non est homo albus emittit imaginationem quandam quod
significet quoniam nullus homo albus est. Videtur enim negatio huiusmodi, quae
est: Non est homo albus illud quoque significare simul quoniam nullus
homo albus est, ut si quis dixerit: Non est homo albus hoc eum dixisse
putandum sit, quoniam nullus homo albus est. HOC AUTEM, inquit, id est
"Non est homo albus" et rursus "Nullus homo albus est",
NEQUE IDEM SIGNIFICAT neque semper simul sunt. Nam qui dicit: Nullus homo albus
est universalitatem determinans negationem de universalitate proponit,
qui vero dicit: Non est homo albus non omnino de tota universalitate
negat sed ei tantum sufficit de particularitate negasse. Atque ea quae est:
Nullus homo albus est si unus homo albus fuerit, falsa est, ea vero quae
dicit: Non est homo albus etiam si unus homo albus non fuerit, vera est.
Quare non significant idem. Dico autem, quoniam nec omnino, quotienscumque
dictum fuerit: Non est homo albus mox significat quoniam nullus homo
albus est. Nam cum dico: Nullus homo albus est haec eadem significat
quoniam non est homo albus (universalis enim intra se continet indefinitam): ƿ
cum autem dicimus: Non est homo albus non omnino significat nullus homo
albus est, indefinita enim non intra se continet universalem. Superius namque
monstravimus, quod indefinitae vim particularium optinerent. Quare si, cum est
universalis negatio, est indefinita negatio, cum vero est indefinita negatio,
non omnino est universalis negatio, non convertitur secundum subsistendi
consequentiam. Quare non sunt simul. Quae enim non convertuntur, simul non
sunt, ut nos Praedicamentorum liber edocuit. Quare neque idem significant
negationes: Non est homo albus Nullus homo albus est neque simul sunt,
quoniam non convertuntur ad consequentiam subsistendi. Syrianus tamen nititur
indefinitam negationem vim definitae optinere negationis ostendere. Hoc multis
probare nititur argumentis Aristotele maxime reclamante. Nec hoc tantum suis
sed Platonicis quoque Aristotelicisque rationibus probare contendit: eam quae
dicit: Non est homo iustus huiusmodi esse qualis est ea quae dicit:
Nullus homo iustus est Sed nos auctoritati Aristotelicae seruientes id
quod ab illo veraciter dicitur approbamus. Nam quod Syrianus dicit indefinitam
quidem affirmationem particularis optinere vim, indefinitam vero negationem
universalis, quam mendaciter diceretur quamque utraeque in particularibus
rectissime proponerentur, et supra monstravimus et in his libris quos de
categoricis syllogismis composuimus in primo libro diligenter expressimus. Nunc
nobis ipse quoque Aristoteles testis est et Syrianus facillima ratione
conuincitur, quod in Analyticis quoque ex duabus indefinitis dicit non posse
colligi syllogismum ƿ cum ex affirmativa particulari et negativa universali
particularis negativa possit esse collectio. Quod si indefinitae affirmatio et
negatio et negationis universalis et particularis affirmationis vim optinerent,
numquam diceret Aristoteles has propositiones non colligere syllogismum. Sed
illud verius est, quoniam ex duabus particularibus nihil in qualibet
propositionum complexione colligitur, quod in his propositionibus quae indefinitae
sunt nihil colligi dixit, quia particularium vim propositiones indefinitas
arbitratus est optinere. Quare multis modis Syriani argumenta franguntur. Sed
nos expositionis cursum ad sequentia convertamus. MANIFESTUM EST AUTEM QUONIAM
UNA NEGATIO UNIUS AFFIRMATIONIS EST; HOC ENIM IDEM OPORTET NEGARE NEGATIONEM,
QUOD AFFIRMAVIT AFFIRMATIO, ET DE EODEM, VEL DE ALIQUO SINGULARIUM VEL DE
ALIQUO UNIVERSALIUM, VEL UNIVERSALITER VEL NON UNIVERSALITER. DICO AUTEM UT EST
SOCRATES ALBUS, NON EST SOCRATES ALBUS. SI AUTEM ALIUD ALIQUID VEL DE ALIO
IDEM, NON OPPOSITA SED ERIT AB EA DIVERSA. HUIC VERO QUAE EST OMNIS HOMO ALBUS
EST ILLA QUAE EST NON OMNIS HOMO ALBUS EST, ILLI VERO QUAE EST ALIQUI HOMO
ALBUS EST ILLA QUAE EST NULLUS HOMO ALBUS EST, ILLI AUTEM QUAE EST EST HOMO
ALBUS ILLA QUAE EST NON EST HOMO ALBUS. Hinc quoque apparet affirmationem
indefinitam et ƿ indefinitam negationem non semper unam in veritate aliam in
falsitate consistere. Atque hinc docetur indefinitam negationem non idem
valere, quod universalis negatio potest, et est alia universalis, alia
indefinita negatio. Nam si unicuique affirmationi una negatio videtur opponi
cumque diversae sint affirmatio quae dicit: Est homo albus et ea quae
dicit: Est quidam homo albus diversas quoque habebunt in negationibus
enuntiationes. Et illa quidem quae indefinita est affirmatio habebit
indefinitam negationem, ut ea quae dicit: Est homo albus huic opponitur:
Non est homo albus ea vero quae dicit: Est quidam homo albus
negationem habebit oppositam eam quae dicit: Nullus homo albus est Quare
si particularis affirmatio definita et rursus affirmatio indefinita a se ipsae
diversae sunt, illud verum est oppositas quoque contradictorie negationes
habere dissimiles. Quare ea quae est: Nullus homo iustus est diversa est
ab ea quae dicit: Homo iustus non est Atque hoc nunc Aristoteles
exsequitur: ait enim unam semper negationem contra unam affirmationem posse
constitui. Et eius causam conatur ostendere, quod omnis negatio eosdem terminos
habet in enuntiatione sed enuntiandi modo diversa est. Nam quod ponit
affirmatio idem aufert negatio et quod illa praedicatum subiecto iungit hoc
illa dividit atque disiungit. Quare si idem praedicatum idem subiectum in
negatione est, quod affirmatio ante posuerat, non est dubium quin unius
affirmationis una negatio videatur. Nam si duae sint, aut subiectum altera
mutatura est aut praedicatum. Sed quaecumque sunt huiusmodi, non sunt
oppositae. Hoc enim est quod ait: SI AUTEM ALIUD ALIQUID VEL ƿ DE ALIO IDEM,
NON OPPOSITA SED ERIT AB EA DIVERSA. Sensus enim huiusmodi est: si negatio
aliud aliquid praedicando neget quam in affirmatione fuit (ut si sit affirmatio
"Est homo albus", negatio dicat "Non est homo iustus",
aliud praedicavit in negatione quam in affirmatione fuerat constitlltum) vel si
de alio subiecto quam in affirmatione fuerat idem quod in affirmatione fuit
dixerit praedicatum (ut si affirmatio sit "Est homo iustus", negatio
respondeat "Non est leo iustus", idem praedicatum est, subiecta diversa
sunt): si ergo vel aliud quiddam praedicet in enuntiatione propositio vel de
alio subiecto idem praedicet quod affirmatio ante posuerat, non erunt illa
affirmatio negatioque oppositae sed tantum a se diversae; neque enim se
perimunt. Et hanc rem demonstrativam addidit et quae esset argumentum unius
affirmationis praeter unam negationem esse non posse, sive in singularibus, ut
in eo quod ipse dicit exemplo: EST SOCRATES ALBUS, NON EST SOCRATES ALBUS, sive
in universalibus universaliter praedicatis. Cum his particulares in oppositione
contradictorie constituuntur, ut in universali universaliter affirmativa: Omnis
homo albus est in universali particulariter negativa praedicetur: Non
omnis homo albus est illi vero quae est in universali particulariter
affirmativa: Quidam homo albus est opponatur in universali universaliter
propositio negativa: Nullus homo albus est illi vero quae in universali
non universaliter affirmativa est: Est homo albus illa quae in universali
non universaliter negativa est: Non est homo albus ut quod ait vel de
aliquo singularium ad haec exempla pertineat: EST SOCRATES ALBUS, NON EST
SOCRATES ƿ ALBUS; quod autem secutus est VEL DE ALIQUO UNIVERSALIUM, VEL
UNIVERSALITER ad illa exempla dictum esse videatur quae sunt: OMNIS HOMO ALBUS
EST, NON OMNIS HOMO ALBUS EST, ALIQUI HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST;
quod vero addidit VEL NON UNIVERSALITER scilicet in universalibus ad illa
exempla rettulerit quae sunt: HOMO ALBUS EST, NON EST HOMO ALBUS. Hinc igitur
omnia rursus brevissime repetit dicens: iam sese dixisse, quoniam uni negationi
una affirmatio esset opposita et hoc non quolibet modo sed contradictorie, in
quibus scilicet verum falsumque divideretur. Dixisse etiam commemorat, quae
essent hae quas contradictorias nominaret. Dixit autem esse angulares, affirmativam
universalem et negativam particularem, rursus affirmativam particularem et
negativam universalem. Disserui quoque, inquit, ET QUONIAM ALIAE SUNT
CONTRARIAE. Non enim eaedem sunt contrariae quae sunt contradictoriae.
Contrariae enim sunt sibimet universalis affirmatio universalisque negatio.
Exposui illud quoque, inquit, QUONIAM NON OMNIS VERA VEL FALSA CONTRADICTIO.
Nunc contradictionem non illam proprie sed communiter de his dixit quae sibi
sunt oppositae sive contrario modo sive subcontrario. Hae namque non semper
verum inter se falsumque dividebant, ƿ ut una semper esset vera, alia falsa.
Poterat enim fieri ut contrariae simul invenirentur falsae, subcontrariae simul
verae. De his autem, quae proprie contradictoriae sunt, de his sequitur et se
iam exposuisse commemorat, et quare una vera vel falsa est et quando. Idcirco
enim affirmatio universalis particulari negationi vi contradictionis opponitur,
quod in omnibus a se ipsae diversae sunt et qualitate et quantitate. Illa enim
est affirmatio, illa negatio, universalis illa, illa particularis. Ideo ergo
aut utraeque falsae aut utraeque verae inveniri non possunt. Quando autem ita
fuerit, constat unam veram esse, aliam falsam. Atque hoc est quod ait: ET QUARE
ET QUANDO VERA VEL FALSA, dictum esse scilicet memorans, quare oppositio et
quando una semper vera sit, altera falsa: tunc utique quando angulariter
constituuntur, idcirco quoniam et quantitate a se propositiones et qualitate
diversae sunt. Nobis autem dicendum est, quando oppositiones contrariae vel
subcontrariae aut utraeque illae simul falsae sint aut utraeque illae simul
verae aut una falsa, alia rursus inveniatur vera. In contrariis enim si ea quae
non sunt naturaliter praedicentur, [utraeque] ut albedo, quoniam naturaliter
homini non est, utraeque falsae sunt quae albedinem praedicant. Falsum est
enim: Omnis homo albus est falsum est: Nullus homo albus est Sed
quando ambae falsae sunt, verae sunt subcontrariae, ut est: Quidam homo albus
est Quidam homo albus non est Quod si quid naturale praedicetur in
contrariis, affirmatio vera est, falsa negatio, ut quoniam naturale est homini
esse animal, vera est ea quae dicit: Omnis homo animal est falsa quae
dicit: Nullus ƿ homo animal est Eodem quoque modo in subcontrariis vera
est affirmatio, falsa negatio. Sin vero aliquid impossibile praedicetur, falsa
affirmatio est, vera negatio, ut quoniam impossibile est hominem esse lapidem,
si dicamus: Omnis homo lapis est falsum est, Nullus homo lapis est
verum est. Eandem quoque retinet vim subcontrarii natura: affirmatio enim hic
falsa est, vera negatio. UNA AUTEM EST AFFIRMATIO ET NEGATIO QUAE UNUM DE UNO
SIGNIFICAT, VEL CUM SIT UNIVERSALE UNIVERSALITER VEL NON SIMILITER, UT OMNIS
HOMO ALBUS EST, NON EST OMNIS HOMO ALBUS; EST HOMO ALBUS, NON EST HOMO ALBUS;
NULLUS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS, SI ALBUM UNUM SIGNIFICAT. Ea quae
a nobis superius sunt diligenter exposita, illa nunc ipse clarius monstrat.
Diximus namque unam propositionem esse quae unam quamlibet rem significaret et
non plurimas, ita ut nec aequivocum subiectum haberet nec aequivocum
praedicatum; una enim propositio sic fit. Nunc hoc dicit: una propositio est
quae unam rem significat id est quae neque subiectum aequivocum habet nec
praedicatum. Sive autem sit universalis affirmatio sive universalis negatio
sive particularis affirmatio sive particularis negatio sive indefinitae
utraeque sive contra se angulariter ponantur: una illa propositio est, quae
unam rem in affirmatione vel negatione significat. Sed hic quaestio est,
quemadmodum universalis affirmatio unam rem significare ƿ possit, cum ipsa
universalitas non de uno sed de pluribus praedicetur. Nam cum dico: Omnis homo
albus est singulos homines qui plures sunt significans multa in ipsa
affirmationis praedicatione designo. Quocirca nulla erit affirmatio vel negatio
universalis, quae unam rem significare possit, idcirco quod ipsa universalitas
de pluribus (ut dictum est) individuis praedicatur. Sed ad hoc respondemus: cum
universale quiddam dicitur, ad unam quodammodo collectionem totius
propositionis ordo perducitur et eius non ad particularitatem sed ad
universalitatem quae est una qualitas applicatur: ut cum dicimus omnis homo
iustus est, non tunc singulos intellegimus sed ad unam humanitatem quidquid de
homine dictum est ducitur. Quare sive sit universalis affirmatio sive
universalis negatio vel in singularibus, potest fieri ut hae unae sint, si una
significatione teneantur. Atque hoc est quod ait eas propositiones quas supra
proposuit, quae sunt OMNIS HOMO ALBUS EST, NON EST OMNIS HOMO ALBUS; HOMO ALBUS
EST, NON EST HOMO ALBUS; NULLUS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS, unas
videri, SI ALBUM, inquit, UNUM SIGNIFICAT. Si enim album quod praedicatur multa
significet vel si homo quod subiectum est non unum, non est una affirmatio nec
una negatio. Hoc autem in sequentibus clarius monstrat dicens: SIN VERO DUOBUS
UNUM NOMEN EST POSITUM, EX QUIBUS NON EST UNUM, NON EST UNA AFFIRMATIO, UT SI.
QUIS PONAT NOMEN TUNICA HOMINI ET EQUO, EST TUNICA ALBA HAEC NON EST UNA
AFFIRMATIO NEC NEGATIO UNA. Sensus huiusmodi est: si una res plura significet,
ex quibus multis unum effici possit, illa affirmatio, in qua illud nomen vel
praedicatur vel subicitur, multa non significat, ut in eo quod est homo. Quod
dicimus homo significat animal, significat rationale, significat mortale; sed
ex his quae multa significat unum potest effici, quod est animal rationale
mortale. Quare hoc nomen homo licet plura sint quae significet, tamen quoniam
iuncta in unum quodammodo veniunt corpus et unum quiddam ex se iuncta
perficiunt, cum ita dictum fuerit, quasi ut ex his quae significat unum aliquid
fiat, unum quod tota illa iuncta perficiunt nomen illud significare manifestum
est. Atque hoc est quod ait: SIN VERO DUOBUS UNUM NOMEN EST POSITUM, EX QUIBUS
NON EST UNUM, non esse unam affirmationem. Si enim talia quilibet sermo plura
significet, ex quibus iunctis unum effici nequeat corpus, nec possint ea quae
significantur uno illo nomine in unam speciem substantiae convenire, non est
illa una affirmatio. Quale autem nomen sit quod positum unam affirmationem non
facit, idcirco quod plura significet ex quibus unum fieri non possit, exempli
sollertissima virtute monstravit dicens: UT SI QUIS PONAT NOMEN TUNICA HOMINI
ET EQUO, EST TUNICA ALBA HAEC NON EST UNA AFFIRMATIO NEC NEGATIO UNA. NIHIL
ENIM HOC DIFFERT DICERE QUAM EST EQUUS ET HOMO ALBUS. HOC AUTEM NIHIL DIFFERT
QUAM DICERE EST EQUUS ALBUS ET EST HOMO ALBUS. Si quis ponat homini et equo
nomen tunica, inquit, et in propositione nomen hoc ponitur, illa propositio non
est una sed multiplex. Nam si verbi gratia tunica homo atque equus dicatur, ut,
cum dicit aliquis tunicam, aut equum designet aut hominem: si quis dicat in
propositione sic: Tunica alba est non est una affirmatio. Quod enim
dicit: Tunica alba est huiusmodi est quasi si dicam "Homo et equus
albus est". Tunica enim equum atque hominem significatione monstravit.
Quod vero dicit: Homo atque equus albus est nihil differt tamquam si
dicat: Equus albus est Homo albus est Sed hae duae sunt propositiones et
non similes, in his enim subiecta diversa sunt. Quocirca si hae affirmationes
duae sunt, duplex quoque illa est affirmatio, quae dicit homo atque equus albus
est. Quod si haec rursus duplex est, quoniam equum atque hominem tunicam
significare propositum est, cum dicimus "Tunica alba est" non unum
sed plura significat. Quocirca si ea affirmatio quae multa designat non est
una, haec quoque affirmatio una non erit, cuius aut praedicatio aequivoca
fuerit aut subiectum. Atque hoc est quod ait: SI ERGO HAE MULTA SIGNIFICANT ET
SUNT PLURES, MANIFESTUM EST QUONIAM ET PRIMA MULTA ƿ VEL NIHIL SIGNIFICAT; NEQUE
ENIM EST ALIQUIS HOMO EQUUS. Quod si, inquit, est equus albus et est homo albus
multa significant, illa quoque prima propositio, quae est est tunica alba, unde
hae fluxerunt, multa designat: aut si quis dicat non eam multa significare,
concedit profecto nihil omnino propositionis ipsius significatione monstrari.
Tunc enim nomen unum multa significans in unam significationem poterat
convenire, quotiens ex his quae significat una posset coniungi constituique
substantia, ut in eo quod supra proposui, cum homo animal rationale et mortale
significat, quae in unum possunt iuncta congruere. Nunc autem si tunica hominem
equumque significat, multa designat sed ea ipsa in unum corpus non veniunt.
Neque enim fieri potest ut aliqui homo equus sit. Quare aut multa significat,
quod verum est, aut si quis contendat non eam multa significare sed quiddam ex
his quae significat iunctum, quoniam nihil est quod ex equo et homine
coniungatur, nihil omnino significat. Hoc est enim quod dixit NEQUE ENIM EST
ALIQUIS HOMO EQUUS, et hoc sub uno legendum est, non discrete pronuntiandum
homo et rursus equus sed homo equus, ut ex his iunctis appareat nihil omnino
posse constitui. Cur autem hoc dixerit, sequens monstrat oratio. Si enim ita
facienda est oppositio, ut contra affirmationem huiusmodi opponatur ƿ negatio,
quae in oppositione verum falsumque dividat, ut una vera, alia falsa sit, unam
oportet esse affirmationem et uuam negationem, quod contingit, si neque
subiectum neque praedicatum multa significet. Quod si plura designet et sit
aequivocum, non erit in huiusmodi propositionibus una semper vera, altera
falsa. Herminus vero sic sentit quod ait Aristoteles: SIN VERO DUOBUS UNUM
NOMEN EST POSITUM, EX QUIBUS NON EST UNUM, NON EST UNA AFFIRMATIO: ut in eo,
inquit, quod est homo gressibilis est, quoniam quod dicimus gressibile potest
et bipes esse et quadrupes et multipes animal demonstrari: ex his, inquit,
omnibus unum fit, quod est pedes habens: ista, inquit, huiusmodi affirmatio non
multa significat. Sed sententiam Aristotelis omnino non sequitur. Neque enim ex
his omnibus unum fit nec quadrupes et bipes et multipes pedem habere faciunt.
Hic enim numerus pedum, non pedum constitutio est. Quare Herminus praetermittendus
est. Huic autem expositioni quam supra disserui et Aspasius et Porphyrius et
Alexander in his quos in hunc librum ediderunt commentariis consenserunt. Sed
ne diutius nobis Aristotelis exemplum caliginis obscuritatem ferat, hoc in
aliquo noto exemplo vocabuloque videndum est. Cum enim dicimus: Aiax se
peremit, et Telamonis Aiacem filium et Oileum demonstrat, ex quibus duobus unum
fieri aliquid non potest. Ex duobus enim individuis nihil omnimodis iungitur. ƿ
Quare huiusmodi propositio multa significat. Sed haec hactenus. Nunc autem
determinat haec, quae de propositionibus supra iam dixerat, non de omni tempore
sed de solis tantum praeterito et praesenti, quemadmodum se in veritate et in
falsitate habeant, disseruisse. In futuris vero non idem est quale in
praeterito praesentique in propositione iudicium, idcirco quod iam vel cum
contigit vel cum est definita veritas et falsitas in propositionibus invenitur.
Ut cum dico: Brutus consulatum primus instituit sub rege Tarquinio dicat
alius: Brutus consulatum non primus instituit sub rege Tarquinio hic una
vera est, una falsa, et iam affirmatio definite vera est, definite falsa
negatio rursus in praesenti cum dicimus: Vernum tempus est Vernum tempus non
est si hoc verno tempore dictum sit, affirmatio vera est et definite
vera, negatio falsa est et definite falsa. Quod si hoc autumno dictum sit,
definite falsa affirmatio et definite vera negatio, idcirco quod sive in
praeterito sive in praesenti veritas affirmationis negationisue iam contigit. In
futuro vero non eodem modo sese habet. Ut cum dicimus: Gothos Franci
superabunt si quis negat: Gothos Franci non superabunt una quidem
vera est, una falsa sed quae vera quae falsa ante exitum nullus agnoscit. Atque
hoc est quod ait: IN HIS ERGO QUAE SUNT ET FACTA SUNT NECESSE EST AFFIRMATIONEM
VEL NEGATIONEM VERAM ƿ VEL FALSAM ESSE, IN UNIVERSALIBUS QUIDEM UNIVERSALITER
SEMPER HANC QUIDEM VERAM, ILLAM VERO FALSAM, ET IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA,
QUEMADMODUM DICTUM EST ut non modo una semper vera sit, altera falsa in tota
contradictione sed illud quoque habeat, ut in una qualibet definite veritas aut
falsitas reperiatur: ita ut in his singularibus veritas et falsitas in
propositionibus dividatur, in universalibus autem, si his particularitates
opponantur (quemadmodum dictum est) unam necesse est veram esse, alteram falsam
sed definita propositionum veritate vel falsitate, sicut supra disserui. Quare
in sequentibus quaedam de futuris tractanda sunt et quoniam maius opus est
(quam hoc breviter dici possit viderimus) et nos secundi voluminis seriem
longius extraximus, hoc loco fastidiosam longitudinem terminemus. Ea quae
huius libri series continebit altioris paene tractatus sunt quam ut in logica
disciplina conveniat disputari sed quoniam (ut saepe dictum est) orationibus
sensa proferuntur, quibus subiectas res esse ƿ manifestum est, non est dubium
quin quod in rebus sit idem saepe transferatur ad voces. Quare recte mihi
consilium fuit subtilissimas Aristotelis sententias gemino ordine
commentationis aperire. Nam quod prior tenet editio, ingredientibus ad haec
altiora et subtiliora quandam quodammodo faciliorem semitam parat; quod autem
secunda editio in patefaciendis subtilibus sententiis elaborat, hoc studio
doctrinaque provectis legendum discendumque proponitur. Quare prius quaedam
pauca dicenda sunt, quatenus ea de quibus postea tractaturi sumus haec ipsa legentibus
non videantur ignota. Categoricas propositiones Graeci vocant, quae sine aliqua
conditione positionis promuntur, ut est dies est, sol est, homo est, homo
iustus est, sol calet et caetera quae sine alicuius conditionis nodo atque
ligamine proponuntur. Sunt autem conditionales propositiones huiusmodi: Si dies
est, lux est quas Graeci hypotheticas vocant. Conditionales autem
dicuntur, quod talis quaedam conditio proponitur ut dicatur, si hoc est, illud
est. Et illas quidem quas categoricas Graeci nominant, Latini praedicativas
dicere possumus. Nam si categoria praedicamentum est, cur non quoque
categoricae propositiones praedicativae dicuntur? Harum autem quaedam sunt quae
cum sempiterna significent, sicut hae res quas significant semper sunt et
numquam a propria natura discedunt, ita quoque ipsae propositiones immutabili
significatione sunt: ut si quis dicat: Deus est Deus immortalis est hae
namque propositiones sicut de immortalibus dicuntur, ita ƿ quoque sempiternam
habent et necessariam significationem. Nec hoc in unius temporis natura
perspicitur sed in omnium. Nam cum dicimus: Deus immortalis est vel:
Immortalis fuit vel: Immortalis erit a propria significationis
necessitate nil discrepat. Necessarias autem propositiones vocamus, in quibus
id quod dicitur aut fuisse aut esse aut certe futurum esse necesse est evenire.
Et hae quidem quae sempiterna significant sempiternae necessitatis sunt. Nam
etiam si in his non sit manifesta veritatis natura, nil tamen prohibet fixam
esse necessitatis in natura constantiam, ut si nobis ignotum est, utrum paria
sint astra an imparia, non tamen idcirco poterit evenire ut nec paria nec
imparia videantur sed sine ulla dubitatione aut paria sunt aut imparia. Omnis
enim multitudo horum alterum retinet in natura. Quocirca etiam in his, si quis
dicat: Astra paria sunt aliusque respondeat: Astra paria non sunt
vel si quis dicat: Astra imparia sunt aliusque respondeat: Astra imparia
non sunt unus horum verum ex necessitate proponit, quod, inquam, si id
quod quilibet horum verum dixerit nobis ignotum est, necesse est tamen
immutabiliter esse quod dicitur. Atque hae quidem sunt immutabiliter necessariae
propositiones. Aliae vero sunt, quae non sempiterna significantes tamen et
ipsae sunt necessariae, quousque illa subiecta sunt de quibus propositio
aliquid affirmat aut negat. Ut cum dico: Homo mortalis est quamdiu homo
est tamdiu hominem mortalem esse necesse est. Nam si quis dicat: Ignis calidus
est ƿquamdiu est ignis tamdiu ex necessitate vera est propositio. Aliae
vero sunt, quae a natura necessitatis recedunt et quaedam tantum contingentia
significant sed haec aut aequaliter se ad affirmationem negationemque habentia
aut ad unum frequentius vergentia. Et aequaliter quidem se habent, ut si quis
dicat hodie me esse lauandum, hodie me non esse lauandum. Nihil enim magis vel
affirmatio fiet aut negatio, utraeque enim aequaliter necessariae non sunt.
Illae vero quae plus ad alteram partem vergunt huiusmodi sunt, ut si quis dicat
hominem in senecta canescere, hominem in senecta non canescere: fit quidem
frequentius ut canescat, non tamen interclusum est, ut non canescat. Praedicativarum
autem propositionum natura ex rerum veritate et falsitate colligitur.
Quemadmodum enim sese res habent, ita sese propositiones habebunt, quae res
significant. Nam si in se res ullam retinent necessitatem, propositiones quoque
necessariae sunt; sin vero tantum inesse significent -- ut si quis dicat: Homo
ambulat homini ambulationem inesse monstravit -- praeter aliquam
necessitatem sunt tantum inesse significantes omni uacuae necessitate. Quod si
res impossibiles sunt, propositiones quae illas res demonstrant impossibiles
nominantur; sin vero res contingenter venientes atque abeuntes, quae illas
prodit contingens propositio nuncupatur. Quoniam autem temporum alia sunt
futura, alia praesentia, alia vero praeterita, res quoque subiectae temporibus
his quoque temporum diversitatibus variae sunt. Aliae enim praesentis temporis
sunt, aliae ƿ futuri, aliae praeteriti. Eodem quoque modo propositiones alias
praeteriti temporis significatio tenet, ut cum dico Graeci Troiam euertere;
aliae praesentis, ut Francorum Gothorumque pugna committitur; aliae futuri, ut
Persae et Graeci bella moturi sunt. Et de praeteritis quidem et de
praesentibus, ut res ipsae, stabiles sunt et definitae. Nam quod factum est,
non est non factum, et quod non est factum, nondum factum est. Idcirco de eo
quod factum est verum est dicere definite, quoniam factum est, falsum est
dicere, quoniam factum non est. Rursus de eo quod factum non est verum est
dicere, quoniam factum non est, falsum est, quoniam factum est. Et de praesenti
quoque. Quod fit definitam habet naturam in eo quod fit, definitam quoque in
propositionibus veritatem falsitatemque habere necesse est. Nam quod fit
definite verum est dicere quoniam fit, falsum quoniam non fit. Quod non fit
verum est dicere non fieri, falsum fieri. De definitione ergo propositionum
praeteriti vel praesentis supra iam dictum est. Nunc vero ad illarum
propositionum veritatem falsitatemque disputationis ordinem vertit, quae in
futuro dicuntur quaeque sunt contingentia. Solet autem futura vocare, ƿ quae
eadem contingentia dicere consuevit. Contingens autem secundum Aristotelicam
sententiam est, quodcumque aut casus fert aut ex libero cuiuslibet arbitrio et
propria voluntate venit aut facilitate naturae in utramque partem redire
possibile est, ut fiat scilicet et non fiat. Haec ergo in praeteritum et praesens
quidem definitum et constitutum habent eventum. Quae enim evenerunt non
evenisse non possum et quae nunc fiunt ut nunc non fiant, cum fiunt, fieri non
potest. In his autem, quae in futuro sunt et contingentia sunt, et fieri potest
aliquid et non fieri. Sed quoniam tres supra modos proposuimus contingentis, de
quibus melius in physicis tractavimus, singulorum subdamus exempla. Si hesterno
domo egressus inveni amicum, quem in animo habebam quaerere, non tamen tunc
quaerebam, ut non invenirem quem inveni antequam invenirem fieri poterat, cum
autem inveni vel postquam invent, ut non invenissem fieri non potest. Rursus si
ipse sponte praeterita nocte in agrum profectus sum, antequam hoc fieret, ut
non proficiscerer fieri poterat, postquam profectus sum vel cum profectus sum,
ut id non fieret quod fiebat aut non factum esset quod erat factum, fieri non
valebat. Amplius possibile est scindi hanc qua uestior tunicam: si hesterno die
scissa est, cum scindebatur aut posiquam scissa est, ut non scinderetur ƿ aut
non esset scissa, fieri nequibat, ante vero quam scinderetur, fieri poterat ut
non scinderetur. Perspicuum ergo in praesentibus atque praeteritis vel earundem
rerum quae sunt contingentes definitum constitutumque esse eventum. In futuris
autem unum quidem quodlibet duorum fieri posse, unum vero definitum non esse
sed in utramque partem vergere et aut hoc quidem aut illud ex necessitate
evenire, ut autem hoc quodlibet definite vel quodlibet aliud definite, fieri
non posse. Quae enim contingentia sunt, in utraque parte contingunt. Quod autem
dico tale est: egredientem me hodie domo amicum invenire aut non invenire
necesse est (in omnibus enim aut affirmatio est aut negatio) sed invenire sine
dubio definite aut certe si hoc non est rursus definite non invenire,
quemadmodum hesterno die, quo amicum egrediens inveni (definitum est autem,
quod non est verum me non invenisse), non eodem modo in his quae sunt
contingentia et future sed tantum aut hoc quidem aut illud est et hoc ex
necessitate, ut autem una res vel quilibet unus eventus definitus et iam quasi
certus sit, fieri non potest. Et in hac re dissimiles sunt propositiones
contingentium et futurorum his quae sunt praeteritorum vel praesentium. Nam cum
similes sint in eo, quod in his aut affirmatio est aut negatio, ƿ sicut etiam
in his quae sunt praeterita vel praesentia, in illo diversae sunt, quod in his
quidem id est praeteritis et praesentibus rerum definitus eventus est, in
futuris vero et contingentibus in definitus est et incertus, nec solum nobis
ignorantibus sed naturae. Nam licet ignoremus nos, utrum astra paria sint an
imparia, unum tamen quodlibet definite in natura stellarum esse manifestum est.
Et hoc nobis quidem est ignoratum, naturae vero notissimum. Sed non ita hodie
me visurum esse amicum aut non visurum nobis quidem quid eveniat ignoratum est,
notum vero naturae. Non enim hoc naturaliter sed casu evenit. Quare huiusmodi
propositiones non ad nostram sed ad naturae ipsius notitiam secundum incertum
eventum et inconstantem veritatem atque mendacium derivabuntur. Talis enim est
contingentis natura, ut in utraque parte vel aequaliter sese habeat, ut hodie
me esse lauandum vel hodie me non esse lauandum, vel in una plus, minus in
altera, ut hominem canescere senescentem vel hominem non canescere senescentem.
Illud enim plus fit, illud minus. Sed nihil prohibet id quod rarius fit tamen
fieri.De his ergo Aristotelica subtilitas disputatura primum a singularibus
inchoans ad universalia tractatui viam pandit. Duobus enim modis
contradictiones fiebant: aut in singularibus aut in universalibus universaliter
praedicatis et his oppositis. Ingreditur autem ex his tribus quae supra iam
dicta sunt: ex casu, ex libero ƿ arbitrio, ex possibilitate, quae omnia uno
nomine utrumlibet vocavit, fingens scilicet nomen ad hoc, quod non unius et
certi eventus ista sunt sed utriuslibet et quomodo contingit. Hoc autem
monstrativum est naturae instabilis et ad utramque partem sine ullius rei
obluctatione vergentis. Non autem oportet arbitrari illa esse utrumlibet et
contingentium naturae, quaecumque nobis ignota sunt. Neque enim si nobis
ignotum est a Persis ad Graecos missos legatos, idcirco missos esse incerti
eventus est; nec si letale signum in aegrotantis facie medicina deprehendit, ut
aliud esse non possit nisi ille moriatur, nobis autem ignotum sit propter artis
imperitiam, idcirco illum aegrum esse moriturum utrumlibet et contingentis
naturae esse iudicandum est sed illa sola talia sine dubio esse putanda sunt,
quaecumque idcirco nobis ignota sunt, quod per propriam naturam qualem habeant
eventum sciri non possunt, idcirco quoniam propria instabilitate naturae ad
utraque verguntur, id est ad affirmationis et negationis eventum propria
instabilitate atque inconstantia permutantur. Est autem inter philosophos
disputatio de rerum quae fiunt causis, necessitatene omnia fiant an quaedam
casu. Et in hoc Epicureis et Stoicis et Peripateticis nostris magna contentio
est, quorum paulisper sententias explicemus. Peripatetici enim, quorum
Aristoteles princeps est, et casum et liberi arbitrium indicii et necessitatem
in rebus quae fiunt quaeque aguntur cum ƿ gravissima auctoritate tum
apertissima ratione confirmant. Et casum quidem esse in physicis probaut:
quotiens aliquid agitur et non id evenit, propter quod res illa coepta est quae
agebatur, id quod evenit ex casu evenisse putandum est, ut casus quidem non
sine aliqua actione sit, quotiens autem aliud quiddam evenit per actionem quae
geritur quam speratur, illud evenisse casu Peripatetica probat auctoritas. Si
quis enim terram fodiens vel scrobem demittens agri cultus causa thesaurum
reperiat, casu ille thesaurus inventus est, non sine aliqua quidem actione
(terra enim fossa est, cum thesaurus inventus est) sed non illa erat agentis
intentio, ut thesaurus inveniretur. Ergo agenti aliquid homini, aliud tamen
agenti res diversa successit. Hoc igitur ex casu evenire dicitur, quodcumque
per quamlibet actionem evenit non propter eam rem coeptam, quae aliquid agenti
successerit. Et hoc quidem in ipsa rerum natura est, ut non hoc nostra constaret
ignorantia, ut idcirco quaedam casu esse viderentur, quod nobis ignota essent
sed potius idcirco a nobis ignorarentur, quod haec in natura quaecumque casu
fiunt nullam necessitatis constantiam aut providentiae modum tenerent. Stoici
autem omnia quidem ex necessitate et providentia fieri putantes id quod ex casu
fit non secundum ipsius fortunae naturam sed secundum nostram ignorantiam
metiuntur. ƿ Id enim casu fieri putant, quod cum necessitate sit, tamen ab
hominibus ignoretur. Et de libero quoque arbitrio eadem nobis paene illisque
contentio est. Nos enim liberum arbitrium ponimus nullo extrinsecus cogente in
id quod nobis faciendum vel non faciendum indicantibus perpendentibusque
videatur, ad quam rem praesumpta prius cogitatione perficiendam et agendam
venimus, ut id quod fit ex nobis et ex nostro iudicio principium sumat nullo
extrinsecus aut violenter cogente aut impediente violenter. Stoici autem omnia
necessitatibus dantes converso quodam ordine liberum voluntatis arbitrium
custodire conantur. Dicunt enim naturaliter quidem animam habere quandam
voluntatem, ad quam propria natura ipsius voluntatis impellitur, et sicut in
corporibus inanimatis quaedam naturaliter gravia feruntur ad terram, levia
sursum meant, et haec natura fieri nullus dubitet, ita quoque in hominibus et
in caeteris animalibus voluntatem quidem naturalem esse cunctis, et quidquid
fit a nobis secundum voluntatem quae in nobis naturalis est autumant, illud
tamen addunt, quod ea velimus quae providentiae illius necessitas imperavit, ut
sit quidem nobis voluntas concessa naturaliter et id quod facimus voluntate
faciamus, quae scilicet in nobis est, ipsam tamen voluntatem illius
providentiae necessitate constringi. Ita fieri quidem omnia ex necessitate, ƿ
quod voluntas ipsa naturalis necessitatem sequatur fieri etiam quae facimus ex
nobis, quod ipsa voluntas ex nobis est et secundum animalis naturam. Nos autem
liberum voluntatis arbitrium non id dicimus quod quisque voluerit sed quod
quisque iudicio et examinatione collegerit. Alioquin muta quoque animalia
habebunt liberum voluntatis arbitrium. Illa enim videmus quaedam sponte
refugere, quibusdam sponte concurrere. Quod si velle aliquid vel nolle hoc
recte liberi arbitrii vocabulo teneretur, non solum hoc esset hominum sed
caeterorum quoque animalium, quibus hanc liberi arbitrii potestatem abesse quis
nesciat? Sed est liberum arbitrium, quod ipsa quoque vocabula produnt, liberum
nobis de voluntate iudicium quotienscumque enim imaginationes quaedam
concurrunt animo et voluntatem irritant, eas ratio perpendit et de his indicat,
et quod ei melius videtur, cum arbitrio perpenderit et iudicatione collegerit,
facit. Atque ideo quaedam dulcia et speciem utilitatis monstrantia spernimus,
quaedam amara licet nolentes tamen fortiter sustinemus: adeo non in voluntate
sed in iudicatione voluntatis liberum constat arbitrium et non in imaginatione
sed in ipsius imaginationis perpensione consistit. Atque ideo quarundam
actionum nos ipsi principia, non sequaces sumus. Hoc est enim uti ratione uti
iudicatione. Omne enim commune nobis est cum caeteris animantibus, sola ratione
disiungimur. Quod si sola etiam indicatione inter nos et ƿ caetera animalia
distantia, cur dubitemus ratione uti hoc esse quod est uti iudicatione? Quam si
quis ex rebus tollat, rationem hominis sustulerit, hominis ratione sublata nec
ipsa quoque humanitas permanebit. Melius igitur nostri Peripatetici et casum in
rebus ipsis fortuitum dantes et praeter ullam necesaitatem et liberum quoque
arbitrium neque in necessitate neque in eo quod ex necessitate quidem non est,
non tamen in nobis est ut casus sed in electione iudicationis et in voluntatis
examinatione posuerunt. Et in eo autem quod possibile esse dicitur est quaedam
inter Peripateticos et Stoicos dissensio, quam hoc modo paucis absolvimus. Illi
enim definiunt possibile esse quod possit fieri, et quod fieri prohibetur non
sit, hoc ad nostram possibilitatem scilicet referentes, ut quod nos possumus,
id possibile dicerent, quod vero nobis impossibile esset, id possibile
negarent. Peripatetici autem non in nobis hoc sed in ipsa natura posuerunt, ut
quaedam ita essent possibilia fieri, ut essent possibilia non fieri, ut hunc
calamum frangi quidem possibile est, etiam non frangi, et hoc non ad nostram
possibilitatem referunt sed ad ipsius rei naturam. Cui sententiae contraria est
illa quae dicit fato omnia fieri, cuius Stoici auctores sunt. Quod enim fato
fit ex principalibus causis evenit sed si ita est, hoc quod non fiat non potest
permutari. Nos ƿ autem dicimus ita quaedam esse possibilia fieri, ut eadem sint
etiam non fieri possibilia, hoc nec ex necessitate nec ex possibilitate nostra
metientes. His igitur expeditis illud addere sufficiat, haec Aristoteli fixa in
sententia et disciplina retinenti facile fuisse contingentium propositionum
modum de futuris ostendere: in utraque parte facere atque ideo determinatam
eventus constantiam non habere. Quod ni ita esset, omma ex necessitate fieri
crederentur, quod melius liquebit, cum ad ipsa Aristotelis verba venerimus. Non
autem incommode neque incongrue Aristoteles de rebus altioribus et fortasse non
pertinentibus ad artem logicam disputationem transtulit, cum de propositionibus
loqueretur. Neque enim esset rectitudinem et significantiam propositionum
constituere, nisi hanc ex rebus ita esse probavisset. Praedicativae enim
propositiones (ut dictum est) non in sermonibus neque in complexione
praedicationum sed in rerum significatione consistuut. Quare omnibus quae
praedicenda erant explicitis ad ipsius Aristotelis sententias aperiendas
enodandasque perveniamus. IN HIS ERGO QUAE SUNT ET FACTA SUNT NECESSE EST
AFFIRMATIONEM VEL NEGATIONEM VERAM VEL FALSAM ESSE, IN UNIVERSALIBUS QUIDEM
UNIVERSALITER SEMPER HANC QUIDEM VERAM, NAM VERO FALSAM, ET IN HIS QUAE SUNT
SINGULARIA, QUEMADMODUM DICTUM EST. IN HIS VERO QUAE IN UNIVERSALIBUS NON
UNIVERSALITER DICUNTUR, NON EST NECESSE; DICTUM AUTEM EST ET DE HIS. Categoricas
propositiones quae praedicativae Latine possint nominari (ut supra iam diximus)
ex rebus quas ipsae propositiones significant integra ratiocinandi norma
diiudicat. Illae namque quas hypotheticas vel conditionales vocamus ex ipsa
conditione vim propriam trahunt, non ex his quae significant. Cum enim dico: Si
homo est, animal est et: Si lapis est, animal non est illud est
consequens, illud repugnans. Quare ex consequentia et repugnantia propositionum
tota in propositione vis vertitur. Unde fit ut non significatio sed conditio
proposita hypotheticarum enuntiationum vim naturamque constituat: praedicativae
propositiones (ut dictum est) ex rebus principaliter substantiam sumunt. Atque
ideo quoniam quaedam res sunt praesentis temporis, quaedam praeteriti, sicut
eventus ipse rerum praesentis temporis vel praeteriti certus est, ita quoque
praedicativarum propositionum de praeteritis et praesentibus certa veritas
falsitasque est erat autem contradictionis modus duplex: aut enim universalis
particularibus angulariter opponebatur aut singularis significatio affirmativa
singularem negationem contradictoria oppositione peremerat. Et in his una vera
semper, falsa altera reperiebatur. In his autem quae essent indefinitae non
necesse erat unam veram esse, alteram falsam. Sed in his, in quibus veritas et
falsitas dividebatur, in his non solum una vera est semper, altera semper
falsa, in praeterito scilicet et praesenti sed etiam una certam et definitam
veritatem retinet, certam et definitam altera ƿ falsitatem. In his autem quae
sunt in futuro, si necessariae quidem propositiones sunt, licet et secundum
futurum tempus dicantur, necesse est tamen non modo unam veram esse, alteram
falsam sed etiam unam definite veram, definite alteram falsam, ut cum dico: Sol
hoc anno verno tempore in arietem venturus est si hoc alius neget, non
solum una vera est, altera falsa sed etiam vera est in hoc affirmatio definite
falsa negatio. Sed Aristoteles non solet illa futura dicere quae sunt
necessaria sed potius quae sunt contingentia. Contingentia autem sunt (ut supra
iam diximus) quaecumque vel ad esse vel ad non esse aequaliter sese habent, et
sicut ipsa indefinitum habent esse et non esse, ita quoque de his affirmationes
indefinitam habent veritatem vel falsitatem, cum una semper vera sit, semper
altera falsa sed quae vera quaeue falsa sit, nondum in contingentibus notum
est. Nam sicut quae sunt necessaria esse, in his esse definitum est, quae autem
sunt impossibilia esse, in his non esse definitum est, ita quae et possunt esse
et possunt non esse, in his neque esse neque non esse est definitum sed veritas
et falsitas ex eo quod est esse rei et ex eo quod est non esse rei sumitur. Nam
si sit quod dicitur, verum est, si non sit quod dicitur, falsum est. Igitur in
contingentibus et futuris sicut ipsum esse et non esse instabile est, esse
tamen aut non esse necesse est, ita quoque in affirmationibus contingentia ipsa
prodentibus veritas quidem vel falsitas in incerto est (quae enim vera sit,
quae falsa secundum ƿ ipsarum propositionum naturam ignoratur), necesse est
tamen unam veram esse, alteram falsam. Porphyrius tamen quaedam de Stoica
dialectica permiscet: quae cum Latinis auribus nota non sit, nec hoc ipsum quod
in quaestionem venit agnoscitur atque ideo illa studio praetermittemus. IN
SINGULARIBUS VERO ET FUTURIS NON SIMILITER. NAM SI OMNIS AFFIRMATIO VEL NEGATIO
VERA VEL FALSA EST, ET OMNE NECESSE EST VEL ESSE VEL NON ESSE. SI HIC QUIDEM
DICAT FUTURUM ALIQUID, ILLE VERO NON DICAT HOC IDEM IPSUM, MANIFESTUM EST,
QUONIAM NECESSE EST VERUM DICERE ALTERUM IPSORUM, SI OMNIS AFFIRMATIO VERA VEL
FALSA. UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN TALIBUS. NAM SI VERUM EST DICERE, QUONIAM
ALBUM VEL NON ALBUM EST, NECESSE EST ESSE ALBUM VEL NON ALBUM, ET SI EST ALBUM
VEL NON ALBUM, VERUM EST VEL AFFIRMARE VEL NEGARE; ET SI NON EST, MENTITUR, ET
SI MENTITUR, NON EST. QUARE NECESSE EST AUT AFFIRMATIONEM AUT NEGATIONEM VERAM
ESSE. NIHIL IGITUR NEQUE EST NEQUE FIT NEC A CASU NEC UTRUMLIBET NEC ERIT
NECNON ERIT SED EX NECESSITATE OMNIA ET NON UTRUMLIBET. AUT ENIM QUI DICIT
verUS EST AUT QUI NEGAT. SIMILITER ENIM VEL FIERET VEL NON FIERET; UTRUMLIBET
ENIM NIHIL MAGIS SIC VEL NON SIC SE HABET AUT HABEBIT. AMPLIUS SI EST ALBUM
NUNC, VERUM ERAT DICERE PRIMO QUONIAM LERIT ALBUM, QUARE SEMPER VERUM ƿ FUIT
DICERE QUODLIBET EORUM QUAE FACTA SUNT, QUONIAM ERIT. QUOD SI SEMPER VERUM EST
DICERE QUONIAM EST VEL ERIT;, NON POTEST HOC NON ESSE NECNON FUTURUM ESSE. QUOD
AUTEM NON POTEST NON FIERI, IMPOSSIBILE EST NON FIERI; QUOD AUTEM IMPOSSIBILE
EST NON FIERI, NECESSE EST FIERI. OMNIA ERGO QUAE FUTURE SUNT NECESSE EST
FIERI. NIHIL IGITUR UTRUMLIBET NEQUE A CASU ERIT; NAM SI A CASU, NON EX
NECESSITATE. Geminas esse contradictiones in propositionibus supra iam dictum
est et nunc quoque commemoratum in quibus necesse est unam veram esse, alteram
falsam. Sed ea quae dicentur de futuris et contingentibus melius intellegentur,
si de his contingentibus loquamur, quae in singular) contradictione proveniunt.
Est enim universalium angularis contradictio in contmgentibus huiusmodi: Cras
omnes Athenienses bello navali pugnaturi sunt Cras non omnes Athenienses bello
navali pugnaturi sunt In singularibus autem talis est: Cras Socrates in
palaestra disputaturus est Cras Socrates in pallaestra disputaturus non
est Non autem oportet ignorare non esse similiter contingentes has quae
dicunt: Socrates morietur et: Socrates non morietur et illas quae
dicunt: Socrates cras morietur Socrates cras non morietur Illae enim
superiores omnino contingentes non sunt sed sunt necessariae (morietur enim
Socrates ex necessitate), hae vero quae tempus definiunt nec ipsae in numerum
contingentium recipiuntur, idcirco quod nobis quidem cras moriturum esse
Socratem incertum est, naturae autem incertum ƿ non est atque ideo nec deo
quoque incertum est, qui ipsam naturam optime novit sed illae sunt proprie
contingentes, quae neque in natura sunt neque in necessitate sed aut in casu
aut in libero arbitrio aut in possibilitate naturae: ex casu quidem, ut cum
egredior domo amicum videam non ad hoc egrediens, ex libero arbitrio, ut quod
possum et velle et non velle, an velim hoc antequam fiat incertum est, ex
possibilitate, quod cum fieri possit et non fieri possit et antequam fiat, quod
utroque modo potest, incertum sit. Ideoque Cras Socrates disputaturus est in
palaestra contingens est, quod hoc ex libero venit arbitrio. Ergo in
huiusmodi contingentibus si in futurum una semper vera est, altera semper falsa
et una definite vera, falsa altera definite et res verbis congruent, omnia
necesse est esse vel non esse et quidquid fit ex necessitate fit et nihil neque
possibile est esse, quod possibile sit non esse, neque liberum erit arbitrium
neque in rebus ullis casus erit in omnibus necessitate dominante. In his namque
id est in singularibus contradictionibus verum dicere uterque non potest.
Contradictoriae enim erant quae simul esse non possint. Sed nec utraeque,
negationes atque affirmationes, falsae esse in contradictoriis possum. Illae
enim erant contradictoriae quae simul non esse non poterant. Quare unus verum
dicturus est, unus falsum. Quod si nihil datur in huiusmodi rebus id est
contingentibus instabili eventus ordine et incerta veritatis ƿ et falsitatis
enuntiatione provenire, quidquid verum dicitur in affirmatione definite, hoc
definite necesse est, quidquid falsum dicitur in negatione, hoc non esse
necesse est. Omnia igitur ex necessitate aut erunt aut ex necessitate non
erunt. Nihil ergo nec casus nec liberum arbitrium nec possibilitas ulla in
rebus est, siquidem tenet cuncta necessitas. Aristoteles vero sumens istam
hypotheticam propositionem, si omne quod in futuro dicitur aut verum definite
aut falsum est definite, omnia ex necessitate fieri et nihil casu nihil iudicio
nihil possibilitate, ea convenienti ordine monstrat. Et posito unam veram,
alteram falsam definite esse omnia ex necessitate contingere ex consensu rerum
propositionumque demonstrat hoc modo: proponit enim hanc conditionem et hanc
veram esse ex rerum ipsarum necessitate confirmat. Est autem conditio: si omnis
affirmatio vel negatio in futurum ducta vera vel falsa est definite, et omne
quidquid fit ex necessitate fieri et nihil neque casu neque propria et libera
voluntate atque iudicio nec vero aliqua possibilitate, quae hic omnia
utrumlibet vocabulo nuncupavit. Ponit enim hanc conditionem dicens: NAM SI
OMNIS AFFIRMATIO VEL NEGATIO VERA VEL FALSA EST (subaudiendum est
"definite"), et OMNE NECESSE EST ESSE VEL NON ESSE. SI HIC QUIDEM
DICAT FUTURUM ALIQUID, ILLE VERO NON DICAT HOC IDEM IPSUM, MANIFESTUM ƿ EST,
VERUM DICERE ALTERUM IPSORUM, SI OMNIS AFFIRMATIO [uel negatio] VERA VEL FALSA
EST. UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN TALIBUS. Ergo sensus huiusmodi est: si
omnis, inquit, affirmatio vel negatio vera vel falsa est definite, et omne
necesse est aut esse aut non esse, quod vel affirmatio ponit vel negatio
perimit. Nam si quilibet dixerit esse aliquid et alius dixerit idem ipsum non
esse, unus quidem affirmat, alter negat sed in affirmatione et negatione, quae
in contradictione ponuntur, una semper vera est, altera falsa. Neque enim fieri
potest ut utraeque sint verae. Non enim nunc sermo est aut de subcontrarus aut
de indefinitis. Namque subcontrariae, id est particularis negatio et affirmatio
particularis, et indefinitae utraeque verae in eodem esse poterant,
contradictoriae autem minime. Neque enim fieri potest, ut hae quae vel in
singularibus contradictiones sunt vel in universalibus angulariter opponuntur
simul umquam verae sint. Hoc est enim quod ait UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN
TALIBUS, id est utraeque enuntiationes non erunt verae in enuntiationibus
contradictoriis. Posita ergo hac conditione: si omnis affirmatio definite vera
vel falsa sit, omnia ex necessitate evenire, hanc ipsam rerum ipsarum et
propositionum consequentiam et similitudinem monstrare contendit dicens: NAM SI
VERUM EST DICERE, QUONIAM ALBUM VEL NON ALBUM EST, NECESSE EST ESSE ALBUM VEL
NON ALBUM, ET SI EST ALBUM VEL NON ALBUM, VERUM EST VEL AFFIRMARE VEL NEGARE;
ET ƿ SI NON EST, MENTITUR, ET SI MENTITUR, NON EST. QUARE NECESSE EST
AFFIRMATIONEM AUT NEGATIONEM VERAM ESSE. Omnis, inquit, affirmatio omnisque
negatio cum rebus ipsis vel vera vel falsa est, huius autem rei exempla ex
praesentibus sumit. Nam sicut se habent secundum necessitatem in praesenti
tempore enuntiationes, ita se habebunt etiam in futuro. Speculemur igitur in
praesenti quae sit rerum propositionumque necessitas. Si qua enim propositio de
qualibet re dicta vera est, illam rem quam dixit esse necesse est. Si enim
dixerit, quoniam nix alba est, et hoc verum est, veritatem propositionis sequitur
necessitas rei. Necesse est enim esse nivem albam, si propositio quae de ea re
praedicata est vera est. Quod si dixerit quis non esse albam picem et haec vera
est, manifestum est rem quoque propositionis consequi veritatem. Amplius quoque
et propositiones rerum necessitates sequuntur. Si enim est aliqua res, verum
est de ea dicere quoniam est, et si non est aliqua res, verum est de ea dicere
quoniam non est. Ita secundum veritatem affirmationis et negationis necessitas
rei substantiam sequitur et rerum necessitas propositionum comitatur
necessitatem.Atque hoc quidem in veris. In falsis quoque idem est e contrario.
Nam si falsa est affirmatio, rem de qua loquitur non esse necesse est, ut si
falsa est affirmatio quae dicit picem esse albam, non esse albam picem necesse
est. Rursus si falsa est negatio quae dicit nivem non esse albam, esse albam
nivem necesse est. Rursus si res non est, affirmatio quoque de ea re necessarie
falsa est. Quod si rursus res non ƿ sit id quod potest dicere falsa negatio,
sine ulla dubitatione illa negatio falsa est et hoc esse necesse est, ut
quoniam de nive potest dicere falsa negatio, quoniam alba non est, hoc ipsum
quod falsa negatio dicit, id est albam non esse, non est. Nix enim non alba non
est.Quare rerum necessitati falsitas veritasque convertitur. Nam si est
aliquid, vere de eodem dicitur, quoniam est, et si vere dicitur, illam rem de
qua vere aliquid praedicatur esse necesse est; quod si non est id quod dicitur,
falsa enuntiatio est, et si enuntiationes falsae sunt, res non esse necesse
est. Quod si haec ita sunt, positum est autem omnem affirmationem et negationem
veram esse definite, quoniam propositionum veritatem vel falsitatem rerum
necessitas secundum esse vel non esse consequitur (esse quidem secundum
veritatem, ut dictum est, non esse secundum falsitatem): nihil fit casu neque
libera voluntate nec aliqua possibilitate. Haec enim quae utrumlibet vocamus
talia sunt, quae cum nondum sunt facta et fieri possunt et non fieri, si autem
facta sint, non fieri potuerunt, ut hodie me Vergilii librum legere, quod
nondum feci, potest quidem non fieri, potest etiam fieri, quod si fecero, potui
non facere. Haec igitur huiusmodi sunt quaecumque utrumlibet dicuntur.
Utrumlibet autem quid sit ipse planius monstrat dicens: utrumlibet enim nihil
magis sic vel non sic se habet aut habebit. Est enim utrumlibet quod vel ad
esse vel ad non esse aequaliter sese habeat, id est neque illud esse necesse
sit ƿ neque non esse necesse sit. Putaverunt autem quidam, quorum Stoici quoque
sunt, Aristotelem dicere in futuro contingentes nec veras esse nec falsas. Quod
enim dixit nihil se magis ad esse habere quam ad non esse, hoc putaverunt
tamquam nihil eas interesset falsas an veras putari. Neque veras enim neque
falsas esse arbitrati sunt. Sed falso. Non enim hoc Aristoteles dicit, quod
utraeque nec verae nec falsae sunt sed quod una quidem ipsarum quaelibet aut
vera aut falsa est, non tamen quemadmodum in praeteritis definite nec
quemadmodum in praesentibus sed enuntiativarum vocum duplicem quodammodo esse
naturam, quarum quaedam essent non modo in quibus verum et falsum inveniretur
sed in quibus una etiam esset definite vera, falsa altera definite, in aliis
vero una quidem vera, altera falsa sed indefinite et commutabiliter et hoc per
suam naturam, non ad nostram ignorantiam atque notitiam. Quocirca recte dictum
est, si omnis affirmatio vel negatio vera definite esset, nihil fieri neque
esse vel a casu vel a communi nomine utrumlibet nec esse aut non esse
contingenter sed aut esse definite aut non esse definite sed magis ex
necessitate omnia. Hoc enim consequitur eum qui dicit aut eum qui affirmat
verum esse aut eum qui negat. Quod si hoc verum esset, itidem cum veritate vel
fieret vel cum falsitate non fieret quod a vere falseue enuntiantibus
dicebatur. Quod si hoc impossibile ƿ est et sunt quaedam res quae necessitate
non sint (videmus autem quasdam esse casu, quasdam ex voluntate, quasdam ex
propriae possibilitate naturae), frustra putatur sicut in praeteritis, ita
quoque in futuris enuntiationibus unam esse veram, alteram falsam definite. Quare
haec una fuit eius argumentatio. Aliam vero quasi ipse sibi opponens aliquam
quaestionem ingreditur validiore tractatu: AMPLIUS SI EST ALBUM NUNC, VERUM
ERAT DICERE PRIMO QUONIAM ERIT ALBUM, QUARE SEMPER VERUM FUIT DICERE QUODLIBET
EORUM QUAE FACTA SUNT, QUONIAM ERIT. QUOD SI SEMPER VERUM EST DICERE QUONIAM
EST VEL ERIT, NON POTEST HOC NON ESSE NECNON FUTURUM ESSE. QUOD AUTEM NON
POTEST NON FIERI, IMPOSSIBILE EST NON FIERI; QUOD AUTEM IMPOSSIBILE EST NON
FIERI, NECESSE EST FIERI. OMNIA ERGO QUAE FUTURA SUNT NECESSE EST FIERI. NIHIL
IGITUR UTRUMLIBET NEQUE A CASU ERIT; NAM SI A CASU, NON EX NECESSITATE. Ad
adstruendum non esse omnes enuntiationes veras definite in futuro vel falsas ex
eadem quidem argumentationis virtute et ex eodem possibilitatis eventu,
diversam tamen ingreditur actionis viam. Dudum enim ex his quae nondum erant
facta, si vere futura esse praedicerentur, in rebus necessitatem solam esse
posse collegit. Nunc autem ex his rebus quae facta sunt argumentationem capit,
si vere antequam fierent praedicerentur, necessitatis nexu eventus rerum omnium
contineri. Arbitrantur enim hi qui dicunt contingentium quoque propositionum
stabilem esse enuntiationis modum secundum veritatem scilicet atque ƿ
mendacium, quod omnia quaecumque facta sunt, inquiunt, potuerunt praedici,
quoniam fient. Hoc enim in natura quidem fuit antea sed nobis hoc rei ipsius
patefecit eventus. Quare si omnia quaecumque evenerunt sunt et ea quae sunt
futura esse praedici potuerunt, necesse est omnia quae dicuntur aut definite
vera esse aut definite falsa, quoniam definitus eorum eventus secundum praesens
tempus est. Quare in omnibus in quibus aliquid evenit verum est dicere, quoniam
eventurum est, et si nondum adhuc factum est. Hoc autem illa res probat verum
fuisse tunc dici, quoniam evenit id quod praedici potuerat; quod si praedictum
esset, res eventura definita veritate praediceretur. Hoc Aristoteles sumens ad
idem impossibile validissima ratione perducit et praesentis temporis naturam
cum futuri enuntiatione coniungit. Ait enim simile esse de praesentibus
enuntiare secundum veritatis necessitatem et de futuris: nam si verum est dicere,
quoniam est aliquid, esse necesse est, et si verum est dicere, quoniam erit,
futurum sine dubio esse necesse est: omnia igitur ex necessitate futura sunt:
ad idem scilicet impossibile argumentationem trahens. Sumit autem huius
impossibilitatis ordinem ex his propositionibus quae faciliores quidem ad
intellectum sunt, idem tamen valent hoc modo: SI SEMPER, inquit, VERUM EST
DICERE, QUONIAM EST VEL ERIT, quidquid tunc verum fuit praedicere, illud NON
POTEST NON ESSE NECNON FUTURUM ESSE. Quemadmodum enim id quod in praesenti vere
dicitur esse, hoc non potest non esse, si vera de eo propositio ƿ fuit, quae
dicebat esse, ita quoque in futuro quae dicit aliquid futurum esse, illa si
vera est, non potest non futurum esse quod praedicit. Quod si non potest non
fieri quod a vera propositione praedicitur, impossibile est non fieri. Idem est
enim dicere non potest non fieri, quod dicere impossibile est non fieri. Quod
autem impossibile est non fieri, necesse est fieri. Impossibile enim idem
necessitati valet contrarie praedicatum, ut ipse post docuit. Nam quod
impossibile est esse necesse est non esse. Quod enim ut sit possibile non est,
illud non esse necesse est. Quod si hoc est, et contraria se eodem modo
habebunt. Quod est impossibile non esse, hoc esse necesse est. Sed dictum est
ea quae vera praedicuntur impossibile esse non esse, hoc autem est ex
necessitate esse. Ea igitur quae praedicuntur ex necessitate futura sunt. Nihil
igitur utrumlibet neque casu nec omnino secundum liberum arbitrium, quod
utrumlibet significatio totum clausit. Nam quod dicit utrumlibet et
possibilitatem et casum et liberum in significatione tenet arbitrium. Ergo
nihil fit a casu. Nam si quaedam casu fieri dicat, ille rursus in ea re perimit
necessitatem. Quod enim casu est non ex necessitate est. Nihil autem fit a
casu, quoniam omnia ex necessitate proveniunt, quaecumque enuntiatio vera
praedixerit. Evenit autem huiusmodi impossibilitas ex eo quod concessum est
prius, omnia quaecumque facta sunt definite vere potuisse praedici. Nam si ex
necessitate contingit id quod evenit, verum ƿ fuit dicere quoniam erit. Quod si
ex necessitate non contingit sed contingenter, non potius verum fuit dicere
quoniam erit sed magis quoniam contingit esse. Nam qui dicit erit, ille quandam
necessitatem in ipsa praedicatione ponit. Hoc inde intellegitur, quod si vere
dicat futurum esse id quod praedicitur non possibile sit non fieri, hoc autem
ex necessitate sit fieri. Ergo qui dicit, quoniam erit aliquid eorum quae
contingenter eveniunt, in eo quod futurum esse dicit id quod contingenter
evenit fortasse mentitur; vel si contigerit res illa quam praedicit, ille tamen
mentitus est: non enim eventus falsus est sed modus praedictionis. Namque ita
oportuit dicere: Cras bellum navale contingenter eveniet hoc est dicere:
ita evenit, si evenerit, ut potuerit non evenire. Qui ita dicit verum dicit,
eventum enim contingenter praedixit. Qui autem ita infit: Cras bellum erit
navale quasi necesse sit, ita pronuntiat. Quod si evenerit, non iam
idcirco quia praedixit verum dixerit, quoniam id quod contingenter eventurum
erat necessarie futurum praedixit. Non ergo in eventu est falsitas sed in
praedictionis modo. Quemadmodum enim si quis ambulante Socrate dicat: Socrates
ex necessitate ambulat ille mentitus est non in eo quod Socrates ambulat
sed in eo quod non ex necessitate ambulat, quod ille eum ex necessitate
ambulare praedicavit, ita quoque in hoc qui dicit quoniam erit aliquid, etiam
hoc si fiat, ille tamen ƿ falsus est, non in eo quod factum est sed in eo quod
non ita factum est, ut ille praedixit esse futurum. Quod si verum esset
definite, ex necessitate esset futurum. Igitur ex necessitate futurum esse
praedixit, quodcumque sine ullo alio modo eventurum pronuntiavit. Quare non in
eventu rei sed in praedicationis enuntiatione falsitas invenitur. Oportet enim
in contingentibus ita aliquid praedicere, si vera erit enuntiatio, ut dicat
quidem futurum esse aliquid sed ita, ut rursus relinquat esse possibile, ut
futurum non sit. Haec autem est contingentis natura contingenter in enuntiatione
praedicare. Quod si quis simpliciter id quod fortasse contingenter eveniet
futurum esse praedixerit, ille rem contingentem necessarie futuram praedicit.
Atque ideo etiam si evenerit id quod dicitur, tamen ille mentitus est in eo
quod hoc quidem contingenter evenit, ille autem ex necessitate futurum esse
praedixerit. Cum ergo sint quatuor enuntiationum veritatis et falsitatis modi,
de his scilicet propositionibus quae in futuro praedicuntur (aut quoniam et
erit et non erit id quod dicitur, id est ut et affirmatio et negatio vera sit,
aut quoniam nec erit necnon erit, id est ut et affirmatio et negatio falsae
sint, aut quoniam erit aut non erit, una tamen definite vera, altera falsa, aut
rursus quoniam erit aut non erit utrisque secundum veritatem et falsitatem
indefinitis et aequaliter ad veritatem mendaciumque vergentibus) docuit quidem
supra et esse et non esse fieri nou posse, cum dicit: UTRAQUE ENIM NON ERUNT
SIMUL IN TALIBUS. Docuit etiam aliquantisper aut ƿ esse aut non esse definite
in contingentibus et futuris propositionibus esse non posse. Nunc illud addit,
quod neque esse neque non esse, id est quod nec illud dici vere possit, posse
utrasque inveniri falsas, quae dicuntur in futuro propositiones. Quod si neque
utraeque verae sunt neque utraeque falsae neque una definite vera, falsa altera
definite, restat ut una quidem vera sit, altera falsa, non tamen definite sed
utrumlibet et instabili modo, ut hoc quidem aut hoc evenire necesse sit, ut
tamen una res quaelibet quasi necessarie et definite proveniat aut non
proveniat fieri non possit. Quemadmodum autem utrasque falsas non esse
demonstraret, hic inchoat: AT VERO NEC QUONIAM NEUTRUM VERUM EST CONTINGIT
DICERE, UT QUONIAM NEQUE ERIT NEQUE NON ERIT. PRIMUM ENIM CUM SIT AFFIRMATIO
FALSA, ERIT NEGATIO NON VERA ET HAEC CUM SIT FALSA, CONTINGIT AFFIRMATIONEM
ESSE NON VERAM. AD HAEC SI VERUM EST DICERE, QUONIAM ALBUM EST ET MAGNUM,
OPORTET UTRAQUE ESSE; SIN VERO ERIT CRAS, ESSE CRAS; SI AUTEM NEQUE ERIT NEQUE
NON ERIT CRAS, NON ERIT UTRUMLIBET, UT NAVALE BELLUM; OPORTEBIT ENIM NEQUE
FIERI NAVALE BELLUM NEQUE NON FIERI NAVALE BELLUM. Sensus argumentationis
huiusmodi est: nec illud, inquit, dici poterit, quod contingentium
propositionum neutra vera sit in futuro. Hoc autem nihil differt dicere quam si
quis dicat utrasque esse falsas. Hoc enim impossibile est. In contradictionibus
namque utraeque falsae inveniri non possunt. Hoc enim proprium ƿ
contradictoriarum est: ut proprietatem subcontrariarum refugiunt in eo quod
simul verae esse non possunt, ita quoque et contrariarum proprietatem vitant in
eo quod simul falsae non reperiuntur. Habent ergo propriam naturam, ut neque
falsae simul sint neque verae. Quare una ipsarum semper erit vera, semper
altera falsa. Impossibile est igitur, cum sit falsa negatio, non veram esse
affirmationem, et rursus cum sit falsa affirmatio, negationem esse non veram.
Igitur nec hoc est dicere, quod utraeque non verae sint. Quod per hoc dixit
quod ait: AT VERO NEC QUONIAM NEUTRUM VERUM EST CONTINGIT DICERE, id est non
nobis contingit dicere, hoc est impossibile est dicere, quoniam neutrum verum
est, scilicet quod affirmationibus negationibusue prop onit ur contingentibus
scilicet et futuris. Qui autem Aristotelen arbitrati sunt utrasque
propositiones in futuro falsas arbitrari, si haec quae nunc dicit
diligentissime perlegissent, numquam tantis raptarentur erroribus. Neque enim
idem est dicere neutra vera est quod dicere neutra vera est definite. Futurum
esse enim cras bellum navale et non futurum non dicitur quoniam utraeque omnino
falsae sunt sed quoniam neutra est vera aut quaelibet ipsarum definite falsa
sed haec quidem vera, illa falsa, non tamen una ipsarum definite sed quaelibet
illa contingenter. His autem ƿ adicit aliud quiddam dicens: si propositionum
veritas ex rerum substantia pendet, ut quidquid verum est in propositionibus
dicere hoc esse necesse sit, si verum est dicere, quoniam erit aliquid album,
veritatem sequitur rei necessarius eventus. Quod si dicat quis quamlibet illam
rem cras albam futuram, si hoc vere dixerit, cras ex necessitate alba futura
est. Sic igitur, si quis verum dicit neutram esse veram propositionum earum
quae in futuro dicuntur, necesse est id quod dicitur et significatur ab illis
propositionibus nec esse necnon esse. Fal sa enim et affirmatione et negatione
nec quod affirmatio dicit fieri potest nec quod negatio. Ergo ex necessitate
neutrum fit, quod vel affirmatio dicit vel negatio. Ergo si dicat affirmatio
cras bellum navale futurum, quoniam falsa affirmatio est, non erit cras bellum
navale. Rursus si idem neget negatio dicens non erit cras bellum navale,
quoniam haec quoque falsa est, erit cras bellum navale. Quare nec erit bellum
navale, quia affirmatio falsa est, necnon erit bellum navale, quia negatio. Sed
hanc ineptiam nec animus sibi ipse fingere potest. Quis enim umquam dixerit rem
aliquam ex necessitate nec esse nec non esse? Quod ille scilicet dicit, qui
dicit utrasque propositiones in futuro falsas exsistere. QUAE ERGO CONTINGUNT
INCONVENIENTIA HAEC SUNT ET HUIUSMODI ALIA, SI OMNIS AFFIRMATIONIS ET
NEGATIONIS VEL IN HIS QUAE IN UNIVERSALIBUS ƿ DICUNTUR UNIVERSALITER VEL IN HIS
QUAE SUNT SINGULARIA NECESSE EST OPPOSITARUM HANC ESSE VERAM, ILLAM VERO
FALSAM, NIHIL AUTEM UTRUMLIBET ESSE IN HIS QUAE FIUNT SED OMNIA ESSE VEL FIERI
EX NECESSITATE. QUARE NON OPORTEBIT NEQUE CONSILIARI NEQUE NEGOTIARI, QUONIAM
SI HOC FACIMUS, ERIT HOC, SI VERO HOC, NON ERIT. NIHIL ENIM PROHIBET IN
MILLENSIMUM ANNUM HUNC QUIDEM DICERE HOC FUTURUM ESSE, HUNC VERO NON DICERE.
QUARE EX NECESSITATE ERIT QUODLIBET EORUM VERUM ERAT DICERE TUNC. Omnia in
futuro vel vera vel falsa esse definite in propositionibus arbitrantes
impossibilitas ista consequitur: nihil enim neque ex libero voluntatis arbitrio
neque ex aliqua possibilitate, neque ex casu quidquam fieri potest, si omnia
necessitati subiecta sunt. Quamquam quidam non dubitaverint dicere omnia ex
necessitate et quibusdam artibus conati sunt id quod in nobis est cum rerum
necessitate coniungere. Dicunt enim quidam, quorum sunt Stoici, ut omnia
quaecumque fiunt fati necessitate proveniant, et omnia quao fatalis agit ratio
sine dubio necessitate contingere. Sed illa esse sola in nobis et ex voluntate
nostra, quaecumque per voluntatem nostram et per nos ipsos vis fati complet ac
perficit. Neque enim, inquiunt, voluntas nostra in nobis est sed idem volumus
idemque nolumus, quidquid fati necessitas imperavit, ut voluntas quoque nostra
ex fato pendere ƿ videatur. Ita, quoniam per voluntatem nostram, quaedam ex
nobis fiunt et ea quae fiunt in nobis fiunt quoniamque voluntas ipsa ex
necessitate fati est, etiam quae nos voluntate nostra facimus, quod necessitas
imperavit ea, ipsa impulsi facimus necessitate. Quare hoc modo significationem
liberi arbitrii permutantes necessitatem et id quod in nobis est coninugere
impossibiliter et copulare contendunt. Illud enim in nobis est liberum
arbitrium, quod sit omni necessitate uacuum et ingenuum et suae potestatis,
quorumdamque nos domini quodammodo sumus vel faciendi vel non faciendi. Quod si
voluntatem quoque nostram fati nobis necessitas imperet, in nobis voluntas ipsa
non erit sed in fato, nec erit liberum arbitrium sed potius seruiens
necessitati. Unde fit ut, qui omnes actus eventnum necessitate constringunt,
dicant per hoc poplitem quoque nos non flectere, nisi fatalis necessitas iusserit,
caput quoque non scalpere, quare nec lauare, quare nec agere aliquid. His etiam
adiciam vel aliquid feliciter vel aliquid infeliciter facere vel pati. Unde fit
ut neque casum neque liberum arbitrium nec possibile in rebus ullum esse
contendant, quamuis liberum destruere metuentes arbitrium aliam ei fingant
significationem, per quam nihilominus libera hominis voluntas euertitur. Aristotelica
vero auctoritas ita haec in rebus posita et constituta esse confirmat, ut non
exponat nunc, quid sit casus quidue possibile quidue in nobis, nec ea esse in
rebus ƿ probet atque demonstret sed in tantum apud illum haec in rebus esse
manifestum est, ut opinionem, qua quis arbitratur enuntiationes in futuro omnes
esse veras, per hoc impossibilem esse dicat, quod casum et possibilitatem
liberumque euertat arbitrium. Haec enim ita constituta in rebus putat, ut non
de his ulla opus sit demonstratione sed impossibilis ratio iudicetur,
quaecumque vel possibile vel casum vel id quod in nobis est conatur euertere.
Et casum quidem quemadmodum definita in propositionibus futuris veritas
destruat supra monstravit. Nunc autem quemadmodum eadem ipsa veritas definita
futurarum et contingentium propositionum tollat liberi arbitrii facultatem
maxima vi argumentationis exsequitur dicens: huiusmodi cuncta contingere
impossibilia, si quis unam enuntiationis partem definite veram vel falsam esse
confingat. Sed nos secuti Porphyrium, cum huius disputationis expositionem
coepimus, id quod prius dixit IN SINGULARIBUS ET FUTURIS ob hoc dixisse
praediximus, quod facilior sit intellectus disputationis, si haec prius in
singularibus perspicerentur. De quibus singularibus diligentissime praelocutus
nunc de universalibus universaliter praedicatis et quae in his fiunt
contradictiones loquitur. Ita enim dicit: SI OMNIS AFFIRMATIONIS ET NEGATIONIS
VEL IN HIS QUAE IN UNIVERSALIBUS DICUNTUR UNIVERSALITER VEL IN HIS QUAE SUNT
SINGULARIA NECESSE EST OPPOSITARUM HANC ESSE VERAM, ILLAM VERO FALSAM. Alexander
autem in singularibus et futuris dixisse eum arbitratur, tamquam si diceret in
his futuris ƿ quae in generatione et corruptione sunt. Sunt enim quaedam futura
quae in generatione et corruptione non sunt, ut quod de sole vel de luna vel de
caeteris caelestibus pronuntiatur. Haec vero, quae sunt in rebus his quarum est
et nasci et corrumpi natura, unam semper non necesse est veram esse, alteram
falsam. Sed neutram ego improbo expositionem, utraeque enim veracissima ratione
firmantur. Omnis autem sensus talis est, quo necessitatem solam in rebus
imperare destruit Aristoteles: omne quod natura est non frustra est; consiliari
autem homines naturaliter habent; quod si necessitas in rebus sola dominabitur,
sine causa est consiliatio; sed consiliatio non frustra est, natura enim est:
non igitur potest in rebus cuncta necessitas. Ordo autem se sit habet: QUAE
ERGO, inquit, CONTINGUNT INCONVENIENTIA HAEC SUNT ET HUIUSMODI ALIA, scilicet
quoniam qui est in rebus casus euertitur, alia vero quoniam possibilitas et
liberi arbitrii voluntas amittitur. Et haec quomodo contingunt ipse secutus est
dicens: SI OMNIS AFFIRMATIONIS ET NEGATIONIS VEL IN HIS QUAE IN UNIVERSALIBUS
DICUNTUR UNIVERSALITER VEL IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA NECESSE EST OPPOSITARUM
HANC ESSE VERAM, ILLAM VERO FALSAM, NIHIL AUTEM UTRUMLIBET ESSE IN HIS QUAE
FIUNT SED OMNIA ESSE VEL FIERI EX NECESSITATE. Tunc enim inconvenientia illa
contingunt, si omnis affirmatio et negatio definite vera vel falsa est sive in
his contradictionibus quae in universalibus angulariter fiunt sive in
singularibus. Tunc enim nihil est utrumlibet sed ex necessitate omnia, quoniam
veritatem et falsitatem propositionum rerum eventus ex necessitate consequitur.
Quare ut ipse ait non oportebit neque consiliari neque negotiari, quoniam si
hoc facimus, erit hoc, si vero hoc, non erit. Euertitur enim consiliatio, si
frustra est, frustra autem eam esse dicit, quisquis in rebus solam ponit fati
necessitatem. Cur enim quisque consilium habeat, si nihil ex eo quod
consiliatur efficiet, cum administret cuncta necessitas? Quare non oportebit consiliari
vel, si quis consiliatur, negotiari non debet. Negotiari autem est actu aliquid
et negotio agere, non lucrum sed aliquam causam vel actum. Nihil enim ipse per
actum suum consiliumque expediet, nisi fati necessitas inbet. Docuit autem quid
esset consiliatio per hoc quod ait: QUONIAM SI HOC FACIMUS, ERIT HOC, SI HOC,
NON ERIT. Ita enim semper fit consiliatio, ut si sit Scipio, ita consiliabitur:
si in Africam exercitum ducam, cladem Hannibalis ab Italia removebo: sin vero non
ducam, non eripietur Italia. Hoc est enim dicere: si hoc facio, ut si in
Africam exercitum ducam, erit hoc, id est eripietur Italia: sin vero hoc, id
est si hic mansero, non erit hoc, non eripietur Italia. Et in aliis omnibus
rebus eodem modo. Simul autem monstravit in consiliis non esse necessitatem. Si
enim hoc, inquit, faciam, erit hoc, et si hoc, non erit. Quod si necessitas in
rebus esset, sive hoc quis faceret sive non faceret, quod necesse esset
eveniret. Quare quod consilii ratione fit non fit violentia necessitatis. Adiunxit
ƿ autem ei quod est consiliari NEQUE NEGOTIARI et est ordo hoc modo: QUARE NON
OPORTEBIT NEQUE CONSILIARI, QUONIAM SI HOC FACIMUS, ERIT HOC, SI VERO HOC, NON
ERIT (NIHIL ENIM PROHIBET IN MILLEN SI MUM ANNUM HUNC QUIDEM DICERE HOC FUTURUM
ESSE, HUNC VERO NON DICERE. QUARE EX NECESSITATE ERIT QUODLIBET EORUM VERUM ERAT
DICERE TUNC) NEQUE NEGOTIARI id est actum incipere atque negotium gerere. Prior
enim est consiliatio, posterius negotium sed negotium post consiliationem
posuit et cuncta quae ad consiliationis naturam addi oportebat post
negotiationis interpositionem subdidit. Est autem hoc modo: si omnia, inquit,
necessitas agit, non oportet consiliari, quoniam si hoc facimus proveniet nobis
hoc, si vero hoc facimus, non proveniet. Nihil enim prohibet frustra unum
dicere, alterum negare dicentem: si hoc facimus, erit hoc aut non erit. Quod
enim eventurum est fiet, sive ille per consilium coniectet hoc posse fieri, si
quid aliud fecerit, sive ille neget hoc posse fieri, si hoc quod dixit faciat.
Ex necessitate enim futurum est quidquid unus ipsorum verum dixerit. Quod si
consiliari omnino non oportet, nec negotiari oportebit id est nullum incipere
negotium. Sive enim quis incipiat sive non incipiat, quod ex necessitate est
sine ulla dubitatione proveniet. Quare nihil alter homo altero distabit homine.
Eo enim meliores homines ƿ iudicamus, quod potiores sunt in consilio. Sed ubi
consiliatio frustra est cuncta necessitate faciente, homines quoque inter se
nihil differunt. Ipsa enim consiliatio nil differt utrum bona an mala sit, cum
proventus necessitas in fati administratione consistat. Quare si boni consilii
homines laude digni sunt, mali consilii vituperatione, non aliter hoc erit
iuste, nisi malus actus malumque consilium et e contra bonum in nostra sit
potestate et non in fato. Cum enim nulla ex necessitate constringitur eventus
rei, tunc et liberum voluntatis arbitrium, ut non sit fatali seruiens
necessitati. Ergo neque qui in hoc mundo simplices rerum ordines posuerunt
recipiendi sunt et hi qui in permixta hac mundana mole non permixtas quoque
actuum causas accipiunt repudiandi. Nam neque qui casu omnia evenire dicunt
recte arbitrantur neque qui omnia necessitatis violentia fingunt sana opinione
tenentur neque omnia ex libero arbitrio esse manifestum est sed horum omnium et
causae mixtae et eventus. Sunt enim quaedam ex casu, sunt aliqua ex
necessitate, quaedam etiam videmus libero teneri iudicio. Et actuum quidem
nostrorum voluntas in nobis est. Nostra enim voluntas domina quodammodo est
nostrorum actuum et totius vitae rationis sed non ƿ eodem modo eventus quoque
in nostra est potestate. Pro alia namque re aliquid ex libero arbitrio
facientibus ex isdem veniens causis casus interstrepit. Ut cum scrobem deponens
quis, ut infodiat vitem, si thesaurum inveniat, scrobem quidem deponere ex
libero venit arbitrio, invenire thesaurum solus attulit casus, eam tamen causam
habens casus, quam voluntas attulit. Nisi enim foderet scrobem, thesaurus non
esset inventus. Quidam autem eventus nostris voluntatibus suppetit, quosdam
impedit quaedam violenta necessitas. Prandere enim vel legere et alia huiusmodi
sicut ex nostra voluntate sunt, ita quoque eorum saepe ex nostra voluntate
pendet eventus. Quod si nunc imperare Persis velit Romanus, arbitrium quidem
voluntatis in ipso est sed hunc eventum durior necessitas retinet et ad
perfectionem uetat adduci. Itaque omnium rerum et casus et voluntas et
necessitas dominatur nec una harum res in omnibus ponenda est sed trium mixta
potentia. Unde fit ut peccantium consideretur magis animus potius quam eventus
et puniatur animus non perfectio, idcirco quod voluntas quidem nobis libera est
sed aliquotiens perfectionis ordo retinetur. Quod si omnia vel casu vel
necessitate fierent, nec laus digna bene facientibus nec ultio delinquentibus
nec leges ullae essent iustae, quae aut bonis praemia aut malis restituerent
poenas. Venio nunc ad illud, quod multis quaeritur modis, an divinatio maneat,
si non omnia in rebus ex necessitate contingunt. Nam quod in vera praedictione
est, ƿ idem est in scientia, et sicut cum quis verum praedicit quod vere
praedicitur esse necesse est, ita quod quis futurum novit illud futurum esse
necesse est. Sed divinatio non omnia ut ex necessitate futura pronuntiat atque
idcirco frequenter ita divinatur, quod facillime in ueterum libris agnoscitur:
hoc quidem eventurum est sed si hoc fit non eveniet, quasi intercidi possit et
alio modo evenire. Quod si ita est, necessitate non evenit. Utrum autem, si
omnia futura sciat deus, omnia esse necesse est, ita quaeramus. Si quis dicat
dei scientiam de futuris eventuum subsequi necessitatem, is profecto
conversurus est, si omnia necessitate non contingunt, omnia deum scire non
posse. Nam si scientiam dei sequitur eventuum necessitas, si eueutuum
necessitas non sit, divina scientia perimitur. Et quis tam impia ratione animo
torqueatur, ut haec de deo dicere audeat? Sed fortasse quis dicat, quoniam
evenire non potest, ut deus omnia futura non noverit, hinc evenire ut omnia ex
necessitate sint, quoniam deo notitiam rerum futurarum tollere nefas est. Sed
si quis hoc dicat, illi videndum est, quod deum dum omnia scire conatur
efficere omnia nescire contendit. Binarium enim numerum esse imparem si quis se
scire proponat, non ille noverit sed potius nescit. Ita quod non est potentiae
nosse se id ƿ arbitrari nosse potius impotentiae est. Quisquis ergo dicit deum
cuncta nosse et ob hoc cuncta ex necessitate esse futura, is dicit deum ex
necessitate eventura credere, quaecumque ex necessitate non eveniunt. Nam si
omnia ex necessitate eventura novit deus, in notione sua fallitur. Non enim
omnia ex necessitate eveniunt sed aliqua contingenter. Ergo si quae
contingenter eventura sunt ex necessitate eventura noverit, in propria
providentia falsus est. Novit enim futura deus non ut ex necessitate evenientia
sed ut contingenter, ita ut etiam aliud posse fieri non ignoret, quid tamen
fiat ex ipsorum hominum et actuum ratione persciscat. Quare si quis omnia ex
necessitate fieri dicat, deo quoque benivolentiam subripiat necesse est. Nihil
enim illius benignitas parit, quandoquidem cuncta necessitas administrat, ut
ipsum dei benefacere ex necessitate quodammodo sit et non ex ipsius voluntate.
Nam si ex ipsius voluntate quaedam fiunt, ut ipse nulla necessitate ciaudatur,
non omnia ex necessitate contingunt. Quis igitur tam impie sapiens deum quoque
necessitate constringat? Quis omnia ex necessitate fieri dicat, ista quoque vis
impossibilitatis eveniet? Quare ponendum in rebus est casu quaedam posse et
voluntate effici et necessitate constringi et ratio, quae utrumuis horum subruit,
impossibilis iudicanda est. Non igitur immerito Aristoteles ad impossibilem
rationem perducit dicens et possibilitatem et casum et liberum arbitrium
deperire, quod fieri nequit, si omnium futurarum ƿ enuntiationum una semper
vera est definite, falsa semper altera definite. Harum enim veritatem et
falsitatem necessitas consequitur, quae et casum de rebus et liberum subiudicat
arbitrium. Unde nunc quoque idem repetens dicit: nihil impedire, utrum aliquis
ante mille annos dicat aliquid futurum esse an alius neget. Non enim secundum
dicere vel negare cuncta facienda sunt vel non facienda sed si necesse est
dicentem vel negantem res quoque affirmatas vel negatas subsequi, [etiam si
illi non dicant] quae illis dicentibus evenire necesse erat, etiam non
dicentibus evenire necesse est. Dicit autem hoc modo: AT VERO NEC HOC DIFFERT,
SI ALIQUI DIXERUNT CONTRADICTIONEM VEL NON DIXERUNT; MANIFESTUM EST ENIM, QUOD
SIC SE HABENT RES, ET SI HIC QUIDEM AFFIRMAVERIT, ILLE VERO NEGAVERIT; NON ENIM
PROPTER NEGARE VEL AFFIRMARE ERIT VEL NON ERIT NEC IN MILLENSIMUM ANNUM MAGIS
QUAM IN QUANTOLIBET TEMPORE. QUARE SI IN OMNI TEMPORE SIC SE HABEBAT, UT UNUM
verE DICERETUR, NECESSE ESSET HOC FIERI ET UNUMQUODQUE EORUM QUAE FIUNT SIC SE
HABERET, UT EX NECESSITATE FIERET. QUANDO ENIM VERE DICIT QUIS, QUONIAM ERIT,
NON POTEST NON FIERI ET QUOD FACTUM EST VERUM ERAT DICERE SEMPER, QUONIAM ERIT.
Eventus necessariarum rerum Aristoteles non ex praedicentium veritate sed ex
ipsarum rerum natura considerans inquit: licet necesse sit, quisquis de re
aliqua vera praedixerit, rem quam ante praenuntiaverit evenire, non tamen
idcirco rerum necessitas ex praedictionis veritate pendet sed divinandi veritas
ex rerum potius necessitate perpenditur. Non enim idcirco esse necesse est,
quoniam verum aliquid praedictum est sed quoniam necessario erat futurum,
idcirco de ea re potuit aliquid vere praedici. Quod si ita est, eveniendi rei
vel non eveniendi non est causa is qui praedicit futuram esse vel negat. Non
enim affirmationem et negationem esse necesse est sed idcirco ea esse necesse
est quae futura sunt, quoniam in natura propria quandam habent necessitatem, in
quam si quis incurrerit, verum est quod praedicit. Ergo si quaecumque nunc
facta sunt verum de his fuisset dicere quoniam erunt, sive ille dixisset sive
non dixisset, haec quae nunc facta sunt erant ex necessitate futura. Non enim
propter dicentem vel negantem in rebus necessitas est sed propter rerum
necessitatem veritas in praenuntiatione vel falsitas invenitur. Quare si etiam
ea quae nunc facta sunt vere potuissent praedici quoniam erunt et his ita
positis rem necesse esset evenire, sive illi praedicerent sive non
praedicerent, necesse est omne quod fit ex necessitate es se futurum et nihil
omnino utrumlibet ƿ in rebus est. Namque si nihil necessitatem rerum adivuat
divinatio et nihil interest, utrum quis praedicat futurum esse aliquid an neget
an nullus omnino aliquid nec in affirmatione nec in negatione praedicat,
manifestum est quoniam nec de eo ulla distantia est, sive quis ante quamlibet
multum tempus aliquid eventurum vere esse praedixerit sive ante quamlibet
paucos dies vel horas vel momenta. Nihil enim interest: sive enim quis ante
mille annos praediceret, quod ex necessitate esset futurum, sive ante annum vel
mensem vel diem vel horam vel momentum, de necessitate rei eventurae nihil
moveret. Quod enim nihil interesset utrum praediceretur an non praediceretur,
nihil quoque interest an iuxta praedicatur an longius. Quod si haec ita sunt et
omnia quaecumque evenerunt futura fuisse necesse est, totum liberum arbitrium
perit, totus casus absumitur, rerum possibilitas praeter necessitatem omnis
excluditur. Simul autem Aristoteles praenuntiationem eventumque coniungens
rerum necessitatem ex ipsa propositionum veritate confirmat dicens: si haec ita
sunt, ut in omni tempore sic se haberet unumquodque quod factum est, ut hoc
ipsum vere praediceretur, NECESSE ESSET HOC FIERI, id est necesse esset quod
praedictum vere est evenire. Unumquodque enim eorum quae fiunt et
verepraedicuntur sic se habet, ut ex necessitate fiat. Hoc autem cur fiat haec
ratio est: quod enim vere quis dicit, fieri necesse est. Illa enim veritas ex
rerum ƿ necessitate procreatur. Quod si etiam id quod factum est veraciter
praenuntiaretur futurum, nulla esset dubitatio omnia ex necessitate provenire.
Quod si hoc, inquit, est impossibile (videmus enim quasdam res ex principio
liberi arbitrii et ex nostrorum actuum fonte descendere), quid dubitamus
frivolam rationem omnium necessitatis excludere nec dilectum humanae vitae
interpositione necessitatis absumere? Quae enim erit ulla discretio inter
homines, si liberi arbitrii iudicium perit? Cur postremum leges conditae, cur
publice iura responsa sunt? Cur instituta moresque, publici et privati actus
constitutionibus principum et iudiciorum nexibus continentur, si certum est
nihil humanis licere propositis? Frustra enim cuncta sunt, si liberum arbitrium
non est. Leges enim et caetera ad continendos animos hominum conditas scimus.
Quod si se ipsi animi non regunt et eos aliqua quaedam violentia necessitatis
impellit, dublum non est quin uacuae istae leges sint, quae nihil sponte
facientibus proponuntur. Sed haec quam sint impossibilia ipse Aristoteles
probat, cuius recta sententia neque casum neque necessitatem neque possibilitatem
in utraque parte naturae neque liberum tollit arbitrium sed cuncta permiscens
rebus pluribus mundum compositum non arbitratur simplici vel casu vel
necessitate vel liberae voluntatis iudicio contineri. QUOD SI HAEC NON SUNT
POSSIBILIA: VIDEMUS ENIM ESSE PRINCIPIUM FUTURORUM ET AB EO QUOD CONSILIAMUR
ATQUE AGIMUS ALIQUID. Impossibilia, inquit, ista sunt ut omnia ex necessitate
proveniant. Sumus enim quorundam nos ipsi quoque principia et animus noster
ratione formatus actionesque nostrae ea ratione directae quarundam rerum
principium tenent. Sic enim id quod in nobis est habere videmur: nullo extra
impediente vel cogente ad quod nobis videtur ratione iudicante prosilimus. Nec
omnia necessitatibus subripienda sunt. Omnium namque animalium genus in eo quod
animalia sunt subiectum est aliud naturae, aliud caelestibus siderum cursibus,
aliud rationi quoque mentis et animi cogitationi. Arbores namque et animalia
irrationabilia illae quidem tantum naturae subiectae sunt, pecudes vero etiam
caelestium decretis. Homines autem et naturae et sideribus et propriae
voluntati subiecti sunt. Multa enim natura dominante vel facimus vel patimur,
ut mortem vel huiusmodi habitudinem corporis. Multa secum rerum ipsarum
necessitas trahit, ut ea quae cum facere velimus, non tamen facere valeamus.
Multa autem dat liberum voluntatis arbitrium, quae nobis volentibus fiunt ut
fierent si velimus. Unde fit ut natura quae motus ƿ est principium et liberi
arbitrii facultate animi ratione participet. Anima vero velut inligata corporibus,
quibus natura dominatur, imaginationibus et cupiditatibus et iracundiae
ardoribus caeterisque, quae afferunt corpora, ex ipsa cui inligata est natura
participat. Cuncti autem divinae providentiae subiecti ex illa quoque divinorum
voluntate pendemus. Itaque nec caelestium necessitas tota subruitur nec casum
disputatio haec de rebus eliminat et liberum firmat arbitrium. Sed haec maiora
sunt quam ut nunc digne pertractari queant. Sumus igitur nos quoque rerum
principia et ex nostris consiliis atque actibus in rebus plura consistunt. Quod
si ea quae per hanc rationem auferuntur perspicua sunt, quod vero ponitur id
est affirmationem et negationem omnem in futuro veram esse non aeque perspicuum
est, cur dubitamus mendacem subterfugere rationis viam et tenere ea quae cum
vera sunt tum manifesta sunt repudiatis his, quae nec veritate ulla firma sunt
nec perspicuitate clarescunt? ET QUONIAM SUPRA IAM DIXERAT: QUARE NON OPORTEBIT
NEQUE CONSILIARI NEQUE NEGOTIARI, nunc hoc reddidit ad id quod ait CONSILIARI
DICENS ESSE PRINCIPIUM FUTURORUM ET AB EO QUOD CONSILIAMUR; ad id quod ait
NEQUE NEGOTIARI reddidit id quod subiecit ATQUE AGIMUS. Quare tanta brevitate
oratio constricta est, ut in ea teneatur rationis ordinisque necessitas. ET
QUONIAM EST OMNINO IN HIS QUAE NON SEMPER ACTU SUNT ESSE POSSIBILE ET NON, IN ƿ
QUIBUS UTRUMQUE CONTINGIT ET ESSE ET NON ESSE, QUARE ET FIERI ET NON FIERI. ET
MULTA NOBIS MANIFESTA SUNT SIC SE HABENTIA, UT QUONIAM HANC UESTEM POSSIBILE
EST INCIDI ET NON INCIDETUR SED PRIUS EXTERETUR. SIMILITER AUTEM ET NON INCIDI
POSSIBILE EST. NON ENIM ESSET EAM PRIUS EXTERI, NISI ESSET POSSIBILE NON
INCIDI. QUARE ET IN ALIIS FACTURIS, QUAECUMQUE SECUNDUM POTENTIAM DICUNTUR
HUIUSMODI: MANIFESTUM EST, QUONIAM NON OMNIA EX NECESSITATE VEL SUNT VEL FIUNT SED
ALIA QUIDEM UTRUMLIBET ET NON MAGIS VEL AFFIRMATIO VEL NEGATIO, ALIA VERO MAGIS
QUIDEM IN PLURIBUS ALTERUM SED CONTINGIT FIERI ET ALTERUM, ALTERUM VERO MINIME.
Continuus quidem sensus est ex superioribus hoc modo: supra enim ait quod si
haec non sunt possibilia id est ut omnia necessitas administret: videmus enim a
nobis quoddam esse principium futurorum et a nostris actibus atque consiliis:
his illud addidit: quoniamque sunt aliqua quae possibilia quidem sunt esse cum
non sint et non esse cum sint. Haec etiam simul auferuntur, si necessitas in
omnibus dominetur. Et sensus quidem cum superioribus ita coniunctus est, quid
autem habeat argumentationis tota sententia, hoc modo perspiciendum est:
possibile esse dicitur quod in utramque partem facile naturae suae ratione
vertatur, ut et cum non sit possibile sit esse nec cum sit ut non sit res ulla
prohibeat. Ita ergo et quod possibile dicimus a necessitate seiungimus. Aliter
enim dicitur possibile me esse ambulare cum sedeam, aliter solem nunc esse in
sagittario et post paucos dies in aquarium transgredi. Ita enim possibile est
ut etiam necesse sit. Possibile autem dicere solemus, quod et cum non sit esse
possit et cum sit non esse iterum possit. Si quis ergo omnia necessitati
subiecerit, ille naturam possibilitatis intercipit. Tres sunt ergo sententiae
de possibilitate. Philo enim dicit possibile esse, quod natura propria
enuntiationis suscipiat veritatem, ut cum dico me hodie esse Theocriti Bucolica
relecturum. Hoc si nil extra prohibeat, quantum in se est, potest veraciter
praedicari. Eodem autem modo idem ipse Philo necessarium esse definit, quod cum
verum sit, quantum in se est, numquam possit susceptivum esse mendacii. Non
necessarium autem idem ipse determinat, quod quantum in se est possit suscipere
falsitatem. Impossibile vero, quod secundum propriam naturam numquam possit
suscipere veritatem. Idem tamen ipse contingens et possibile unum esse
confirmat. Diodorus possibile esse determinat, quod aut est aut erit;
impossibile, quod cum falsum sit non erit verum; necessarium, quod cum verum
sit non erit falsum; non necessarium, quod aut iam est aut erit falsum. Stoici
vero possibile quidem posuerunt, quod susceptibile esset verae praedicationis
nihil his prohibentibus, quae cum extra sint cum ipso tamen fieri contingunt.
Impossibile autem, quod nullam umquam suscipiat veritatem aliis extra eventum
ipsius prohibentibus. Necessarium autem, quod cum verum sit falsam praedicationem
nulla ratione suscipiat. Sed si omnia ex necessitate fiunt, in Diodori
sententiam non rectam sine ulla dubitatione veniendum est. Ille enim arbitratus
est, si quis in mari moreretur, eum in terra mortem non potuisse suscipere.
Quod neque Philo neque Stoici dicunt. Sed quamquam ista non dicant, tamen si
unam partem contradictionis eventu metiuntur idem Diodoro sentire coguntur. Nam
si, quisquis in mari mortuus est, illum necesse fuit in mari necari,
impossibile eum fuit mortem in terra suscipere. Quod est perfalsum. Atque haec
omnia impossibilia subire coguntur, quicumque cum definite alteram contradictionis
partem in futuro veram esse contendunt, solam necessitatem in rebus esse
dicunt. Neque enim, si quis naufragio periit in pelago, idcirco si numquam
navigasset immortalis in terra futurus fuisset. At ergo non ex eventu rerum sed
ex natura eventus ipsos suscipientium propositionum contradictiones indicandae
sunt. Si enim mihi omnia nunc suppeditent ut Athenas eam, etiamsi non uadam,
posse me tamen ire manifestum est; et cum vero potuisse non ire, id quoque apud
eos qui eventus ex rerum natura recta ratione diiudicant indubitatum est. ƿ Non
ergo id est possibile ut sit necessarium sed quamquam quod necessarium est
possibile sit; est tamen alia quaedam extrinsecus possibilitatis natura, quae
et ab impossibili et a necessitate seiuncta sit. Aristoteles enim hanc habet
opinionem de his quae semper esse necesse est. Ea enim putat nullam habere ad
contraria cognationem: ut nix quoniam semper est frigida numquam calori
coniuncta est. Ignis quoque numquam frigori cognatus est, idcirco quod semper
in frigoris contrarietate versatur id est in calore. Omnia ergo quaecumque sunt
necessaria nullam ad contraria earum qualitatum, quas ipsa retinent, habent
cognationem. Quod si quam cognationem haberet ignis ad frigus, frustra esset
illa cognatio numquam igne in frigus qualitatem vertente. Sed novimus nihil
proprium natum frustra naturam solere perficere. Ergo illa sint posita
necessaria quaecumque ad contraria nullam habent cognationem. Quaecumque autem
habent illa sunt non necessaria sed quoniam ad utramque partem contrarietatis
naturali quadam cognatione videntur esse coniuncta, idcirco in utraque parte
eorum eventus possibilis est: ut lignum hoc potest quidem secari sed nihilo
tamen minus habet ad contraria cognationem, potest enim non secari, et aqua
potest quidem calescere sed nihil eam prohibet frigori quoque esse coniunctam.
Et universaliter dicere ƿ est: quaecumque neque semper sunt neque semper non
sunt sed aliquotiens sunt, aliquotiens non sunt, ea per hoc ipsum quod sunt et
non sunt habent aliquam ad contraria cognationem. Haec autem impossibilium et
necessariorum media sunt. Impossibile enim numquam esse potest, necessarium
numquam non esse: inter haec propria quorundam natura est, quae horum
utrorumque sit media, quae et esse scilicet possit et non esse. Ergo hoc nunc
dicit: videmus, inquit, IN HIS QUAE NON SEMPER ACTU SUNT (illa autem non semper
actu sunt, quae ad utraque contraria habent cognationem: ignis semper actu
calidus est, aqua vero non semper) quocirca videmus IN HIS QUAE NON SEMPER ACTU
SUNT esse quaedam possibilia et non, id est ut et sint et non sint. Quod in his
evenit IN QUIBUS UTRUMQUE CONTINGIT ID EST ET ESSE ET NON ESSE, ut aquam et
esse calidam et non esse calidam, fieri quoque calidam et non fieri. Multaque
nobis perspicua sunt ita sese habentia, ut in utraque parte eventus sine ullo
alicuius rei impedimento vertatur, ut uestem quam possibile est quidem secari
sed fortasse ita contingit, ut non ante ferro dividatur, quam eam exterat
uetustas. Et hoc fieri potest, ut quaelibet uestis non ferro potius minutatim
eat quam usu ipso exteratur. Similiter autem non solum eam secari possibile
est. Non enim esset eam prius exteri quam secari, nisi prius possibile esset
non secari. Cum enim ƿ exteritur, non secatur. Hoc autem in quibus eveniat universaliter
monstrat. Evenit hoc enim, inquit, in facturis. Facturae autem sunt, in
quibuscumque generatio est atque corruptio. Sive enim quid natura fiat sive
arte, in his a faciendo facturam dixit. In his ergo facturis alia quidem
potestate sunt, alia actu: ut aqua calida quidem est possibilitate, potest enim
fieri calida, frigida vero actu est, est enim frigida. Hoc autem actu et
potestate ex materia venit. Nam cum sit materia contrarietatis susceptrix et
ipsa in se utriusque contrarietatis habeat cognationem, si ipsa per se
cogitetur, nihil eorum habet quae in se suscipit et ipsa quidem nihil actu est,
omnia tamen potestate. Suscipiens autem contraria quamquam unam habeat
contrarietatem, habet tamen et alteram simul sed non actu, ut in eadem aqua. Huius
enim materia et caloris susceptrix est et frigoris sed cum utrumlibet horum
susceperit vel calorem vel frigus, est quidem si ita contigit, calida, est
etiam simul frigida sed non eodem modo. Nam fortasse actu calida est, frigida
potestate. Ergo quod potestate est in rebus ex materia venit. Alioquin divinis
corporibus nihil omnino est potestate sed omne actu: ut soli numquam est lumen
potestate, cui quidem nulla obscuritas, vel toto caelo nulla quies. Ita sese
ergo habent ex materia ut omnia ipsa essent potestate, nihil autem actu,
arbitratu ƿ naturae, quae in ipsa materia singulos pro ratione distribuit motus
et singulas qualitatum proprietates singulis materiae partibus ponit, ut alias
quidem natura ipsa necessarias ordinarit, ita ut quam diu res illa esset eius
in ipsa proprietas permaneret, ut igni calorem. Nam quamdiu ignis est, tamdiu
ignem calidum esse necesse est. Aliis vero tales qualitates apposuit, quibus
carere possint. Et illa quidem necessaria qualitas informat uniuscuiusque
substantiam. Illa enim eius qualitas cum ipsa materia ex natura coniuncta est.
Istae vero aliae qualitates extra sunt, quae et admitti possunt et non admitti.
Atque hinc est generatio et corruptio. Ex natura igitur et ex materia ista in
rebus possibilitas venit. Qua in re casus quoque aliquando subrepit, quae est
indeterminata causa et sine ulla ratione cadens. Neque enim natura est quae
frustra nil efficit nec arbitrium liberum quod in iudicio et ratione consistit
sed extra est casus, qui propter aliam rem quibusdam factis ipse subitus et
improvisus exoritur. Ex hac autem possibilitate etiam illa liberi arbitrii
ratio venit. Si enim non esset fieri aliquid possibile sed omnia aut ex
necessitate essent aut ex necessitate non essent, liberum arbitrium non
maneret. Recte igitur nec omnia casu ut Epicurus nec necessitate omnia ut ƿ
Stoicus nec rursus omnia libero arbitrio fieri proposuit sed cuncta permiscens
in permixto mundo permixtas quoque rerum causae esse proposuit, ut aliae quidem
ex necessitate, aliae vero casu vel libero arbitrio vel postremo possibilitate
contingerent. Quorum omnium unum nomen est utrumlibet, vel in casu vel in
voluntate vel in possibilitate. Sed horum divisionem facit. Nam eorum quae sunt
utrumlibet alia sunt quae aequaliter se ad affirmationem et negatio. Nem
habent, ut est lecturum me esse hodie Vergilium et non lecturum: utroque enim
modo utrumque est. Hoc est enim quod ait ET NON MAGIS VEL AFFIRMATIO VEL
NEGATIO. Aequaliter enim et possum legere Vergilium nunc et possum non legere. Alia
vero sunt quae non se aequaliter habeant sed quamquam in una re frequentius
eveniat, non tamen prohibitum est in altera provenire, ut in eo quod est
hominem in senecta canescere. In pluribus quidem hoc contingit sed CONTINGIT
FIERI ET ALTERUM, id est ut non canescat, alterum vero minime, id est ut
canescat. Ita igitur et ex possibilitate et ex casu et ex libero arbitrio
contradictionem in una parte de futuro definite non esse veram vel falsam
firmissima et validissima argumentatione constituit. His autem adicit hoc: IGITUR
ESSE QUOD EST, QUANDO EST, ET NON ESSE QUOD NON EST, QUANDO NON EST, NECESSE
EST; SED NON QUOD EST OMNE NECESSE EST ESSE NEC QUOD NON EST NECESSE EST NON
ESSE. NON ENIM IDEM EST OMNE QUOD EST ESSE NECESSARIO, QUANDO EST, ET SIMPLICITER
ESSE EX NECESSITATE. Duplex modus necessitatis ostenditur: unus qui cum
alicuius accidentis necessitate proponitur, alter qui simplici praedicatione
profertur. Et simplici quidem praedicatione profertur, cum dicimus solem moveri
necesse est. Non enim solum quia nunc movetur sed quia numquam non movebitur,
idcirco in solis motu necessitas venit. Altera vero quae cum conditione dicitur
talis est: ut cum dicimus Socratem sedere necesse est cum sedet, et non sedere
necesse est cum non sedet. Nam cum idem eodem tempore sedere et non sedere non
possit, quicumque sedet non potest non sedere, tunc cum sedet: igitur sedere
necesse est. Ergo quando quis sedet tunc cum sedet eum sedere necesse est.
Fieri enim non potest ut cum sedet non sedeat. Rursus quando quis non sedet,
tunc cum non sedet, eum non sedere necesse est. Non enim potest idem non sedere
et sedere. Et potest ista esse cum conditione necessitas, ut cum sedet aliquis,
tunc cum sedet, ex necessitate sedeat, et cum non sedet, tunc cum non sedet, ex
necessitate non sedeat. Sed ista cum conditione quae proponitur necessitas non
illam simplicem secum trahit (non enim quicumque sedet simpliciter eum sedere
necesse est sed cum adiectione ea quae est tunc cum sedet), sicut solem dicimus
non necesse esse tunc moveri, cum movetur, nec hoc addimus, ut solem moveri
necesse sit cum movetur sed tantum simpliciter dicimus solem moveri necesse
est. Et haec necessitas simplex de sole dicta veritatem in oratione perficiet.
At vero illa quae cum conditione dicitur, ut cum dicimus Socratem sedere
necesse est, tunc cum sedet, id ƿ quod proponimus tunc cum sedet et hanc
conditionem temporis si a propositione dividamus, de tota propositione veritas
perit. Non enim possumus dicere quoniam Socrates ex necessitate sedet. Potest
enim et non sedere. Habet enim quandam convenientiam et cognationem potestas
Socratis sicut ad sedendum sic etiam ad non sedendum. Ergo id quod dicimus ex
necessitate Socraten sedere, tunc cum sedet, ad accidens respicientes
proponimus. Nam quoniam accidit Socrati sedere et eo tempore quo accidit ei non
accidisse non potest (sic enim fiet ut eidem eadem res et accidat et non
accidat uno eodemque tempore, quod impossibile est), idcirco accidens eius
inspicientes dicimus necesse esse Socraten sedere sed non simpliciter sed tunc
cum sedet. Et sicut Aethiopem dicere simpliciter esse candidum falsum est,
verum tamen in aliquo esse candidum (in oculis enim illi vel in dentibus candor
est), ita quoque falsum dicere Socraten ex necessitate sedere simpliciter,
verum autem est hanc necessitatem in aliquo quodam tempore, non simpliciter
praedicare, ut dicamus tunc cum sedet. Quemadmodum enim in sole dicimus,
quoniam solem moveri necesse est, simpliciter, si ita dicamus Socraten sedere
necesse est, falsum est. Sin vero marmoreum Socraten dicamus, quoniam Socraten
marmoreum sedere necesse est, si fortasse sedens formatus sit, verum est et
simpliciter de tali Socrate necessitas poterit praedicari. De ipso autem
Socrate simpliciter ƿ talis necessitas non dicitur. Neque enim fieri potest, ut
Socrates ex necessitate sedeat, nisi forte cum sedet. Tunc enim cum sedet,
quoniam sedet et non potest non sedere, ex necessitate sedet. Alioquin non
simpliciter ex necessitate sedet sed contingenter, potest enim surgere. Quod
autem ex necessitate simpliciter est, illam permutare non potest necessitatem:
ut quoniam simpliciter solem moveri necesse est, sol stare nulla ratione
potest. Hoc igitur dicit Aristoteles: omne quod est, quando est, et omne quod
non est, quando non est, esse cum conditione et non esse necesse est sed non
sine conditione aut esse aut non esse simpliciter. Haec enim illis solis
necessitatibus attributa sunt quaecumque nullius potentiae aut cognationis ad
opposita sunt, ut sol ad quietem vel ignis ad frigus. Neque enim idem est,
inquit Aristoteles, ex necessitate esse aliquid, quando est, in conditione vel
non esse, quando non est, et simpliciter dicere omne ex necessitate esse vel
non esse. Illud enim conditio verum fecit, in hoc simplicitatis natura effecit
veritatem. SIMILITER AUTEM, inquit, ET IN EO QUOD NON EST. Etiam in eo quod non
est idem est: non omne quod non est non esse necesse est sed tunc cum non est
tunc non esse necesse est, et hoc in conditione rursus, non simpliciter. Duabus
igitur his necessitatibus demonstratis, una conditionali, altera simplici, nunc
ad contradictionem rursus de futuro contingentemque reuertitur. ET IN
CONTRADICTIONE EADEM RATIO. ESSE QUIDEM VEL NON ESSE OMNE NECESSE EST ET
FUTURUM ESSE VEL NON; NON TAMEN DIVIDENTEM DICERE ALTERUM NECESSARIO. DICO
AUTEM NECESSE EST QUIDEM FUTURUM ESSE BELLUM NAVALE CRAS VEL NON ESSE FUTURUM
SED NON FUTURUM ESSE CRAS BELLUM NAVALE NECESSE EST VEL NON FUTURUM ESSE,
FUTURUM AUTEM ESSE VEL NON ESSE NECESSE EST. QUARE QUONIAM SIMILITER ORATIONES
VERAE SUNT QUEMADMODUM ET RES, MANIFESTUM EST QUONIAM QUAECUMQUE SIC SE HABENT,
UT UTRUMLIBET SINT ET CONTRARIA IPSORUM CONTINGANT NECESSE EST SIMILITER SE
HABERE ET CONTRADICTIONEM. QUOD CONTINGIT IN HIS, QUAE NON SEMPER SUNT ET NON
SEMPER NON SUNT. Planissime quam sententiam haberet de contingentibus
propositionibus et futuris exposuit dicens: in his totam quidem contradictionem
dictam unam quamlibet partem habere veram alteram falsam sed non ut aliquis
dividat atque respondeat hanc quidem ex necessitate veram esse, illam vero ex
necessitate alteram falsam: ut in eo quod dicimus: Sol occidit Sol hodie
non occidit facillime in his aliquis dividens dicit, quoniam solem hodie
occidere ex necessitate verum est, non occidere ex necessitate falsum. Ita sese
enim habet divinorum corporum ratio et natura, ut in his ƿ nulla cognatio sit
ad opposita, atque ideo vel quod sunt ex necessitate sunt vel quod non sunt ex
necessitate non sunt. Ea vero quae in generatione et corruptione sunt non ita
sunt. Habent enim hoc ipso, quod et gignuntur et corrumpuntur, ad opposita
cognationem atque ideo in his non est unam partem contradictionis assumere et
eam necessario esse praedicare et rursus aliam necessario non esse proponere
quamuis totius contradictionis una quaelibet pars vera sit, altera falsa sed incognite
et indefinite, et non nobis, verum natura ipsa harum rerum quae proponuntur
dubitabilis, ut in ea propositione quae est: Socrates hodie lecturus est
Socrates hodie lecturus non est Totius quidem contradictionis una vera
est, una falsa (aut enim lecturus est aut non lecturus) et hoc confuse in tota
oratione perspectum sed nullus potest dividere et respondere, quoniam vera est
lecturum eum esse vel certe quoniam vera est non eum esse lecturum. Hoc autem
non quod audientes de futuro nesciamus sed quod eadem res et esse possit et non
esse. Alioquin si ex nostra inscientia hoc eveniret et non ex ipsarum rerum
variabili et indefinito proventu, illa rursus impossibilitas contingeret, ut
omnia necessitas administraret. Non enim propter scientiam nostram quod ex
necessitate est eventurum est sed etiam si nos nesciamus, erit tamen alicuius
rei eventus constitutus et indubitatus: illam rem futuram esse necesse est.
Ergo quoniam hoc fieri non potest et ƿ sunt quaedam quae non ex necessitate
proveniant sed contingenter, in his quamquam totius contradictionis in qualibet
eius parte veritas inveniatur aut falsitas, non tamen ut aliquis dividat et
dicat hanc quidem veram esse, illam vero falsam. Quod huiusmodi monstravit
exemplo: cras enim bellum navale fieri aut non fieri necesse est, non tamen ex
necessitate fiet cras aut ex necessitate cras non fiet, ut possit aliquis
dividere et praedicare dicens cras fiet, ut hoc vere dicat et ita ex definito
contingat, vel rursus cras non fiet, et hoc eodem modo proveniat: hoc fieri non
potest sed tantum indefinite quaecumque una pars contradictionis vera est, altera
falsa sed quae evenerit. Eventus autem ipsorum indiscretus est: et illud enim
et illud poterit evenire. Hoc autem idcirco est quoniam non est ex
antiquioribus quibusdam causis pendens rerum eventus, ut quaedam quodammodo
necessitatis catena sit sed potius haec ex nostro arbitrio et libera voluntate
sunt, in quibus est nulla necessitas. Quod si, inquit, itidem ORATIONES VERAE
SUNT QUEMADMODUM ET RES: hoc sumpsit a Platone, qui dixit similiter se habere
orationes rebus et cognatas quodammodo esse in ipsa significatione, si sint res
impermutabiles et ratione stabili permanentes oratio quoque de his vera esset
et necessaria, sin vero esset res quae varietate naturae numquam perpetuo
permaneret in orationibus quoque fixa veritas non esset et nulla per huiusmodi
orationes demonstratio proveniret. Hoc igitur sumens Aristoteles ut optime
dictum sic ait: quoniam, inquit, orationes similiter sese habent quemadmodum
res, manifestum est quoniam quaecumque res ita sunt, ut utrumlibet sint et
contraria ipsorum contingere possint, necesse est ita contradictionem se
habere, quae de illis natura instabilibus atque indefinitis rebus est, ut si
res sint dubitabiles et indefinito variabilique proventu contradictio quoque
quae de his rebus fit variabili indefinitoque proventu sit. Quae autem essent
huiusmodi res, quarum eventus varius indefinitusque constaret, planissime
demonstravit dicens: QUOD CONTINGIT IN HIS, QUAE NON SEMPER SUNT ET NON SEMPER
NON SUNT. Ea enim sunt, in quibus contingit utrumlibet, quae neque semper sunt
(possunt enim corrumpi) neque semper non sunt (possunt enim generari et fieri).
Haec enim sunt quae habent ad opposita cognationem, sicut in ipsa propria
substantia rerum ipsarum eventus docet. Nam esse et non esse oppositum est.
Quod autem non fuit et generatur et fit ex eo quod non fuit est. Habuit igitur
in hoc ad esse et non esse id est ad opposita cognationem. Sin vero idem ipsum
quod est corrumpatur, ex eo quod fuit non erit. Habebit igitur rursus ad
opposita cognationem. Quare et sicut harum quae sunt in generatione et
corruptione rerum proventus indefinitus est, ita quoque et contradictionum
partes, quamquam in tota contradictione una vera sit, altera falsa. Indefinitum
ƿ enim et indiscretum est, quae una harum vera sit, quae altera falsa. HORUM
ENIM NECESSE EST QUIDEM ALTERAM PARTEM CONTRADICTIONIS VERAM ESSE VEL FALSAM,
NON TAMEN HOC AUT ILLUD SED UTRUMLIBET ET MAGIS QUIDEM VERAM ALTERAM, NON TAMEN
IAM VERAM VEL FALSAM. QUARE MANIFESTUM EST, QUONIAM NON EST NECESSE OMNIS
AFFIRMATIONIS VEL NEGATIONIS OPPOSITARUM HANC QUIDEM VERAM, ILLAM VERO FALSAM
ESSE. Docuit supra nos in his quae utrumlibet sunt rebus contradictionis unam
partem non esse definite veram, falsam vero alteram definite: nunc a
frequentiori et a rariori argumentum trahit. Supra namque monstravit esse
quasdam res quae frequentius quidem contingent, non tamen interclusum sit, ut
et opposita aliquando contingent. Contingit enim ut rarius infrequentiusque contingat.
Ergo si in his quaecumque in pluribus eveniunt non necesse est unam veram esse,
alteram falsam (idcirco quod quicumque dixerit hominem in senecta canescere et
hoc ex necessitate esse protulerit mentietur, potest enim et non canescere): si
in his ergo non est definite una vera, altera falsa, in quibus una res
frequentius evenit, rarius altera, multo minus in his in quibus oppositorum
eventus aequalis est. Et verum est quidem dicere, quoniam hoc contingit
frequentius, non tamen omnino quoniam ƿ contingit, idcirco quod, licet rarius,
tamen contingit oppositum. Quod si neque in his quae in pluribus praedicantur
una definite vera est, altera falsa et multo minus in his quorum aequaliter
indiscretus eventus est, manifestum est in futuris et contingentibus
propositionibus non esse unam veram, alteram falsam. Hoc enim in principio ut
monstraret validissima argumentatione contendit. NEQUE ENIM QUEMADMODUM IN HIS
QUAE SUNT, SIC SE HABET ETIAM IN HIS QUAE NON SUNT, POSSIBILIBUS TAMEN ESSE AUT
NON ESSE SED QUEMADMODUM DICTUM EST. Ad divisionem temporum in principio factam
totam reuocat quaestionem. Ait enim prius propositiones eas quae fierent aut in
praesenti aut in praeterito aut in futuro praedicari. Et eas quidem quae de
praeterito vel praesenti dicerentur definitam veritatem vel falsitatem habere,
sive in sempiternis et divinis dicerentur rebus sive in nascentibus atque
morientibus, in quibus utrumlibet contingeret, ut haberent ad opposita
cognationem. In futuris vero, si de divinis quidem rebus aliquis et in
mutabilibus loqueretur, eodem modo unam veram definite, alteram falsam esse
definite. Non enim habere huiusmodi naturas ad opposita cognationem. In his
autem quae in generatione et corruptione essent de futuro praedicatis vel
affirmative vel negative non eundem esse modum veritatis definitae sed totius
quidem contradictionis unam partem veram esse, alteram falsam, definite autem
unam veram, definite alteram falsam minime. ƿ Nunc autem non utraque tempora
posuit, praesens scilicet et praeteritum sed tantum praesens. Dixit enim: NEQUE
ENIM QUEMADMODUM IN HIS QUAE SUNT, id est in his quae praesentia sunt. Quod
vero ait IN HIS QUAE NON SUNT, POSSIBILIBUS TAMEN ESSE, de futuris loquitur,
quae cum non sint tamen esse possunt. Non enim sic se habet in praesenti prasdicata
propositio, quemadmodum in futuro, in his scilicet quae utrumlibet sunt et in
generatione et in corruptione consistunt. In illis enim id est praeteritis et
praesentibus definite una vera est, altera falsa: in his id est futuris et
contingentibus veritas et falsitas propositionum nulla definitione
constringitur. Sed quoniam de futuris propositionibus Aristotelicam sententiam
quantum facultas fuit diligenter expressimus, prolixitatem voluminis
terminemus. Est quidem libri huius -- "De interpretatione" apud
Latinos, apud Graecos vero *Peri hermeneias* inscribitur -- obscura orationis
series obscurissimis adiecta sententiis atque ideo non hunc magnis expedissem ƿ
voluminibus, nisi etiam nihil labori concedens quam pote planissime quod in
prima editione altitudinis et subtilitatis omiseram secunda commentatione
complorem. Sed danda est prolixitati venia et operis longitudo libri
obscuritate pensanda est. Sunt tamen gradus apud nos satisfacientes lectorum et
diligentiae et fastidio cupientium facillime magna cognoscere. Huius enim libri
post has geminas commentationes quoddam breuarium facimus, ita ut in quibusdam
et fere in omnibus Aristotelis ipsius verbis utamur, tantum quod ille brevitate
dixit obscure nos aliquibas additis dilucidiorem seriem adiectione faciamus, ut
quasi inter textus brevitatem commentationisque diffusionem medius ingrediatur
stilus diffuse dicta colligens et angustissime scripta diffundens. Atque haec
posterius. Nunc autem quoniam ab Aristotele supra monstratum est in futuro
contingentium propositionum veritatem et falsitatem non stabili neque definita
ratione esse divisam et quidquid supra latissima disputatio complexa est, nunc
haec eius intentio est, ut categoricarum propositionum numerum tradat,
quaecumque cum finito vel infinito nomine simpliciter fiunt. Primo enim
volumine dictum est nomen esse ut 'homo', infinitum vero nomen ut 'non homo'.
Praedicativae autem et categoricae propositiones sunt quae duobus tantum
simplicibus terminis constant: hae ƿ sive cum finito nomine, ut est: Homo
ambulat sive cum nomine infinito, ut est: Non homo ambulat Harum
igitur propositionum categoricarum atque simplicium tradere numerum contendit,
quaecumque fiunt adiectione nominis infiniti. Sed quoniam propositiones omnes
aut secundum qualitatem differunt aut secundum quantitatem (secundum
qualitatem, quod haec quidem affirmativa est, illa vero negativa, secundum
quantitatem vero, quod haec quidem plura complectitur, illa vero pauca): secundum
quam differentiam hae propositiones quae dicunt homo ambulat et rursus non homo
ambulat a se differunt? Secundum qualitatem an secundum quantitatem? Nam quod
dico: Homo ambulat qualitatem quandam substantiae id est hominem ambulare
designat et rem definitam atque substantiam unamque speciem ambulabilem esse
pronuntiat, quod autem dico: Non homo ambulat nominem quidem rem
definitam tollo, innumerabilia vero significo. Quare illa quidem quae dicit:
Homo ambulat secundum qualitatem, quae vero: Non homo ambulat
videbitur secundum quantitatem potius discrepare. An certe illud magis est
verius: [ut et] quod dico: Homo ambulat 'homo' simplex nomen quasi
affirmationi est proximum, quod vero dico: Non homo ambulat 'non homo'
infinitum nomen negationis videtur esse consimile? Sed affirmatio et negatio
secundum qualitatem differunt, haec autem affirmationi sunt negationique
similia: qualitate igitur potius quam ulla discrepant quantitate. An magis
illud est verius, quod quemadmodum ƿ se habet propositio quae dicit Socrates
ambulat ad eam quae dicit guidam homo ambulat, ita sese habet homo ambulat ad
eam quae dicit non homo ambulat? Propositio namque quae est: Quidam homo
ambulat si plures ambulent, necesse est ut vera sit, si autem plures
ambulent, ut: Socrates ambulet non est necesse. Possunt enim plures ambulare
et Socrates non ambulare sed cum plures ambulant, quidam homo ambulat. Hoc
autem ideo evenit, quia quod dicimus: Quidam homo ambulat
particularitatem iungimus universalitati id est homini et, si qui sub illa
universalitate sunt id est sub homine ambulante, eam quae dicit: Quidam homo ambulat
veram esse necesse est. At vero cum dicitur: Socrates ambulat quoniam
Socrates circa unius cuiusdam proprietatem est, nisi ipse Socrates ambulaverit,
quamquam omnes homines ambulent, non est verum dicere Socrates ambulat. Sicut
ergo: Quidam homo ambulat indefinita Socrates ambulat propria ac
definita: sic etiam in eo quod est homo et non homo. Qui dicit: Homo
ambulat dicit quoniam quoddam animal ambulat et hoc nomine et qualitate
determinat dicens "Homo ambulat". Qui vero dicit: Non homo
ambulat non quidem omnia subruit sed hominem tantum, caetera vero
animalia ambulabilia esse pronuntiat. Ergo sive equus sive bos sive leo
ambulat, verum est "Non homo ambulat" sed non est verum "Homo
ambulat", si non ipse homo ambulat. Quare ƿ quemadmodum se habet
"Quidam homo ambulat" ad "Socrates ambulat", quod illic, si
plures homines ambularent, verum erat "Quidam homo ambulat", non
etiam "Socrates ambulat", nisi ipse Socrates ambularet: ita quoque in
eo quod est "Homo ambulat" et "Non homo ambulat" dici
potest. Nam si plura quae sunt non homines ambulent, verum est dicere quoniam
non homo ambulat, non autem verum est dicere quoniam homo ambulat, nisi ipse
homo ambulet. Secundum definitionem potius et proprietstem videntur discrepare
quam aliquam totam quantitatem vel partem vel rursus aliquam qualitatem. Nam,
sicut posterius demonstrabitur, ea quae dicit non homo ambulat affirmatio
potius quam negatio est. Atque haec hactenus praedixisse sufficiat. QUONIAM
AUTEM EST DE ALIQUO AFFIRMATIO SIGNIFICANS ALIQUID, HOC AUTEM EST VEL NOMEN VEL
INNOMINE, UNUM AUTEM OPORTET ESSE ET DE UNO HOC QUOD EST IN AFFIRMATIONE (NOMEN
AUTEM DICTUM EST ET INNOMINE PRIUS; NON HOMO ENIM NOMEN QUIDEM NON DICO SED
INFINITUM NOMEN; UNUM ENIM QUODAMMODO SIGNIFICAT INFINITUM, QUEMADMODUM ET NON
CURRIT NON VERBUM SED INFINITUM VERBUM), ERIT OMNIS AFFIRMATIO VEL EX NOMINE ET
VERBO VEL EX INFINITO NOMINE ET VERBO. PRAETER VERBUM AUTEM NULLA AFFIRMATIO
VEL NEGATIO. EST ENIM VEL ERIT VEL FUIT VEL FIT, VEL QUAECUMQUE ALIA ƿ
HUIUSMODI, VERBA EX HIS SUNT QUAE SUNT POSITA; CONSIGNIFICANT ENIM TEMPUS.
QUARE PRIMA AFFIRMATIO ET NEGATIO EST HOMO, NON EST HOMO, DEINDE EST NON HOMO,
NON EST NON HOMO; RURSUS EST OMNIS HOMO, NON EST OMNIS HOMO, EST OMNIS NON
HOMO, NON EST OMNIS NON HOMO. In secundo (ut arbitror) libro praediximus omnem
enuntiationem simplicem id est praedicativam ex subiecto et praedicato
consistere, quorum semper praedicatio aut verbum esset aut quod idem posset,
tamquam si verbi dictio poneretur: ut cum dicimus: Homo ambulat verbum
ponitur; cum vero dicimus: Homo rationalis subaudiatur hic verbum 'est',
ut totus intellectus sit "Homo rationabilis est". Quocirca necesse
est aut verbum semper esse praedicatum aut quod sit verbo consimile idemque in
enuntiationibus possit. Quod vero subiectum esset, aut omnino nomen esse aut
quod vice nominis fungeretur. Quocirca illud maxime colligendum est omne in
categorica propositione subiectum nomen esse, omne vero praedicatum verbum. Sed
quoniam, cum de nomine loqueretur, aliud quoddam nomen introduxit, quod
simpliciter quidem et per se nomen non esset, infinitum tamen nomen vocaretur,
id quod cum negativa particula profertur, omnis autem propositio ex nominis
subiectione consistit, est autem categorica propositio, quae aliquid de aliquo
praedicat vel negat, et de quo praedicat quidem nomen est quoniamque in nomine
infinitum etiam ƿ nomen dicitur, necesse est semper categoricam propositionem
aut nomen habere subiectum aut illud quod dicitur infinitum. Infinitum vero
nomen est quod ipse nunc INNOMINE vocat. Omnis ergo propositio praedicativa in
duas dividitur species: aut ex infinito nomine subiectum est aut ex simplici
nomine. Ex infinito quidem, cum dico: Non homo ambulat ex finito autem et
simplici, ut: Homo ambulat Huius autem quae ex finito et simplici est
species sunt duae: quae aut universale nomen subicit, ut "Homo
ambulat", aut singulare, ut "Socrates ambulat". Quare ita fit
divisio: omnium enuntiationum simplicium, quae ex duobus terminis constant,
aliae sunt ex infinito nomine subiecto, aliae vero ex finito et simplici. Earum
quae simplex habent subiectum aliae sunt quae universale simplex subiciunt,
aliae quae singulare. Supra vero perdocuit quod sint differentiae propositionum
simplex nomen in subiecto ponentium: quod aliae sint universales, aliae
particulares, aliae indefinitae. Et secundum quantitatem quidem hoc modo
differunt, secundum qualitatem vero, quod aliae affirmativae sint, aliae
negativae. Idem quoque in his propositionibus quae ex infinito nomine subiecto
enuntiantur. Aliae namque harum indefinitae sunt, aliae definitae. Definitarum
aliae sunt universales, aliae particulares. Hic quoque secundum quantitatem nec
minus secundum qualitatem eaedem infinitorum quoque nominum propositionibus
differentiae sunt. Dicimus enim alias esse affirmativas, alias negativas.
Subiecta vero descriptio docet, quae sint affirmativae simplices, ƿ quae sint
negativae, et rursus quae sint affirmativae ex infinito nomine et quae
negativae easque omnes in propriis determinationibus adiunximus nec minus etiam
indefinitas in utraque specie propositionum posuimus singulare habentibus
subiectum simplicibus propositionibus reiectis. Sint enim indefinitae simplices
hae: Homo ambulat Homo non ambulatcontra has vero divisae secundum
infinitum nomen hae: Non homo ambulat Non homo non ambulat Universales ex
simplici subiecto nomine sint hae: Omnis homo ambulat Nullus homo ambulat
contra has divisse ex infinito nomine universales: Omnis non homo ambulat
Nullus non homo ambulat Rursus particulares ex finito nomine subiecto
sint: Quidam homo ambulat Quidam homo non ambulat rursus contra has
divisae ex infinito nomine subiecto hae: Quidam non homo ambulat Quidam non
homo non ambulat Hoc autem subiecta descriptione declaratur: Indefinitae
ex simplici nomine subiecto: Homo ambulat Homo non ambulat Indefinitae ex
infinito nomine subiecto: Non homo ambulat Non homo non ambulat Universales ex
simplici nomine subiecto: Omnis homo ambulat Nullus homo ambulat Universales ex
infinito nomine subiecto: Omnis non homo ambulat Nullus non homo ambulat
Particulares ex simplici nomine subiecto: Quidam homo ambulat Quidam homo non
ambulat ƿParticulares ex infinito nomine subiecto: Quidam non homo ambulat
Quidam non homo non ambulat Haec ergo partiens et de propositionibus ex duobus
terminis constitutis faciens propositionem colligit omnis ex subiecto nomine
propositiones et eas tantum ad divisionem sumit, quae ex infinito nomine fiunt,
faciens huiusmodi divisionem principalem, ut sit: propositionum aliae sunt ex finito
nomine, aliae ex infinito. Oportuerat quidem volentem cuncta partiri ad
differentias propositionum non solum infinita sumere nomina sed etiam verba.
Sed quoniam noverat nomen quidem infinitum conservare propositionem quam
invenisset, ut si in affirmativa diceretur affirmativam servaret enuntiationem,
ut est: Non homo ambulat si in negativa negativam, ut est: Non homo non
ambulat verba vero quae sunt infinita iuncta in propositione non
affirmationem sed perficere negationem, idcirco de his reticuit, quod hae magis
quae ex verbo infinito sunt ad unam qualitatem pertinent propositionis id est
ad negativam. Semper enim fit ex infinito verbo negatio. Haec igitur colligens
ait: QUONIAM AUTEM EST DE ALIQUO SUBIECTO AFFIRMATIO SIGNIFICANS ALIQUID id est
praedicans, hoc est quoniam omnis propositio ex subiecto et praedicato. Quod
autem subiectum EST VEL NOMEN VEL INNOMINATUM. ƿInnominatum autem est quod
propositum subruit nomen, ut est 'non homo'. Nomen enim quod est 'homo' differt
nominis infiniti privatione quod est 'non homo' atque ideo et innominatum
vocavit. Qualis autem debeat esse propositio de qua tractat ostendit dicens:
UNUM AUTEM OPORTET ESSE ET DE UNO HOC QUOD EST IN AFFIRMATIONE, id est ex
duobus terminis propositionem oportere consistere. Commemorat quoque quid sit
innominatum se supra dixisse, quoniam quod diceremus 'non homo' nomen quidem
Aristoteles non diceret sed quod nomen simpliciter non vocaret hoc addito
infinito nomen diceret infinitum, idcirco quoniam unum quidem significat sed
infinitum. 'Non homo' enim quod significationem eius quod dicimus homo tollit
unum est et unam per se significationem subripiens, multa sunt quae
intellegentium sensibus relinquantur. Commemorat etiam quoniam 'non currit'
verbum superius infinitum vocavit et non simpliciter verbum. QUONIAM ergo
aliquid de aliquo affirmatio est, hoc autem quod subiectum est aut nomen esse
oportet aut innominatum id est infinitum nomen, duplex propositionis species
invenitur. Omnis enim affirmatio vel ex nomine est et verbo vel ex infinito
nomine et verbo. Eodem quoque modo et negatio. Neque enim reperietur ulla
umquam affirmatio, cui negatio inveniri non possit. Quod si duplex species
affirmationum, duplex quoque species est negationum. Illud ƿ quoque commemorat
quod supra iam dixit. Nam licet ex nomine et verbo et rursus ex eo, quod non
est nomen sed infinitum, nomine et verbo sit affirmatio et negatio praedicativa
id est categorica: ut autem praeter verbum sit ulla affirmatio aut negatio aut
praeter id quod idem significet verbo vel in subauditione vel aliquo alio modo
fieri non potest. Ponit quoque verba quae paene in omnibus propositionibus aut
sub ipsa cadunt aut quae idem valeant. EST ENIM, inquit, VEL ERIT VEL FUIT, VEL
QUAECUMQUE ALIA consignificant tempus, verba sunt, sicut ex his doceri possumus
quae ante posita sunt atque concessa, cum definitio verborum daretur: verba
esse quae consignificarent tempus. Quare si haec consignificant tempus, non est
dubium quin verba sins. Sed praeter haec aut praeter idem valentia propositio
nulla est. Recte igitur dictum est praeter verba praedicativam propositionem
non posse constitui. Iuste tamen aliquis quaestionem videatur opponere, cur cum
iam dixerit praeter verbum enuntiationes nulla ratione posse constitui nunc
idem repetit, quasi nil de his antea praedixisset. Sed superfivum videri non
debet. QUONIAM enim finitum nomen cum negativa particula nomen est infinitum,
idcirco putaretur fortasse negatio esse quod diceremus non homo. Quod si haec
negatio, homo affirmatio. Ne in hunc ergo quisquam laberetur errorem, hoc dixit
et congrue repetivit, quoniam praeter verbum esse enuntiatio non potest,
tamquam si diceret: ƿ nemo arbitretur infinitum nomen esse negationem nec nomen
affirmationem, praeter enim verbum affirmatio et negatio nulla umquam potest
ratione constitui. In hoc illud quoque noverat quod verbum infinitum et
negationem significaret et infinitum verbum. Id enim quod dicimus 'non ambulat'
et infinitum est verbum et negatio sed per se quidem si dicatur simplex sine
aliquibus aliis adiectionibus infinitum verbum est; sin vero cum nomine aut cum
infinito nomine proferatur, non iam verbum infinitum sed negatio accipitur: ut
'non' negativa particula cum 'ambulat' iuncta infinitum verbum efficiat non
ambulat sed in propositione quae est "Homo non ambulat" hominem non
ambulare designet. Atque ideo ait subiecta quidem in propositionibus posse esse
vel nomina vel infinita nomina, praedicata vero praeter verba esse non posse.
Nam sive in affirmationibus quis coniungat quid, verbum sine dubio praedicavit,
sive in negationibus, non infinitum verbum sed tantum verbum, cui addita non
particula totem qualitatem propositionis ex affirmativa in negativam commPomba.
Quare recte nullam differentiam propositionum de infinitis verbis fecit.
Infinita enim verba tunc sunt infinita, cum sola sunt. Si vero cum infinito
nomine iungantur aut nomine, non infinita verba iam sunt sed finita, cum
negatione tamen in tota propositione intelleguntur. Si ergo, quemadmodum Stoici
volunt, ad nomina negationes ponerentur, ut esset "Non homo ambulat"
negatio, ambiguum ƿ esse posset, cum dicimus 'non homo' an infinitum nomen
esset, an vero finitum cum negatione coniunctum. Sed quoniam Aristoteli placet
verbis negationes oportere coniungi, infinita magis verba ambigui intellectus
sunt, an infinita videantur, an cum negatione finita. Atque ideo ita
discernitur: sumptum cum nomine infinitum verbum negatio fit et negativa
propositio, ut est "Homo non ambulat", per se vero dictum infinitum
verbum est, ut 'non ambulat'. Atque ideo hic solam differentiam nominum et
infinitorum nominum in propositionibus dedit, non etiam verborum infinitorum,
idcirco quod de coniunctis loquebatur, id est de nominibus vel infinitis
nominibus atque verbis. In qua coniunctione id quod per se infinitum verbum
dicitur negatio est. Neque enim oportet sicut omnis propositio aut ex finito
nomine aut ex infinito constat, ita quoque aut ex verbo constare aut ex
infinito verbo. Infinitum enim verbum in propositionibus non est sed quotiens
aliquid (ut dictum est) tale ponitur, finitum quidem verbum est sed illi iuncta
negatio totam propositionem privat ac destruit. Et verbum quidem infinitum
iunctum nominibus negationem ut faciat necesse est, nomen vero infinitum
iunctum verbis non necesse est ut faciat negationem. Quod enim dicimus
"Non homo ambulat" affirmatio est, non negatio. Ergo quoniam
affirmationem oportet aliquid de aliquo significare, nomen autem infinitum est
aliquid, quotiens dicimus: Non homo ambulat ambulationem (id est ALIQUID)
de 'non homine' (id est DE ALIQUO) praedicamus. Sed si dicamus 'non ambulat'
non potius de aliquo praedicavimus aliquid sed ab aliquo. Qui enim dicit homo
non ambulat, ambulationem ƿ ab homine tollit, non de homine praedicat. Quare
negatio potius quam affirmatio est. Si enim affirmatio esset, id est si verbum
esset infinitum, aliquid de aliquo praedicaret. Nunc autem aliquid ab aliquo
tollit: non est igitur verbum infinitum sed potius negatio, quotiens in tota
sumitur propositione. Numerum vero propositionum, quarum nos supra quoque
descripsimus, ipse subiecit: indefinitas quidem prius, post vero contra
iacentes. Quod si quis vel ad illa reuertitur vel hic intendit animum, in quo
vel nostra vel Aristotelica dispositio discrepet diligenter agnoscit. Nos enim
et contrarias proposuimus et subcontrarias, Aristoteles vero solum
contradictorie sibimet contra iacentes oppositasque proposuit. Sed Aristoteles
non solum in praesenti tempore easdem propositionum dicit esse differentias
quas proposuit sed etiam in aliis quoque temporibus quae sunt extrinsecus.
Extrinsecus autem tempora vocat quae praeter praesens sunt praeteritum scilicet
et futurum. QUANDO AUTEM EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, DUPLICITER DICUNTUR
OPPOSITIONES. DICO AUTEM UT EST IUSTUS HOMO; EST TERTIUM DICO ADIACERE NOMEN
VEL VERBUM IN AFFIRMATIONE. QUARE IDCIRCO QUATUOR ISTAE ERUNT, QUARUM DUAE QUID
EM AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SESE HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM UT
PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME. DICO AUTEM QUONIAM EST AUT IUSTO ADIACEBIT AUT
NON IUSTO, QUARE ETIAM NEGATIO. QUATUOR ERGO ERUNT. INTELLEGIMUS ƿ VERO QUOD
DICITUR EX HIS QUAE SUBSCRIPTA SUNT. EST IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST
IUSTUS HOMO; EST NON IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST NON IUSTUS HOMO. EST
ENIM HOC LOCO ET NON EST IUSTO ET NON IUSTO ADIACET. HAEC IGITUR, QUEMADMODUM
IN RESOLUTORIIS DICTUM EST, SIC SUNT DISPOSITA. Fertur autem etiam alia
inscriptio quae est hoc modo: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT HOMINI ADIACEBIT AUT
NON HOMINI, QUARE ET NEGATIO. Et rursus paulo post: EST ENIM HOC LOCO ET NON
EST HOMINI ADIACET. HAEC IGITUR, QUEMADMODUM IN RESOLUTORIIS DICTUM EST, SIC
SUNT DISPOSITA. Quod autem dicitur perobscurum est et exponitur a pluribus
incurate, quorum cum iudicio competenti enumerabo sententias. Postquam de his
propositionibus expedivit, quae duobus constiterint terminis et subiectum
habuerint aut nomen aut (ut ipse ait) innominatum id est infinitum nomen, nunc
ad eas transit, in quibus est tertium adiacens praedicatur, uno subiecto duobus
praedicatis: ut in eo quod dicimus homo iustus est homo subiectum est et iustus
et est utraque praedicantur. Ergo in hoc duo sunt praedicata, unum vero
subiectum. Et fortasse aliqui inquirat cur ita dixerit: quando autem est
tertium adiacens praedicatur. Non enim tertium praedicatur sed secundum. Duo
enim sunt quae praedicantur, unum vero subiectum est. Sed non ita dictum est,
quasi est in ƿ propositione quae dicit homo iustus est tertium praedicaretur
sed quoniam adiacet tertium et praedicatur. Ergo quod dicitur tertium ad
adiacere refertur. Etenim in ea propositione quae dicit homo iustus est est
tertium adiacet, praedicatur autem iam non tertium sed secundum. Ergo tertium
numeratum adiacet, secundum vero numeratum praedicatur. Hoc est igitur quod
ait: QUANDO EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, non quoniam tertium praedicatur
sed praedicatur tertium adiacens, id est tertio loco. Facit igitur nunc in his
propositionibus considerationem, in quibus est tertium adiacens secundum
praedicatur. Et sicut in his in quibus tantum praedicatur 'est', non etiam
adiacens praedicabatur, ut homo est, de subiecto considerationem fecit, quot
modis sumptum subiectum differentias faceret propositionum (aut enim nomen esse
subiectum aut infinitum nomen), sic nunc de praedicato loquitur et de
praedicati differentiis tractat. In his enim propositionibus, IN QUIBUS EST
TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, sumptum praedicatum alias nomen, alias infinitum
nomen facit differentias propositionum. Praedicatum autem dico in ea propositione
quae ponit: Homo iustus est 'iustus'. Hoc enim praedicatum de homine est,
'est' autem non praedicatur sed tertium adiacens praedicatur -- id est secundo
loco et adiacens iusto, tertium vero in tota propositione praedicatur, non
quasi quaedam pars totius propositionis sed potius demonstratio qualitatis. Non
enim ƿ hoc quod dicimus est constituit propositionem totam sed qualis sit id
est quoniam est affirmativa demonstrat. Atque ideo non dixit TERTIUM
PRAEDICATUR tantum sed TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR. Non enim positum tertium
praedicatur solum sed adiacens tertium secundo loco et quodammodo accidenter
praedicatur. Potest etiam sic intelligi: idcirco dixisse Aristotelem 'est' in
his tertium adiacens praedicari, quoniam possit aliquotiens et per se praedicari,
ut si quis dicat: Socrates philosophus est ut propositio haec hoc
sentiat: Socrates philosophus vivit 'Est' enim pro 'vivit' positum est.
Si quis ergo sic dicat duo inveniuntur subiecta est vero solum praedicatur, non
etiam adiacens. Quod enim dicimus 'Socrates philosophus' utraque subiecta sunt
'est' autem praedicatur solum. Si quis autem dicat sic "Socrates
philosophus est" ut non iam Socratem philosophum esse atque vivere sed
Socratem philosophari et philosophum esse enuntiatione significet, tunc invenitur
unum subiectum, duo praedicata. Socrates enim subiectum est, philosophus autem
et est praedicata quorum philosophus quidem principaliter praedicatur, est
autem adiacens philosopho et ipsum praedicatur sed non simpliciter praedicatur
sed adiacens. Sunt autem etiam aliae propositiones hoc modo: Socrates in lycio
leget Et sunt hae ex tribus terminis. Sed de hac interim propositionum
natura nil tractat sed de his solis in quibus est tertium adiacens praedicatur,
ut est: Homo iustus est Sed de his duas quidem oppositiones. Quocirca
recte duae oppositiones quatuor propositionum sunt. Hoc autem huiusmodi est:
QUANDO EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, quod principaliter praedicatur aut
nomen erit aut infinitum nomen. Et hae aut affirmative praedicandae sunt aut
negative. Quocirca simplicis nominis affirmatio et simplicis nominis negatio
una est oppositio et duae propositiones. Finitum autem et infivitum hic non
subiectum sed sumitur praedicatum, ut in eo quod est homo iustus est iustus
praedicatur. Hoc autem nomen erit aut infinitum nomen. Fiunt ergo ex his duae
affirmationes: homo iustus est, homo non iustus est. Atque hoc quidem in
indefinitis. Posterius autem monstrabitur hoc etiam in his es se, quae
determinationem habent universalitatis vel particularitatis. Nunc autem horum
ordo subiectus numerum oppositionemque declaret. Oppositio una: Affirmatio
simplex: Negatio simplex: Homo iustus est Homo iustus non est Oppositio una:
Affirmatio ex infinito Negatio ex infinito. Homo non iustus est Homo non iustus
non est Simplices in superposita descriptione propositiones vocavi, in
quibus nomen praedicatur, ut: Homo iustus ƿ est Homo iustus non est Ex
infinitis autem, in quibus nomen infinitum principaliter praedicatur, ut est:
Homo non iustus est Homo non iustus non est Sive autem est primo dicatur
sive postea idem est nec hoc turbet quod Aristoteles 'est' primum dixit, nos
vero postremum sed idem est. Fiunt igitur oppositiones duae, quatuor
propositiones sunt. Hae quatuor propositiones ex senario propositionum numero
ad pauciora reductae sunt. Si enim simplices et ex duobus terminis fuissent,
hoc modo essent: Homo est Homo non est Iustus est Iustus non est Non iustus est
Non iustus non est et essent hae sex propositiones. Posset quidem adici
hoc quidem etiam, ut de infinito nomine subiecto fierent propositiones, ut est:
Non homo est Non homo non est Sed de his posterius dicit. Nunc autem sex
illae simplices in quatuor raptae sunt, idcirco quoniam res simplices iunctae
naturaliter redeunt pauciores. Coniunctio enim ipsa numerum minuit, ut si sint
decem res et singulae singulis iungantur, ut binae fiant, quinarius numerus
coniunctionis redit. Ita etiam hic modo sex erant propositiones (ut supra
docui) quae [et] simpliciter dicerentur sed hae adstrictae sunt et coniunctione
deminutae. Nam quod posuerunt istae quatuor: Homo est Homo non est Iustus est
Iustus non est hae coniunctione in duas redactae sunt. Iunctus enim homo
cum iusto duas propositiones fecerunt: Homo iustus est Homo iustus non
est Rursus ƿ ad eundem ipsum hominem infinitum cum praedicatur, aliae
duae propositiones ex infinito praedicato rationabiliter oriuntur: Homo non
iustus est Homo non iustus non est Quorum duae sunt oppositiones, quatuor
vero propositiones. Ita igitur ex sex propositionibus, id est: Est homo Non est
homo Est iustus Non est iustus Est non iustus Non est non iustus(quae cum sex
sint propositiones, tres tamen habent oppositiones) homo iusto et homo non
iusto subiectus quatuor solas propositiones fecit, duplicem vero oppositionem.
Qui vero dixerunt numerosiores fieri propositiones ex his, in quibus 'est'
adiacens praedicaretur, quam ex his, quae duobus terminis constarent, illos non
intellexisse rerum naturam manifestum est, quae ita fert, ut semper ex pluribus
simplicibus rariores redeant res paucioresque coniunctae. Ait igitur: in his IN
QUIBUS EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR: ut hoc quod ait TERTIUM non ad
praedicationem referatur potius quam ad ordinem, ipse distinxit dicens: DICO
AUTEM UT EST IUSTUS HOMO; EST TERTIUM DICO ADIACERE NOMEN VEL VERBUM IN
AFFIRMATIONE. Non inquit tertium praedicari sed tertium adiacere, ad ordinem
scilicet, non ad praedicationem, ut tertium quidem adiaceret, adiacens autem
praedicaretur id est non simpliciter praedicaretur. Neque enim superius terminus
in propositione est. Atque ideo si quis resoluere propositionem velit in suos
terminos, ille non resolvit in 'est' sed in id quod est homo et iustus. Et
erunt duo termini: subiectus quidem homo, praedicatus vero ƿ iustus, 'est'
autem quod adiacens praedicatur et tertium adiacens non in termino sed in
qualitate potius propositionis (ut dictum est) iustius accipietur. NOMEN autem
VEL VERBUM ait 'est' propter hanc causam. Tertium enim nomen adiacere est
dixit, ut doceret prima duo esse hominem scilicet et iustum, idcirco autem ait
NOMEN VEL VERBUM, quoniam verba quoque nomina sunt. Hoc autem prius dixit
dicens: IPSA QUIDEM PER SE DICTA VERBA NOMINA SUNT. Postquam igitur dixit, quid
vellet ostendere per id quod ait EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, quoniam ad ordinem
non ad praedicationem, subter exposuit quot fierent propositiones dicens: QUARE
IDCIRCO QUATUOR ISTAE ERUNT. Dixit autem communem istis quatuor accidentiam,
quam paulo post diligenter exponam. Quod autem accidit hoc est: cum sint hae
quatuor propopositiones, quas subter positurus est, duae ipsarum se AD
AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM ITA HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES,
DUAE VERO MINIME. Sed hanc his propositionibus accidentiam paulo post
demonstrabo. Nunc autem illud respiciamus, quemadmodum ipse quatuor fieri
propositiones dicat. Ait enim: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT IUSTO ADIACEBIT AUT
NON IUSTO. Fiet enim duplex propositio, si 'est' aut iusto adiaceat aut non
iusto, hoc modo: Est homo iustus Est homo non iustus Quare, inquit, si
est affirmativo modo positum nunc quidem cum iusto, nunc autem cum non iusto
geminas fecit propositiones scilicet affirmativas, idem quoque est cum
negatione coniunctum id est non geminas ƿ quoque faciet negationes eas scilicet
quae sunt: non est homo iustus, non est homo non iustus. Hoc est autem quod
ait: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT IUSTO ADIACEBIT AUT NON IUSTO. Si enim adiacet
iusto, facit hanc affirmationem: Est iustus homo si adiacet non iusto,
facit hanc affirmationem: Est non iustus homo Quare etiam negatio, quae
iuncta cum est non est facit. Haec igitur negatio copulata iusto et non iusto
duas efficiet negationes contra eas quas supra diximus propositiones. Si enim
addatur iusto, talem facit negationem: Non est iustus homo si non iusto:
Non est non iustus homo Hoc autem cur evenit? Quoniam est et non est
iusto et non iusto adiacet, est cum iusto et non iusto duas faciente
propositiones; non est iterum cum iusto et non iusto alias duas. Ex quibus
quatuor duae oppositiones sunt, ut ait supra: QUANDO EST TERTIUM ADIACENS
PRAEDICATUR, DUPLICITER DICUNTUR OPPOSITIONES. Quare sensus sese totus hoc modo
habet. Sed quoniam est alia quoque scriptio loci, sic dicat: DICO AUTEM QUONIAM
EST AUT HOMINI ADIACEBIT AUT NON HOMINI, QUARE ETIAM NEGATIO. QUATUOR ERGO ERUNT.
INTELLEGIMUS VERO QUOD DICIMUS EX HIS QUAE SUBSCRIPTA SUNT. EST IUSTUS HOMO,
HUIUS NEGATIO NON EST IUSTUS HOMO; EST NON IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST
NON IUSTUS HOMO, est hoc loco et non est homini adiacente. Turbabat expositores
ƿ et dubitabant quid hoc esset, quod cum supra dixisset: DICO AUTEM QUONIAM EST
AUT HOMINI ADIACEBIT AUT NON HOMINI, in eorum exemplo et dispositione 'est' non
apposuit homini aut non homini sed iusto et non iusto dicens: INTELLEGIMUS VERO
QUOD DICITUR EX HIS QUAE SUBSCRIPTA SUNT. EST IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON
EST IUSTUS HOMO; EST NON IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST NON IUSTUS HOMO, et
postquam iusto et non iusto est et non est apposuit quod ante non dixit sed ad
hominem et ad non hominem est adiacere proposuit, postea infert: EST ENIM HOC
LOCO HOMINI ADIACET, qui posuerat iusto et non iusto est et non est adiacere. Unde
Alexander quoque dicit scripturae esse culpam, non philosophi recte dicentis et
emendandam esse scripturam. Sed non eum oportuit confundi, si pro homine et non
homine iustum et non iustum intulit. Haec enim exempla potius sunt quam
propositionum necessitas. Quod enim dixit est homini et non homini adiacere ita
sumpsit, tamquam si homo praedicaretur, ut in eo quod est: Socrates homo
est vel rursus: Socrates non homo est Ergo volens sumere quodcumque
praedicatum, nunc quidem simplex, nunc autem infinitum, intulit iustum et non
iustum indifferenter habens, an homo et non homo praedicaretur, an iustus et
non iustus, modo in praedicato alias sumeretur nomen, alias infinitum nomen.
Non ergo oportuit conturbari Alexandrum aliosque in hac inscriptione, in qua
nos philosophus exercere voluerit, sicut Porphyrium et Herminum non turbabat,
qui dicunt exempla haec esse finiti praedicati et infiniti, in quibus quodlibet
praedicatum [sit] aeque accipi oportere. Velut si, cum dixisset homini et non
homini adiacere est et non est, album et non album postea intulisset,
sufficeret. Hoc enim illud praedicatum alias finitum, alias infinitum sumere
quibuscumque nominibus. Et quod ait homini et non homini adiacere est et postea
intulit iusto et non iusto et subiecit hominem, non ita putandum est, tamquam
de subiectis id est homine et non homine loqui voluerit et postea per errorem
intulerit in praedicato iusto et non iusto sed potius ipsum homini et non
homini ita sumpsit, tamquam in aliquo praedicaretur, ut (sicut dictum est):
Socrates homo est Socrates non homo est Hic ergo homo et non homo
praedicatur. Rursus si quis dicat: Homo iustus est Homo non iustus est
nihil differt. Eodem enim modo praedicatum in una propositione simplex sumptum
est, in altera infinitum, velut si dicam: Nix alba est Nix non alba est
eodem modo. Non ergo culpanda scriptura est quae, cum prius proposuisset homini
et non homini adiacere est, iustum et non iustum intulit. Nil enim interest,
sive iustum aut non iustum praedicetur sive homo aut non homo, dummodo
praedicationem alias infinitam, alias vero sumat finitam, tunc cum est tertium
adiacens praedicatur. Exercere igitur intellegentiam nostram acumenque
philosophus voluit rerum omnium sollertissimus, non falsa scripture confundere.
Quando autem ea quae supra dixit colligens ait: EST ENIM HOC LOCO ET NON EST
HOMINI ADIACET, hoc sentit, quoniam in hac propositione quae dicit "Homo
iustus est", quam supra proposuerit, iustus de homine praedicatur, 'est'
autem adiacens iusto adiacebit; et in ea quae dicit "Homo iustus non
est", quoniam iustus praedicatur de homine, 'non est' autem adiacet, 'non
est' igitur homini quoque adiacebit. Hoc est enim quod ait: EST ENIM HOC LOCO
ET NON EST HOMINI ADIACET. Nam si iustus praedicatur de homine, est autem et
non est adiacet iusto, homini quoque adiacebit, ut dictum est. Hanc quoque
scripturam emendandam esse Alexander opinatur faciendumque esse hoc modo, sicut
prius quoque exposuimus: EST ENIM HOC LOCO ET NON EST IUSTO ET NON IUSTO
ADIACET. Sed ordo quidem totius sententiae diligenter expositus est, sive illa
scriptio sit sive illa. Neutra enim mutanda est. Et una quidem plus habet
exercitii, altera vero facilitatis sed ad unam intellegentiam utraque
perveniunt. Restat igitur ut id quod ait: QUARE IDCIRCO QUATUOR ISTAE ERUNT,
QUARUM DUAE QUIDEM AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SESE HABEBUNT SECUNDUM
CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME diligentius exponamus. Locus
enim magna brevitate constrictus est et nimia obscuritate ac subtilitate
difficilis. Et hunc quidem in prima editione huius operis transcurrentes
exposuimus atque in brevissimam ut in aliis quoque dedimus expositionem. Nunc
autem quid in se sensus habeat veri, quid hac brevitate latitet, quantum
facultas suppetit, nos ipsi patefaciemus, et quantum valet animum lector
intendat. Cui si forte paulo obscuriora videantur, rerum impPomba difficultati;
si vero planiora quam putaverit, suo gratiam debebit acumini. Sed prius quid de
hoc loco Herminus arbitretur quam possibiliter expediam. Ait Herminus tribus
modis propositiones cum infinito nomine posse proferri: aut enim infinitum
subiectum habent, ut est Non homo iustus est aut infinitum praedicatum,
ut: Homo non iustus est aut infinitum praedicatum et infinitum subiectum,
ut: Non homo non iustus est Harum igitur, inquit, quaecumque ad
praedicatum terminum habent nomen infinitum, similes sunt his quae aliquam
denuntiant privationem. Denuntiant autem privationem hae quae dicunt homo
iniustus. Ergo istis huiusmodi quae proponunt: Homo iniustus est illae,
inquit, consentiunt quae sunt ex infinito praedicato, ut ea quae est: Homo non
iustus est Idem enim est, inquit, esse hominem iustum quod hominem non
iustum. Illae vero quae habent aut subiectum infinitum, ut est: Non homo iustus
est aut utraque infinita, ut est: Non homo non iustus est non
consentiunt ad privatoriam propositionem, quae est: Homo iniustus est
Nulla similitudo est enim eius propositionis quae dicit: Non homo iustus
est et eius quae dicit: Homo inustus est Nec vero eius quae
proponit: Non homo non iustus est et eius quae enuntiat: Homo iniustus
est Namque illae quae infinitum nomen habent in praedicatione hae
privatoriis consentiunt, illae vero propositiones quae aut subiectum habent
infinitum aut utraque infinita privatoriis longe diversae sunt. Sed haec
Herminus. Longe a toto intellectu ƿ et ratione sententiae discrepans has
interposuit, quae aut ex utrisque infinitis aut ex subiecto fierent infinito.
Quid autem esset quod ait SECUNDUM CONSEQUENTIAM vel quae duae haberent se
secundum consequentiam ut privationes, quae vero non, exponens nihil planum
fecit et sensus nihilo magis ante expositionem Hermini quam post expositionem
obscurus est. Nos autem Porphyrium sequentes eique doctissimo viro
consentientes haec dicimus: quatuor esse propositiones, quarum duae quidem ex
finitis nominibus sunt, duae vero ex infinitis nommibus praedicatis. Sunt autem
ex finitis nominibus hoc modo: affirmatio est iustus homo, negatio non est
iustus homo. Ex infinitis vero nominibus praedicatis affirmatio est quae dicit:
Est non iustus homo negatio quae proponit: Non est non iustus homo
Sed has ex infinitis nominibus praedicatis propositiones in reliquo sermone
infinitas vocabimus, ut affirmatio infinita sit extra expositionem ea quae
dicit: Est non iustus homo negatio infinita ea quae dicit: Non est non
iustus homo ut quod dicturi eramus propositionem ex nomine infinito praedicato
hanc infinitam nominemus, illas autem duas quae nullum nomen habent infinitum
nec subiectum nec praedicatum simplices vocamus. Sunt ergo simplices
propositiones hae: Est homo iustus Non est homo iustus Privatorias autem
propositiones voco quaecumque habent privationem. Privatoriae autem sunt hoc
modo: Est iniustus homo haec enim iustitia subiectum privabit, et rursus:
Non est iniustus homo haec rursus iniustitia subiectum privabit. Ergo cum
sint duae propositiones simplices, una affirmativa, altera negativa, et sint
duae privatoriae, eae quoque una affirmativa, una negativa, necnon etiam sint
aliae infinitae, affirmativa rursus et negativa, dico quoniam, quemadmodum se
privatoriae propositiones affirmatio scilicet et negatio ad affirmationes et
negationes simplices habuerint, sic se habebunt etiam quae sunt infinitae ad
easdem ipsas simplices scilicet secundum consequentiam. Quod autem dico tale
est. Disponantur prius duae simplices id est affirmatio quae dicit: Est iustus
homo et rursus negatio quae dicit: Non est iustus homo Sub his
autem disponantur privatoriae: sub affirmatione quidem simplici privatoria
negativa, sub negativa simplici affirmativa privatoria, ut sub ea quae dicit:
Est homo iustus ponatur ea quae dicit: Non est homo iniustus et sub
ea quae dicit: Non est homo iustus ponatur ea quae proponit: Est homo
iniustus Rursus sub privatoriis disponantur infinitae: sub affirmatione
affirmatio, sub negatione negatio. Sub affirmatione quidem privatoria quae
dicit: Est iniustus homo disponatur affirmativa infinita: Est non iustus
homo sub negativa vero privatoria quae dicit: Non est iniustus homo
ponatur negativa infinita quae dicit: Non est non iustus homo Hoc autem
subiecta descriptio docet: SIMPLICES Affirmatio: Negatio: Est iustus homo Non
est iustus homo PRIVATORIAE Negatio: Affirmatio: Non est iniustus homo Est
iniustus homo INFINITAE Negatio: Affirmatio: Non est non iustus homo Est non
iustus homo His ergo dispositis dico quoniam, quemadmodum se habent
privatoriae, id est affirmatio et negatio quae dicunt: Est iniustus homo Non
est iniustus homo ad simplices quae proponunt: Est iustus homo Non est
iustus homo secundum consequentiam, sic se habebunt etiam infinitae
propositiones affirmatio et negatio hae scilicet quae sunt: Est non iustus homo
Non est non iustus homo ad easdem simplices quae sunt: Est iustus homo
Non est iustus homo Videamus quae sit simplicium et privatoriarum
consequentia, ut utrum se sic habeant infinitae ad simplices, quemadmodum se
habent privatoriae ad easdem simplices, cognoscamus. Dispositae igitur sunt in
primo quidem ordine simplices propositiones, affirmatio simplex quae dicit: Est
iustus homo et negatio simplex quae dicit: Non est iustus homo Sub
his id est sub affirmatione simplici duae negationes, una privatoria quae est:
Non est iniustus homo et altera infinita quae est: Non est non iustus
homo Sub negatione vero simplici quae dicit: Non est iustus homo
duae affirmationes, una privatoria quae dicit: Est iniustus homo altera
infinita quae dicit: Est non iustus homo Illud quoque in descriptione
videndum est, quod angulariter se affirmationes negationesque respiciunt. Nam
affirmatio quae est simplex: Est iustus homo angulariter se contra
utrasque respicit affirmationes infinitam scilicet et privatoriam quae sunt:
Est non iustus homo Est iniustus homo Rursus negatio simplex quae est:
Non est iustus homo angulariter ƿ respicit duas negationes infinitam
scilicet et privatoriam. Et in veritate simplicem affirmationem privatoria
negatio sequitur. Nam si verum est dicere quoniam est iustus homo, verum est
dicere quoniam non est iniustus homo. Nam qui iustus est non est iniustus. Et
possumus istam continuam propositionem coniunctamque proponere: si iustus est
homo, non est iniustus homo. Sequitur ergo affirmationem simplicem privatoria
negatio, ut si vera fuerit affirmatio simplex vera quoque sit negatio
privatoria et affirmationis simplicis veritatem negationis privatoriae veritas
consequatur. At vero non e converso est. Neque enim affirmatio simplex
negationem sequitur privatoriam. Nam si verum est dicere quoniam non est
iniustus homo, non est omnino verum dicere quoniam est homo iustus. Potest enim
vere de equo dici quoniam equus non est iniustus homo (neque enim omnino homo
est et ideo nec iniustus homo est) sed non potest dici de equo quoniam equus
est homo iustus. Ita ergo, quoniam verum non est de equo quoniam est iustus
homo equus, veritatem negationis privatoriae non sequitur veritas simplicis
affirmationis. Atque ideo nec continua propositio hinc et coniuncta proferri proponique
potest. Non est enim vera propositio, si quis dicat: "si non est iniustus
homo, est iustus homo". De equo enim (ut dictum est) verum est quia non
est iniustus homo, non tamen verum est iustum esse hominem equum. Quare
negationem privatoriam simplex affirmatio non sequitur. Monstratum est igitur
quoniam ƿ affirmationem simplicem negatio privatoria sequeretur, negationem
vero privatoriam simplex affirmatio non sequeretur. Rursus videamus et in
opposita parte qualis sit consequentia. In diversa enim parte affirmationem
quidem privatoriam sequitur negatio simplex, negationem vero simplicem
affirmatio privatoria non sequitur. Nam si verum est dicere quoniam est
iniustus homo, verum est dicere quoniam non est iustus homo. Qui enim iniustus
est, iustus non est. Et affirmativae privatoriae eius scilicet quae dicit: Est
iniustus homo veritatem sequitur negativa simplex quae est: Non est
iustus homo Hoc autem non convertitur. Neque enim simplicem negativam
sequitur privatoria affirmativa. Nam si verum est dicere quoniam non est iustus
homo, non est omnino verum quoniam est iniustus homo. De equo enim verum est
dicere quoniam equus non est iustus homo (nam qui omnino homo non est nec
iustus homo est) sed non de eodem equo dici potest vere quoniam equus est iniustus
homo. Nam qui homo non est nec iniustus esse potest. Quare veritatem negativae
simplicis non sequitur veritas privativae affirmationis, veritatem autem
affirmationis privatoriae sequitur ex necessitate veritas simplicis negativae. Quocirca
monstratum est hoc in utrisque, quoniam affirmationem quidem simplicem
sequeretur negatio privatoria, negationem vero privatoriam non sequitur
affirmatio simplex; rursus affirmationem privatoriam sequitur negatio simplex,
negationem simplicem non sequitur affirmatio privatoria. His ergo ita positis
de infinitis privatoriisque tractemus. Privatoriae namque et infinitae
affirmationes affirmationibus, negationes consentiant negationibus ƿ hoc modo.
Affirmatio enim privatoria quae dicit: Est iniustus homo consentit infinitae
affirmationi quae dicit: Est non iustus homo Idem enim significant
utraeque et privatoria affirmatio et infinita affirmatio et quamquam in aliquo
sermone prolatione discrepant, tamen significatione nil discrepant, nisi tantum
quod quem illa iniustum ponit id est privatoria, haec ponit esse non iustum. Et
rursus negatio privatoria quae est: Non est iniustus homo consentit atque
concordat ei negationi quae est infinita: Non est non iustus homo Hae
quoque idem, quod sibi istae consentiunt. Sequitur autem simplicem
affirmationem eam quae dicit: Est iustus homo privatoria negatio quae
dicit: Non est iniustus homo sequitur igitur eandem ipsam simplicem
affirmationem infinita negatio, id est eam quae dicit: Est iustus homo ea
quae proponit: Non est non iustus homo Nam si sibi privatoria negatio et
infinita consentiunt, quam consequitur privatoria negatio, eandem quoque
infinita negatio consequitur. Sed affirmationem simplicem quae proponit: Est
iustus homo privatoria negatio sequitur quae dicit: Non est iniustus
homo quare sequitur etiam eandem simplicem affirmationem quae enuntiat:
Est iustus homo infinita negatio: Non est non iustus homo Rursus e
diversa parte idem evenit: quoniam affirmationem privatoriam quae dicit: Est
iniustus homo sequebatur negativa simplex quae proponit: Non est iustus
homo sequitur quoque infinitam affirmationem quae dicit: Est ƿ non iustus
homo simplex negatio quae dicit: Non est iustus homo Nam si
privatoria affirmatio et infinita consentiunt, quae sequitur privatoriam, eadem
sequitur infinitam. Sed privatoriam affirmationem quae dicit: Est iniustus
homo sequitur simplex negatio quae proponit: Non est iustus homo
sed privatoria affirmatio et infinita affirmatio idem significant sibique
consentiunt: sequitur igitur simplex negatio quae est: Non est iustus
homo infinitam affirmationem quae dicit: Est non iustus homo Sed
hoc e converso non evenit.Nunc enim demonstratum est quod simplicem
affirmationem sequeretur infinita negatio et simplex negatio veritatem
infinitae affirmationis sequeretur sed non est e converso, ut rursus infinitam
negationem sequatur finita affirmatio et simplicem negationem infinita rursus
affirmatio consequatur. Nam si idem privatoria negatio quae est non est
iniustus homo et infinita negatio significat quae est: Non est non iustus
homo quoniam affirmatio simplex quae dicit: Est iustus homo non
sequitur privatoriam negationem quae est: Non est iniustus homo ut supra
monstravimus, eadem ipsa simplex affirmatio quae proponit est iustus homo non
seqmiur infinitam negationem quae enuntiat: Non est non iustus homo
Rursus in parte altera si affirmatio privatoria quae proponit: Est iniustus
homo idem significat cum infinita affirmatione quae dicit: Est ƿ non
iustus homo privatoria autem affirmatio quae proponit: Est iniustus
homo non sequebatur simplicem negationem quae dicit: Non est iustus
homo nec eandem quoque simplicem negationem quae proponit: Non est iustus
homo sequitur infinita affirmatio quae dicit: Est non iustus homo
Sed quamquam hoc ratio consequentiae et necessitas monstret, nos tamen id quod
demonstravimus ratione exemplis quoque doceamus. Dico enim affirmationem
simplicem quae dicit: Est iustus homo sequi infinitam negationem quae
dicit: Non est non iustus homo sicut eandem quoque simplicem
affirmationem sequebatur privatoria negatio quae proponit: Non est iniustus
homo Nam si verum est dicere quoniam est iustus homo, verum quoque de eo
dicere quoniam non est non iustus homo (nam qui iustus est non est non iustus)
sicut verum erat dicere, quoniam idem qui iustus est non est iniustus. Quare
simplicem affirmationem sequitur infinita negatio, sicut eandem quoque
simplicem privatoria negatio sequebatur. Sed hoc non convertitur. Neque enim
statim verum est, qui non est non iustus homo eundem esse iustum. Equus enim
non est non iustus homo (neque enim omnino homo est: qui autem omnino homo non
est, non poterit esse homo non iustus) sed de equo, de quo verum est dicere
quoniam non est non iustus homo, non est de eo verum dicere quoniam est iustus
homo, sicut de eodem equo verum esset dicere privatoriam negationem ƿ quae
proponit: Non est iniustus homo (haec enim poterat etiam de equo dici)
nec erat verum quoniam sequeretur hanc id est privatoriam negationem simplex
affirmatio quae diceret: Est iustus homo Quare non sequitur infinitam
negationem quae est: Non est non iustus homo simplex affirmatio quae
proponit: Est iustus homo sicut ne illam quidem quae consentit infinitae
negationi id est privatoriam negationem quae proponit: Non est iniustus
homo ea quae dicit: Est iustus homo simplex affirmatio sequebatur.
Concludenti igitur dicendum est quoniam affirmationem quidem simplicem sequitur
infinita negatio, Sicut eam privatoria sequebatur, infinitam vero negationem
non sequitur simplex affirmatio, sicut nec negationem privatoriam sequebatur. Rursus
in parte altera idem e converso evenit. Affirmationem enim infinitam sequitur
negativa simplex, sicut privatoriam quoque affirmationem eadem simplex negatio
sequebatur. Nam qui est von iustus homo ille ex necessitate non est iustus,
sicut etiam qui est iniustus homo ille ex necessitate non est iustus. At vero
si verum est dicere quoniam non est iustus homo, non est omnino necesse ilium
esse non iustum hominem. Equus enim non est iustus homo (nam qui omnino homo
non est nec iustus homo esse potest) sed nullus de eodem dicere potest quoniam
equus est non iustus homo (qui enim homo non est nec non iustus homo esse
potest), sicut etiam cum diceremus: Non est iustus homo non sequebatur
privatoria affirmatio quae dicit: Est iniustus homo Equus namque non est
iustus homo sed de eodem equo nemo dicit quoniam est iniustus homo. Iterum
igitur concludenti dicendum est affirmationem infinitam sequi simplicem
negationem, sicut affirmationem quoque privatotiam sequebatur sed non
convertere. Neque enim sequitur simplicem negationem infinita affirmatio, sicut
eam nec privatoria affirmatio sequebatur. Sic ergo cum sint quatuor
propositiones, duae simplices, duae infinitae, quarum duae simplices sunt: Est
iustus homo Non est iustus homo duae vero infinitae: Est non iustus homo
Non est non iustus homo (et harum quatuor duae quidem id est negatio
infinita et negatio simplex sequuntur duas id est negatio infinita simplicem
affirmationem, ea quae dicit: Non est non iustus homo eam quae dicit: Est
iustus homo infinitam autem affirmationem simplex negatio, eam quae
dicit: Est non iustus homo ea quae proponit: Non est iustus homo
duae vero aliae id est affirmatio simplex et affirmatio infinita non sequuntur
negationem infinitam et simplicem negationem. Hoc autem etiam in privatoriis
evenit, ut affirmatio privatoria non sequatur simplicem negationem, cum illam
simplex negatio sequatur, et rursus negatio privatoria sequatur affirmationem
simplicem, cum simplex affirmatio non sequatur privatoriam negationem): recte
dictum est harum quatuor id est duarum simplicium propositionum et duarum
infinitarum duas duabus esse consequentes et habere quandam consequentiam ad
alias, sicut infinita negatio et simplex negatio sequuntur simplicem
affirmationem et infinitam affirmationem, sicut privationes ƿ quoque. Nam et
privatoria negatio sequebatur simplicem affirmationem et simplex negatio
sequebatur privatoriam affirmationem. Ergo duae habent consequentiam id est
infinita negatio et simplex negatio consequentiam ad simplicem et infinitam
affirmationem, sicut privationes quoque (namque et privationes similiter sunt,
ut saepe supra monstravi), duae vero minime habent consequentiam. Neque enim
negativam infinitam simplex sequitur affirmativa aut infinita affirmativa
simplicem negativam sequitur, sicut in privationibus quoque fuit. In
privationibus namque nec affirmatio simplex privatoriam negationem sequebatur
nec simplicem negationem privatoria affirmatio consecuta est. Sensus ergo huiusmodi
est: QUATUOR ISTAE ERUNT, id est quatuor propositiones, ex quibus duplicem
fieri oppositionem dixerat. Quatuor autem istae sunt duae simplices:
affirmativa est iustus homo, negativa non est iustus homo, et duae infinitae:
affirmativa est non iustus homo, negativa non est non iustus homo. Quarum,
inquit, duae, scilicet negative infinita et negativa simplex, sic se habebunt
ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, id est ita alias duas
affirmationes simplicem et infinitam ipsae duae negationes sequnutur, ut eas
privationes sequebantur; DUAE VERO MINIME id est simplex affirmatio et infimita
affirmatio: non se habebunt secundum consequentiam ipsae duae affirmationes ad
duas negationes, infinitam scilicet et simplicem, quas non sequebantur, sicut
nec dudum has negationes privatoriae quoque affirmationes secutae sunt. Quod
vero ait secundum affirmationem et negationem non ita ƿ intellegendum est,
quasi una sit affirmatio aut una negatio sed quoniam in quatuor
propositionibus, in quibus duae quidem affirmationes erunt, duae vero
negationes (affirmationes: simplex quidem "Est iustus homo", infinita
autem "Est non iustus homo", negationes autem: simplex quidem
"Non est iustus homo", infinita autem "Non est non iustus
homo"), quoniam affirmationes duas, simplicem quidem: Est iustus
homo infinitam: Est non instus homo duae negationes sequebantur
(simplex negatio quae est "Non est iustus homo" infinitam
affirmationem quae dicit "Est non iustus homo", et rursus infinita negatio
simplicem affirmationem sequebatur), quoniam ergo (ut dictum est) duas
affirmationes simplicem et infinitam duae negationes simplex et infinita
sequebantur, hoc autem et in privationibus erat, idcirco dictum est ad
affirmationem et negationem secundum consequentiam sic se habere harum quatuor
propositionum duas, sicut etiam se privationes haberent. Ad affirmationem autem
et negationem dixit, quod duas affirmationes duae negationes sequerentur, duae
vero minime, id est duas negationes duae affirmationes non sequerentur. Neque
enim sequebatur negationem infinitam simplex affirmatio aut simplicem
negationem infinita affirmatio, sicut nec in privationibus erat, quod saepe
supra monstratum est. Ne quis autem nos arbitretur de eodem genere
propositionem dicere negationis affirmationisque. Neque enim dicimus negationem
simplicem sequi affirmationem simplicem. Hoc enim impossibile est. Numquam ƿ
enim sibi consentiunt simplex affirmatio simplexque negatio, nec rursus
infinita negatio et infinita affirmatio. Neque enim fieri potest, ut aut negatio
quae dicit: Non est iustus homo affirmationi quae proponit: Est iustus
homo consentiat aut affirmatio quae dicit: Est non iustus homo
negationi quae dicit: Non est non iustus homo eam enim quae dicit: Est
iustus homo simplicem affirmationem sequitur privatoria negatio quae
dicit: Non est iniustus homo sed negativam, inquiunt, infinitam quae est:
Non est non iustus homo haec non sequitur affirmativa simplex quae dicit:
Est iustus homo Ergo quemadmodum negativa privatoria quae est: Non est
iniustus homo sequitur affirmativam simplicem quae dicit: Est iustus
homo non eodem modo eadem simplex affirmatio quae dicit: Est iustus
homo sequitur infinitam negationem quae dicit: Non est non iustus
homo Quibus dicendum est non eos hanc consequentiam recte intellegere nec
quicquam in hac huiusmodi propositionum consequentia discrepare. Cur enim hoc
notaverint, quod non sequatur negationem infinitam quae est non est non iustus
homo finita affirmatio quae dicit: Est iustus homo Nam hoc nil mirabile
debet videri. Idcirco enim simplex affirmatio quae dicit: Est iustus homo
non sequitur infinii tam negationem quae dicit: Non est non iustus homo
quoniam nec antea privatoriam sequebatur. Neque enim sequebatur eadem simplex
affirmatio quae dicit: Est iustus homo privatoriam negationem quae dicit:
Non est iniustus homo et ea causa est cur infinitam quoque ƿ non
sequitur. Infinita enim et privatoria (ut supra saepe iam dictum est) sibi
consentiunt. Quare nulla est discrepantia. Nam si simplex affirmatio privatoriam
negationem sequeretur, eandem quoque infinitam sequeretur. Nunc autem quoniam
simplex affirmatio privatoriam negativam non sequitur, nec infinitam quoque
sequitur negativam. Illi autem qui sumpserunt quoniam sequeretur privatoria
negatio simplicem affirmationem et in eadem consequentia discrepare dixerunt,
quod simplex affirmatio non sequeretur infinitam negationem, non ita oportuit
discrepantiam sumere sed magis si, quemadmodum privatoria negatio affirmationem
simplicem, sic infinita negatio non sequeretur simplicem affirmationem, tunc in
consequentia discreparet, nunc autem nulla est omnino discrepantia. Atque in
hac quidem parte nihil omnino discrepant atque discordant. Videamus nunc in
altera parte, quam illi esse discrepantiam dicunt infinitarum consequentiae et
privatoriarum ad simplices, ut in ea quoque si quid vere discrepant videamus.
Dicunt enim affirmationi quidem privatoriae quae dicit: Est iniustus homo
consentientem esse et concordantem simplicem negativam quae dicit: Non est
iustus homo et sicut negatio simplex sequitur privatoriam affirmationem,
aiunt, quoniam non ita sequitur simplicem negationem quae dicit: Non est iustus
homo infinita affirmatio quae dicit: Est non iustus homo Haec enim
illam non sequitur. Quibus dicendum est rursus, quoniam idcirco infinita
affirmatio quae dicit: Est non iustus homo non sequitur ƿ simplicem
negationem quae proponit: Non est iustus homo quoniam privatoria
affirmatio quae dicit: Est iniustus homo non sequitur simplicem
negationem quae proponit: Non est iustus homo Quod si privatoria
affirmatio sequeretur simplicem negationem, sequeretur sine dubio infinita
quoque affirmatio eandem simplicem negationem. Nunc autem quoniam privatoria
affirmatio simplicem negationem non sequitur, nec infinita affirmatio simplicem
sequitur negationem. Affirmatio enim privatoria et affirmatio infinita sibimet
consentiunt. Illi vero qui discrepantiam ostendere voluerunt infinitarum et
privatoriarum consequentiae ad simplicem, quod cum negatio simplex sequeretur
affirmationem privatoriam non eodem modo infinita affirmatio sequeretur
simplicem negationem, non ita oportuit colligi discrepantiam sed potius si,
quemadmodum affirmativa privatoria quae dicit: Est iniustus homo Est non est
iustus homo ita infinita affirmatio quae enuntiat: Est non iustus
homo sequeretur simplicem negationem quae est: Non est iustus homo
tunc oportuerat dicere aliquid discrepare consequentiam privatoriarum et
infinitarum ad simplices. Nunc autem cum eodem modo privatoria affirmatio non
sequatur, simplicem negationem, eodem quoque modo infinita affirmatio non
sequatur simplicem negationem, manifestum est nullam esse in his discrepantiam,
immo in omnibus simillimum, et illos nihil per hanc rationem ƿ quam volunt
addere recte disserere, immo potius maioribus obscuram sententiam
obscuritatibus implicare. Sed potius ita intellegendum est, ut id quod ait:
QUARUM DUAE QUIDEM AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SESE HABEBUNT SECUNDUM
CONSEQUENTIANU UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME ita accipiamus tamquam si ita dixisset:
quatuor propositionum, duarum simplicmm, duarum vero infinitarum, duas id est
affirmationes simplicem et infinitam sequuntur duae negationes, simplex et
infinita scilicet, sicut privationes quoque (in privationibus enim affirmativam
simplicem sequebatur negatio privatoria et simplex negatio privatoriam
affirmationem), reliquae vero duae, id est simplex affirmatio et infinita
affirmatio nullam habent consequentiam ad negationes, id est simplicem et
infinitam, sicut nec privationes quoque (nam affirmatio privatoria non
sequebatur negationem simplicem nec simplex affirmatio privatoriam negationem),
ut dicamus hoc modo: QUARE QUATUOR ISTAE ERUNT, duae simplices, duae infinitae,
QUARUM id est duarum simplicium et duarum infinitarum DUAE QUIDEM id est negationes
simplex et infinita habent se ad affirmationes simplicem et infinitam SECUNDUM
CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME id est affirmationes simplex et
infinita ad duas negationes, id est simplicem et infinitam. Hoc est enim quod
ait: AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SIC SE HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM id
est consequentur negationes eas quae sunt affirmationes, UT PRIVATIONES ƿ sicut
in privationibus quoque dicebatur, DUAE VERO id est affirmationes simplex et
infinita non habebunt se secundum consequentiam ad duas negationes, id est
simplicem et infinitam, sicut privationes quoque se secundum sequentiam non
habebant. Nam privatoria affirmatio non sequebatur negationem simplicem nec
simplex affirmatio privatoriam negationem. Est alia quoque simplicior
expositio, quam Alexander post multas alias expositiones in quibus animum
vertit edidit hoc modo: cum sint, inquit, quatuor propositiones, quarum duae
sunt infinitae, duae vero simplices, duae, inquit, infinitae aequaliter se
habent secundum affirmationem et negationem ad privatorias, duae vero simplices
ad easdem privatorias se similiter non habent hoc modo: affirmativa enim
infinita consentit affirmativae privatoriae. Ea enim quae dicit infinita
affirmatio est non iustus homo ei consentit privatoriae affirmationi quae
dicit: Est iniustus homo Ea vero infinita negatio quae dicit non est non
iustus homo privatoriae negationi consentit quae dicit non est iniustus homo.
Atque hae quidem duae, id est infinita affirmatio et infinita negatio, ita sese
habent AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM, UT PRIVATIONES, id est eadem affirmant
vel negant, quae etiam privationes affirmant vel negant, duae vero minime, id
est duae simplices minime se ita habent ad affirmationem ƿ et negationem, sicut
privationes. Nam omnino non contingit simplex affirmatio privatoriam
affirmationem. Ea enim quae dicit: Est iustus homo non consentit ei quae
dicit: Est iniustus homo Nec rursus negatio simplex privatoriae negationi
consentit. Ea enim quae dicit: Non est iustus homo quae simplex negatio
est plurimum dissidet ab ea quae dicit: Non est iniustus homo quae est
privatoria negatio. Ergo cum sint quatuor, affirmatio simplex et negatio
simplex, affirmatio infinita et negatio infinita, harum duae, id est affirmatio
infinita et negatio infinita, ita aliquid affirmant vel negant ut privationes
(hoc est enim quod ait: ITA SESE HABENT AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM, UT
PRIVATIONES), DUAE VERO MINIME. Neque enim ita affirmant et negant duae
simplices, sicut duae privatoriae. Affirmatio namque simplex ab affirmatione
privatoria discrepat, et rursus negatio simplex a negatione privatoria longe
dissidet atque discordat. Sed haec (ut diximus) Alexandri expositio est post
multas alias simplicior, non tamen repudianda sed illa superior verior esse
videtur, quod Aristoteles ipse testatur. Ait enim paulo post: HAEC IGITUR,
QUEMADMODUM IN RESOLUTORIIS DICTUM EST, SIC SUNT DISPOSITA. Hanc enim
consequentiam quam insuperiori expositione memoravi privatoriarum et
infinitarum ad simplices in primi libri Priorum Resolutoriorum quae *analytika*
Graeci vocant fine disposuit. Dicit autem Porphyrius fuisse quosdam sui
temporis, qui hunc exponerent librum, et quoniam ab Hermino vel Aspasio vel
Alexandro expositiones singulas proferentes multa contraria et expositionibus
male ab illis editis dissidentia ƿ reperirent, arbitratos fuisse librum hunc
Aristotelis, ut dignum esset, exponi non posse multosque illius temporis viros
totam huius libri praeterisse doctrinam, quod inexplicabilem putarent esse
caliginem. Nos autem brevissime hunc locum in prima editione praeteriimus sed
quod illic pro intellectus simplicitate breviter posuimus, hic omni latitudine
totam sententiae vim et prolixitatem digessimus. Quare quoniam superiora digne
(ut mihi videtur) expressimus, sequentis textus ordinem sententiamque videamus.
SIMILITER AUTEM SE HABET ET SI UNIVERSALIS NOMINIS SIT AFFIRMATIO, UT OMNIS EST
HOMO IUSTUS, NON OMNIS EST HOMO IUSTUS; OMNIS EST HOMO NON IUSTUS, NON OMNIS
EST HOMO NON IUSTUS. SED NON SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE.
CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO. De indefinitis quaedam propositionibus praelocutus
nunc de his quae terminatae sunt secundum universalitatis et particularitatis
adiectionem dicit, quod etiam ipsae similiter se habeant, sicut illae quoque quae
sine ulla determinatione dicebantur, simplex scilicet oppositio atque infinita.
Quod vero ait: SIMILITER AUTEM SE HABET ET SI UNIVERSALIS NOMINIS SIT
AFFIRMATIO, alii ita intellexerunt, ut quod ait similiter referant ad numerum
oppositionum et propositionum. Nam sicut in his quae indefinitae sunt et ƿ
indeterminatae duae sunt oppositiones, una simplicis negationis et simplicis
affirmationis, altera infinitae affirmationis et infinitae negationis, quatuor
autem propositiones, quod supra iam dictum est, ita quoque in his quae
terminationem secundum universalitatem particularitatemque habent quatuor fiunt
propositiones et oppositio duplex. Oppositio enim una est universalis
affirmationis simplicis et particularis negationis simplicis, ut est: Omnis
homo iustus est Non omnis homo iustus est Et haec quidem una est
oppositio. Alia vero infinitae universalis affirmationis et infinitae particularis
negationis, ut: Omnis homo non iustus est Non omnis homo non iustus est
Quare hic quoque, cum duae sint oppositiones, erunt sine dubio quatuor
propositiones, sicut in his de quibus supra dixerat, quae scilicet
determinatione carebant. Alii vero qui Aristotelis animum penitus inspexerunt
non aiunt similiter solum se habere determinatas propositiones ad numerum
oppositionum et propositionum sed etiam ad consequentiam. Nam quae est
consequentia negationum ad affirmationes in his propositionibus simplicibus et
infinitis, quae praeter determinationem dicuntur, eadem se similitudo habet in
his quae terminatione proferuntur. Sed quoniam non in omnibus omnia similia
habent, idcirco addidit notans: SED NON SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS
ESSE. CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO. Sensus autem totus huiusmodi est: similiter,
inquit, se habent hae propositiones quae ƿ secundum determinationem dicuntur
infinitae ad simplices et simplices ad infinitas, quemadmodum illae quoque sese
habebant quae sine determinatione indefinitae dicebantur. Sed habent quandam
dissimilitudinem, quod angulares propositiones in his quae cum determinatione
dicuntur non eodem modo verae sunt, quomodo illae quae sine determinatione
proferebantur vel infinitae vel simplices. Videamus ergo prius an eadem in his
quae determinatae sunt sit consequentia quae in his est quae indefinitae
proferuntur, post videamus quae sit in angularibus dissimilitudo. Disponantur
ergo non solum eae quae simplices vel infinitae sunt sed etiam quae sunt
privatoriae. Et prius quidem disponantur hoc modo: simplex affirmatio et
simplex negatio et hae quidem indefinitae, id est praeter universalitatis aut
particularitatis adiectionem. Sub his sub affirmatione quidem simplici ponatur
negatio privatoria, sub negatione vero simplici affirmatio privatoria: hae
quoque rursus indefinitae. Sub his autem ponantur sub affirmatione privatoria
et sub simplici negatione affirmatio infinita, sub privatoria autem negatione
et sub simplici affirmatione ponatur negative infinita, et hae quoque
indefinitae et indeterminatae sine ulla vel universalitate vel particularitate.
Sub his autem disponantur hae quas determinatas vel universalitatis quantitate
vel particularitatis vocamus. Et primo quidem affirmatio universalis simplex,
contra hanc negatio particularis simplex. Sub affirmatione autem universali
simplici ponatur negatio particularis privatoria, sub negatione autem
particulari simplici universalis affirmatio privatoria. Rursus sub negatione
particulari privatoria et sub affirmatione universali simplici ponatur ƿ
negatio particularis infinita, sub affirmatione vero universali privatoria et
sub negatione simplici particulari ponatur universalis affirmatio infinita.
Erit autem huiusmodi descriptio: INDEFINITAE Affirmatio simplex: Negatio
simplex: Homo iustus est Homo iustus non est Negatio privatoria: Affirmatio
privatoria: Homo iniustus non est Homo iniustus est Negatio infinita:
Affirmatio infinita: Homo non iustus non est Homo non iustus est DEFINITAE
Affirmatio universalis simplex: Negatio particularis simplex: Omnis homo iustus
est Non omnis homo iustus est Negatio particularis privatoria: Affirmatio
universalis privatoria: Non omnis homo iniustus est Omnis homo iniustus est
Negatio particularis infinita: Affirmatio universalis infinita: Non omnis homo
non iustus est Omnis homo non iustus est In hoc ordine propositionum quem
supra descripsimus quae sint angulares manifestum est. Sunt namque
affirmationes quidem affirmationibus, negationes vero negationibus. Et in his
quidem quae in definitae sunt eodem modo angulares sunt affirmationes. Simplex
quidem affirmatio quae dicit: Est homo iustus privatoriae affirmationi
quae dicit: Est homo iniustus et infinitae affirmationi quae proponit:
Est homo non iustus angularis est. Negatio vero simplex quae est: Non est
homo iustus negationi privatoriae quae dicit: Non est homo iniustus
et negationi infinitae quae est: Non est homo non iustus angularis est. Item
si quis ad definitas propositiones aspiciat, idem sine aliqua dubitatione
reperiet. Affirmatio enim universalis simplex quae est: Omnis est homo
iustus affirmationi universali privatoriae quae enuntiat: Omnis est homo
iniustus et affirmationi universali infinitae quae proponit: Omnis est
homo non iustus angularis est, item negatio particularis simplex quae
est: Non omnis est homo iustus negationi particulari privatoriae quae
dicit: Non omnis est homo iniustus et negationi particulari infinitae
quae proponit: Non omnis est homo non iustus angularis. Sunt igitur
affirmationes affirmationibus et negationes negationibus angulares et in ordine
indefinitarum propositionum et in ordine definitarum. Quocirca de earum sequentia
speculandum est. Dictum est enim prius quod affirmationem indefinitam simplicem
sequeretur privatoria et infinita negatio, eas vero simplex affirmatio non
sequeretur. Rursus infinitam affirmationem privatoriamque affirmationem
sequitur simplex negatio, hae vero negationem simplicem non sequuntur. Rursus
si quis ad ordinem definitarum respiciat, idem inveniet. Affirmationem namque
universalem simplicem sequitur particularis privatoria negatio et particularis
infinita negatio. Nam si vera est universalis affirmatio simplex quae dicit:
Omnis est homo iustus, vera est etiam particularis privatoria negatio
quae dicit: Non omnis est homo iniustus Hoc autem idcirco evenit, quod ea
quae dicit: Non omnis homo iniustus est idem potest quod simplex et
similis est ei quae proponit: Quidam homo iustus est particulari simplici
affirmationi. Nam si non omnis homo iniustus est, quidam homo iustus est. Sed
particularis affirmatio simplex sequitur universalem affirmationem simplicem.
Quando enim vera est universalis affirmatio quae dicit: Omnis est homo
iustus vera est et particularis affirmatio quae proponit: Quidam homo
iustus est Sed est quae dicit: Quidam homo iustus est consentit
particularis negatio privatoria quae proponit: Non omnis est homo
iniustus Quocirca etiam particularis negatio privatoria universali
simplici affirmationi consentiet. Sequitur igitur eam quae dicit: Omnis est
homo iustus universalem scilicet simplicem affirmationem ea quae
proponit: Non omnis est homo iniustus particularis negatio privatoria.
Sed huic particulari negationi privatoriae quae dicit: Non omnis est homo
iniustus consentit infinita particularis negatio quae dicit: Non omnis
est homo non iustus Nam si verum est quoniam non omnis est homo iniustus,
et verum est quoniam non omnis est homo non iustus. Idem est enim esse iniustum
quod non iustum. Sed privatoria particularis negatio sequitur simplicem
universalem affirmationem: infinita igitur negatio particularis sequitur
simplicem universalem affirmationem eique consentit, si prius affirmatio
universalis vera sit. Quocirca eam quae dicit: Omnis est homo iustus
universalem simplicem ƿ affirmationem sequuntur sine dubio particularis negatio
privatoria: Non omnis est homo iniustus et particularis negatio infinita:
Non omnis est homo non iustus Quare hic quoque affirmationem negationes
sequuntur. Sed hoc non convertitur. Quoniam enim (ut dictum est) negatio
particularis privatoria quae dicit: Non omnis est homo iniustus consentit
particulari affirmationi simplici, ei scilicet quae dicit: Quidam homo iustus
est hanc autem particularem affirmationem non sequitur universalis
affirmatio (neque enim, si verum est quendam esse hominem iustum, idcirco iam
et omnem esse hominem iustum necesse est): quare non sequitur affirmatio
universalis simplex: Omnis est homo iustus affirmationem particularem
simplicem: Quidam est homo iustus (potest enim hac vera id est
particulari universalis esse falsa) sed particularis affirmatio simplex
particulari negationi privatoriae consentit: quare nec privatoriam particularem
negationem simplex affirmatio sequitur universalis. Eam igitur quae dicit: Non
omnis est homo iniustus non sequitur affirmatio universalis simplex quae
proponit: Omnis homo iustus est Sed particularis privatoria negatio
consentit particulari negationi infinitae: universalis igitur affirmatio
simplex non sequitur particularem negationem infinitam. Ea igitur quae dicit:
Omnis est homo iustus affirmatio universalis simplex non sequitur eam
quae dicit: Non omnis est homo non iustus particularem infinitam
negationem. Duae igitur negationes infinita et privatoria particulares
sequuntur universalem affirmationem simplicem, sicut in his quoque erat quae
sunt ƿ indefinitae. Duae enim negationes infinita et privatoria indefinitae
simplicem affirmationem sequebantur indefinitam. Sed non e converso. Affirmatio
enim universalis simplex non sequitur negationes particularem infinitam et
privatoriam, sicut nec indefinita qunque affirmatio simplex indefinitas
sequebatur negationes privatoriam atque infinitam. Quare in hoc uno ordine
similiter sese habent definitae his quae sunt indefinitae. Aequaliter enim
affirmationibus veris verae sunt negationes, veras negationes affirmationum
veritas non sequitur nec his consentit. Rursus in altera parte perspiciamus,
quemadmodum affirmationes universales privatoriam scilicet et infinitam
particularis negatio simplex sequatur. Namque affirmationem universalem
privatoriam: Omnis est homo iniustus sequitur particularis negatio simplex:
Non omnis est homo iustus Ea enim quae dicit: Omnis est homo
iniustus consentit simplici universali negationi quae dicit: Nullus homo
iustus est Nam si omnis est homo iniustus, nullus est homo iustus. Sed
hanc, id est universalem simplicem negationem, sequitur particularis simplex
negatio. Nam si vera est quoniam nullus homo iustus est, vera est quoniam non
omnis homo iustus est. Sed universalis negatio simplex universali affirmationi
privatoriae consentit: sequitur ergo particularis simplex negatio quae est: Non
omnis est homo iustus universalem affirmationem privatoriam quae
proponit: Omnis est homo iniustus Sed haec universali affirmationi
infinitae consentit. Idem enim significant: Omnis est homo iniustus ƿet:
Omnis est homo non iustus Quare sequitur quoque particularis negatio
simplex quae est: Non omnis est homo iustus universalem affirmationem
infinitam quae dicit: Omnis est homo non iustus Hic quoque affirmationes
universales privatoriam atque infinitam sequitur simplex negatio particularis
sed non convertitur. Etenim quoniam simplicem particularem negationem quae
dicit: Non omnis est homo iustus non sequitur universalis negatio quae
proponit: Nullus homo iustus est (neque enim si vera est non omnem
hominem esse iustum, vera est nullum hominem esse iustum), haec autem, id est
universalis simplex negatio, consentit unumque significat cum affirmatione
universali privatoria: non sequitur igitur universalis privatoria affirmativa
quae dicit: Omnis est homo iniustus simplicem particularem negationem quae
proponit: Non omnis est homo iustus sicut nec eandem particularem
negationem universalis negatio sequebatur. Sed privatoria universalis
affirmatio consentit cum infinita affirmatione universali: igitur particularem
negationem quae dicit: Non omnis est homo iustus universalis affirmatio
infinita non sequitur quae proponit: Omnis est homo non iustus Quare hic
quoque affirmationes duas universales, id est privatoriam atque infinitam,
particularis simplex negatio sequitur, sicut affirmationes quoque duas
indefinitas privatoriam atque infinitam negativa indefinita sequebatur. Sed
duae affirmationes universales privatoria et infinita non sequuntur
particularem simplicem negationem, sicut quae quoque indefinitae ƿ
affirmationes privatoria et infinita indefinitam simplicem negationem non
sequebantur. Similiter se igitur habent definitae indefinitis secundum
consequentiam. Angulares autem non eodem modo sese habent. Nam indefinitarum
propositionum angulares simul veras esse contingit. Nam si verum est quoniam
est homo iustus, quae est indefinita affirmatio simplex, nihil prohibet veram
esse etiam quae dicit: Est homo iniustus et rursus eam quae dicit: Est
homo non iustus quae sunt indefinitae affirmationes privatoria et
infinita. Rursus negationes negationibus quae sunt angulares veras esse
contingit, ut ea quae est: Non est homo iustus si vera est, nihil
prohibet veram esse etiam quae dicit: Non est homo iniustus et eam quae
proponit: Non est homo non iustus Angulares ergo sibi in indefinitis in veritate
consentire nihil prohibet sed in his tantum terminis, ut in secundo huius
operis volumine docuimus, quae neque naturalia sunt inesse neque impossibilia.
Si quis enim dicat: Est homo rationabilis huic angulares verae esse non
possunt, hae scilicet quae dicunt: Est homo irrationabilis et rursus: Est
homo non rationabilis Rationabilitas enim homini per naturam inest.
Similiter autem et de impossibilibus dicendum est. Quod si sint talia quae
neque impossibilia sint inesse nec naturalia sint inesse (ut in ea propositione
quae dicit: Est homo iustus iustitiam neque naturalem esse necesse ƿ est
homini nec impossibile esse), manifestum est quoniam angulares sibimet semper
in veritate consentiunt. Atque hoc idem de negativis quoque angularibus recte
dicitur. In his igitur terminis qui nec naturales sunt nec impossibiles semper
angulares et negationes negationibus et affirmationes affirmationibus simul
veras esse contingit. Et hoc quidem in his quae indefinitae sunt. In his autem
quae definitae sunt et universalitatis particularitatisque participes non eodem
modo sunt. In quibusuis enim terminis sive possibilibus sive naturalibus sive
impossibilibus affirmationes affirmationibus sibimet angularibus in veritate
consentire non possunt, negationes autem negationibus angulares angularibus in
his tantum terminis qui neque naturales neque impossibiles sunt in veritate
poterunt convenire. Et primum quemadmodum affirmationes affirmationibus sibimet
angularibus in veritate consentire non possunt in quibuslibet terminis
demonstrandum est. Ea enim quae dicit: Omnis est homo iustus et ea quae
dicit: Omnis est homo iniustus quae est scilicet angularis, verae simul
esse non possunt. Ea namque quae dicit: Omnis est homo iniustus nil
differt ab ea quae proponit: Nullus homo iustus est Sed "Omnis est
homo iustus" et "Nullus homo iustus est", quoniam contrariae
sunt, simul verae esse non possunt. Sed ea quae dicit: Nullus est homo
iustus convenit atque consentit ei quae proponit: Omnis est homo iniustus
quare: Omnis est homo iustus et: Omnis est homo iniustus simul
verae esse non possunt. Sed eadem quae proponit: Omnis est homo iniustus
consentit (ut saepe dictum est) ei quae dicit: Omnis est ƿ homo non
iustus Quare in his nec haec in veritate consentire potest ei quae dicit
quoniam omnis est homo iustus. Affirmatio igitur universalis simplex: Omnis est
homo iustus affirmationibus universalibus privatoriae et infinitae quae
sunt: Omnis est homo iniustus et: Omnis est homo non iustus sibimet
angularibus in veritate simul nulla ratione consentit, sicut ipsis quae
indefinitae erant et affirmationes affirmationibus et negationes negationibus
in veritate poterant consentire. In his autem quae sunt definitae affirmationes
angulares simul verae esse non possunt. Recte igitur dictum est quoniam in
aliis omnibus similis est consequentia definitarum et indefinitarum.
Affirmationibus enim consentiunt in veritate negationes, negationibus autem
affirmationes non omnino consentiont, quae similitudo consequentiae in utrisque
est id est et in his quae definitae sunt et in his quae indefinitae. Sed est
distantia, quod NON SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE. Et affirmationes
affirmationibus et negationes negationibus in indefinitis veras esse contingit
eas scilicet quae sunt angulares. In his autem quae sunt definitae
affirmationes affirmationibus angulares veras esse aliquando nulla ratione
contingit. Hoc autem manifestum erit, si quis et ea sibi proponat exempla in
quibus sunt termini naturales atque impossibiles et ea in quibus sunt
possibiles et non naturales neque impossibiles. In omnibus enim inveniet
affirmationes affirmationibus definitas ƿ definitis angulares simul veras esse
non posse. Quod autem addidit CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO huiusmodi est: quamquam
enim affirmationes affirmationibus angulares definitae simul verae esse non
possint in quibuscumque propositis terminis, potest tamen fieri ut negationes
negationibus verae inveniantur et sit haec similitudo ad indefinitas angulares.
Nam sicut illic negationes negationibus indefinitae angulares verae esse simul
poterant in his quae neque naturalia neque impossibilia essent, ita hic quoque
id est in ordine definitarum negationes definitas negationibus definitis
angulares angularibus simul veras esse contingit in his quae neque impossibiles
sunt nec naturales. Negatio enim simplex particularis quae dicit: Non omnis est
homo iustus potest simul vera esse cum ea quae dicit: Non omnis est homo
iniustus Potest enim fieri ut quidam sint iusti, quidam autem non sint
iusti et in eo utraeque verae sunt, et ea quae dicit: Non omnis est homo
iustus quia sunt quidam iniusti, et ea quae dicit: Non omnis est homo
iniustus quia poterunt esse aliqui iusti. Sed haec consentit infinitae
negationi particulari quae dicit: Non omnis est homo non iustus Idem est
enim dicere "Non omnis est homo iniustus" quod "Non omnis est
homo non iustus". Quocirca et hae sibimet angulares simul verae esse
possunt. Nam si quidam sunt iusti, quidam iniusti, verum est dicere quoniam non
omnis est homo iustus, quia sunt quidam iniusti, rursus verum est dicere non
omnis est homo non iustus, quia sunt quidam iusti. Negationes igitur ƿ
negationibus angulares definitae simul verae esse possunt et hoc est simile
indefinitis, in quibus sicut affirmationes affirmationibus, ita quoque in
veritate angulares negationes negationibus consentiunt. Sensus ergo totus
huiusmodi est: SIMILITER AUTEM, inquit, SE HABET, id est similis erit
consequentia propositionum, quemadmodum fuit in indefinitis, ETIAM SI
UNIVERSALIS NOMINIS SIT AFFIRMATIO, id est etiam si definitae affirmationes
negationesque ponantur, ut per subiecta exempla monstravit dicens affirmationi
simplici universali OMNIS EST HOMO IUSTUS opponi NON OMNIS EST HOMO IUSTUS
particularem scilicet simplicem negationem. Et rursus universalem affirmationem
infinitam proponens eam scilicet quae est OMNIS EST HOMO NON IUSTUS huic illam
opposuit quae dicit NON OMNIS EST HOMO NON IUSTUS. Hae, inquit, similiter se
habent ad consequentiam quemadmodum ind efinitae. Quomo do autem se illae
haberent ad c onsequentiam supra monstratum est. SED NON, inquit, SIMILITER
ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE. In his enim quae erant indefinitae
affirmationes affirmationibus angulares simul verae esse poterant. In his autem
quae definitae sunt simul verae esse non possunt. CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO, ut
similiter angulares verae sint in his quae definitae sunt, quemadmodum et in
indefinitis. Negationes enim negationibus angulares definitae simul in veritate
consentiunt, ut in his quoque inveniebatur quas indefinitas supra descripsimus.
Plenus est igitur huiusmodi intellectus. Herminus autem hoc aliter sic exponit:
similiter, inquit, ƿ duas facient oppositiones quatuor propositiones, si
fuerint duae simplices, duae infinitae, determinatione tamen adiecta. Hoc autem
sic monstrat: proponit prius simplicem affirmationem universalem quae dicit:
Omnis est iustus homo contra hanc particularem simplicem negationem: Non
omnis est iustus homo sub affirmatione universali simplici affirmationem
universalem infinitam quae dicit: Omnis est non iustus homo contra hanc
sub negatione particulari simplici particularem negationem infinitam quae
proponit: "Non omnis est non iustus homo". Omnis est iustus homo
Omnis est non iustus homo Non omnis est iustus homo Non omnis est non iustus
homo. His ergo ita dispositis duae, inquit, fiunt oppositiones. Contra enim eam
quae est omnis est iustus homo opponitur illa quae proponit: Non omnis est
iustus homo Hoc autem idcirco quoniam sibi contradictorie oppositae sunt
universalis affirmatio simplex et particularis negatio simplex. Et est haec
quidem una propositio. Rursus contra eandem affirmationem simplicem quae dicit:
Omnis est iustus homo opponitur universalis affirmatio infinita quae
dicit: Omnis est non iustus homo et hoc contrario modo. Ea namque quae
dicit: Omnis est non iustus homo idem significat eique consentit quae
dicit: Nullus homo iustus est Sed haec quae proponit nullus homo iustus
est contrario modo opposita est ei quae dicit: Omnis est iustus homo
Quocirca etiam ea quae proponit: Omnis est non iustus ƿ homo contrarie
erit opposita ei quae dicit: Omnis est iustus homo Est igitur haec quoque
altera oppositio. Duae ergo sunt oppositiones, quemadmodum etiam in his quae
sunt indefinitae: licet alio modo essent oppositae, tamen duae erant oppositiones.
Secundum diametrum autem non similiter veras contingit esse, ut ipse ait. Illae
enim quoniam indefinitae erant, et secundum diametrum quae erant simul veras
esse contingebat et omnes omnibus. Quod si quis ad indefinitarum descriptiones
redeat diligenter agnoscit. Hic autem, inquit, hoc est in his quae definitae
sunt, non idem est. Hoc sic monstrat: ea enim propositio quae dicit: Omnis est
iustus homo non consentit contradictioni suae quae dicit: Non omnis est
iustus homo Rursus ea quae dicit: Omnis est non iustus homo non
consentit rursus ei quae dicit: Non omnis est non iustus homo Haec enim
contrariae ipsius consentiebat. Quare cum vera est universalis affirmatio
simplex quae dicit: Omnis est iustus homo sine dubio falsa est ea quae
dicit: Omnis est non iustus homo Sed hac falsa contradictio eius vera
erit: vera igitur est ea quae negat dicens: Non omnis est non iustus homo
Quocirca hae duae propositiones angulares verae aliquotiens inveniuntur: Omnis
est iustus homo Non omnis est non iustus homo Contingit ergo aliquando
veras esse sed non, inquit, omnino. Nam si a particulari negatione infinita
coeperis, non idem est id est non eadem veritas venit. Hoc autem tali probatur
modo: si enim vera est quoniam non omnis est non iustus ƿ homo, falsa est ea
quae dicit: Omnis est non iustus homo Est enim ei contradictorie
opposita. Hac autem falsa quae dicit: Omnis est non iustus homo non
omnino veram necesse est esse eam quae proponit: Omnis est iustus homo
idcirco quoniam hae duae sibi contrariorum loco oppositae sunt. Contrarias
autem propositiones simul falsas esse posse supra docuimus. Ergo non necesse
est, si falsa est omnis est non iustus homo, veram esse eam quae dicit: Omnis
est iustus homo Quod si non necesse est, hoc potest fieri ut utraeque sint
falsse. Quare evenit aliquando, ut vera hac propositione quae dicit: Non omnis
est non iustus homo falsa sit illa quae proponit: Omnis est iustus
homo Quare non similiter secundum diametrum in veritate propositiones
sibi consentiunt. Atque hoc quidem Herminus non recte expositione dicens
ordinem turbat. Si quis autem vel hoc quod Herminus ait diligenter agnoscit vel
id quod supra nos diximus, cognoscit multam esse differentiam expositionis et
meliorem superiorem iudicans ei, si quid nobis credit, recte consentiet. HAE
IGITUR DUAE OPPOSITAE SUNT, ALIAE AUTEM AD NON HOMO UT SUBIECTUM ALIQUID
ADDITO, UT EST IUSTUS NON HOMO, NON EST IUSTUS NON HOMO; EST NON IUSTUS NON
HOMO, NON EST NON IUSTUS NON HOMO. MAGIS PLURES AUTEM HIS NON ERUNT
OPPOSITIONES. HAE AUTEM EXTRA ILLAS IPSAE SECUNDUM SE ERUNT UT NOMINE UTENTES
NON HOMO. Supra iam dixerat omne subiectum aut ex nomine simplici et finito aut
ex nomine rursus infinito consistere et eorum oppositiones ostendit quod essent
duae et quatuor propositiones, duae quidem simplex subiectum nomen habentes,
duae vero infinitum. Post has quando est tertium adiacens praedicaretur, illic
quoque dupliciter oppositiones fieri dixit, cum scilicet finitum nomen esset
subiectum, vel infinitum praedicatum, earumque inter se eam consequentiam
demonstravit, qualem haberent privatoriae ad easdem ipsas simplices, quibus ex
infinito nomine propositiones compararentur. Et quoniam omnis harum varietas
propositionum ita fit, cum est tertium praedicatur, ut aut et subiectum et
praedicatum finita sint aut subiectum quidem finitum, praedicatum vero
infinitum (de quibus supra locutus est, cum earum consequentiam demonstravit)
aut infinitum habent subiectum, finitum vero praedicatum aut infinitum et
subiectum et praedicatum. Et habent quidem propositiones utrumque finitum, ut
est: Homo iustus est Homo iustus non est finitum vero subiectum,
infinitum praedicatum, ut est: Homo non iustus est Homo non iustus non
est Et harum quidem consequentia supra monstrata est. Aliae vero sunt,
quae infinitum habent subiectum et quasi nomine utuntur nomine infinito, ut:
Non homo iustus est Non homo iustus non est Utuntur enim hae
propositiones subiecto, id est ƿ 'non homo' ut nomine, praedicato vero eo quod
est iustus. Hoc est enim quod ait: ALIAE AUTEM AD NON HOMO UT SUBIECTUM ALIQUID
ADDITO. Si quis enim ponat non homo quidem subiectum et de hoc aut finitum
nomen praedicet, ut est 'iustus', aut infinitum, ut est 'non iustus', utroque
modo duplicem rursus faciet oppositionem. Quatuor sunt autem propositiones hae:
Est non homo iustus Non est non homo iustus Est non homo non iustus Non est non
homo non iustusIn his igitur quatuor propositionibus, oppositionibus vero
duplicibus non homo quidem subiectus est sed in superiore oppositione finitum
quidem praedicatur nomen quod est iustus,. Sed illae, inquit, quae praedicatum
quidem infinitum habent, subiectum vero finitum vel quibus et praedicatum
finitum est et subiectum, habent aliquam ad se consequentiam, hae vero quas
postea memoravimus, id est quae infinitum haberent subiectum, praedicatum autem
vel infinitum vel finitum, nullam habent consequentiam ad eas propositiones,
quae sive finito praedicato sive infinito, ex finito tamen subiecto
consisterent. Hoc est enim quod ait: HAE AUTEM EXTRA ILLAS IPSAE SECUNDUM SE ERUNT,
id est nullam consequentiam ad superiores quae ex finito subiecto constarent
habere eas quae infinitum subiectum in propositionis ordine retinerent. Postquam
igitur enumeravit et quae ex utrisque finitis consisterent, id est et subiecto
et praedicato, et has ƿ quae ex subiecto quidem finito, praedicato vero
infinito essent, has etiam quae ex subiecto infinito essent et ex finito
praedicato necnon illas addidit quae ex utrisque infinitis constare viderentur:
postquam igitur has enumeravit, ait: MAGIS PLURES AUTEM HIS NON ERUNT
OPPOSITIONES. Omnis enim oppositio (quod supra iam dictum est) aut ex utrisque
finitis est, ut: Est homo iustus Non est homo iustus aut ex finito
subiecto, infinito praedicato, ut: Est homo non iustus Non est homo non iustus
aut ex infinito quidem subiecto, finito vero praedicato, ut: Est non homo
iustus Non est non homo iustus aut ex infinitis utrisque, ut: Est non
homo non iustus Non est non homo non iustus ut autem quinta oppositio
reperiri possit, nulla rerum ratione possibile est. De his ergo haec dicta
sint, in quibus est tertium adiacens praedicatur. IN HIS VERO IN QUIBUS EST NON
CONVENIT, UT IN EO QUOD EST CURRERE VEL AMBULARE, IDEM FACIUNT SIC POSITA AC SI
EST ADDERETUR, UT EST CURRIT OMNIS HOMO, NON CURRIT OMNIS HOMO; CURRIT OMNIS
NON HOMO, NON CURRIT OMNIS NON HOMO. NON ENIM DICENDUM EST NON OMNIS HOMO SED
NON NEGATIONEM AD HOMO ADDENDUM EST. OMNIS ENIM NON UNIVERSALE SIGNIFICAT SED
QUONIAM UNIVERSALITER. MANIFESTUM EST AUTEM EX EO QUOD EST CURRIT HOMO, NON
CURRIT HOMO; CURRIT NON ƿ HOMO, NON CURRIT NON HOMO. HAEC ENIM AB ILLIS
DIFFERUNT EO QUOD NON UNIVERSALITER SUNT. QUARE OMNIS VEL NULLUS NIHIL ALIUD
CONSIGNIFICAT NISI QUONIAM UNIVERSALITER DE NOMINE VEL AFFIRMAT VEL NEGAT. ERGO
CAETERA EADEM OPORTET APPONI. Sunt quaedam propositiones in quibus est quidem
tertium adiacens praedicatur et hoc sono ipso et prolatione cognoscitur, aliae
vero sunt in quibus tale verbum praedicatur, quod tertium quidem adiacens non
praedicetur, habeat tamen contineatque intra se verbum est. Quae praedicatio si
solvatur in participium atque verbum, quod ante solo verbo dictum praedicatum
secundum praedicabatur, tertio loco praedicabitur est et fit similis
propositio, tamquam si prolatione quoque haberet est verbum. Si quis enim
dicat:"Omnis homo currit"in hac propositione unum subiectum est,
alterum praedicatur. Homo enim subiectus est, praedicatur autem currit. Neque
enim possumus in hac propositione tres esse terminos arbitrari, idcirco quod
omnis quidem terminus non est sed subiecti termini determinatio. Significat
enim quoniam res universalis, id est homo, universaliter subicitur cursui, cum
dicit:"Omnis homo currit" Nulla est enim hominis exceptio, ubi omnem
currere determinatio est. Ergo non ponitur loco termini id quod dicimus omnis
sed potius ƿ subiecti termini determinatio est. Quo circa in hac propositione
quae dicit:"Omnis homo currit"duo sunt termini: homo et currit. Ergo
in eadem quamquam verbum est non praedicetur in prolatione, in verbi tamen quod
est currit significatione concluditur. Si quis enim hanc propositionem quae
dicit:"Omnis homo currit"solvat in participium atque verbum, faciet
omnis homo currens est et idem significat participium verbo coniunctum quod
significat verbum, quod utraque complectitur. Nam cum dico "Omnis homo currit",
omni homini actionem praesto esse pronuntio; quod si idem rursus dicam
"Omnis homo currens est", eandem actionem homini rursus adesse
proponit. Idem igitur significat verbum currit quod currens est. Et in ea
propositione quae dicit:"Omnis homo currit"licet in prolatione est
non dicatur, tamen tertium potestate praedicatur, quod hinc cognoscitur, si
tota propositio dissolvatur in participium scilicet atque verbum. Quamobrem
sicut ex nomine infinito subiecto fit affirmatio, non eodem modo ex infinito
verbo affirmatio fieri potest sed mox vis in ea negationis agnoscitur. Quomodo
enim facimus affirmationem dicentes: Omnis non homo currit 'non homo'
scilicet subiectum infinitum ponentes, non ita possumus dicere fieri
affirmationem cum proponimus: Omnis homo non currit Haec enim iam negatio
est. Quare ubicumque fuerit 'non currit' vel 'non laborat' vel 'non ambulat'
vel 'non legit', in omnibus negatio fit, in quibuscumque infinitum verbum
praedicatur. Dubitabit autem aliquis an sicut ex infinito verbo fieri
affirmatio non potest sed semper negatio ƿ ex hoc praedicamento fit, ita quoque
si eadem propositio solvatur in participium atque verbum, an ex infinito
participio possit affirmatio fieri. Quaeritur enim an sicut in hac propositione
quae dicit: Omnis homo currit qui ita proponit dicens: Omnis homo non
currit facere affirmationem non potest sed sine dubio negationem facit,
ita quoque si eadem solvatur in participium et verbum, ut dicat quis: Omnis
homo currens est si fiat infinitum non currens et dicatur: Omnis homo non
currens est an haec affirmatio sit an certe negatio tantundem valens
tamquam si aliquis dicat: Omnis homo non est currens Sed fuerunt qui hoc
cum ex multis aliis tum ex aliquo Platonis syllogismo colligerent et quid ex ea
re definirent doctissimorum virorum auctoritate cognoscerent. Ex duabus enim
negativis syllogismus fieri non potest. In quodam enim dialogo Plato huiusmodi
interrogat syllogismum: sensus, inquit, non contingunt substantiae rationem;
quod non contingit, nec ipsius veritatis contingit notionem: sensus igitur
veritatis notionem non contingit. Videtur enim ex omnibus negativis fecisse
syllogismum, quod fieri non potest, atque ideo aiunt infinitum verbum quod est
non contingit pro participio infinito posuisse id est non contingens est. Est
enim in pluribus aliis inveniendi facultas frequenter verbum infinitum positum
pro nomine infinito. ƿ Quare verbum quidem dixere quidam semper facere
negationem' si infinitum proponatur, participia autem vel nomina si sint
infinita posse facere affirmationem. Et ideo quotienscumque a magnis viris
infinitum verbum et duae negationes in syllogismo proponuntur, hac ratione
defenditur, quod dicatur verbum infinitum pro participio esse propositum, quod
participium nominis loco in propositione praedicatur. Et hoc quidem Alexander
Aphrodisius arbitratur caeterique complures. Idcirco enim aiunt non posse fieri
ex infinito verbo affirmationem, quoniam sicut verbum est infinitum verbum mox
totem perficiet negationem, sic etiam verba quae in sese complectuntur verbum
est non facient infinitam affirmationem sed potius negationem. Si quis enim sic
dicat: Homo currens non est nullus hanc dixerit affirmationem. Si quis
vero sic: Homo non currit idcirco nec haec propositio affirmatio est
quoniam currit est verbum intra se continet et sicut ad est verbum iuncta
particula negativa non facit affirmationem sed potius negationem, ita quoque ad
illud verbum iuncta negatio quod intra se continet est verbum plenam perficit
negationem. Aristoteles autem non videtur ista discernere sed similiter
arbitrari, sive cum participio ponatur est verbum ƿ sive sine participio verbum
illud quod verbum est intra se claudit atque complectitur. Dicit enim hoc modo:
IN HIS VERO IN QUIBUS EST NON CONVENIT UT IN EO QUOD EST CURRERE VEL AMBULARE,
IDEM FACIUNT SIC POSITA AC SI EST ADDERETUR. Et huius subiecit exemplum, UT EST
CURRIT OMNIS HOMO. In hac enim propositione quae dicit: Currit omnis homo
non quidem convenit poni est verbum; eodem modo vel si quis dicat: Omnis homo ambulat
hic quoque est verbum poni non convenit sed haec talia sunt, tamquam si est
adderetur. Quod exemplo docuit. Nam sicut "Est currens omnis homo"
affirmatio est cursus praesentiam monstrans, ita quoque "Currit omnis
homo" affirmatio idem valens idemque significans. Has ex simplicibus
subiectis affirmationes in quibus est dici non convenit consequenter enumerat
dicens: Currit omnis homo mediam ponens determinationem, quod est omnis,
inter currit quod est praedicatio et subiectum quod est homo: contra hanc opponit
simplicem negationem dicens: Non currit omnis homo Rursus facit
affirmationem ex infinito nomine: Currit omnis non homo huic opponit
negationem infiniti nominis subiecti: Non currit omnis non homo Et has
idcirco proposuit, ut monstraret idem in his evenire in quibus est non convenit
praedicari, quod in illis quoque in quibus est tertium adiacens praedicabatur.
Sed quoniam in negatione infiniti nominis subiecti ƿ ait: Non currit omnis non
homo poterat quis dicere non recte fecisse negationem eius affirmationis
quae est: Currit omnis non homo hanc quae dicit: Non currit omnis non
homo sed potius ita debuisse oppositionem constitui: Currit omnis non
homo Non currit non omnis homo Ex hoc autem demonstrat ita faciendam esse
negationem, ut eam ipse disposuit. Dicit enim: NON ENIM DICENDUM EST NON OMNIS
HOMO SED NON NEGATIONEM AD HOMO ADDENDUM EST. Qui est sensus huiusmodi:
quotiens facimus, inquit, negationem contra hanc affirmationem quae dicit
currit omnis non homo, non est negativa particula non adiungenda ei quod est
omnis sed potius subiecto id est nomini quod est homo. Cum enim ita dicimus:
Currit omnis non homo facienda est negatio: Non currit omnis non
homo Non enim dicendum est: Non currit non omnis homo et non
negativa particula non est adicienda ad omnis sed potius ad homo. Huius autem
haec causa est quod omnis determinatio in terminorum numero non adscribitur sed
potius ad vim suam id est ad determinationem. Non enim aliquid universale
significat ipsum omnis sed significat quidem universale homo, omnis autem
determinatio est, quoniam quis id quod universale est id est homo universaliter
praedicat. Non ergo universale aliquid significat omnis determinatio sed potius
quoniam universale ƿ nomen universaliter praedicatur. Atque ideo quotiens in his
negatio fit, ad subiectum potius nomen trahi oportet negationem non ad
determinationem. Sed ne forte quis dubitet, ut etiam in aliis quoque ita fieri
oportere oppositiones dicat. In his enim quae subiectum habent finitum, cum
dicimus: Omnis homo currit si contra hanc contradictorie opposita negatio
ponitur, ad determinationem particula negative constituenda est, ut contra eam
quae dicit: Omnis homo currit ea sit quae dicit: Non omnis homo
currit In his autem quae ex infinito nomine subiecto fiunt, sive in
affirmatione sive in negatione, a subiecto nomine non est separanda negatio.
Hoc autem ita esse facillima ratione cognoscitur, si determinationes paulisper
auferantur et in his propositionibus ex infinito nomine subiecto quae sunt
indefinitae speculatio fiat. Sit enim affirmatio indefinita: Non homo
currit Contra hanc erit negatio: Non homo non currit Si igitur hae
propositiones factae sunt in universalibus terminis (universalis enim terminus
est homo) sed non habent additam determinationem, quoniam universaliter
praedicantur, id est omnis, et servata est et in affirmatione et negatione ad
subiectum negativa particula (semper enim fiebat necessarie infinitum), etiam
tunc quando additur aliquid quod determinet, non ad determinationem addenda est
negatio sed potius ad subiectum nomen. Quod cum in affirmatione fuerit
infinitum, hoc idem infinitum ut in negatione reuertatur providendum est. Sicut
enim finitum terminum et simplicem in his indefinitis ƿ propositionibus ad
affirmationem et negationem custodiri oportet, ut dicamus: Currit homo Non
currit homo ita quoque in ea oppositione quae est ex infinito nomine
subiecto idem servandum est, ut quod in affirmatione subiectum est idem
seruetur etiam in negatione. Quod si hoc in his quae indefinitae sunt evenit,
cur non etiam in illis idem fieri oportere videatur quae definitae sunt? Hoc
solum enim definitae ab indefinitis differunt, quod cum indefinitae universalia
praedicant praeter universalitatis determinationem, determinatae et definitae
idem illud prasdicant universale cum adiectione et significatione quoniam
universaliter praedicatur. Nihil igitur aliud omnis vel nullus significat, nisi
quoniam id quod universale dicitur universaliter praedicatur. Ergo omnia eadem
quae in affirmatione et negatione indefinitis ponebantur eadem quoque et in
eisdem determinatis servanda sunt. Omnis enim et nullus non sunt termini sed
universalis termini determinationes. His igitur ab Aristotele decursis nos
quoque a Syriano, cui Philoxeno esse cognomen supra rettulimus, propositionum
omnium numerum, de quibus in hac libri disputatione perpendit, nimis ad rem
pertinentem atque utilem transferamus. Et prius perspiciendum est in
categoricis propositionibus quot indefinitae sunt. Quantae enim fuerint
indefinitae, tot ƿ erunt universales, tot particulares, tot singularium atque
individuorum propositiones. Et prius quidem affirmationes perspiciamus hoc
modo: quatuor modi sunt propositionum: aut enim indefinitae sunt aut
universales aut particulares aut singularium atque individuorum. Si ergo
perspiciantur quantae sint indefinitae affirmationes, has si per quaternarium
numerum multiplicavero, colligitur mihi numerus affirmationum. Quem si duplico,
colligitur etiam negationum hoc modo. Praedicatur enim est aut ipsum solum aut
certe tertium adiacens cum alio. Et si solum praedicatur, aut ad nom en simplex
atque finitum praedicandum est aut ad infinitum. Ex his duae sunt
affirmationes: Est homo Est non homo Quotiens autem est tertium adiacens
praedicatur, hae quatuor erunt affirmationes: aut cum subiectum infinitum est
solum, ut: Est iustus non homo aut cum praedicatum infinitum est solum,
ut: Est non iustus homo aut cum utraque finita sunt, ut: Est iustus
homo aut cum utraque infinita sunt, ut: Est non iustus non homo
MAGIS PLURES AUTEM HIS, ut ipse ait, propositiones inveniri non possunt. Cum
igitur sex sint affirmationes, duae quibus est praedicatur, quatuor vero
adiacente, has si per quaternarium ducam, viginti et quatuor fient. Quas rursus
si binario multiplicem, quadraginta octo mihi summa subcrescunt. Tot igitur
erunt affirmationes et negationes quaecumque vel praedicato est verbo vel
tertio adiacenti et praedicato fiunt. Qua in re quoniam tres ƿ sunt aliae
qualitates propositionum, quae sunt necessariae, contingentes et inesse tantum
significantes, secundum quas qualitates istae omnes propositiones proferuntur,
has quadraginta octo propositiones si in ternarium numerum duxerimus, scilicet
propositionum qualitates, centum quadraginta quatuor omnis propositionum
praedicativarum, de quibus hoc libro tractat, numerositas crescet. Sed nunc
praeter has tris qualitates quae sint quadraginta octo propositiones cum
negationibus suis (quas si per qualitates propositionum, necessariam scilicet
et contingentem et inesse significantem, multiplicavero, centum quadraginta
quatuor fient) subter adscripsimus. EST SOLUM Est homo Non est homo Est non
homo Non est non homo Est omnis homo Non est omnis homo Est omnis non homo Non
est omnis non homo Est quidam homo Non est quidam homo Est quidam non homo Non
est quidam non homo Est Socrates Non est Socrates Est non Socrates Non est non
Socrates ITEM EST TERTIUM Est iustus homo Non est iustus homo Est iustus omnis
homo Non est iustus omnis homo Est iustus quidam homo Non est iustus quidam
homo Est iustus Socrates Non est iustus Socrates Est iustus non homo Non est
iustus non homo Est iustus omnis non homo Non est iustus omnis non homo Est
iustus quidam non homo Non est iustus quidam non homo Est iustus non Socrates
Non est iustus non Socrates Est non iustus omnis homo Non est non iustus omnis
homo Est non iustus quidam homo Non est non iustus quidam homo Est non iustus
Socrates Non est non iustus Socrates Est non iustus non homo Non est non iustus
non homo Est non iustus omnis non homoNon est non iustus omnis non homo Est non
iustus quidam non homo Non est non iustus quidam non homo Est non iustus non
Socrates Non est non iustus non Socrates Has igitur propositiones Syriano
calculis colligente nos quoque nominatim disposuimus, idcirco quoniam facilior fides
habobitur numero, si per exempla prodantur, simul etiam quoniam male doctus de
his propositionibus peruersissime contendebat et affirmationes quidem
negationum loco ponens, negationes vero affirmationum totum ordinem
confundebat. Quare ne quem illius oratio a rectae rationis veritate traduceret,
idcirco hanc ad tenacioris memoriae subsidium fecimus dispositionem. QUONIAM
VERO CONTRARIA EST NEGATIO EI QUAE ƿ EST OMNE EST ANIMAL IUSTUM ILLA QUAE
SIGNIFICAT QUONIAM NULLUM EST ANIMAL IUSTUM, HAE QUIDEM MANIFESTUM EST QUONIAM
NUMQUAM ERUNT NEQUE VERAE SIMUL NEQUE IN EODEM IPSO, HIS VERO OPPOSITAE ERUNT
ALIQUANDO, NON OMNE ANIMAL IUSTUM EST EST ALIQUOD ANIMAL IUSTUM. Hoc quoque est
diligentissime superius demonstratum, quod contrariae aliquotiens verum
falsumque dividerent, si aut in rebus naturalibus aut in impossibilibus
proponerentur: aliquotiens vero simul inveniri posse falsas, si res neque
naturales neque impossibiles praedicarent. Contrarias autemesse dictum est,
quaecumque vel affirmative vel negative universalem facerent enuntiationem.
Ergo nunc hoc dicit: quae sunt, inquit, contrariae simul verae esse non possunt.
Et hoc non sine quadam rerum determinatione locutus est. Ait enim: QUONIAM VERO
CONTRARIA EST NEGATIO EI QUAE EST OMNE EST ANIMAL IUSTUM scilicet affirmationi
ILLA QUAE SIGNIFICAT QUONIAM NULLUM EST ANIMAL IUSTUM SCILICET NEGATIO, HAE
QUIDEM, inquit, quoniam sunt contrariae, quae simul verae esse non possunt,
MANIFESTUM EST QUONIAM NUMQUAM ERUNT NEQUE VERAE SIMUL NEQUE IN EODEM. Sed quod
dixit neque verae simul huiusmodi est: nihil enim prohibet alio et alio tempore
et affirmationem universalem et negationem veraciter ƿ posse proponi. Ut si
quis dicat: Omnis homo iustus est hoc si aureo saeculo diceretur,
verissime proponeretur. Quod si quis rursus dicat: Nullus homo iustus est
hoc si ferreo saeculo enuntiet, erit vera propositio. Quare contingit et affirmationem
universalem et negationem veras esse, quas manifestum est esse contrarias sed
non simul: illa enim in aureo saeculo si ita contingit, illa in ferreo. Sed
haec tempora diversa sunt et non sunt simul. Quare recte hoc quoque addidit ut
diceret MANIFESTUM EST QUONIAM NUMQUAM ERUNT NEQUE VERAE SIMUL. Quod autem
addidit NEQUE IN EODEM ad aliam eiusdem rei determinationem valet. Possunt enim
rursus eodem tempore et simul universalis affirmatio et universalis negatio
verae esse sed si non de eodem praedicentur. Ut si quis dicat: Omne animal
rationale est hoc si de hominibus praedicetur, vera est affirmatio. Quod
si quis dicat: Nullum animal rationale est hoc si de equis enuntiet, vera
erit uno eodemque tempore contra universalem affirmationem universalis facta
negatio sed non in eodem. Illa enim affirmatio de hominibus facta est, haec
vero de equis negatio. Quamobrem recte dictum est numquam esse simul contrarias
veras posse neque in eodsm id est nec uno eodemque tempore nec de uno subiecto.
Sed quoniam his oppositae erant universali quidem affirmationi particularis
negatio, universali vero negationi affirmatio particularis et has diximus
idcirco subcontrarias dici, quod diversa quodammodo contrariis patiantur,
manifestum est quoniam sicut contrariae verae simul esse non possunt, dividunt
tamen aliquotiens inter se veritatem ƿ et falsitatem, ita quoque et
subcontrariae dividunt quidem verum inter se falaumque aliquotiens, quando
contrariae quoque diviserint, simul autem verae inveniri possunt, quando universales
et contrariae simul falsae sunt, ut autem simul falsae sint, nulla rerum
ratione contingit. Ergo contrarias quidem simul veras esse atque in eodem
numquam quisquam poterit invenire, subcontrarias autem quae universalibus et
contrariis oppositae sunt sibi inuicem comparatas veras inveniri possibile est:
ut in eo ipso exemplo quod ipse proposuit: Non omne animal iustum est
vera est, rursus: Est aliquod animal iustum haec quoque vera est. Quare
contrariae simul verae esse non possunt, subcontrarias simul veras nihil
prohibet inveniri. SEQUUNTUR VERO HAE: HANC QUIDEM QUAE EST NULLUS EST HOMO
IUSTUS ILLA QUAE EST OMNIS EST HOMO NON IUSTUS, ILLAM VERO QUAE EST EST ALIQUI
IUSTUS HOMO OPPOSITA QUONIAM NON OMNIS EST HOMO voN IUSTUS. NECESSE EST ENIM
ESSE ALIQUEM. De consequentia propositionum simplicium atque infinitarum
sufficienter quidem supra disseruit sed nunc haec est huic intentio non quae
particularis affirmatio vel negatio quam universalem affirmationem vel
negationem sequatur, quod iam supra monstravit, ƿ sed quae universalis negatio
universalem sequatur affirmationem vel quae particularis negatio particulari
scilicet affirmationi consentiat. Proponitque has quatuor dicens negationem
quidem simplicem universalem et affirmationem infinitam universalem sese sequi
et sibimet consentire nec minus his oppositas id est particularem affirmationem
simplicem et particularem infinitam negationem et in veritate et in falsitate
se sequi et a se nullo modo discrepare. Disponantur enim hae quatuor: prior
affirmatio infinita universalis quae dicit: Omnis est homo non iustus sub
hac ei consentiens simplex universalis negatio quae proponit: Nullus est homo
iustus rursus in altera parte contra affirmationem infinitam particularis
simplex affirmatio quae dicit: Est aliqui homo iustus et sub hac
particularis infinita negatio quae proponit:"Non omnis est homo non
iustus" Omnis est homo non iustus Est quidam homo iustus Nulla est homo
iustus Non omnis est homo non iustus. His ergo ita dispositis si
affirmatio universalis infinita vera sit ea quae dicit: Omnis est homo non
iustus vera est etiam ea quae proponit: Nullus est homo iustus quae
est universalis simplex negatio. Hoc autem melius in verioribus cognoscitur
exemplis. Dicatur enim: Omnis est homo non quadrupes vera, rursus: Nullus
est homo quadrupes haec quoque vera est. Quod si una harum falsa sit,
falsa quoque erit et altera. Nam si falsa est quoniam omnis est homo non
iustus, sicut vere quoque falsa est, illa quoque negatio simplex mendacissime
praedicavit quae dicit: Nullus est homo ƿ iustus quocirca affirmatio
universalis infinita et negatio uniusrsalis simplex sibimet consentiunt, ut una
vera alteram veram esse necesse sit, alterius falsitate reliquam quoque
falsitas consequatur. Idem quoque evenit in parte altera. Nam si vera est
quoniam quidam homo iustus est, vera quoque est quoniam non omnis est homo non
iustus, est enim aliqui. Nam id quod dicitur non omnis tantundem est, tamquam
si qui dicat quidam non est, quod in alio quoque exemplo manifestius apparebit.
Si quis dicat: Non omnis homo iustus est hoc est dicere "Quidam homo
iustus non est". Ergo 'non omnis' 'quidam' non significat. Si quis ergo
ita proponat: Quidam homo non iustus non est quem dicit non esse non
iustum iustum esse confirmat. Quare ille de quo dicitur quoniam non iustus non
est erit iustus. Unde fit ut ea quae dicit: Non omnis est homo non iustus
consentiat ei quae dicit: Quidam homo non iustus non est Sed haec
consentit ei quae dicit: Quidam homo iustus est haec igitur quoque
consentit et ei quae proponit: Non omnis est homo non iustus Sed quoniam
hoc fortasse aliquatenus videtur obscurius, consequentiae ipsarum hoc modo
sumendae sunt. Sitque nobis hoc positum affirmationem universalem infinitam et
negationem universalem simplicem sibimet consentire, ut unius veritatem et
falsitatem alterius veritas aut falsitas consequatur. Si falsa est affirmatio
infinita universalis quae dicit: Omnis est homo non iustus vera erit huic
opposita particularis ƿ infinita negatio quae proponit: Non omnis est homo non
iustus Sed cum falsa est affirmatio universalis infinita, falsa quoque
est universalis simplex negatio quae dicit: Nullus est homo iustus Sed
hac falsa particularem affirmationem quae huic contradictorie opposita est
veram esse necesse est, quae est: Est quidam homo iustus Quocirca quando
affirmatio universalis infinita falsa est, vera est particularis infinita
negatio et quando universalis negatio simplex falsa est, vera est simplex
affirmatio particularis. Sed affirmatio universalis infinita et negatio
universalis simplex simul falsae sunt et sibimet in falsitate consentiunt:
simul igitur erunt verae simplex particularis affirmatio et infinita negatio
particularis. Rursus si vera est affirmatio universalis infinita, falsa erit
negatio particularis infinita: ei enim contradictorie opposita est. Si rursus
vera est universalis simplex negatio, falsa est particularis simplex
affirmatio. Sed universalis affirmatio infinita et universalis negatio simplex
simul verae sunt: simul igitur erunt falsae particularis affirmatio simplex et
particularis infinita negatio. Quare hae quoque, id est particularis affirmatio
simplex et particularis infinita negatio, sibimet in veritate et falsitate
consentiunt et veritatem suam et mendacium inuicem consequuntur. Quare
affirmatio quidem et negatio utraque universalis, haec simplex, illa infinita,
sequuntur sese sibique consentiunt. Particulares autem id est universalibus
oppositae simplex affirmativa et negative infinita, ipsae quoque sibimet
consentiunt. Quare rectus est ordo, ut sicut affirmationi universali infinitae
consentit simplex universalis negatio, ita particulari ƿ affirmationi simplici
particularis negatio infinita consantiat. MANIFESTUM EST AUTEM, QUONIAM ETIAM
IN SINGULARIBUS, SI EST VERUM INTERROGATEM NEGARE, QUONIAM ET AFFIRMARE VERUM
EST, UT PUTASNE SOCRATES SAPIENS EST? NON; QUONIAM SOCRATES IGITUR NON SAPIENS
EST. IN UNIVERSALIBUS VERO NON EST VERA QUAE SIMILITER DICITUR, VERA AUTEM
NEGATIO, UT PUTASNE OMNIS HOMO SAPIENS? NON. OMNIS IGITUR HOMO NON SAPIENS. HOC
ENIM FALSUM EST. SED NON OMNIS IGITUR HOMO SAPIENS VERA EST; HAEC AUTEM EST OPPOSITA,
ILLA VERO CONTRARIA. De consequentia propositionum disputans et sibi
quemadmodum consentirent ilium tractatum parumper egressus docere proposuit,
quae veniant in responsionem de singularibus, si ad praedicationem ipsorum sit
particula negationis apposita, quae rursus in his quae de universalibus sunt
propositionibus ad praedicationem addita particula negative concurrent. Neque
enim oportet similiter facere enuntiationes. Non enim simile est quod ex
utraque praedicatione contingit. Hoc autem ita manifestum est: si quis de
singulari aliquo interrogatus neget, ille qui interrogaverit potest facere ex
infinito nomine praedicato illam scilicet negationem iungens quam respondens
ante negaverit, et hoc veraciter praedicabit. De universalibus autem apparebit
non eandem ƿ veritatem posse contingere, si ex his affirmatio componatur. Si
quis enim interroget alium PUTASNE SOCRATES SAPIENS EST? Si ille responderit NON,
vere ille concludit dicens: SOCRATES IGITUR NON SAPIENS EST. Sit autem hoc in
alio quoque clariori exemplo manifestum atque interrogemus aliquem hoc modo:
Socratesne Romanus est? Ille respondeat: non, nos vere concludere possumus:
Socrates igitur non Romanus est, facientes ex negatione quam ille respondebat
et ex nomine quod nos in propositione praedicavimus affirmationem ex nomine
infinito quae dicit: Socrates non sapiens est vel Socrates non Romanus est. Has
enim affirmationes esse ex infinito nomine supra monstratum est. Si igitur
eodem modo aliquis in universalibus subiectis interroget dicens: OMNISNE HOMO
SAPIENS EST? Nos utique respondebimus: NON. Tum ille eadem similitudine
concludit. Dicit enim: OMNIS IGITUR HOMO NON SAPIENS EST. Quocirca nullus homo
sapiens est. Ea enim quae dicit: Omnis homo non sapiens est consentire
monstrata est ei quae dicit: Nullus homo sapiens est Videbitur ergo
quodammodo ex vera responsione falsa inlata esse conclusio. Cui nos dicimus
negationem quidem nos respondisse, non ut ea negatio ad praedicatum iungeretur
sed ad determinationem. Neque enim nos voluisse ab omni homine sapientiam
tollere, cum interrogante an omnis homo sapiens esset ƿ nos negaremus sed ab
omni potius id est determinatione voluisse nos abstrahere sapientiam, illud
scilicet significantes, quod alicui esset et alicui non esset sapientia, ut
quod diximus non tantum valeret tamquam si diceremus non omnis. Ergo si illa
negatio ad nomen, id est ad sapientem iongatur, universalis fit affirmatio quae
dicit: Omnis homo non sapiens est consentiens universali negationi quae
proponit: Nullus homo sapiens est Sed haec contraria est interrogationi.
Fuit enim interrogatio: Omnisne homo sapiens est? Haec habet universalem
affirmationem, cui contraria est universalis negatio, cui rursus negationi
consentit affirmatio universalis infinita. Quocirca affirmationi quoque
universali simplici, quae in interrogatione posita est, id est omnisne homo
sapiens est? Contraria est ea quae dicit conclusio quoniam omnis homo non
sapiens est. Quod si dicat: Non omnis homo sapiens est et verum est et ei
est opposita. Contra enim eam quae dicit interrogationem: Omnisne homo sapiens
est? Cum responsum fuerit non et iuncta negatio fuerit ad omnis,
particularis negatio fit dicens: Non omnis homo sapiens est quae est
opposita universali affirmationi ei quae in interrogatione proposita est
[universali]. Hoc est enim quod ait: HAEC AUTEM EST OPPOSITA, ILLA VERO
CONTRARIA. Per verba autem sensus iste sic constat: ƿ MANIFESTUM EST AUTEM,
inquit, QUONIAM IN SINGULARIBUS, ut est Socrates et quidquid individuum est, SI
EST VERUM INTERROGATUM NEGARE, id est si quando quis aliquid interrogatus vere
negaverit, cum aliquis interrogatur, an Romanus sit Socrates, ille neget,
QUONIAM ET AFFIRMARE VERUM EST? ut ille qui interrogat ex negatione et nomine
praedicato faciat infinitam affirmationem. Et huius exemplum: PUTASNE SOCRATES
SAPIENS EST? Responsio NON. Conclusio quoniam SOCRATES IGITUR NON SAPIENS EST. Sed
hoc non similiter in universalibus se habet, quod per hoc monstrat quod ait: IN
UNIVERSALIBUS VERO NON EST VERA QUAE SIMILITER DICITUR, id est non est vera
affirmatio infinita facta ex praedicato nomine et respondentis negatione sed
potius vera est negatio, non affirmatio. Huius exemplum: nam interrogatio est
UT PUTASNE OMNIS HOMO SAPIENS? Responsio NON. Falsa conclusio OMNIS IGITUR HOMO
NON SAPIENS. Hoc enim falsum est et simile ei quod supra de singulari subiecto
praediximus sed potius illa quae dicit: Non omnis igitur homo sapiens est
ut respondentis negatio ad omnis iungatur et fiat negatio particularis. Est
enim haec vera haec autem est opposita. Nam cum affirmatio universalis
interrogata esset ea quae dicit: Omnis homo sapiens est ex negativa
particula factum est: Non omnis homo sapiens est in conclusione et sunt
oppositae. ƿ Illa est enim affirmatio universalis, haec autem particularis
negatio. ILLA VERO CONTRARIA. Nam si non negatio ad praedicatum iungatur, fit
universalis affirmatio infinita, quae consentit universali negationi finitae.
Sed haec contra affirmationem universalem finitam quae in interrogatione est
posita contraria est. Contraria igitur erit etiam illa quae universalis est
affirmatio infinita. Quae autem causa est cur in singularibus vel affirmatio ex
infinito nomine vel negatio finita sibimet consentiant, in universalibus autem
universalis affirmatio ex infinito nomine non consentiat particulari negationi
finitae, quaerendum est. Etenim si quis dicat Socrates non sapiens est et
Socrates sapiens non est, idem est et hae duae sibimet consentiunt? Si quis
autem dicat: Omnis homo non sapiens est et rursus: Non omnis homo sapiens
est hae duae sibi non consentiunt. Sed haec ratio est, quod in
singularibus subiectis non sunt duplices oppositiones sed una tantum, id est
quae negationem facit, in universalibus autem universaliter praedicatis duplex
oppositio est, una contraria, una vero contradictoria. Si ergo sit huiusmodi
affirmatio quae dicat: Socrates sapiens est contra hanc una est oppositio
quae proponit: Socrates sapiens non est Si ergo dicat aliquis: Socrates
non sapiens est haec nullum alium habebit intellectum quam ea quae dicit:
Socrates sapiens non est Unam enim tautum solam diximus in singularibus
oppositionem. Quare quaecumque aliae fuerint, eadem significatione ƿ
concurrent. In universalibus vero universaliter praedicatis non eodem modo est.
Nam si sit affirmatio universalis quae dicit: Omnis homo sapiens est
contra hanc etiam illa est quae dicit: Nullus homo sapiens est etiam illa
quae dicit: Non omnis homo sapiens est Et illa est contraria, haec
contradictoria. Duplex ergo haec oppositio sibi non potest consentire. Illa
enim totum tollit quae est universalis negatio, illa partem finita quae est
particularis negatio. Sed univerealis negatio universali affirmationi ex
infinito nomine consentit: diversa igitur erit haec quoque a particulari finita
negatione. Quoniam ergo duplex est oppositio in universalibus, simplex in
singularibus, recte in eadem similitudine praedicationis non eadem veritas
falsitasque contingit. ILLAE VERO SECUNDUM INFINITA OPPOSITAE NOMINA VEL VERBA,
UT IN EO QUOD EST NON HOMO VEL NON IUSTUS, QUASI NEGATIONES SINE NOMINE VEL
VERBO ESSE VIDEBUNTUR SED NON SUNT; SEMPER ENIM VEL VERAM ESSE VEL FALSAM
NECESSE EST NEGATIONEM, QUI VERO DIXIT NON HOMO, NIHIL MAGIS DE HOMINE SED
ETIAM MINUS verUS FUIT VEL FALSUS, SI NON ALIQUID ADDATUR. SIGNIFICAT AUTEM EST
OMNIS NON HOMO IUSTUS NULLI ILLARUM IDEM NEC HUIC OPPOSITA EA QUAE EST NON EST
OMNIS NON HOMO IUSTUS. ILLA VERO QUAE EST ƿ OMNIS NON IUSTUS NON HOMO ILLI QUAE
EST NULLUS IUSTUS NON HOMO IDEM SIGNIFICAT. Novimus propositiones ex infinitis
fieri posse nominibus: has ergo dissoluens Aristoteles sumit proxime dictionem
nominis infiniti et de ea disputat si contra finitum nomen comparetur haec
quaedam enuntiativa oppositio videatur. Si quis enim sumat id quod dicimus non
homo et opponat contra id quod dicimus homo, videbitur fortasse aliquatenus
facere oppositionem. Quoniam enim omnis negativa particula adiecta verbo, quod
continet propositionem, negationem facit, si modus aliquis propositionis non
praedicetur, quod posterius demonstrandum est, [et] videtur cum adiecta fuerit
negativa particula quandam facere negationem, ut si non particula inugatur ei
quod est homo faciet non homo. Hoc est enim quod ait: ILLAE VERO QUAE SUNT
SECUNDUM INFINITA OPPOSITAE NOMINA VEL VERBA, UT IN EO QUOD EST NON HOMO VEL
NON IUSTUS, QUASI NEGATIONES SINE NOMINE VEL VERBO ESSE VIDENTUR. Si quis enim
dicat non currit, haec fit sine nomine negatio; quod si quis dicat non homo,
haec quoque est sine verbo negatio. Quae dictiones secundum infirutum nomen et
verbum opponuntur fimto verbo vel nomini quod est currit et homo: videbuntur
ergo hae negationes secundum infinitum nomen vel ƿ verbum quae praedicantur SED
NON SUNT. Maxima enim probatio has negationes non esse conuincit, quod omnis
negatio vel vera vel falsa est, quod autem dicimus non homo vel non currit,
licet simplicia quoque et finita homo scilicet atque currit nihil verum
falsumue significent, tamen haec infinita multo minus aliquid verum aut falsum
demonstrant. Non quod simplicia verum aliquid falsumue significent, idcirco
dicimus infinitas dictiones simplicibus minus verum falsumue monstrare sed quod
quamquam nihil verum vel falsum designet simplex nomen aut verbum, tamen
definitum quiddam proponit, ut in eo quod est homo finitum quiddam est et una
species. Is vero qui dicit non homo, praesentem quidem speciem interimit,
infinitas tamen alias dat intellegere ipse nihil ponens. Quocirca quamquam
finita verba vel nomiha per se vera vel falsa esse non possint nisi cum aliis
iuncta sint, tamen longe minus veritatis aut falsitatis capacia sunt nomina
infinita vel verba, quae nec hoc ipsum quidem quod significant ponunt sed illud
quidem perimunt, nihil autem per se aliud in significatione constituunt:
postremo propinquius ad veritatis vel falsitatis finita intellectus. Minus
igitur vera vel falsa est dictio nominis infiniti quam alicuius simplicis et
finiti vocabuli. SIGNIFICAT AUTEM EST OMNIS NON HOMO IUSTUS ƿ NULLI ILLARUM
IDEM NEC HUIC OPPOSITA EA QUAE EST NON EST OMNIS NON HOMO IUSTUS. ILLA VERO
QUAE EST OMNIS NON IUSTUS NON HOMO ILLI QUAE EST NULLUS IUSTUS NON HOMO IDEM
SIGNIFICAT. Postquam de propositionibus infinitum habentibus praedicatum
sufficienti disputatione locutus est earumque oppositiones ostendit
consequentiasque demonstravit, in medio de infinitis nominibus quod non essent
negationes breviter pernotavit, nunc redit ad eas propositiones quae subiectum
habent infinitum, praedicatum vero vel finitum vel infinitum. Et primum quidem
an eaedem sint idemque significent habeantque ordine aliquam consequentiam hae
propositiones quae ex infinito subiecto sunt cum his quae ex infinito
praedicato sunt vel ex utrisque finitis docet. Ait enim has duas propositiones
quae sunt EST OMNIS NON HOMO IUSTUS, NON EST OMNIS NON HOMO IUSTUS nulli
illarum idem significare quae aut ex utrisque finitis esset aut ex praedicato
infinito. Et disponantur quidem illae quae aut ex utrisque finitis sunt aut ex
praedicato infinito. Et primum quidem ponatur simplex affirmatio universalis,
sub hac negatio universalis ex praedicato infinito superiori simplici
affirmationi consentiens. Contra vero ponatur universalis simplex negatio et
sub hac universalis ex infinito praedicato affirmatio, quas constat sibimet
consentire praesidente affirmatione universali quae est ex infinito scilicet
praedicato. Est omnis homo iustus Nullus est homo iustus Nullus est homo non
iustus Est omnis homo non iustus. Cum ergo ita sint affirmationes positae et
negationes quae simplex quidem subiectum habeant, infinitum vero vel simplex
praedicatum, nunc Aristoteles dicit quoniam hae propositiones quae subiectum
habent infinitum nulli illarum superiorum quas disposuimus idem significant.
Haec enim quae dicit: Est omnis non homo iustus non consentit ei quae
dicit: Est omnis homo iustus nec rursus ei quae dicit: Est omnis homo non
iustus nec his rursus quae sunt: Nullus est homo iustus vel: Nullus
est homo non iustus Hae enim omnes hominem subiectum habent, illa vero
non hominem. Quocirca nec huius negatio, id est universalis affirmationis ex
infinito subiecto particularis scilicet negatio, cum ulla earum quae finitum
subiectum habent poterit consentire. Ea enim quae dicit: Non est omnis non homo
iustus neque cum ea quae proponit: Est omnis homo iustus neque cum
ea quae dicit: Est omnis homo non iustus neque cum his quae enuntiant:
Nullus est homo iustus vel: Nullus est homo non iustus Sed non hoc
dicit, quoniam ex infinito subiecto propositiones diversae sunt his quae sunt
vel ex finito praedicato vel ex infinito, subiecto tamen finito. Possunt enim
diversae quidem esse praedicationes, idem tamen aliquotiens significare, ut ea
quae dicit: Omnis est homo iniustus cum sit diversa ab ea quae dicit:
Nullus est homo iustus idem tamen aliquando significant, si affirmatio
privatoria praecesserit. Dictum est enim quod affirmationibus praecedentibus
negationes sine dubio ƿ sequerentur ergo non hoc dicit, quoniam diversae sunt
ex infinito nomine subiecto, praedicato vel finito vel infinito, subiecto tamen
finito sed quod omnino sibi non consentiant nec idem significent id est tota
sint propositionis virtute dissimiles. Atque haec quidem dixit de his quae
finitum subiectum haberent, infinitum vero praedicatum. Venit autem nunc ad
ipsarum consequentias quae ex infinito nomine subiecto constant et sicut supra
consequentiam earum quae ex utrisque finitis erant vel ex infinito praedicato
docuit, ita quoque nunc e converso quae ex utrisque infinitis nominibus
constant vel infinito nomine subiecto qualem ad se habeant consequentiam
monstrat dicens: illa vero quae est: Omnis non iustus non homo illi quae
est: Nullus iustus non homo idem significat. Has duas tantum
propositiones monstrat, affirmativam scilicet universalem ex utrisque infinitis
quae dicit: Omnis non iustus non homo ei consentire quae est universalis
negatio ex solo infinito subiecto quae dicit: Nullus iustus non homo In his
autem subauditur particula est, ut sit tota propositio: Omnis non iustus non
homo est et rursus: Nullus iustus non homo est Nam sicut in his,
quae finitum habebant subiectum, infinitum vero vel finitum praedicatum,
affirmationem ex finito subiecto et infinito ƿ praedicato eam scilicet quae
dicit: Est omnis homo non iustus sequebatur simplex universalis negatio
quae ex utrisque finitis constat id est: Nullus homo iustus est ita
quoque in his permutatis tantum subiectis idem evenit. Nam sicut illic negatio
ex utrisque finitis universalis sequebatur affirmationem ex finito subiecto et
infinito praedicato universalem, ita hic quoque affirmationem ex utrisque
infinitis universalem sequitur negatio ex infinito subiecto ipsa quoque
universalis. Et has quidem duas propositiones adscripsit solam in his
consequentiam, caeteras autem, quod putabat intellectu esse faciles, persequi
neglexit. Nos autem eas ne quid relictum videatur apponimus. Est enim sequentia
hoc modo: Omnis non homo non iustus est Quidam non homo iustus est Nullus non
homo iustus est Non omnis non homo non iustus est Omnis non homo iustus est
Quidam non homo non iustus est Nullus non homo non iustus est Non omnis non
homo iustus est ƿ Has igitur si quis diligenter inspexerit duas
comparationes duabus convenientissimam consequentiam consensumque monstrabunt.
Maximam operis emensi partem ea quae sequuntur licet magnis quaestionibus
impedita, tamen audacius atque animosius exsequimur nec defatigari in singulis
partibus oportet totius dialecticae prodere adgressos atque expedire doctrinam.
Itaque rectam commentationis seriem conteximus. TRANSPOSITA VERO NOMINA VEL VERBA
IDEM SIGNIFICANT, UT EST ALBUS HOMO, EST HOMO ALBUS. NAM SI HOC NON EST,
EIUSDEM MULTAE ERUNT NEGATIONES. SED OSTENSUM EST, QUONIAM UNA UNIUS EST. EIUS
ENIM QUAE EST EST ALBUS HOMO NEGATIO EST NON EST ALBUS HOMO; EIUS VERO QUAE EST
EST HOMO ALBUS, SI NON EADEM EST EI QUAE EST EST ALBUS HOMO, ERIT NEGATIO VEL
EA QUAE EST NON EST NON HOMO ALBUS VEL EA QUAE EST NON EST HOMO ALBUS. SED
ALTERA QUIDEM EST NEGATIO EIUS QUAE EST EST NON HOMO ALBUS, ALTERA ƿ VERO EIUS
QUAE EST EST ALBUS HOMO. QUARE ERUNT DUAE UNIUS. QUONIAM IGITUR TRANSPOSITO
NOMINE VEL VERBO EADEM FIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO MANIFESTUM EST. Docet nunc
quoniam si verba vel nomina transferantur et aliud prius, aliud vero posterius
praedicetur, unam sine dubio significantiam retinere. Sive enim quis dicat: Est
homo albus sive: Est albus homo sive: Homo albus est sive:
Albus homo est sive quomodolibet aliter ordinem praedicationis permPomba,
eadem sine dubio significatio permanebit. Et hoc quidem fortasse oratoribus vel
poetis non eodem modo perspiciendum est quo dialecticis. Etenim qui ad
compositionem orationis spectant, maximum differt quo verba et nomina
praedicationis suse ordine proferantur. Multum enim interest in eo quod ait
Cicero: Ad hanc te amentiam natura peptrit, voluntas exercuit, fortuna
servavit ita dixisse ut dictum est an ita: ad hanc te amentiam peperit
natura, exercuit voluntas, servavit fortuna. Sic enim minor est sententiae
magnitudo minusque in ea lucet id quod si componatur eminet et sese vel
nolentibus hominum auribus animisque patefacit. Rursus cum dicit Vergilius:
Pacique imponere morem, potuisset servare metrum si ita dixisset:
moremque imponere paci sed esset debilior sonus nec eo ictu versus tam praeclare
nunc compositus diceretur. Ergo non idem valet oratoribus vel poetis verborum
nominumque ordo mutatus. ƿ Qui enim ad compositionem spectant, multum in ordine
sermonum ornamenti reperient. Dialecticis vero, quibus nulla ad orationis
leporem cura dicendi congruit quibusque sola veritas perscrutatur, nihil
differt quolibet ordine verba et nomina si permutentur, cum tamen eandem vim
quam prius in significatione retineant. Sed nec apud ipsos modis omnibus
permutato ordine dictionis eadem semper vis significatioque servatur. Haec enim
particula quae negativa est, id est 'non', multum valet multamque differentiam
perficit variis adiecta locis. Si quis enim dicat: Homo albus non est
faciet indefinitam simplicem negationem. Si quis vero dicat: Homo non albus
est faciet indefinitam ex infinito praedicato affirmationem. Si quis
autem praedicet: Non homo albus est idem quoque constituit ex infinito
subiecto indefinitam affirmationem. Rursus si quis dicat hoc modo: Omnis homo
non iustus est haec consentit ei quae dicit: Nullus homo iustus est
Quod si idem non ad universalitatis determinationem ponatur, ut dicatur: Non
omnis homo iustus est non iam universalis affirmatio infinitae
praedicationis consentiens universali simplici negationi fit sed potius
particularis negatio simplex. Videsne igitur quam multas faciat differentias negativa
particula diversae nominum praedicationi coniuncta? Sed quamquam haec ita sint,
potest tamen eadem alio modo diversis in locis posita eandem vim significationemque
servare. Si enim posita non particula cum universalitate sua cum eadem ipsa
saepius permPombaur, idem sine dubio in significatione consistit. Si quis enim
dicat: Non omnis homo albus est particularis est negatio simplex. Si quis
vero sic dicat: Homo non omnis albus est eadem significatio est, vel si
hoc modo: Homo albus non omnis est nec haec a superiori significatione
discedit, vel si quis amplius quoque permPomba dicens: Homo albus est non
omnis a priori significatione nil discrepat. Eodem modo vel si
quomodolibet aliter permPombaur cum propria tamen universalitatis
determinatione, diverso permutata modo idem semper necesse est in
significatione seruetur. Eodem modo si eadem non particula cum alio nomine vel
verbo iuncta saepius transferatur, ut cum dicimus homo iustus non est, rursus
homo non est iustus, rursus non est homo iustus, eadem significatio retinetur.
Quocirca si sola negativa parcula permutata sit et non eodem semper ordine
praedicetur, multas differentias faciet propositionum. Sin vero iuncta cum alio
nomine saepius (ut dictum est) transferatur, eadem in translationibus omnibus
significatio permanebit. His igitur ita dispositis videndum est quae sit
Aristotelis demonstratio verba et nomina transposita eandem semper vim significationemque
subicere. Ait enim: TRANSPOSITA VERO VERBA VEL NOMINA IDEM SIGNIFICANT, UT EST
ALBUS HOMO, EST HOMO ALBUS. Haec enim transpositis nominibus atque verbis
eandem retinet significationem. In illa enim prius albus est, posterior homo,
in hac autem prior homo, posterior albus. Quod si hoc falsum est et non sunt
eaedem ƿ sed a se diversae sunt, impossibile aliquid inconveniensque contingit.
Erunt enim duae negationes unius affirmationis, quod est impossibile. Ostensum
enim est quoniam una negatio unius affirmationis est. Nunc igitur videamus si
hae affirmationes quae dicunt: Est albus homo et: Est homo albus
non sunt eaedem sed diversae, quemadmodum unius affirmationis duae sint
negationes. Et primo quidem disponantur hoc modo: Est albus homo Est homo
albus huius ergo propositionis quae dicit: Est albus homo erit
negatio ea scilicet quae proponit: Non est albus homo Alia namque quae
esse possit rationabiliter non potest inveniri. Disponantur igitur rursus
eaedem et superior cum propria negatione: Est albus homo Non est albus homo Est
homo albus Cum igitur eius quae dicit: Est albus homo negatio sit
ea quae proponit: Non est albus homo si ea quae dicit: Est homo
albus diversa erit ab ea propositiones quae enuntiat: Est albus
homo alia eius erit negatio. Sit ergo aut ea quae dicit: Non est non homo
albus aut ea quae dicit: Non est homo albus Rursus igitur
disponantur duae quidem affirmationes primae alternatim positae et e contrario
confessa prioris negatio. Contra secundam vero utraeque hae negationes quas
dicimus adscribantur. Est albus homo Non est albus homo Est homo albus Non est
non homo albus Non est homo albus ƿ His ergo ita descriptis eius
propositionis quae dicit: Est homo albus non potest illa esse negatio
quae dicit: Non est non homo albus Illius est enim negatio quae habet
subiectum infinitum quae dicit: Est non homo albus similiter autem et si
quamlibet aliam quis posuerit negationem, eius sine dubio alia affirmatio
reperietur. Unde fit ut relinquatur ea eius esse negatio quae proponit: Non est
homo albus Est ergo negatio eius quae dicit: Est homo albus ea quae
dicit: Non est homo albus Sed eius affirmationis quae proponit: Est albus
homo negatio est et ista quae dicit: Non est homo albus Quod probat
ea res quod inter se verum falsumque dividunt. Nam si verum est esse album
hominem, falsum est non esse hominem album. Quod si in aliquibus verum
invenitur, hoc secundum definitionem propositionis agnoscitur, non secundum
negationis formam, ut magis secundum quantitatem non sint sibi oppositae potius
quam secundum qualitatem. Quod illa res nuonstrat si quis sic dicat: Est albus
omnis homo Si contra hanc ponatur non est omnis homo albus, perspicuum
est quoniam inter se et veritatem dividunt et falsitatem. Unam enim veram esse
necesse est, unam falsam. Quare etiam si determinationes auferantur, eadem
oppositio redit, licet sit indefinita. Nam sicut in ea quae dicit: Omnis homo
iustus est Non omnis homo iustus est sublatis omnis et: Non omnis homo
iustus est et: Homo iustus non est affirmatio et negatio sunt
oppositae, ita quoque et in ƿ his sublato omnis et non omnis ea quae dicit: Est
albus homo ei quae dicit: Non est homo albus opposita est. Additis
enim determinationibus una semper vera est, altera falsa. Sed diximus quoniam
eius affirmationis quae dicit: Est albus homo negatio esset: Non est
albus homo Duae igitur negationes: Non est albus homo et: Non est
homo albus unius affirmationis sunt quae enuntiat: Est albus homo
Quod evenit si negationes hae quae dicunt: Non est homo albus et: Non est
albus homo a se diversae sunt. Quod ex eo contingit quod prius propositum
est eam quae dicit: Est albus homo diversam esse ab ea quae dicit: Est
homo albus Quod si hoc impossibile est ut una affirmatio duas habeat
negationes et perspicuum est contra eam affirmationem quae dicit: Est albus
homo utrasque has negationes quae dicunt: Non est albus homo et:
Non est homo albus opponi, hae a se diversae non sunt sibique consentiunt
et tantum permutatione nominis distant, caeteris autem omnibus eaedem sunt.
Quod si hae negationes eaedem sunt, eaedem quoque sunt affirmationes. Recte igitur
dictum est quoniam transposita verba et nomina eandem vim significationemque
servarent. Sensus ergo totus sese ita habet. Hoc modo autem ordo verborum:
TRANSPOSITA VERO, inquit, NOMINA VEL VERBA IDEM SIGNIFICANT. Et horum exemplum:
UT EST ALBUS HOMO, EST HOMO ALBUS. In his enim nomina transposita sunt. NAM SI
HOC NON EST, id est si non idem significant verba nominaque transposita,
quiddam impossibile et inconveniens. Ait enim EIUSDEM ƿ MULTAE ERUNT
NEGATIONES, id est eiusdem affirmationis multae erunt negationes. Sed hoc
impossibile est. Ostensum est enim quoniam una negatio unius affirmatio his
est. Duas ergo negationes uni opponi affirmationi, si verba et nomina
transposita non idem significant, sic demonstrat: EIUS ENIM QUAE EST EST ALBUS
HOMO scilicet affirmationis NEGATIO EST NON EST ALBUS HOMO (contra illam enim
affirmationem haec negatio iuste ponitur), EIUS VERO QUAE EST EST HOMO ALBUS,
id est alterius affirmationis, SI NON EADEM EST EI QUAE EST EST ALBUS HOMO, id
est si diversa est a priore propositione quae dicit: Est albus homo et
non est ei eadem, ac si diceret: si ei non consentit, ERIT NEGATIO VEL EA QUAE
EST NON EST NON HOMO ALBUS VEL EA QUAE EST NON EST HOMO ALBUS vel quaecumque
alia, quam si quis ponat, non esse negationem una ratione refellitur, qua haec
quam posuit. Refellitur autem haec hoc modo: ait enim: SED ALTERA QUIDEM EST
NEGATIO EIUS QUAE EST EST NON HOMO ALBUS, ALTERA VERO EIUS QUAE EST EST ALBUS
HOMO. Inter duas enim negationes quas posuit, illam scilicet quae dicit: Non
est non homo albus et eam quae proponit: Non est homo albus illa
quae dicit: Non est non homo albus negatio est affirmationis infinitum
habentis subiectum quae dicit: Est non homo albus alia vero scilicet quae
proponit: Non est homo albus eius est ƿ negatio quae est: Est albus
homo Cum ea enim verum dividit atque falsum. Quare erunt duae negationes
unius affirmationis. Sed hoc impossibile est. QUONIAM IGITUR TRANSPOSITO NOMINE
VEL VERBO EADEM FIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO MANIFESTUM EST: superiorem argumentationem
hac huius sententiae conclusione confirmans. Fecit autem hunc syllogismum in
secundo modo hypothetico quem indemonstrabilem vocat hoc modo: si primum est,
secundum est; sed secundum non est, primum igitur non est, id est si
transpositis verbis et nominibus non sunt eaedem propositiones, unius
affirmationis duae sunt negationes; sed hoc impossibile est: non igitur
diversae sunt propositiones transpositis verbis atque nominibus. AT VERO UNUM
DE PLURIBUS VEL PLURA DE UNO AFFIRMARE VEL NEGARE, SI NON EST UNUM EX PLURIBUS,
NON EST AFFIRMATIO UNA NEQUE NEGATIO. DICO AUTEM UNUM NON SI UNUM NOMEN SIT
POSITUM, NON SIT AUTEM UNUM EX ILLIS, UT HOMO EST FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES
ET MANSUETUM SED EX HIS UNUM FIT; EX ALBO AUTEM ET HOMINE ET AMBULARE NON UNUM.
QUARE NEC SI UNUM ALIQUID DE HIS AFFIRMET ALIQUIS ERIT UNA AFFIRMATIO SED VOX
QUIDEM UNA, AFFIRMATIONES VERO MULTAE, NEC SI DE UNO ISTA SED SIMILITER PLURES.
Multos talis loci huius caligo confudit, ut digne exsequi et quod ab Aristotele
dicebatur expedire non ƿ possent. Nos autem supra iam diximus magnae fuisse
curae apud Peripateticae sectae principes diiudicare, quae esset una affirmatio
vel negatio, quae plures. Neque enim vocis sonitu cognoscuntur aut numero
terminorum. Est enim ut una quidem res de una re praedicetur et non sit una
enuntiatio. Potest item fieri ut vel plures de una re praedicentur vel una de
pluribus, una tamen ex his omnibus enuntiatio fiat. Quae res magnae apud eos
cautelae fuit, ut ubi incidisset perspecta regula non lateret. Nam si quis
dicat: Canis animal est non est una enuntiatio. Canis enim multa
significat. Si quis vero dicat: Homo animal rationale mortale est vel
animal rationale mortale homo, singulae enuntiationes sunt, idcirco quoniam
unum ex omnibus quiddam fieri potest. Nam de animali, mortali et rationali
simul iunctis unus homo perficitur. Item alia sunt quae plurima praedicantur,
de quibus unum aliquid effici constituique non possit. Neque si illa de altero
praedicentur neque si de illis aliud, una affirmatio vel una negatio est sed
tot dicendae sunt esse affirmationes quot sunt hae res quae vel de una
praedicantur vel de quibus una dicitur, ut cum dicimus: Socrates calvus
philosophus ambulat Ex calvitia et philosophia et ambulatione nihil unum
coniungitur, ut haec quasi alicuius speciem forment. Quocirca sive haec de uno
praedicentur sive unus de istis, non poterit esse una enuntiatio. Et communiter
quidem totius propositi sensus huiusmodi est. Nunc autem ad ipsa Aristotelis
verba veniamus. Dicit enim: AT VERO UNUM DE PLURIBUS VEL PLURA DE UNO AFFIRMARE
VEL NEGARE, SI NON EST UNUM ES PLURIBUS, NON EST AFFIRMATIO UNA NEQUE NEGATIO. Si,
inquit, plura de uno praedices, ut cum dicis: Philosophus simus calvus Socrates
est vel rursus cum unum de pluribus praedicas, cum dicis: Socrates
philosophus simus calvus est si ex his pluribus quae vel praedicas vel
subicis unum aliquid non fit, quemadmodum fieri unum potest de his quae
praedicamus substantia animata sensibilis id quod est animal, non fit una
negatio nec una affirmatio, quandoquidem plura vel praedicantur vel
subiciuntur, ex quibus congregatis una species non exsistat. Quod si unum de
uno aliquis praedicaverit, quorum unum nomen plura significet, ex quibus
pluribus unum aliquid non fiat, rursus non est una affirmatio nec una negatio. Si
quis enim dicat: Canis animal est nomen canis significat et latrabilem et
caelestem et marinum, ex quibus iunctis nihil unum efficitur. Quare quoniam ex
his pluribus unum aliquid effici non potest, ex illo quoque nomine non fit una
affirmatio et una negatio, quod praedicatur aut subicitur, cum multa significet
ex quibus unum fieri non possit. Quod per hoc ostendit quod ait: DICO AUTEM
UNUM NON SI UNUM NOMEN SIT POSITUM NON SIT AUTEM UNUM EX ILLIS. Potest enim
fieri ut unum nomen de uno praedicetur sed si unum ipsorum plura significet, ex
quibus unum non sit, non est una affirmatio nec una negatio. Neque enim vox una
perficit enuntiationem sed eius quod significatur simplicitas, vel si plura
sins, in unum collectorum ƿ aliquid unum faciendi potentia. Huius autem rei
subiecit exemplum quo plurimos fefellit dicens: UT HOMO EST FORTASSE ET ANIMAL
ET BIPES ET MANSUETUM SED EX HIS UNUM FIT, EX ALBO AUTEM ET HOMINE ET AMBULARE
NON UNUM. Putaverunt enim alii ita hunc dixisse, ut ostenderet exempli gratia
se hanc quasi definitionem dedisse, ne forte aliquis arbitraretur hanc quasi
veram hominis definitionem posuisse, quae est animal bipes mansuetum. Idcirco
enim, inquiunt, dixit FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES ET MANSUETUM EST, ne quis
omnino putaret huiusmodi esse hominis definitionem Aristotelem arbitrari. Alii
vero hoc non ita dictum acceperunt sed potius in hanc sententiam scripturamque
Aristotelis dictum interpretati sunt: UT HOMO EST AEQUE ET ANIMAL ET BIPES ET
MANSUETUM SED EX HIS UNUM FIT, ut ita intellegeretur: homo quidem aequaliter se
habet ad id quod homo est et ad id quod animal bipes mansuetum est. Quocirca si
idem et aequum est dicere hominem, quod animal bipes mansuetum, necesse est
quotiens de uno haec plura praedicantur, id est animal bipes mansuetum de
homine, quoniam aequale est homini, quod unum est, unum quiddam praedices,
quamuis tres voces praedicare videaris. Sed omnes hi nihil omnino intellegunt
sed est melior expositio quam Porphyrius dedit. Volens, inquit, Aristoteles
monstrare, quae una esset affirmatio, quae non una, dixit primo, quoniam plura
de uno praedicare vel plura uni subicere non est ad unam enuntiationem, nisi ex
illis pluribus unum aliquid fieret. Videns item quod adhuc possint plures esse
affirmationes etiam his praedicatis, quae cum plura sint, unum tamen ex his
fieri possit, hoc dixit FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES EST ET MANSUETUM quod autem
dico tale est: manifestum quidem sit, quoniam si plura de uno praedicentur, ex
quibus unum fieri non possit, vel si plura uni subiciantur, ex quibus unum non
sit, quoniam non est una affirmatio rel negatio.Nunc autem tractemus de his
pluribus ex quibus unum aliquid fieri potest. Inveniemus enim et in his in modo
ipso enuntiandi plures aliquotiens enuntiationes et non unam reperiri, quamquam
ex pluribus unum fieri aliquid possit. Si quis enim sic dicat: animal rationale
mortale homo est, simul iungens animal rationale mortale, quoniam continve
dictum est et ex his unum aliquid fit, una est affirmatio. Sin vero sit aliquid
interualli, ut ita quis dicat: homo animal et rursus rationale et aliquantulum
requiescens dicat mortale est, non est una affirmatio nec una negatio. Haec
enim intercapedo plurimas efficit enuntiationes. Rursus si cum coniunctione
dicantur homo animal et rationale et mortale est, sic quoque multae
propositiones sunt. Nec differt aliquid vel requiescendo vel interponendo
coniunctiones dicere quam si quis sic dicat: Homo animal est Homo rationalis
est Homo mortalis est quae perspicue propositiones multae sunt. Videns
ergo hoc Aristoteles ita dixit: HOMO EST FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES ET
MANSUETUM. Ad hoc inquit fortasse tamquam si ita diceret: de homine quidem et
bipede et mansueto fit unum sed est aliquotiens forte ut plures propositiones
sins, cum ea coniunctio quaedam separat atque discernit. Erit enim fortasse
homo et animal, ut haec una sit propositio, et bipes ut altera et mansuetum ut
rursus altera. Sed ex his unum aliquid fit, quae cum continve prolata sunt,
quoniam ex his unum aliquid conficitur, una est propositio. Non autem idem
evenit in omnibus. EX ALBO enim ET HOMINE ET AMBULARE NON UNUM FIT. Si quis
enim dicat: Socrates homo albus ambulat non est una affirmatio, quoniam
ex homine albedine et ambulatione nulla omnino species fit. Quare conclusio
est, quoniam nec si de his pluribus, ex quibus unum non fit, unum aliquid
praedicetur, ut ex terreno latrabili et caelesti et merino quoniam unum non fit
et de his unum aliquid praedicatur, quod dicimus canis, huiusmodi nomen quod
plura significat, ex quibus unum non fit, si de altero praedicetur vel si
subiciatur alteri, non fit una affirmatio nec una negatio sed erit quidem vox
una, affirmationes vero plurimae. Sive enim unum de pluribus praedicetur, ex
quibus non fit unum, vel plura huiusmodi de uno, vel si unum de uno
praedicetur, quod praedicatum plura significet, ex quibus unum non fit, sive
illud praedicatum alteri subiciatur, omnino non fit una affirmatio nec una
negatio. Est autem regula huiusmodi: una affirmatio est, si aut duo termini
singulas res significent aut si plura ita de uno praedicentur vel uni
subiciantur, ut ex his aliquid unum fieri possit, aut unum nomen quod vel
praedicatur vel subicitur talia significet plura, quae omnia unam quodammodo
speciem valeant congregare. SI ERGO DIALECTICA INTERROGATIO RESPONSIONIS EST
PETITIO, VEL PROPOSITIONIS VEL ALTERIUS PARTIS CONTRADICTIONIS, PROPOSITIO VERO
UNIUS CONTRADICTIONIS EST, NON ERIT UNA RESPONSIO AD HAEC; NEC UNA
INTERROGATIO, NEC SI SIT VERA. DICTUM AUTEM IN TOPICIS DE HIS EST. SIMILITER
AUTEM MANIFESTUM EST, QUONIAM NEC HOC IPSUM QUID EST DIALECTICA EST
INTERROGATIO. OPORTET ENIM DATUM ESSE EX INTERROGATIONE ELIGERE UTRAM VELUT
CONTRADICTIONIS PARTEM ENUNTIARE QUIA OPORTET INTERROGANTEM DETERMINARE, UTRUM
HOC SIT HOMO AN NON HOC. Quisquis dialectica utitur interrogatione, hic aut
simpliciter interrogat atque unam propositionem in interrogatione ponit, ut
contra eam sit una responsio, aut utrasque interrogans dicit, ad quas non fit
simplex responsio sed una tota propositio respondetur. Si quis enim dicat
interrogans: Socrates animal est? Contra hanc talis est responsio: Aut
ita aut non Si quis vero hoc modo interroget: Socrates animal est an
non? Contra hanc non est una responsio. Si enim respondetur ita, de qua
adnueris ignoratur, de affirmatione an de negatione; rursus si non responderis,
nescitur quam negare volueris, affirmationem an negationem. Quare contra
huiusmodi interrogationes tota propositio respondenda est, id est altera pars
contradictionis, ƿ aut tota affirmatio aut tota negatio, ut dices aut est
animal Socrates aut, si hoc non videtur, respondeas non est animal Socrates. In
his igitur quae multa sunt, ex quibus unum fieri nequit, si fiat interrogatio,
et ipsa reprehensibilis est et contra eam una responsio. Quisquis enim ea plura
interrogat, ex quibus unum esse non possit, multas facit interrogationes.
Contra quam si simpliciter respondeatur, etiam si vera sit ipsa responsio,
tamen iure reprehenditur. Contra enim multiplicem interrogationem multiplex
debet esse responsio. Si quis enim dicat interrogans: Socrates philosophus est
et legit et ambulat? Quia potest fieri ut sit quidem philosophus et
legat, non autem ambulet vel ambulet sed non legat, potest item fieri ut et
legat et ambulet, contra huiusmodi propositionem non est una responsio. Nam qui
ita interrogavit: Socrates philosophus est et legit et ambulat? Aut
imperite aut captiose interrogavit. Contra quam interrogationem, si contigerit
Socratem philosophum esse et ambulare et legere, si respondeatur: ita est, haec
quoque responsio reprehenditur. Contra plures enim interrogationes una
responsio non debet adhiberi, etiam si vere per illam unam respondeatur sicut
in hac quoque, si et philosophus est et legit et ambulat. Quocirca si
interrogatio dialectica responsionis petitio est, per quam responsionem fiat
propositio, ut cum quis dixerit interrogans: Dies est? Alius respondeat
non, fiat inde negatio: Dies non est vel certe altera pars propositionis,
cum ita interrogatur: Dies est an dies non est? Ut congrue scilicet
respondeatur diem esse aut diem non esse, id est tota propositio: hae quae ex
his pluribus fiunt atque interrogantur, ut unum ex his fieri non possit, non
sunt simplices interrogationes. Quocirca nec ad eas simplex est reddenda
responsio. De his autem se in Topicis dixisse commemorat. Rursus QUIA
DIALECTICA INTERROGATIO RESPONSIONIS EST PETITIO (ut supra dictum est) VEL
PROPOSITIONIS VEL ALTERIUS PARTIS CONTRADICTIONIS, quod paulo post
demonstrabitur, imperite illi interrogant qui ita dicunt: Quid est
animal? vel: Quid est homo? Oportet enim qui dialectice interrogat
dare interrogatione optionem, an sibi respondens affirmationem eligere velit an
negationem. Qui vero sic interrogat, ut quid est aliqua res volit dicere
respondentem, non est illa interrogatio dialectica. Interrogant autem quidam
hoc modo: Putasne anima ignis est? Cum respondens negaverit, addet: Nonne
tibi aliquid videtur esse inter ignem atque aerem, medium corpus, ut sit
anima? Cum respondens hoc quoque abnuerit, ille persequitur: An fortasse
magis tibi videtur aquam esse animam vel terram? Cum ille neque terram
neque aquam animam esse consenserit, tunc defessi interrogationibus ita
interrogant: Quid est ergo anima? Haec autem non est interrogatio
dialectica sed potius discipuli ad magistrum aliquid addiscere cupientis. Qui
enim aliquid cupit addiscere interrogat eum qui docere potest quid sit de quo
ambigit. Dialecticus ƿ autem (ut dictum est) ita interrogare debet, ut
respondenti sit optio an affirmationem an negationem velit eligere. Oportet
autem scire, quoniam omnis INTERROGATIO RESPONSIONIS EST PETITIO, dialectica
vero non cuiusdam responsionis sed eius quae in utraque parte habeat optionem.
Ergo hoc ipsum quid est non est dialectica interrogatio. Oportet enim ita
interrogare, ut ex interrogatione responsor possit eligere alteram
contradictionis partem. Debet enim terminare et definire is qui interrogat, an
hoc sit quod dicitur an non, ut: Homo animal est an non? Ut ille aut
affirmationem respondeat aut negationem. Quod autem dixit dialecticam
interrogationem petitionem esse responsionis, vel propositionis vel alterius
partis contradictionis, huiusmodi est: quisquis interrogat affirmationem; aut
eandem exspectat ut auditor sibi respondeat aut contradictionem, ut si quis sic
interroget: Homo animal est? Si ille adnuerit, propositionem reddidit,
eam scilicet quam proposuit interrogans; si vero interrogante aliquo, an homo
animal sit, respondens dixerit: Non est contradictionem respondisse
videbitur. Ille enim affirmationem interrogavit, ille negationem respondet,
quod est contradictio. Rursus si negationem interroget et ille respondeat
negationem, eandem propositionem reddidit, quam is qui interrogabat ante
proposuerat; sin vero interrogante alio negationem ille affirmationem
responderit, contradictio responsa est. Hoc est igitur quod ait interrogationem
responsionis petitionem esse et cuius responsionis addidit VEL PROPOSITIONIS,
si idem respondeat, quod ille interrogat, VEL ALTERIUS PARTIS CONTRADICTIONIS,
si cum ille affirmationem interrogat, ille responderit negationem, vel si cum
ille negationem in interrogatione posuerit, ille affirmationem in responsione
reddiderit. Interrogationis autem secundum Peripateticos duplex species est:
aut cum dialectica interrogatio est aut cum non dialectica. Non dialecticae
autem interrogationis duae sunt species, sicut Eudemus docet: una quidem quando
sumentes accidens interrogamus, cui illud accidat, ut quando videmus domum
Ciceronis, si interrogemus: Quis illic maneat? vel quando subiectum quidem
ipsum et rem sumimus, quid autem illi accidat interrogamus, ut si ipsum
Ciceronem quis videat et interroget: Quo divertat Et haec una species est
eorum, quae secundum accidens non dialectice interrogamus. Altera vero quando
proponentes nomen quid sit quaerimus aut genus aut differentiam aut
definitionem requirentes, ut si quis interroget: Quid sit animal vel
quando definitionem aut aliquid superius dictorum sumimus et quaerimus, cuius
illa sint, ut si quis quaerat, animal rationale mortale cuius sit definitio. QUONIAM
VERO HAEC QUIDEM PRAEDICANTUR COMPOSITA, UT UNUM SIT OMNE PRAEDICAMENTUM EORUM
QUAE EXTRA PRAEDICANTUR, ALIA VERO NON, QUAE DIFFERENTIA EST? DE HOMINE ENIM
VERUM EST DICERE ET EXTRA ANIMAL ET EXTRA BIPES ET UT UNUM ET HOMINEM ET ALBUM
ET HAEC UT UNUM. ƿ SED NON, SI CITHAROEDUS ET BONUS, ETIAM CITHAROEDUS BONUS.
SI ENIM, QUONIAM ALTERUTRUM DICITUR, ET UTRUMQUE DICITUR, MULTA ET INCONVENIEN
IA ERUNT. DE HOMINE ENIM ET HOMINEM VERUM EST DICERE ET ALBUM, QUARE ET OMNE.
RURSUS SI A BUM, ET OMNE. QUARE ERIT HOMO ALBUS ALBUS ET HOC IN INFINITUM. ET
RURSUS MUSICUS ALUS AMBULANS; ET HAEC EADEM FREQUENTER IMPLICITA. AMPLIUS SI
SOCRATES SOCRATES ET HOMO, ET SOCRATES SOCRATES HOMO. ET BIPES, ET HOMO BIPES. Multa
sunt quae cum singillatim vere praedicentur, si quis ea coniungat et praedicet,
veram praedicationem tenent. Sunt autem alia quae, si per se et disiuncta
praedicentur, vera sunt; sin vero coniuncte dicantur, veritatem in
praedicatione non retinent. Quae ergo horum sit differentia oportet agnosci. Si
quis enim dicat Socratem animal esse, verum dixerit, si quis rursus praedicet,
quoniam Socrates bipes est, hoc ƿ quoque verum est. Quae si coniuncta dicantur,
ut est: Socrates animal bipes est a propria veritate non discrepat. Atque
haec quidem in genere et ea differentia quae substantialis est Socrati. Quod si
de accidenti quoque dicatur, potest idem nihilominus evenire. Si quis enim sic
dicat: Socrates homo est verum est, rursus: Socrates calvus est hoc
quoque verum est. Quod si iungat dicens: Socrates homo calvus est veram
rursus ex coniunctis faciet praedicationem. Atque in his quidem ea quae
singillatim vere dicebantur, iuncta veraciter praedicata sunt. Sunt autem alia
in quibus singillatim quidem praedicata vera sunt, iuncta vero qualitatem
veritatis amittunt. Ut si quis dicat quoniam Socrates bonus est, verum est,
rursus Socrates quoque citharoedus est, sit hoc quoque verum. Haec coniungere
non necesse est, ut sit verum Socrates bonus citharoedus est. Potest enim bonus
quidem esse homo et cum sit citharoedus, non tamen esse bonus sed in alia re
quidem bonus, in alia tantum artis illius cognitor, non tamen in ipsa
perfectus. Hoc autem facilius tall liquebit exemplo: si quis enim dicat quoniam
Tiberius Gracchus malus est, verum est, rursus Tiberius Gracchus orator est,
hoc quoque verum est. Si coniungens dicat: Tiberius igitur malus orator est,
falso dixerit, optimus enim orator fuit. Sed ne quis nos ita dicentes ignorare
pPomba oratoris esse definitionem utrum bonum dicendi peritum, aliter ista
dicta sunt, ad exemplum potius quam ad veritatem. Atque ƿ haec quidem proposita
ab Aristotele sunt, cuius in textu verba sic constant: QUONIAM VERO, inquit,
ALIA QUIDEM PRAEDICANTUR coniuncta et COMPOSITA, ut ex his unum praedicamentum
fiat eorum quae extra vere dicta sunt, alia vero cum extra singillatimque vere
praedicarentur iuncta veram non faciunt praedicationem, inquirendum est quae
eorum sit differentia. Exempla autem horum talia sunt. Eorum quidem, quae extra
praedicantur vere nec si coniuncta sunt naturam veritatis amittunt, tale
exemplum est: DE HOMINE VERUM EST DICERE, quoniam et animal est et bipes rursus
quoniam animal bipes verum est de eodem homine dicere, ut de Socrate. De eodem
quoque Socrate et hominem extra et album, si ita contingit, verum est dicere et
de eo praedicare animal bipes a veritate non discrepat. Atque haec quid em
extra singillatimque praedicantur vere et iuncta vera sunt. Quod si de aliquo
praedicetur, quoniam citharoedus est, et verum sit et rursus quoniam bonus est,
et verum sit non necesse est dici quoniam bonus citharoedus est potest enim esse
solum quidem citharoedus, bonus autem homo. Hucusque quidem ista disposuit.
Quoniam autem videbantur quidam arbitrari, quod omnia quae singillatim vere
praedicarentur eadem quoque composita recte dicerentur, contra hos dicit,
quoniam multa erunt inconvenientia multaque impossibilia sunt si quis dicat
omne quod singillatim praedicatur veraciter id iunctum vere praedicari. De
homine enim verum est dicere quoniam homo est. Nam de Socrate ƿ qui homo est vere
dicitur quoniam homo est. Rursus de eodem vere potest dici quoniam albus est.
Quare et si haec iungas et ut unum praedices, verum est dicere de aliquo homine
quoniam homo albue est. Sed homo qui albus est verum est de eo dicere quoniam
albus est: quare etiam haec si iungas: erit igitur praedicatio "Socrates
homo albus albus est"! Nam de Socrate verum erat dicere quoniam homo albus
est. Sed de homine albo verum est dicere quoniam albus est. Haec iuncta homo
albus albus faciunt. Quod si de eodem homine albo album rursus praedicari
velis, verum est: quocirca et si iungas: erit igitur praedicatio homo albus
albus albus est. Atque hoc idem in infinitum. Rursus si quis de aliquo homine
dicat quoniam ille homo musicus est, si verum dicat adiciatque quoniam idem
homo ambulans est, verum dicit, si iungat quoniam ille homo ambulans musicus
est. Sed si verum est de aliquo homine praedicare quod sit ambulans musicus, de
ambulante autem musico verum est dicere quoniam musicus est, erit ille homo
homo ambulans musicus musicus. Sed de eodem verum est dicere quoniam ambulans
est, verum igitur erit de eo rursus dicere quoniam homo ambulans ambulans
musicus musicus est. Amplius quoque Socrates Socrates est et rursus homo: erit
igitur Socrates Socrates homo. Sed et bipes: erit igitur Socrates Socrates homo
bipes. Sed de Socrate verum est dicere quoniam Socrates homo bipes est. Sed cum
dixi hominem de eo, iam et bipedem ƿ dixi (omnis enim homo bipes est): verum
est ergo de eo dicere quoniam bipes est. Sed verum erat dicere quoniam Socrates
Socrates homo bipes est: vera erit igitur praedicatio Socrates homo bipes bipes
est. Sed rursus hominem dixi atque in eo aliud bipes nominavi (omnis enim homo
bipes est): Socrates igitur homo bipes bipes bipes est. Et hoc in infinitum
protractum superfiva loquacitas invenitur. Non igitur fieri potest ut modis
omnibus quicquid extra dicitur id iunctum vere praedicetur. QUONIAM ERGO SI
QUIS SIMPLICITER PONAT COMPLEXIONES FIERI PLURIMA INCONVENIENTIA CONTINGIT
DICERE MAVIFESTUM EST; QUEMADMODUM AUTEM PONENDUM, NUNC DICIMUS. EORUM IGITUR
QUAE PRAEDICANTUR ET DE QUIBUS PRAEDICANTUR QUAECUMQUE SECUNDUM ACCIDENS
DICUNTUR VEL DE EODEM VEL ALTERUM DE ALTERO, HAEC NON ERUNT UNUM, UT HOMO ALBUS
EST ET MUSICUS SED NON EST IDEM ALBUM ET MUSICUM; ACCIDENTIA ENIM SUNT UTRAQUE
EIDEM. NEC SI ALBUM MUSICUM VERUM EST DICERE, TAMEN NON ERIT ALBUM MUSICUM UNUM
ALIQUID; SECUNDUM ACCIDENS ENIM MUSICUM ALBUM. QUARE NON ERIT ALBUM MUSICUM.
QUOCIRCA NEC CITHAROEDUS BONUS SIMPLICITER SED ANIMAL BIPES; NON ENIM SECUNDUM
ACCIDENS. AMPLIUS NEC QUAECUMQUE INSUNT IN ALTERO. QUARE NEQUE ALBUM FREQUENTER
NEQUE ƿ HOMO HOMO ANIMAL VEL BIPES; INSUNT ENIM IN HOMINE BIPES ET ANIMAL. Quae
superius comprehendit ea nunc apertissima ratione determinat dicens de his
solis extra praedicatis veraciter non posse unam praedicationem fieri veram, si
coniuncta sins, quaecumque aut accidentia sunt eidem, aut cum unum alii
accidit, accidens aliud de illo accidenti praedicatur. Si quis enim de Socrate
dicat quoniam Socrates citharoedus est, rursus Socrates bonus est, si utraque
veraciter praedicet, duo accidentia de uno subiecto praedicavit, id est de
Socrate. Quocirca non potest ex his una fieri praedicatio, ut dicatur Socrates
citharoedus bonus est. Rursus si de Socrate praedicetur musicus (sit enim
Socrates musicus), de musico autem si praedicetur albus, et hoc fortasse sit
verum, non tamen iam necesse est musicum album esse. Si enim sit musicus
Socrates, si de eodem musico albus praedicetur, praedicatur quidem de Socrate
subiecto musicus, de musico autem quod est accidens praedicatur album, rursus
aliud accidens: ergo non potest hic una fieri vera propositio ut dicatur:
Socrates musicus albus est. Neque enim semper musicus albus esse potest sed
hanc naturam habent accidentia, ut veniant et recedant. Ergo si eius, qui
musicus albus est, in sole stantis cutem calor fuscaverit, non erit quidem
albus cum sit musicus. Quocirca neque tunc cum vere praedicabatur, quoniam
Socrates musicus albus est, neque tunc fuit recta veraque praedicatio. Non enim
habet permanendi naturam accidens, ut semper vere praedicetur. Ratio autem
verborum sic constat: quoniam ergo, inquit, si quis ƿ dicat omnino quomodolibet
complexiones fieri, id est ut quod singillatim praedicaveras hoc complexum
conexumque proponas, plurima inconvenientia dicere contingit (multa enim
concurrunt impossibilia, sicut supra ipse monstravit, tunc quando ad nimiam
loquacitatem perduxit eos eadem frequenter nomina repetentes), quemadmodum
ponendum est nunc dicimus, id est quemadmodum autem debent quae singillatim
vere dicuntur iuncta praedicari, nunc, inquit, dicimus. Omnia, inquit, quae
praedicantur de alio et rursus de quibus alia praedicantur duplici modo sunt:
aut enim accidentia sunt aut substantialia. Et aliae quidem praedicationes sunt
secundum accidens, quotiens aut duo accidentia de substantia aut accidens de
accidenti alicui substantiae praedicatur, alia vero non secundum accidens,
quotiens aliquid de atliquo substantialiter dicetur. Eorum igitur quaecumque
secundum accidens dicuntur, eorum si vel duo sint accidentia et de eodem
praedicentur vel si alterum accidens de altero accidenti dicatur, ex his non
potest una fieri propositio neque erit unum si iuncta sint. Homo enim et albus
est et musicus sed album musicum, quoniam in unam formam non concurrunt, non
facient unam propositionem. Non enim idem album et musicum. Utraque enim eidem
sunt accidentia, non tamen idem sunt. Nec si album de musico praedicemus, id
est accidens de accidenti, et hoc verum sit, non tamen necesse est id quod
musicum est esse album. Neque enim unum est aliquid. Accidenter enim id quod
musicum est ƿ album est. Quoniam enim id ipsum cui musicum accidit album est,
idcirco musicum album dicitur. Non est autem idem musicum album. Quocirca eadem
ratione tenetur, ut non possit idem esse citharoedus bonus nec in unum corpus
coniuncta faciant aliquid unum, quamquam singillatim vere praedicentur. Quod si
quis aliquid substantialiter praedicet duasque res singillatim dicat, possunt
in unam propositionem redire, quae substantialiter vere seiuncte separatimque
praedicantur. Homo enim, cum et animal sit et bipes, est animal bipes et fit ex
his una praedicatio. Nam neque animal secundum accidens inest homini nec bipes.
Quod per hoc ostendit quod ait: SED ANIMAL BIPES; NON ENIM SECUNDUM ACCIDENS.
Addit quoque illud quoniam nec ea iuncta recte praedicantur, quaecumque vel
latenter vel in prolatione in aliquo terminorum continentur, qui in
propositione positi sunt. Idcirco enim de homine albo non debet dici albus, ut
veniat praedicatio homo albus albus, quoniam iam in homine albo continetur
album. Rursus de homine idcirco non debet praedicari bipes, quoniam licet non
sit prolatum, tamen qui homo est bipes est. Sed de homine si quis bipes
praedicet, de re duos habente pedes deque hac differentia quod est bipes
praedicat bipes. Quocirca erit hic quoque homo bipes bipes. Homo enim continet
intra se bipes et qui dicit hominem cum sua differentia dicit. Si quis ergo ad
hunc praedicet bipes, de re duos habente pedes bipedem praedicavit. Erit igitur
homo bipes bipes. Sed ita praedicari non debet. Continetur enim in homine
bipes, ƿ ad quod si rursus bipes praedices, molestissimam facies repetitionem.
Hoc enim est quod ait: AMPLIUS NEC QUAECUMQUE INSUNT IN ALIO: continentur vel
prolatione, ut in eo quod est homo albus (continetur in eo albus, quoniam per
prolationem iam dictum est) aut potestate et vi, ut in eo quod est homo
continetur bipes, quamquam dictum penitus non sit. VERUM AUTEM DICERE DE ALIQUO
ET SIMPLICITER, UT QUENDAM HOMINEM HOMINEM AUT QUENDAM ALBUM HOMINEM ALBUM; NON
SEMPER AUTEM SED QUANDO IN ADIECTO QUIDEM ALIQUID OPPOSITORUM INEST QUAE
CONSEQUITUR CONTRADICTIO, NON VERUM SED FALSUM EST, UT MORTUUM HOMINEM HOMINEM
DICERE, QUANDO AUTEM NON INEST, VERUM. Haec quaestio contraria superiori est.
Illic enim quaerebatur, si quae singillatim praedicabantur, an semper eadem
vere coniuncta compositaque dicerentur; hic autem converso ordine idem quaerit,
an ea quae composita vere praedicantur singillatim dicta vere dicantur. Post
obitum enim Socratis possumus dicere hoc cadaver homo mortuus est et hominem
mortnumque inugentes unam inde veram facere praedicationem. Solum autem hominem
dicere cadaver illud non est verum. Rursus eundem Socratem vivum verum est
dicere quoniam animal bipes est et singillatim verum ƿ est dicere quoniam
animal est. Quare quaeritur quae sit huius quoque differentia praedicationis,
ut cum coniuncta dicuntur et vere de subiectis praedicantur alias quidem et
extra dici vere possint, alias vero praeter illam coniunctionem simplicia si
dicantur falsa sint. Hoc autem quasi dubitans dixit. Ita enim legendum est,
quasi si dubitans diceret sic: verum est autem dicere de aliquo compositum
coniunctumque aliquid, ut de aliquo homine hominem aut de aliquo albo album,
ita ut et horum aliquid simpliciter praedicetur, an certe non semper? Et dat
regulam qua pernoscamus, an quae composita dicuntur eadem singillatim dici
possint an minime. Quotiens enim talia sunt quae praedicantur cum alio, ut in
se non habeant contradictionem praedicata, possunt dici et separata veraciter.
Quodsi habeant in se aliquam contradictionem quae praedicantur et composita
dicuntur vere, separata vere praedicari non possunt. Qui dicit cadaver hominem
mortuum vere dicit, solum autem hominem dicere vere non potest, idcirco quoniam
prius cum coniunctione praedicavit dicens hominem mortuum, mortuusque quod
adiacet hominis praedicamento (cum homine enim praedicatum est mortuus)
contradictionem tenet contra hominem. Est enim homo animal, mortuus vero non
animal: ergo mortuus et homo contradictionem quandam inter se habent. Illud est
enim animal, illud vero non animal. Quocirca quoniam inter se haec habent
quandam contrarietatem, ƿ separatus homo de mortuo homine solus non dicitur. Eodem
quoque modo est et si quis dicat manum esse marmoream statuae: verum dicit,
solum autem manum dicere esse eam quae statuae est falsum est. Habet enim manus
potestatem dandi accipiendique sed illa marmorea non habet. Ergo est quaedam
contradictio inter manum et manum marmoream, quod illa dare atque accipere
potest, illa non potest. Haec enim sibi contradictionis opponuntur modo. Ergo
quotienscumque tale aliquid praedicatur, ut homo de cadavere, cui tale aliquid
coniunctum sit atque adiaceat, quod faciat contradictionem contra praedicatum
(ut hic adiacet mortnus homo simulque praedicatur de cadavere, ut faciat contra
ipsum hominem contradictionem eamque in se contineat), non potest separari una
praedicatio, ut singillatim dicatur, sin vero non sit ista contradictio,
potest: ut in eo quod est: Socrates animal bipes est Animal et bipes
nulla contradictione opponuntur: quocirca potest de eo et animal singillatim
atque simpliciter et bipes dici. Sensus quidem huiusmodi est, ordo autem se sic
habet. Dubitans enim dixit: VERUM AUTEM DICERE DE ALIQUO composite et connexe
et rursus simpliciter, ut quendam hominem hominem aut quendam album album, an
certe non semper sed tunc quando in adiecto, id est in eo quod adiectum cum
aliquo praedicatur, inest aliquid oppositorum talium quaecumque consequitur contradictio,
id est quam oppositionem mox contradictio consequatur, ut oppositionem hominis
et mortui sequitur contradictio, animal scilicet et non animal: si igitur sic
sint, non est ƿ verum simpliciter praedicari sed falsum, ut mortuum hominem,
quem coniuncte vere dicere possis, eundem hominem solum non vere praedicabis.
Quando autem haec oppositio in his quae praedicantur non inest, verum est quod
coniuncte praedicaveris et simpliciter praedicare. Adiectum est autem in quo
venit aliquotiens oppositio huiusmodi, ut in eo quod est homo mortuus mortuus
adicitur homini. Aliter enim vere homo de cadavere non potest praedicari. VEL
ETIAM QUANDO INEST QUIDEM SEMPER NON VERUM, QUANDO VERO NON INEST, NON SEMPER
VERUM, UT EOMERUS EST ALIQUID, UT POETA. ERGO ETIAM EST AN NON? SECUNDUM
ACCIDENS ENIM PRAEDICATUR ESSE DE HOMERO; QUONIAM POETA EST SED NON SECUNDUM
SE, PRAEDICATUR DE HOMERO QUONIAM EST. QUARE IN QUANTISCUMQUE PRAEDICAMENTIS
NEQUE CONTRARIETAS INEST, SI DEFINITIONES PRO NOMINIBUS DICANTUR, ET SECUNDUM
SE PRAEDICANTUR ET NON SECUNDUM ACCIDENS, IN HIS ET SIMPLICITER VERUM ERIT
DICERE. QUOD AUTEM NON EST, QUONIAM OPINABILE EST, NON VERUM DICERE ESSE
ALIQUID. OPINATIO ENIM EIUS NON EST, QUONIAM EST SED QUONIAM NON EST. Quoniam
supra dixerat, quando esset in adiecto contradictio, non esse verum simpliciter
praedicare, quando vero non esset, verum esse quod coniuncte ƿ diceretur
simpliciter dicere, hoc ipsum quoniam videbatur in aliquibus non esse verum,
consequenter emendat. Ait enim verum esse illud quod supra dictum est,
quandocumque in adiecto esset aliqua contradictio, non esse verum simpliciter
praedicare, quod coniuncte diceretur, quando autem non inest contradictio, non
semper verum esse praedicare simpliciter, quod coniuncte vere diceretur sed
aliquotiens verum, aliquotiens vero falsum. Huius rei tale exemplum est: cum
dico: Homerus poeta est est et poeta coniuncte de Homero vere praedicavi.
Sin vero dixero: Homerus est falsum est, quamquam non sit aliqua
contradictio inter est et poetam, neque in adiecto est ulla talis est oppositio
quam consequatur contradictio. Cur autem hoc eveniat, talis ratio est: de
Homero enim poetam quidem principaliter praedicamus, cum dicimus Homerus poeta
est, est autem verbum de poeta quidem praedicamus principaliter, de Homero autem
secundo loco. Non enim idcirco praedicamus esse, quia Homerus est sed quia
poeta est. Sublato igitur eo quod principaliter praedicatur, id est poeta,
licet nullam contradictionem habeat est, quod adiacet poetae, contra poetam,
non fit vera praedicatio dicendo Homerus est. Secundum accidens enim est
praedicatur, non principaliter. Sublata autem principali praedicatione, quod
secundum accidens praedicabatur, falsum continuo reperitur. Quod autem addit: QUARE
IN QUANTISCUMQUE PRAEDICAMENTIS NEQUE CONTRARIETAS INEST, SI DEFINITIONES PRO
NOMINIBUS DICANTUR, ET SECUNDUM SE PRAEDICANTUR ET NON SECUNDUM ACCIDENS, ƿ IN
HIS ET SIMPLICITER VERUM ERIT DICERE huiusmodi est. Ea quae superius dixit una
ratione collegit dicens: quaecumque eo modo praedicantur, ut neque in nominibus
neque in definitionibus propriis aliquam teneant contrarietatem, haec et extra
simpliciterque praedicata vera sunt, ut in eo quod est homo mortuus mortuus
atque homo: haec quidem nominibus nullius contrarietatis contradictionisue sunt
sed si horum pro no minibus definitiones sumantur, mox contrarietas
oppositionis agnoscitur. Si quis enim dederit hominis definitionem, dicit
animal esse rationale, si quis mortui, dicit esse corpus, verum vita privatum
atque inanimum atque ex hoc tota vis contradictionis apparet. Quocirca si
sumantur definitiones pro nominibus et in his aliqua contrarietas inesse
videbitur vel si secundum accidens aliquid praedicetur, ut est de Homero, cum
de poeta principaliter praedicetur, non praedicabuntur simpliciter vere quaecumque
composita praedicabantur. Quod si neque contrarietas ulla sit et per se
praedicentur et non per accidens, quicquid composite vere dicitur, hoc
simpliciter vere praedicatur. Quoniam autem fuerunt quidam qui hoc ipsum quod
non est esse dicerent totum syllogismum his propositionibus coniungentes: Quod
non est opinabile est Quod autem opinabile est est Igitur est quod non est hoc
igitur dicit: si verum est praedicare, inquit, de eo quod non est quoniam
opinabile est, est quidem verbum de opinabili praedicamus, de eo autem quod non
est secundum accidens. Quoniam enim quod non est opinabile est, idcirco secundo
loco de eo quod non est verbum est praedicamus. Quare non possumus simpliciter
dicere esse quod non est. Idcirco enim opinabile est, quia non est. Scibile
enim esset, si per se esset, non opinabile, sicut Homerus idcirco esse dicitur,
quia poeta est, non quia per se est. Vel certe idcirco dicitur Homerus esse
poeta, quia poesis ipsius exstat et permanet, sicut aliquos in filiis suis saepe
vivere dicimus. Quocirca id quod non est idcirco esse dicitur opinabile,
quoniam ipsius est opinatio, non autem quoniam id quod non est per se aliquid
esse potest. His igitur ante perstructis atque ordine terminatis ad
propositionum modos, rem in dialectica utilissimam, de propositionibus
tractatum disputationemque convertit. Restat nunc de propositionum modis
oppositionumque disserere. Multis enim dubitatum est rationibus, an idem modus
esset propositionum sine modo positarum, qui illarum quoque quae propriis modis
et qualitatibus terminantur. Inchoat autem de his rebus dubitationem sic. HIS
VERO DETERMINATIS PERSPICIENDUM QUEMADMODUM SE HABENT NEGATIONES ET
AFFIRMATIONES AD SE INVICEM HAE SCILICET QUAE SUNT ƿ DE POSSIBILE ESSE ET NON
POSSIBILE ET CONTINGERE ET NON CONTINGERE ET DE IMPOSSIBILI ET DE NECESSARIO;
HABET ENIM ALIQUAS DUBITATIONES. Omnis propositio aut sine ullo modo
simpliciter pronuntiatur, ut Socrates ambulat vel dies est vel quicquid
simpliciter et sine ulla qualitate praedicatur. Sunt autem aliae quae cum
propriis dicuntur modis, ut est Socrates velociter ambulat. Ambulationi enim
Socratis modus est additus, cum dicimus eum velociter ambulare. Quomodo enim
ambulet, significat id quod de ambulatione eius velociter praedicamus.
Similiter autem si quis dicat Socrates bene doctus est, quemadmodum sit doctus
ostendit nec solum doctus dixit sed modum quoque doctrinae Socratis adiungit.
Sed quoniam sunt modi alii per quos aliquid posse fieri dicimus, aliquid esse,
aliquid necesse esse, aliquid contingere, quaeritur in his quoque quemadmodum
fieri contradictionis debeat oppositio. In his enim propositionibus, quae
simpliciter et sine ullo modo praedicantur, facile locus contradictionis
agnoscitur. Huius enim affirmationis quae est: Socrates ambulat negatio
si ad verbum ponatur, ut est: Socrates non ambulat rectissime oppositione
facta ambulare a Socrate disiunxit. Rursus huius propositionis quae est:
Socrates philosophus est si quis ad est verbum negationem ponat, integram
faciet negationem dicens: Socrates philosophus non est Neque enim fieri
potest ut ad aliud in simplicibus affirmationibus negatio ƿ ponatur nisi ad id
verbum quod totius vim continet propositionis. Si quis enim in hac propositione
quae est homo albus est non dicat fieri negationem eam quae est homo albus non
est sed potius homo non albus est, hoc modo falsum ostenditur: proposito lapide
interrogetur de eo: An lapis ille homo albus sit? ut si ille negaverit
ponens negationem eius quae est: Homo albus est eam quae dicit: Homo non
albus est dicatur ei: si non est de hoc lapide vera affirmatio quae
dicit: Homo albus est vera erit de eo negatio ea scilicet quae dicit:
Homo non albus est Sed haec quoque falsa est. Omnino enim lapis homo non
est atque ideo de eo non poterit praedicari quoniam homo non albus est. Quod si
neque affirmatio neque negatio de eo vera est, hoc autem impossibile est, ut
contradictoriae affirmationes et negationes de eodem praedicatae utraeque
falsae sins, constat non esse eius affirmationis quae dicit: Homo albus
est illam negationem quae dicit: Homo non albus est sed potius eam
per quam proponitur quoniam albus non est. Nusquam igitur alibi ponenda negatio
est in his quae simpliciter et sine modo aliquo praedicantur nisi ad verbum
quod totem continet propositionem. De his autem sufficienter supra iam diximus.
In his autem in quibus aliqui modus apponitur dubitatio est, an ad modum ilium
ponatur negativa particula an locum suum serues ad verbum, sicut in his quoque
propositionibus fiebat, ƿ quae simplices et sine modo ullo proponebantur. Nam
si serues locum suum negativa particula, ut ponatur ad verbum, proprietas
contradictionis excidit et verum inter se falsumque non dividit. Modus enim
quidam est faciendi aliquid, quotiens dicimus possibile esse vel necesse esse
vel quicquid huiusmodi est. Ergo si quis me dicat nunc posse ambulare, idem
neget negationem ponens ad verbum quod est ambulare dicatque me posse non
ambulare, affirmatio et negatio contradictoriae de eodem dictae verae simul
invenientur. Me namque et ambulare posse et non ambulare posse manifestum est.
Quod si in hoc modo possibilitatis non recte verbo particula negatira
coniangitur, etiam in his quoque quae nullam habent differentiam, an ad modum
an ad verbum negatio ponatur, custodienda est talis oppositio quae huic speciei
propositionum quae cum modo proferuntur conveniat. In hac propositione quae
dicit: Socrates velociter ambulat sive quis ita neget: Socrates velociter
non ambulat ad verbum ponens negationem sive sic: Socrates non velociter
ambulat modo negativam particulam iungens, prope simile esse ridebitur.
Dividit enim cum affirmatione veritatem falsitatemque utroque modo apta
negatio. Sed quoniam sunt plurimi modi, in quibus si ad verbum inugatur
particula negativa, non est negatio superius enuntiatae affirmationis, idcirco
servanda est in omnibus secundum modum propositionibus ista oppositio, ut uno
eodemque modo cunctarum ƿ fieri oppositiones dicantur, ut in illis quidem
negatio quae simplices sunt rem neget, in his autem quae cum modo sunt modum
neget, ut in eo quod est: Socrates ambulat rem ipsam id est ambulat neget
adimatque propositio dicens: Socrates non ambulat in illis autem quae cum
modo sunt rem quidem esse consentiat, modum neget, ut in ea propositione quae
dicit: Socrates velociter ambulat negatio dicat: Socrates non velociter
ambulat ut sive ambulet sive non ambulet nulla sit differentia, modum
autem id est velociter ambulandi perimat ex adverso constitute negatio. Quamquam
in quibusdam hoc non sit: simul enim cum modo ipso etiam rem perimi necesse
est, ut in eo quod est: Socrates potest ambulare Socrates non potest
ambulare et modum et rem modo ipsi iuncta particula negationis
intercipit. Sed hoc in his fere evenit, in quibus non fieri quidem aliquid
dicitur et actus ipsius additur modus sed potius faciendi in futuro modus, ut
si quis dicat Socratem ambulare posse, non quod iam ambulet sed quod eum sit
ambulare possibile. Hic si possibili negatio coniungatur, etiam rem illam
tulisse videbitur de qua illa possibilitas praedicatur. Si quis autem dicat
quoniam Socrates velociter ambulat, facere eum aliquid dicit modumque illi
actui iungit, ut quemadmodum illud faciat quod facere dicitur quilibet
agnoscat. In his res quidem permanet, modus autem subruitur, ut superius dictum.
An certe illud magis verius est dicendum, quod semper huiusmodi ƿ propositiones
modum quidem auferant, rem vero de qua modus ille praedicatur non perimant? Et
in quibus ponitur res, ut in eo quod est: Socrates velociter ambulat et
in quibus praedicatur actus ipse et praesens, quia fiat atque agatur,
manifestum est modum quidem subrui, rem vero quae fieri dicitur permanere, ut
cum dicimus: Socrates non velociter ambulat ambulare eum quidem non
subtractum est sed tantum haec negatio velocitatem ab ambulatione disiunxit. In
his autem quae possibilitatem aliquid in futuro faciendi per modum ponunt
nullus omnino actus ponitur sed tantum modus. Ad quem modum iuncta negatio
modum quidem perimit sed res illa de qua modus praedicabatur non permanet,
idcirco quoniam nec tunc cum praedicabatur cum modo aliquid fieri agive
propositum est, ut si quis dicat: Socratem possibile est ambulare positus
quidem modus est, res vero actu constitute non est. Non enim dictum est quoniam
ambulat sed quoniam eum possibile est ambulare. Hanc ergo possibilitatem tollit
negatio in propositione quae dicit: Socratem non possibile est ambulare
sed in eadem propositione res de qua dicebatur modus ille non permanet. Hoc
autem idcirco evenit, quia ne in affirmatione quidem posita est res de qua
praedicatus est modus. Atque ideo non a negatione perempta res, quippe quam
negatio positam non invenit sed tantum modus, qui etiam ab affirmatione
constitutus est. Magna autem distantia est, an ad modum negatio ponatur an ad
verbum. Nam si ad verbum ponam, praedicaho a subiecto disiungitur, ut est:
Socrates non ambulat Nam ambulat quod praedicatio ƿ est a subiecto quod
est Socrates divisum est. Sin vero ad modum ponatur, non praedicatio a subiecto
dividitur sed a praedicatione potius disiungitur modus, ut in eo quod est:
Socrates non velociter ambulat non ambulationem a Socrate propositio ista
disiunxit sed velocitatem ab ambulatione id est modum a praedicato. Et hoc in
his facilius evidentiusque apparet, quaecumque ita praedicantur ac fieri. Oportet
autem quid possibile, quid necessarium, quid inesse definire eorumque
significationes ostendere, quod nobis et ad huius loci subtilitatem proderit,
quem tractamus, et superiora quaecumque de contingentibus dicta sunt magis
liquebunt et Analyticorum nobis mentem apertissima luce vulgabit. Quatuor modi
sunt quos Aristoteles in hoc libro de interpretatione disponit: aut enim esse
aliquid dicitur aut contingere esse aut possibile esse aut necesse esse. Quorum
contingere esse et possibile esse idem significat nec quicquam discrepat dicere
cras posse esse circenses et rursus cras contingere esse circenses, nisi hoc
tantum quod possibile quidem potest privatione subduci, contingens vero minime.
Contra enim id quod dicitur possibile esse et negatio possibilitatis infertur
aliquotiens, ut est non possibile esse, et privatio, ut est impossibile esse.
Namque quod dicimus impossibile esse privatio possibilitatis est. In
contingenti autem quamquam idem significet sola tantum opponitur negatio, nulla
vero privatio ƿ reperitur: ut in eo quod est contingens, si hoc perimere
volumus, dicimus non contingens et hoc negatio est, incontingens autem nullus
dixerit quod est privatio. Cum igitur contingens esse et possibile esse idem
significent, multa in his diversitas est secundum Porphyrium quae sunt
necessaria et inesse tantum significantia et contingentia vel possibilia. Quod
enim esse aliquid dicitur, de praesenti tempore iudicatur. Si quid enim nunc
alicui inest, hoc esse praedicatur, quod vero ita inest, ut semper sit et
numquam mPombaur, illud necesse esse dicitur, ut soli motus lunaeque cum terra
obstitit defectus. Quae autem contingere dicuntur vel possibilia esse, illorum
neque secundum praesens neque secundum aliquam immutabilitatem speculamur
euentum sed tantum respicimus quantum contingentis propositio pollicetur. Quod
enim posse esse vel contingere dicitur, nondum quidem est sed esse poterit.
Sive autem eveniat sive non eveniat, quia tamen esse potest, contingens vel
possibilis dicitur propositio. Non enim ex euentu diiudicantur huiusmodi
propositiones sed potius ex significatione hoc modo: si quis enim dicat posse
cras esse circenses, possibilis est contingensque affirmatio. Quod si cras sint
circenses, non tamen aliquid est actu propositionis contingentis vel possibilis
permutatum, ut necesse fuisse videatur, quod illa possibiliter promittebat.
Quod si rursus non sint circenses, omnino nec sic aliquid permutatum est, ut
necesse fuisse non esse circenses ƿ videatur. Non enim (ut dictum est) secundum
euentum ista iudicantur sed potius secundum ipsius propositionis promissum.
Quid enim dicit quisquis dixerit cras posse esse circenses? Hoc, ut opinor,
sive sint sive non sint nulla tamen interclusum esse necessitate ne non sint. Quare
quatuor modorum duo quidem idem sunt, contingens atque possibile, hi autem duo
cum duobus reliquis atque ipsi reliqui a se dissentiunt. Possibile enim et
contingens distat ab ea propositione quae esse aliquid dicit. Haec enim
secundum possibilitatem futuri temporis affirmationem proponit, illa vero
secundum praesentis actum. Utraeque vero, et ea quae esse et ea quae possibile
esse vel contingere significat, a necessaria propositione disiunctae sunt.
Necessitas enim non modo inesse uult aliquid sed etiam immutabiliter inesse, ut
illud quod esse dicitur numquam esse non possit. Quocirca consequentiae quoque
ordinis evidenter apparent. Quod enim est necessarium sine eo quod est esse vel
contingere esse vel possibile esse dici non potest. Quidquid enim necessarium
est et est et esse potest vel si esse non posset, nec esset omnino. Quod si non
esset, nec necesse esse diceretur. Quare omne necessarium et est et possibile
est. Sed neque omne est necessarium est (possunt enim esse quaedam, quae ut
sint non est necesse, ut Socratem ambulare vel caetera quae de separabilibus
accidentibus sumuntur) vel rursus quod contingit esse vel esse possibile est
mox esse necesse ƿ est. Quare necesse est quidem sequuntur esse et
possibilitas, Sed neque esse neque possibile esse necessitas ulla consequitur. Rursus
omne esse sequitur posse esse. Quod enim est et potest esse. Nam si esse non
posset, sine ulla dubitatione nec esset. Possibile autem esse non consequitur
esse. Quod enim possibile est potest et non esse, ut me possibile est quidem
nunc procedere sed hoc mihi non est esse. Non enim nunc procedo. Quare gradatim
haec omnis est consequentia. Necesse est namque et esse sequitur et
possibilitas. Rursus esse eadem sequitur possibilitas, possibilitatem autem nec
esse sequitur nec necessitas. Liquet ergo, quoniam duo modi sunt possibilium:
unum quod iam sequitur necessitatem, alterum quod non sequitur ipsa necessitas.
Nam cum dico: Necesse est ut nunc sol moveatur hoc etiam possibile est,
cum vero dico: Possibile est me nunc sumere codicem non est necesse.
Recte igitur ab Aristotele paulo post dubitabitur, utrum sit illud possibile
quod necessitati conveniat. Sed cum ad eadem loca venerimus, quid sibi ista
possibilium similitudo velit vel quemadmodum discerni possit agnoscemus. Nunc
autem quoniam affirmativarum propositionum consequentias explicuimus,
negativarum rursus consequentias exploremus. Harum namque quatuor
propositionum, quae fiunt ex esse, ex necesse esse, ex possibile esse vel
contingit esse, quatuor negationes sunt id est non esse, non necesse esse, non
possibile esse vel non contingere esse. Sed quemadmodum affirmationes
contingere esse et possibile esse eaedem ƿ erant secundum significationum
similitudinem, ita quoque negationes eaedem sunt. Neque enim discrepat quicquam
dicere non possibile est quam si enuntiet non contingit. Consequentiae autem se
in affirmativis habebant hoc modo, ut necessaries propositiones sequerentur
esse aliquid significantes atque possibiles, eas autem quae esse aliquid
dicerent eaedem possibiles sequerentur sed neque possibilibus esse aliquid
significantes nec necessariae consentiebant. In negativis vero e contra est.
Negationem enim possibilitatis sequitur et eius quae est esse aliquid
significantis negatio et necessariae. Negationem vero necessarii neque eius
quod est esse neque eius quod est possibile esse negatio sequitur. Disponantur
enim in ordinem omnes hoc modo: Possibile esse Non possibile esse Contingens
esse Non contingens esse Esse Non esse Necesse esse Non necesse esse
Repetendum igitur breviter est affirmativarum consequentias, ut quemadmodum e
converso sint in negativis evidentius patefiat. Esse sequitur possibilitas et
contingentia, possibilitatem vero et contingentiam esse non sequitur, necesse
esse vero sequitur et esse et possibilitas et contingentia, possibilitatem autem
et contingenham nec esse sequitur nec necessitas. In negationibus vero e contra
est. Non posse esse et non contingere sequitur non esse. Quicquid enim non
potest esse non est. Non esse autem non posse esse ƿ non sequitur. Quod enim
non est non omnino interclusum est ut esse non possit. Nunc ego enim Traiani
forum non video sed non est necesse ut non videam. Fieri enim potest ut propius
acceders videam. Rursus non posse esse et non contingens esse nec non esse
sequitur nec non necesse esse. Quod enim esse non potest non videbitur vere
dici, quoniam illud non necesse est esse sed potius quoniam illud necesse est
non esse. Negationem autem necessitatis, id est non necesse esse, neque non
esse sequitur neque non possibile esse. Me enim cum ambulo non necesse est
ambulare. Neque enim ex necessitate quisquam ambulat. Nec rursus quod non est
necesse id non potest fieri. Quisquis enim ambulat non quidem illi ambulare
necesse est sed tamen potest. Atque ideo quod non est necesse esse non omnino
interclusum est ut esse non possit. Et de non contingenti eadem ratio est. Diverso
igitur modo quam in affirmationibus negativa conversio est. Illic enim
necessitatem et essentia et possibilitas sequebatur, essentiam autem
possibilitas sed neque possibilitatem essentia vel necessitas nec rursus
essentiam necessitas sequebatur. Hic autem non possibile esse et non esse et
non necesse esse consequitur. Sed neque non necesse esse non esse sequitur
neque utrasque possibilitatis negatio, quae non posse aliquid esse proponit. An
magis illud dicendum est, quod sicut se in affirmationibus habet, ita quoque in
negationibus, ut Theophrastus ƿ acutissime perspexit? Fuit enim consequentia in
affirmativis, ut necessitatem et esse consequeretur et possibilitas,
possibilitatem vero nec esse nec necessitas sequeretur. Idem quoque penitus
perspicientibus in negationibus apparebit. Veniens namque negatio in necessario
faciensque huiusmodi negationem quae dicit "non necesse est" vim
necessitatis infringit et totam propositionem ad possibile duxit. Quod enim non
necesse est esse fracto rigore necessitatis ad possibilitatem perductum est.
Sed possibilitatem nec esse sequebatur nec necessitas. Recte igitur fractam
necessitatem et ad possibile perductam, cum negatio dicit non necesse esse, nec
non esse nec non contingere esse consequitur. Rursus qui dicit possibile esse,
si ei disiunctio negationis addatur, tollit possibile et ad necessitatis
perpetuitatem negativa forma totam propositionem reuocat, ut est non possibile.
Quod enim non possibile est fieri non potest ut sit, quod autem fieri non
potest ut sit necesse est ut non sit. Ergo necessariam quandam vim habet haec
propositio in qua dicimus non posse esse aliquid. Sed necessitatem sequebatur
et essentia et possibilitas. Non necesse autem esse ad possibilitatem respicit.
Recte igitur non necesse esse, quod est iam possibilitatis, sequetur
propositionem quae dicit non posse esse, quod est necessitatis. Alii ergo
ordines propositionum sunt, vis tamen eadem, ut necessitatem cuncta sequantur,
possibilitatem vero necessitas non sequatur. Hic oritur quaestio subdifficilis.
Nam si necessitatem sequitur possibilitas, non necesse autem possibilitati
confine est, cur non necesse esse sequatur id quod dicimus non necesse esse?
Nam si possibilitas sequitur necessitatem, non necesse autem esse
possibilitatem, sequi debet necessitatem id quod non necesse praedicamus. Quae
hoc modo dissolvitur: non possibile esse quamquam vim habeat necessitatis,
differt tamen a necessitate, quod illud affirmativam habet speciem, illud vero
negativam. Sic etiam possibile esse et non necesse esse differunt eo tantum,
quod illud est affirmativum, illud vero negativum, cum vis significationis
eadem sit. Sed necessitatem affirmatio possibilitatis et contingentis
sequebatur. Quamquam tamen possibilitatem imitetur eique consentiat id quod
dicimus non necesse esse, tamen negatio quaedam est. Recte igitur affirmationem
quod est necesse esse non sequitur negatio per quam aliquid non necesse esse
proponimus. Et hanc quidem huius solutionem quaestionis Theophrastus vir
doctissimus repperit. Nos autem his determinatis ad sequentia proMilanius. Sunt
enim, ut ipse ait Aristoteles, in his multae dubitationes. Sed totius textus
plenissimum sensum primo ponimus. Quod etsi longum est, tamen ne intercisa videatur
esse sententia non grauabor apponere. NAM SI EORUM QUAE COMPLECTUNTUR
ILLAE SIBI INVICEM OPPOSITAE SUNT CONTRADICTIONES, QUAECUMQUE SECUNDUM ESSE ET
NON ESSE DISPONUNTUR, ƿ UT EIUS QUAE EST ESSE HOMINEM NEGATIO EST NON ESSE
HOMINEM, NON, ESSE NON HOMINEM ET EIUS QUAE EST ESSE ALBUM HOMINEM, NON ESSE
NON ALBUM HOMINEM SED NON ESSE ALBUM HOMINEM. SI ENIM DE OMNIBUS AUT DICTIO AUT
NEGATIO, LIGNUM ERIT VERUM DICERE ESSE NON ALBUM HOMINEM. QUOD SI HOC MODO, ET
QUANTISCUMQUE ESSE NON ADDITUR, IDEM FACIET QUOD PRO ESSE DICITUR, UT EIUS,
QUAE EST AMBULAT HOMO NON, AMBULAT NON HOMO NEGATIO EST SED NON AMBULAT HOMO;
NIHIL ENIM DIFFERS DICERE HOMINEM AMBULARE VEL HOMINEM AMBULANTEM ESSE. QUARE
SI HOC MODO IN OMNIBUS, ET EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE NEGATIO EST POSSIBILE
NON ESSE, NON, NON POSSIBILE ESSE. VIDETUR AUTEM IDEM POSSE ET ESSE ET NON
ESSE; OMNE ENIM QUOD EST POSSIBILE DIVIDI VEL AMBULARE ET NON ƿ AMBULARE ET NON
DIVIDI POSSIBILE EST. RATIO AUTEM, QUONIAM OMNE QUOD SIC POSSIBILE EST NON
SEMPER ACTU EST, QUARE INERIT EI ETIAM NEGATIO; POTEST IGITUR ET NON AMBULARE
QUOD EST AMBULABILE ET NON VIDERI QUOD EST VISIBILE. AT VERO IMPOSSIBILE DE
EODEM VERAS OPPOSITES ESSE DICTIONES; NON IGITUR EST ISTA NEGATIO. CONTINGIT
ENIM EX HIS AUT IDEM IPSUM DICERE ET NEGARE SIMUL DE EODEM AUT NON SECUNDUM
ESSE ET NON ESSE QUAE APPONUNTUR FIERI AFFIRMATIONES VEL NEGATIONEA SI ERGO
ILLUD IMPOSSIBILIUS, HOC ERIT MAGIS ELIGENDUM. EST IGITUR NEGATIO EIUS QUAE EST
POSSIBILE ESSE NON POSSIBILE ESSE. EADEM QUOQUE RATIO EST ET IN EO QUOD EST
CONTINGENS ESSE; ETENIM EIUS NEGATIO NON CONTINGENS ESSE. ET IN ALIIS QUOQUE
SIMILI MODO, UT NECESSARIO ET IMPOSSIBILI FIUNT ENIM QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE
ET NON ESSE APPOSITIONES, SUBIECTAE VERO RES HOC QUIDEM ALBUM, ILLUD VERO HOMO,
EODEM QUOQUE MODO HOC LOCO ESSE QUIDEM SUBIECTUM FIT, POSSE VERO ET CONTINGERE
APPOSITIONES DETERMINANTES QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE VERITATEM,
SIMILITER ƿ AUTEM HAE ETIAM IN ESSE POSSIBILE ET ESSE NON POSSIBILE. Haec
Aristotele subtiliter discutiente illud oportet agnoscere, quod multum differt
ipsius possibilitatis vim naturamque definire vel propriae scientiae qualitate
concludere et possibilem enuntiationem qualis esse debeat iudicare. Namque in
possibilis cognitione illud solum perspicitur, an id quod dicitur fieri possit
nuilo extrinsecus impediente casu. Quod etiamsi accidat, nihil de statu prioris
possibilitatis. Ipsius possibilis enuntiationis diiudicatio plurimum differt,
quod mox poterit ex ipsa de possibilibus enuntiationibus disputatione cognosci.
Nam sicut non est idem hominis definitionem respondere quaerentibus et ipsam
definitionem alio termino definitionis includere, ita non idem est de possibili
enuntiatione et quid ipsum possibile est tractare. Unde fit ut, cum possibile
atque contingens idem in significationibus sit, diversum esse in enuntiatiombus
videatur. Supra namque docuimus possibilitatem et contingentiam eiusdem
significationis esse, ut quod contingeret fieri idem esset possibile, quod possibile
esset idem quoque contingeret. Sed possibilis enuntiatio non est eadem quae
contingens. Neque enim si quis possibilem affirmationem proponat eique opponat
contingentem negationem, rectam faciet contradictionem. Si quis enim dicat
quodlibet illud esse possibile, alius respondeat negans rem illam contingere,
licet quantum in significatione est priorem possibilitatem abstulerit, non
tamen est dicenda contradictio, ƿ in qua alii termini in negatione, alii in
affirmatione enuntiati sunt. Possibilis enim affirmatio de possibilitate
negationem, non de contingentia habere debebit. Idem quoque in contingentibus.
Neque enim si quis aliquid contingere dixerit, opponenda illi est
possibilitatis negatio, licet idem sit possibile quod contingens. Constat
igitur diversissimam esse rationem modi per se diiudicandi et enuntiationis,
quae cum modo et cum qualitate praedicatur. Unde fit ut quamquam idem in
significationibus possibilitas et contingentia sint, quasi diversae ab
Aristotele in modorum ordine proponantur. Illud autem ignorandum non est quod
Stoicis universalius videatur esse quo distet possibile a necessario. Dividunt
enim enuntiationes hoc modo: enuntiationum, inquiunt, aliae sunt possibiles,
aliae impossibiles, possibilium aliae sunt necessariae, aliae non necessariae,
rursus non necessariarum aliae sunt possibiles, aliae vero impossibiles: stulte
atque improvide idem possibile et genus non necessarii et speciem
constituentes. Novit autem Aristoteles et id possibile quod non necessarium est
et id possibile rursus quod esse necessarium potest. Eodem namque modo non
dicitur possibile esse, quod vel ex falsitate in verum transit aliquando vel
rursus ex veritate in falsum. Ut si quis dicat nunc, quoniam dies est, verum
dixerit, idem si hoc nocte praedicet, falsum est et haec veritas propositionis
in falsum est permutata sic ergo quaedam sunt possibilitates, ut eas et esse et
non esse contingat, quae non eodem modo dicuntur quemadmodum illae quae
mutabilem naturam non habent, ut hae scilicet quas necessarias dicimus. Ut ƿ si
quis dicat solem moveri vel solem possibile esse moveri, haec numquam ex
veritate in falsitatem mutabitur. Sed nunc de Aristotelis Stoicorumque
dissensione tacendum est. Illud tamen solum studiosius perquirendum est, quo
loco sit ponenda negatio in his propositionibus, in quibus modus aliqui
praedicatur, ut quae dicentur esse possibiles enuntiationes. Possibiles,
contingentes et necessariae et quaecumque cum modo sunt propositiones illae
veraciter esse dicentur, in quarum significationibus rei de qua prasdicantur
subsistendi qualitas invenitur, ut cum dico: Socrates bene loquitur modus
quidam est loquendi Socratem. Ergo sicut in his propositionibus, quaecumque
cuiuslibet illius rei subsistentiam promittunt, ad ipsam subsistentiam negatio
ponitur (ut cum dicimus "Socrates est", ad esse aptatur negatio, cum
negamue "Socrates non est"), ita quoque in his quae modum
subsistentiae dicunt ad eum modum ponenda negatio est, qui ad illam
subsistentiam videtur adiectus, ut cum dicimus: Socrates bene loquitur
modus ipsius rei est id quod praedicatum est bene: ad hunc igitur modum et
qualitatem ponenda negatio est. Possibiles autem propositiones vel contingentes
eas esse dicimus, in quibus modus ipse monstratur et potius non esse de modo
dicitur sed modus de eo quod est esse. Cum enim dicimus possibile esse, esse
quidem quiddam dicimus, quemadmodum autem sit additum est, id est possibile, ut
non necessarium neque aliquo alio modo nisi tantum secundum potestatem dicatur.
Fit ergo esse ƿ subiectum, praedicatio vero modus vel contingans vel possibilis
vel necessarius vel quilibet alius. Atque hae quidem propositiones secundum
modum dicuntur, in quibus de substantia nihil ambigitur, de modo autem et
qualitate sola tractatur. Sin vero subiciatur quidem modus, praedicetur vero
esse, tunc de substantia rei quaeritur non de modo, ut si quis dicat possibile
est, ut ipsum possibile in rebus esse pronuntiet, huic propositioni nullus
modus adiectus est. Cum enim dicimus possibile esse modum habere, hoc per se
ita non dicimus sed particulam propositionis ablatam. Ita enim perspicimus
quasi si cum propositione esset iuncta. Quam si cum propria propositione
iunxerimus, et quali modo praedicetur apparet. Cum enim dicimus possibile est,
ut modum significet, particula propositionis est. Quam si suo corpori
adgregemus facientes aliquam propositionem, quid modus ille profiteatur
agnoscimus. Age enim id quod dixi possibile est coniungamus aliis
praedicamentis atque inde una enuntiatio conficiatur dicamusque Socratem
ambulare possibile est. Videsne modum in propositione possibile, ut etiam sive
Socrates ambulet sive non ambulet, posse eum tamen ambulare ex ipso
propositionis modo quilibet agnoscat? Ita igitur auferentes de toto partem
possibilem enuntiationem quasi si tota sit propositio speculamur, ut in his
dictionibus fieri solet, quae pluralitatem determinant, ut si dubitemus contra
omnis an nullus ponatur an non omnis, ita eas speculemur, quasi si integras
propositiones, quas determinationes propositionum ƿ esse manifestum est. Concludenti
igitur dicendum est: in his quae modum praedicant omnes aliae res subiectae
sunt vel esse vel ambulare vel legere vel dicere vel quicquid aliud cum aliquo
modo fieri dicetur, in his autem ubi modus ipse praedicatur, ut integra sit
propositio, non enim propositionis, non est cum modo propositio sed ibi tantum
de subsistentia modi proponitur. Ut si qui dicat possibile est, quiddam in
rebus dicit esse possibile, et rursus contingens est, quiddam in rebus dicit
esse quod contingat, et rursus necesse est, esse quiddam dicit in rebus quod
sit necesse: hic non de modo sed de solo esse tractatur. Quare quotiens esse
quidem subicitur, modus autem praedicatur, ut cum dicimus: Socratem ambulare
possibile est ad modum iungenda negatio est, quotiens vero modus
subicitur, esse autem praedicatur, ad esse ponenda negatio est. Ut cum dicimus
possibile est, quia ita dicimus tamquam si diceremus possibilitas est, et cum
dicimus contingere est, ita dicimus tamquam si diceremus contingentia est, ad
esse ponenda negatio est dicendumque possibile non est, quod idem valet tamquam
si diceretur possibilitas non est. Eodem quoque modo et de contingentia. Non
autem perfecte speculantibus idem semper videri debet subiectum, quod primo
loco reperiri dicitur, idem praedicatum semper, quod secundo loco praedicatur.
In quibusdam enim verum est, in ƿ aliis vero ex significatione potius
propositionum colligimus, qui terminus subiectus sit, qui vero praedicatus. Nam
cum dico: Homo animal est prius mihi necesse est dicere hominem, post
praedicare animal atque ideo subiectum dicitur homo, animal vero praedicatur.
In his autem in quibus modus additur sic est: cum dicimus: Socrates bene
loquitur idem valet tamquam si dicamus: Socrates bene loquens est
et hic quidem bene prius dictum est, postea vero loquens est et videtur
subiectum quidem esse id quod dictum est bene, praedicatum autem id quod dictum
loquens est. Sed hoc falsum est. Et hinc facillime poterit inveniri, quod
loquentem quidem esse eum nullus ignorat, quisquis audit Socratem bene
loquentem esse, vim autem totius propositionis modus continet. In id enim
intendendus est animus, non si loquatur. Hoc enim indubitatum est. Nam qui eum
bene dicit loqui, loqui quoque consentit. Quare ad modum intendendus est
animus, ad id quod dictum est bene. Socrates enim bene loquitur quod dixit,
loqui quidem non sufficit dicere, nisi etiam dicat bene. Continet igitur totam
propositionem modus. Sed rursus propositionem continet praedicatio: modus
igitur in his propositionibus potius praedicatur. Concludendum igitur
universaliter est omnem modorum contradictionem non secundum esse verbum fieri
nec secundum id rursus verbum quod in se esse contineat sed potius secundum
modum. Continere autem in se verba id quod est esse dicuntur, ut cum dicimus
loquitur. Tantundem enim valet tamquam si dicamus loquens est. Quare quaecumque
propositiones quemlibet illum in se retineant modum, ƿ dubitandum non est quin
non ad id quod ponit esse negatio iuste applicetur sed potius ad eum modum quo
aliquid esse fierive pronuntietur. Omnis namque cum modo affirmatio talis est,
ut non intendere debeat animum auditor ad id quod esse dicitur sed ad id potius
quomodo illud esse dicatur. Ut cum dicimus: Socrates bene loquitur non
perspiciendum est an loquatur sed illuc potius animi dirigenda intentio est
quemadmodum loquatur. Hoc enim videtur totam continere propositionem. Ergo
contra possibile esse non est ea negatio quae dicit possibile non esse sed non
possibile esse. Eodem modo et contra eam quae dicit contingere esse non ea quae
enuntiat contingere non esse sed potius ea negatio est quae dicit non
contingere esse. Idem quoque et in necessariis impossibilibusque modis
caeterisque, quae nunc Aristoteles pro solita brevitate transgressus est,
faciendum videtur. Sed quoniam commentationis virtus est non solum
universaliter vim sensus expromere, verum etiam textus ipsius sermonibus
ordinique conectere, ea quae superius confuse dicta sunt nunc per sermonum
ipsorum ab Aristotele dictorum ordinem dividamus. HIS VERO DETERMINATIS
PERSPICIENDUM QUEMADMODUM SE HABENT NEGATIONES ET AFFIRMATIONES AD INVICEM HAE
SCILICET QUAE SUNT DE POSSIBILE ESSE ET NON POSSIBILE ET CONTINGERE ET NON
CONTINGERE ET IMPOSSIBILI ET DE NECESSARIO; HABET ENIM ALIQUAS DUBITATIONES. PERSPICIENDUM,
inquit, est de affirmationibus negationibusque, qua ƿ ratione videantur opponi
in his propositionibus, quas quidam modus continet, ut in his quae sunt
possibiles vel contingentes vel necessariae vel impossibiles vel verae vel
falsae vel bene vel male vel quicquid aliqua qualitate praedicatur. HABET ENIM,
inquit, ALIQUAS DUBITATIONES et quas dubitationes habeat continuo eas subicit. NAM
SI EORUM QUAE COMPLECTUNTUR ILLAE SIBI INVICEM OPPOSITAE SUNT CONTRADICTIONES,
QUAECUMQUE SECUNDUM ESSE ET NON ESSE DISPONUNTUR. Sensus totus huiusmodi est:
in omnibus complexionibus propositionum illa in his oppositio valet, quaecumque
secundum esse et non esse fit. Ut cum dicimus: Homo est huius negatio:
Homo non est sed non ea quae dicit: Non homo est Et rursus eius
quae proponit: Est albus homo illa negatio est quae dicit: Non est albus
homo non ea quae proponit: Est non albus homo Hoc ipsum autem,
quoniam eius quae dicit: Est albus homo non est negatio ea quae dicit:
Est non albus homo sed potius ea quae dicit: Non est albus homo sic
demonstrat: SI ENIM DE OMNIBUS AUT DICTIO AUT NEGATIO, LIGNUM ERIT VERUM DICERE
ESSE NON ALBUM HOMINEM. Breviter dictum est sed ita posse videtur exponi:
propositum, inquit, sit lignum, de quo duae enuntiationes dicantur. Illud tamen
nobis manifestum sit de omnibus, si affirmatio vera est, falsam esse
negationem, eam scilicet quae contradictorie opponitur, et si vera negatio,
falsam affirmationem. Pronuntietur igitur de proposito ligno, quoniam lignum
hoc est albus homo. Hoc falsum est. ƿ Si igitur haec affirmatio falsa est, vera
debet eius esse negatio. Si igitur ea est negatio affirmationis quae dicit: Est
albus homo ea quae negat dicens: Est non albus homo haec negatio
vere praedicabitur de ligno dicente quolibet quod lignum hoc est non albus
homo. Sed hoc fieri non potest. Perspicue enim falsum est lignum esse non album
hominem. Quod enim omnino homo non est nec non albus homo esse potest. Falsae
igitur utraeque, et affirmatio quae dicit de ligno quoniam est albus homo et
negatio de eo quae dicit quoniam est non albus homo. Quod si sunt falsae
utraeque, haec negatio illius affirmationis non est. Quaerenda igitur est alia
quae cum ea verum dividat atque falsum. Qua in re nulla alia reperietur contra
eam quae dicit: Est albus homo praeter eam quae dicit: Non est albus homo
Nam si ea dicitur esse affirmationis huius quae dicit: Est albus homo
negatio quae enuntiat: Est non albus homo erit ut de ligno de quo
affirmatio dicta falsa est vera sit enuntiata negatio eritque de ligno verum
dicere, quoniam lignum hoc est non albus homo sed hoc impossibile est. Constat
igitur neque eam propositionem quae dicit: Est non albus homo illius
affirmationis esse negationem quae proponit: Est albus homo et eam quae
dicit: Non est albus homo negationem esse eiusdem affirmationis quae
dicit: Est albus homo Videsne igitur ut prope in omnibus affirmationes et
negationes secundum esse vel non esse fiant? Illa enim album quod esse dixit,
illa negat album non esse dicens rursus illa dicit hominem esse, illa vero
negat dicens hominem non esse et in caeteris eodem modo est. QUOD SI HOC MODO,
ET IN QUANTISCUMQUE ESSE NON ADDITUR, IDEM FACIET QUOD PRO ESSE DICITUR, UT
EIUS, QUAE EST AMBULAT HOMO, NON EA QUAE EST AMBULAT NON HOMO NEGATIO EST SED
EA QUAE EST NON AMBULAT HOMO; NIHIL ENIM DIFFERT HOMINEM AMBULARE VEL HOMINEM
AMBULANTEM ESSE. Nec hoc solum, inquit, in his evenire potest propositionibus,
quae secundum esse vel non esse disponuntur sed etiam in his quaecumque verbis
talibus continentur, ut verba illa vim eius quod est esse concludant, ut est:
Homo ambulat ambulat continet in se esse. Idem enim est ambulat quod est
ambulans. Ad haec igitur verba quae in propositionibus esse continent aptanda
negatio est. Si enim omnis contradictio secundum esse vel non esse fit, haec
autem verba esse propria significatione concludunt quoniamque verba haec ita
ponuntur tamquam si hoc ipsum esse poneretur, manifestum est ad ea verba quae
esse continent negationem poni oportere ad earum similitudinem propositionum,
quae secundum esse et non esse supra dicta ratione sibimet opponuntur. His
igitur ante praedictis quid inconveniens ex his possit esse persequitur. QUARE
SI HOC MODO IN OMNIBUS, ET EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE NEGATIO EST POSSIBILE
NON ESSE, NON, NON POSSIBILE ESSE. VIDETUR AUTEM IDEM POSSE ET ESSE ET NON
ESSE; OMNE ENIM QUOD EST POSSIBILE DIVIDI VEL AMBULARE ET NON AMBULARE ET NON
DIVIDI POSSIBILE EST. Superius demonstratum est quemadmodum in his quae
complectuntur enuntiationibus secundum esse potius et non esse fierent
oppositiones, nunc hoc dicit: si hoc, inquit, in omnibus propositionibus
faciendum est, ut earum contradictiones secundum esse et non esse ponantur, et
in his quae aliquid possibile esse pronuntiant non ita ponenda negatio est, ut
dicat non possibile esse sed potius secundum non esse constituenda est, ut
dicatur possibile non esse negationem eius esse quae dicit possibile esse. Sed
si hoc dicimus, inquit, affirmatio et negatio contradictoriae verum inter se
falsumque non dividunt. Omne enim quod potest esse idem etiam potest non esse.
Quod enim potest dividi idem potest non dividi et quod potest ambulare idem
potest et non ambulare. Quae autem sit huiusmodi possibilitas, per quam cum
dicitur aliquid fieri posse, illud tamen relinquatur posse non fieri,
consequenter explanat dicens: RATIO AUTEM EST, QUONIAM OMNE QUOD SIC POSSIBILE
EST NON SEMPER IN ACTU EST, QUARE INERIT EI ETIAM NEGATIO; POTEST IGITUR ET NON
AMBULARE QUOD EST AMBULABILE ET NON VIDERI QUOD EST viSIBILE. AT VERO
IMPOSSIBILE EST DE EODEM VERAS OPPOSITES ESSE DICTIONES; NON IGITUR EST ISTA
NEGATIO. Causa est igitur, inquit, cur id quod posse esse dicitur idem possit
non esse, quod omne quod possibile dicimus ita pronuntiamus, ut non semper in
actu sit, id est non sit necessarium. Omne namque quod semper in actu est
necessarium est, ut sol semper movetur: itaque illi semper agitur motus. Si
quis autem me dicat ambulare posse, quoniam ƿ mihi ambulationis motus non
semper agitur et inest mihi aliquotiens non ambulare, inest quoque illud ut
vere de me dicatur posse me non ambulare, cum vere pronuntietur posse ambulare.
Ergo quaecumque non semper in actu sunt et posse esse et posse non esse
recipiunt. Potest igitur et quod est ambulabile, id est quod ambulare potest,
non ambulare et quod est visibile non videri. Quocirca docetur non esse
negationem eius quae dicit posse esse eam quae proponit posse non esse, idcirco
quod utraeque sunt verae in his quae (ut ipse ait) NON SEMPER ACTU sunt.
CONTINGIT ENIM unum ex utrisque quae Aristoteles dicit: AUT IDEM IPSUM DICERE
ET NEGARE SIMUL DE EODEM AUT NON SECUNDUM ESSE ET NON ESSE QUAE APPONUNTUR
FIERI AFFIRMATIONES VEL NEGATIONES, ut aut idem sint affirmatio et negatio
sibique consentiant, si secundum esse et non esse in omnibus contradictio fit,
ut est in eo quod est posse esse et posse non esse (idem enim utraeque sunt
sibique consentiunt et si quis eam dicit contradictionem esse contradictionem
sibi consentire dicit), aut certe non in omnibus negationibus secundum esse et
non esse ea quae apponuntur fieri affirmationes vel negationes, id est non in
omnibus negationibus secundum appositionem esse vel non esse vel eorum verborum
quae esse continent fieri contradictionem. SI ERGO ILLUD, INQUIT, IMPOSSIBILIUS
EST, HOC ERIT MAGIS ELIGENDUM. Duo supra posuerat quae ex supra dictis
rationibus evenirent: aut unum et idem ipsum esse ƿ dicere et negare simul de
eodem, id est ut dictio et negatio idem essent simul de eodem praedicatae
sibique consentirent, aut non secundum esse vel non esse fieri contradictionem.
Sed videntur utraque quasi quodammodo inconvenientia esse, quippe cum illud
unum etiam impossibile sit, ut affirmatio negatioque consentiant, illud alterum
id est non secundum esse et non esse fieri oppositiones inconsentiens sit aliis
propositionibus, in quibus hoc modo contradictionem fieri manifestum est. Nunc
ergo hoc dicit: quoniam utrumque, inquit, inconveniens est, unum autem ex his
erit eligendum, quod minus est impossibile, hoc sumendum est. Minus autem est
impossibile, ut secundum esse et non esse non fiant oppositiones. Hoc enim
nihil prohibet, illud autem impossibilius, ut affirmatio negatioque
consentiant. Hoc igitur erit eligendum potms: has quae cum modo sunt
propositiones non eas habere oppositiones, quae secundum esse et non esse fiunt
sed potius eas quae ad modum ponuntur. Non autem ita dixit impossibilius est,
tamquam si altera impossibilis sit sed ad hoc potius rettulit quod utraeque
quasi inconvenientes videntur, quarum unam etiam impossibilem esse non dubium
est. Hinc quoque disponit secundum modum aliquem pronuntiatarum propositionum
quae esse negationes ponuntur. Dicit enim: EST IGITUR NEGATIO EIUS QUAE EST
POSSIBILE ESSE EA QUAE EST NON POSSIBILE ESSE, negationem scilicet ƿ addens non
ad esse verbum sed ad modum quod est possibile. Eandem quoque rationem dicit
esse et in contingentibus. Eius enim quae est contingere esse negatio est non
contingere esse. Docet etiam de necessario et impossibili sibi idem videri.
Quae autem natura huius oppositionis sit, licet breviter, veracissime tamen
expressa est, de qua nos superius diutius locuti sumus. Quod si quis
perspicacius intendit, illius intellegentiam loci cum hac gradatim proficiscente
expositione communicat. FIUNT ENIM QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE
APPOSITIONES, SUBIECTAE VERO RES HOC QUIDEM ALBUM, ILLUD VERO HOMO, EODEM
QUOQUE MODO HOC LOCO ESSE QUIDEM SUBIECTUM FIT, POSSE VERO ET CONTINGERE
APPOSITIONES DETERMINANTES QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE VERITATEM,
SIMILITER AUTEM HAE ETIAM IN ESSE POSSIBILE ET ESSE NON POSSIBILE. Appositiones
vocat praedicationes. Dicit ergo in his propositionibus, quae praeter aliquem
modum dicuntur, praedicantur quidem semper ess e et non es se vel ea verba quae
esse continent, subiciuntur vero res de quibus illa praedicantur, ut album, cum
dicimus album est, vel homo, cum dicimus homo est. Atque ideo quoniam in his
praedicatio totam continet propositionem veritatemque et falsitatem praedicatio
illa determinat, praedicatur autem esse vel quicquid esse continet, iure
secundum esse et non esse contradictiones ponuntur. In his autem, id est in quibus
modus aliqui praedicatur, esse quidem subiectum est vel ea verba quae esse
continent, modus autem solus quodammodo praedicatur. ƿ Nam quod dicitur esse
solum sine modo aliquo ipsius rei substantia pronuntiatur et quaeritur in eo
quodammodo an sit: idcirco esse ponente affirmatione dicit negatio non esse. In
his autem in quibus modus aliquis est non dicitur aliquid esse sed cum
qualitate quadam esse, ut esse quidem nec affirmatio ambigat nec negatio, de
qualitate autem, id est quomodo sit tunc inter aliquos dubitatur. Atque ideo
ponente aliquo, quoniam Socrates bene loquitur, non ponitur negatio, quoniam
bene non loquitur sed quoniam non bene loquitur, idcirco quoniam (ut dictum
est) non ad esse vel ad ea verba quae es se continent propositio nem totam
conficiunt sed potius ad modum intenditur animus audientis, cum affirmatio
aliquid esse pronuntiat. Si igitur haec continent totius propositionis vim quod
autem propositionis vim continet praedicatur et secundum id quod praedicatur
semper oppositiones fiunt, recte solis modis vis negationis apponitur. His
autem rationabiliter constitutis illud rursus exsequitur quod non modo
contradictio non est posse esse et posse non esse, verum etiam huiusmodi
propositiones, quae cum modis positae, negationem tamen habent ad esse
coniunctam, omnino negationes non sunt sed affirmationes. Possunt enim earum
negationes aliae reperiri. Ait enim: EIUS VERO QUAE EST POSSIBILE NON ESSE
NEGATIO EST NON POSSIBILE NON ESSE. In tantum inquit, non est ulla contradictio
eius quae est posse esse et eius quae est posse non esse, ut ea quae dicit ƿ
posse non esse non esse negatio sed potius affirmatio conuincatur. Affirmatio
autem affirmationi numquam contradictorie opponitur. Docetur autem esse
affirmatio ea quae dicit posse non esse, quod eius alia quaedam negatio
reperitur, ea scilicet quae dicit non posse non esse. Simulque illud adiungit:
cum sint, inquit, huius propositionis quae dicit aliquid posse esse duae quae
videantur esse negationes, ea scilicet quae dicit posse non esse et ea quae
proponit non posse esse, hinc agnoscitur quae harum sit contradictoria contra
eam quae dicit posse esse affirmationem: quae enim verum falsumque cum ea
dividit, ipsa eius potius potest esse quam ea quae illi consentit. Ei autem
quae est posse esse consentit ea quae dicit posse non esse, ut supra iam docui:
ea quae dicit non posse esse si falsa est, vera est ea quae dicit posse esse,
haec rursus si falsa est, vera est illa quae enuntiat non posse esse. Dividunt
igitur hae veritatem falsitatemque, quod in singulis exemplis facillime poterit
inveniri. Age enim dicat quis posse me ambulare, ille verum dixerit, si quis
vero dicat non posse me ambulare, mentitus est. Rursus si quis dicat posse
solem consistere, mentitur, si quis vero dicat non posse solem consistere, de ipsius
nullus ambigit veritate. Dividunt igitur veritatem falsitatemque hae scilicet
quae dicunt posse esse et non posse esse, illae vero se sequuntur quae dicunt
posse esse et posse non esse. Quae igitur consentiunt, contradictiones non
sunt, quae autem veritatem inter se falsitatemque dividunt, ipsas
contradictiones magis esse ƿ putandum est. Quod per hoc ait: QUARE ET SEQUI
SESE INVICEM VIDEBUNTUR Quae autem propositiones sese sequantur
dicit: IDEM ENIM POSSIBILE EST ESSE ET NON ESSE Cur autem sese
sequantur monstrat adiciens: NON ENIM CONTRADICTIONES SIBI INVICEM
SUNT Si enim contradictiones essent, numquam sese sequerentur. Sed quae
sint contradictiones declarat dicens: SED POSSIBILE ESSE ET NON POSSIBILE ESSE
NUMQUAM SIMUL SUNT Cur autem numquam simul sint, non tacuit. Ait namque:
OPPONUNTUR ENIM. Nam idcirco numquam simul sunt et veritatem falsitatemque
dividunt, quoniam opponuntur. Docet quoque eius propositionis quae dicit posse
non esse illam esse negationem quae proponit non posse non esse. Ex eadem vi ad
propositionem transit. Dicit enim: AT VERO POSSIBILE NON ESSE ET NON POSSIBILE
NON ESSE NUMQUAM SIMUL SUNT, per quod ostenditur illam esse
affirmationem, illam vero negationem. Universaliter enim quaecumque idem de
eodem haec ponit, haec aufert, si illa sit affirmatio, illa negatio et nihil
aequivocationis aut universalium determinationis impediat, contradictorie
sibimet opponuntur. Caetera iam ita ut ait per se expedita sunt, ut longa
expositione non egeant, nisi quaedam in eorum ordine permiscenda sunt, quae id
quod per se est lucidum clarius monstrent. Persequitur enim similiter caeteros
modos dicens quae propositiones quarum affirmationum non sint negationes et
quae sint ƿ et eas, quas negationes non esse dicit, ut affirmationes esse
demonstret, alias negationes opponit. SIMILITER AUTEM, inquit, ET EIUS
propositionis QUAE EST NECESSARIUM ESSE NON est ea negatio quae dicit
NECESSARIUM NON ESSE (haec enim affirmatio est, sicut mox negatione opposita
comprobavit) SED POTIUS ea negatio est eius quae est necessarium esse quae
dicit NON NECESSARIUM ESSE. Eodem quoque modo cuncta persequitur dicens: EIUS
VERO QUAE EST NECESSARIUM NON ESSE, quam supra dixerat non esse oppositam ei
quae dicit necessarium esse, illa negatio est quae proponit NON NECESSARIUM NON
ESSE. Quaecumque enim negationem ad esse positam habent, illas si cum modo sint
affirmationes esse putandas. EIUS VERO QUAE EST IMPOSSIBILE ESSE, NON est ea
negatio quae dicit IMPOSSIBILE NON ESSE (non enim ad modum habet negativam
particulam iunctam) SED potius ea quae dicit NON IMPOSSIBILE ESSE. Hae namque
inter se verum falsumque dividunt. Illius vero quae ad esse habet negativam
particulam, quam affirmationem esse manifestum est, id est eius quae dicit
IMPOSSIBILE NON ESSE, ea negatio est quae dicit NON IMPOSSIBILE NON ESSE.
Concludit etiam breviter id quod superius demonstravit dicens: ET UNIVERSALITER
VERO (QUEMADMODUM DICTUM, EST) ESSE ƿ QUIDEM ET NON ESSE OPORTET PONERE
QUEMADMODUM SUBIECTA, NEGATIONEM VERO ET AFFIRMATIONEM HAEC FACIENTEM AD UNUM
APPONERE ET HAS PUTARE OPORTET ESSE OPPOSITAS DICTIONES. Universaliter, inquit,
dicimus, sicut supra iam dictum est, in his propositionibus quae modos additos
habent esse et non esse subiecta potius fieri, modos vero praedicari atque ideo
ad unum quemlibet modum, id est secundum unum, fieri debere affirmationem
semper et negationem, ut sicut affirmationem praedicatus modus continet, ita
negativa particula ad modum iuncta totam contineat negationem. Proponit autem
eas quas putat esse oppositas dictiones hoc modo: Possibile Non possibile
Contingens Non contingens Impossibile Non impossibile Necessarium Non
necessarium Quod autem addidit VERUM NON VERUM, ad hoc pertinet ut omnes
modos includeret. Vere enim modus quidam est, sicut et bene, sicut velociter,
sicut laete, sicut graviter, et quicumque modi sunt, hoc modo facienda est
contradictio: verum est, non verum est non autem non est verum, velociter
ambulare, non velociter ambulare sed non illa quae dicit velociter non
ambulare. Concludenti igitur semper ad modum inugenda negatio est. Illae enim
semper sibimet opponuntur, ut supra iam dictum est, quae secundum
praedicationes habent negativas particulas iunctas. Praedicantur autem in his
modi, ut supra iam monstravimus. ƿ Secundum modos igitur in his negatio posita
integram vim contradictionis efficiet. Expeditis modorum oppositionibus de
consequentia propositionum atque consensu habebitur subtilis utilisque
tractatus. Si igitur possibile esse simpliciter diceretur, simplex et facilis
propositionum videretur esse consensus nec quicquam in earum consequentia
posset errari: nunc autem quoniam dupliciter dicitur, secundum diversos modos
non eaedem propositionum sunt consequentiae. Quod autem dico tale est.
Possibilis duae sunt partes: unum quod cum non sit esse potest, alterum quod
ideo praedicatur esse possibile, quia iam est quidem. Prior pars
corruptibilibus et permutabilibus propria est. In mortalibus enim Socrates
potest esse cum non fuit, sicut ipsi quoque mortales, qui sunt id quod antea
non fuerant. Potest enim homo cum non loquitur loqui et cum non ambulat
ambulare. Ergo haec pars secundum id dicitur quod non quidem iam est, esse
tamen potest. Illa vero alia pars possibilis quae secundum id dicitur, quod iam
est aliquid actu, non potestate, utrisque se naturis accommodat, et sempiternis
scilicet et mortalibus. Nam quod in sempiternis est esse possibile est, rursus
quod est in mortalibus nec hoc a subsistendi possibilitate discedit sed tantum
differt, quia id quod in aeternis est nullo modo permutatur et semper esse
necesse est, illud vero quod in rebus mortalibus invenitur poterit et non esse
et ut sit non est necesse. Ego namque cum scribo inest mihi scribere, quocirca
et scribere ƿ mihi possibile est sed quoniam sum ipse mortalis, non est haec
potestas scribendi necessaria: neque enim ex necessitate scribo. At vero cum
caelo dicimus inesse motum, nulla dubitatio est quin necesse sit caelum moveri.
In mortalibus igitur rebus cum est aliquid et esse potest et ut sit non est
necesse, in sempiternis autem quod est necesse est esse et quia est esse
possibile est. Cum igitur principaliter possibilis duae sint partes: una quae
secundum id dicitur quod cum non sit esse tamen potest, altera quae secundum id
praedicatur quod iam est aliquid actu non solum potestate, huiusmodi possibile
quod iam sit actu duas ex se species profert: unam quae cum sit non est
necessaria, alteram quae cum sit illud quoque habet ut eam esse necesse sit. Nec
hoc solius Aristotelis subtilitas deprehendit, verum Diodorus quoque possibile
ita definit: quod est aut erit. Unde Aristoteles id quod Diodorus ait erit
illud possibile putat quod cum non sit fieri tamen potest, quod autem dixit
Diodorus est id possibile Aristoteles interpretatur quod idcirco dicitur esse
possibile, quia iam actu est. Cuius possibilitatis modi duas partes esse
docuimus: unam quam necessariam dicimus, alteram quam non necessariam
praedicamus. Huius autem non necessariae duae rursus partes sunt: una quae a
potestate pervenit ad actum, altera quae semper actu fuit, a quando res illa
quae susceptibilis ipsius est fuit. Et illa quidem quae a possibilitate ad
actum venit utriusque partis contradictionis susceptibilis est, ut nunc ego qui
scribo ex potestate ad actum veni et agens possum scribere. ƿ Ante enim quam
scriberem erat mihi scribendi potentia sed ex potestate scribendi veni ad actum
scribendi. Quare utraque mihi conveniunt et non scribere et scribere. Possum
enim et non scribere, possum et scribere, quae est quodammodo contradictio. Atque
ideo quaecumque ex potestate ad actum renerunt, ea et facere possum et non
facere et esse et non esse, ut qui loquitur, quia antea potuit loqui quam
loqueretur et nunc ideo potest loqui quia loquitur, et potest loqui et potest
non loqui. Alia vero quae numquam ante potestate fuit sed semper actu, a quando
res ipsa fuit quae aliquid potestate esse diceretur, ad unam rem tantum apta
est, ut ignis numquam fuit potestate calidus, ut postea actu calidus
sentiretur, nec nix ante frigida potestate, post actu sed a quando fuit ignis
actu calidus fuit, a quando nix actu frigida. Quocirca hae potentiae non sunt
aptae ad utraque. Neque enim ignis frigus incutere nec nix calidum quicquam
possit efficere. Quare facienda a principio huiusmodi divisio: possibilis alia
pars est quae cum non sit esse tamen potest, alia vero quae actu est et ideo
possibilis dicitur. Si enim non posset, nec esset omnino. Huius autem
possibilitatis quae secundum illum dicitur modum, quod iam est actu, duae
partes sunt: una secundum id quod ex necessitate esse dicimus, altera secundum
id quod cum sit non tamen esse ex necessitate ƿ aliquid arbitramur. Huius autem
non necessariae possibilitatis duae sunt aliae partes: una quae quoniam ex
potestate ad actum venit et esse et non esse recipiet facultatem, altera quae
quia numquam actum habere destitit, a quando fuit id quod dicitur ei esse
possibile, ad unam tantum partem apta est atque possibilis, eam scilicet quam
actus semper exercuit, ut igni calor vel nivi frigus vel adamanti durities vel
aquae liquor. Sed nullus arbitretur ex necessariae possibilitatis specie esse
id quod dicimus numquam potestate fuisse actus quosdam in quibusdam rebus, ut
igni calorem. Ipse enim ignis exstingui potest. In illis autem quae necessaria
sunt non modo qualitas a subiecta re discedere numquam debet, quod videtur
etiam in igni, a quo sua caloris qualitas non recedit sed etiam illud quod
subiecta illa substantia immortalis esse videatur, quod igni non accidit. Solem
enim et caetera mundi huius corpora quae superna sunt et caelestia immortalia
Peripatetica disciplina putat atque ideo consentienter sibi dicit solem
necessario moveri, quod non modo a sole motus ille numquam recedit sed ne sol
ipse esse quidem desinet. His igitur praedictis id ad quod haec praemissa sunt
id est consequentia propositionum diligentius exsequenda est. ET CONSEQUENTIAE
VERO SECUNDUM ORDINEM FIUNT ITA PONENTIBUS: ILLI ENIM QUAE EST POSSIBILE ESSE
ILLA QUAE EST CONTINGERE ESSE, ET HOC ILLI CONVERTITUR, ET NON IMPOSSIBILE ESSE
ET NON NECESSARIUM ESSE; ILLI VERO QUAE EST POSSIBILE NON ESSE ET CONTINGERE
NON ESSE EA QUAE EST NON NECESSARIUM NON ESSE ET NON IMPOSSIBILE NON ESSE; ILLI
VERO QUAE EST NON POSSIBILE ESSE ET NON CONTINGENS ESSE ILLA QUAE EST
NECESSARIUM NON ESSE ET IMPOSSIBILE ESSE; ILLI VERO QUAE EST NON POSSIBILE NON
ESSE ET NON CONTINGENS NON ESSE ILLA QUAE EST NECESSE ESSE ET IMPOSSIBILE NON
ESSE. CONSIDERETUR AUTEM EX SUBSCRIPTIONE QUEMADMODUM DICIMUS. Haec Aristoteles
consentienter his quae nos supra praemisimus addidit de consequentia
propositionum. Quae etsi manifesta sunt acute perspicientibus, tamen ne nos
nihil huic quoque loco addidisse videamur brevissima ea expositione
percurrimus. Primum voluit demonstrare, quoniam quaecumque de possibili
dicerentur eadem etiam de contingenti dici veracissime possint atque ideo ait:
ILLI QUAE EST POSSIBILE ESSE consequentem esse illam quae dicit aliquid
contingere. Et ne in his aliquid discrepans videretur, adiecit dicens: ET HOC
ILLI CONVERTITUR, ut intellegeremus quod esset possibile hoc contingere et quod
contingeret illud esse possibile. Quare quae sibi convertuntur, ea aequalia
sunt atque eadem. Quicquid igitur in possibili dici potest, idem in contingenti
praedicatur. Haec ergo, id est possibile atque contingens, sequi dixit illas
propositiones quae dicerent non impossibile esse et eas quae necessarium negant
id est non necesse esse aliquid ƿ praedicant. Ait enim: ILLI ENIM QUAE EST
POSSIBILE ESSE ILLA QUAE EST CONTINGERE ESSE, ET HOC ILLI CONVERTITUR, ET EA
QUAE EST NON IMPOSSIBILE ESSE ET NON NECESSARIUM ESSE, tamquam si hoc diceret:
et possibile est sequitur contingentia et haec utraque sibi convertuntur sed
has sequitur non impossibile esse et non necessarium esse. Hoc quam recte
dictum sit neminem latet. Nam quod est possibile esse atque esse contingit, ut
sit impossibile non est. Nam si esset impossibile, non diceretur posse esse,
quod ut non esset ratio impossibilitatis adstringeret. Ergo id quod potest esse
non est impossibile esse. Similiter non est necesse esse id quod posse esse
dicitur. Hoc autem idcirco evenit, quia id quod possibile praedicamus ad
utramque partem facile vertitur. Nam et ut sit fieri potest et ut non sit. At
vero necessitas et impossibilitas in alterutra parte constringitur. Nam quod
impossibile est esse numquam potest. Porro autem quod necesse est non esse
numquam potest. Ergo id quod negamus impossibile esse consentire facimus
possibilitati. Id autem quod negamus necessarium rursus eidem naturae vim
possibilitatis adinugimus [ut sit hoc modo dicendum] et ut verius loquamur, ita
dicendum est: quod possibile est et esse poterit et non esse, rursus quod
impossibile est esse non potest, quod necesse est non esse non potest. Ergo si
impossibilem enuntiationem negationis adiectione frangamus dicentes non
impossibile esse, illi partem possibilitatis ƿ adiungimus in qua esse posse
aliquid dicitur, sin vero necessariae propositionis rigorem negatione minuamus
dicentes non necesse esse, illud evenit ut ad eam partem necessariam
propositionem applicemus, quae in possibilitate est, ut possit non esse. Quare
possibilitatem sequitur non esse impossibile, idcirco quia quod possibile est
fieri potest. Eandem rursus possibilitatem sequitur propositio quae dicit non
necesse esse, idcirco quia quod possibile est poterit et non esse. Aliter idem
dicimus: quod possibile est non est verum dicere, quoniam impossibile est, quia
fieri potest rursus quod possibile est non est verum dicere, quoniam necesse
est esse. Potest enim quod possibile est esse idem non esse. Quare si de
possibilitate impossibilitas et necessitas recte dici non potest, eorum
negationes possibilitati consentient, quae sunt non impossibile esse et non
necessarium esse. Sed meminisse debemus eandem semper in omnibus de contingenti
et de possibili esse rationem, de eo scilicet possibili quod cum adhuc non sit
poterit tamen esse aut non esse. Aliam rursus consequentiam dicit hoc modo: ILLI
VERO QUAE EST POSSIBILE NON ESSE ET CONTINGERE NON ESSE EA QUAE EST NON
NECESSARIUM NON ESSE ET NON IMPOSSIBILE NON ESSE. Propter eandem causam has quoque
esse consequential dixit. Illi enim quae est possibile non esse et ei quae est
contingere non esse illam consentire ait quae dicat non necesse esse non esse
et non impossibile esse non esse. Hoc autem ideo quia quod potest non esse
potest et esse et rursus quod contingit non esse contingit et esse. At vero
quod necesse est non esse illud non potest esse, quod autem impossibile est non
esse illud non esse nou poterit. Quare a possibili utraeque discrepant. Nam
quia possibilitas posse esse aliquid promittit, contrarium sentit ea quae dicit
necesse esse non esse. Rursus quia possibilitas habet in se vim, ut id quod
potest esse possit et non esse, dissentit ab ea multumque discrepat quae dicit
impossibile esse non esse. Quod si propositio quae praedicat necesse esse non
esse et rursus quae dicit impossibile es se non esse a possibilitate
dissentiunt, recte nimirum harum negationes possibilitati consentire creduntur.
Possibiles autem propositiones voco huiusmodi quae vel in affirmatione vel in
negatione possibilitatem aliquam monstrant altera parte non interclusa, ut quae
dicit possibile esse aliquid esse ab hac non intercluditur ea per quam dici
poterit possibile esse non esse vel si quis dicat possibile aliquid non esse,
ab hac rursus non interclusum est, ut esse possit atque ideo affirmationem quae
praedicat posse esse possibilem voco nec minus eam quae dicit aliquid posse non
esse. Et in istis propositionibus quas Aristoteles ponit, in quibus dicit
possibile non esse, non videatur ita dicere tamquam si hoc modo pronuntiet, ut
velit intendere aliquid impossibile esse cum dicit possibile non esse. Ita enim
hanc propositionem dicit non quo possibilitatem illam auferat sed quo dicat
possibile esse aliquid ut non sit. Subaudiendum enim est adiungendumque ad possibile
verbum quod est esse, ut cum ƿ ille dicit possibile non esse nos intellegamus
possibile esse non esse, id est possibile esse ut non sit. Tertiam
consequentiam ponit hanc in qua consentire dicit ILLI QUAE EST NON POSSIBILE
ESSE ET NON CONTINGENS ESSE illam quae dicit NECESSARIUM NON ESSE ET
IMPOSSIBILE ESSE. Hoc ita plenum est ut expositione non egeat. Quod enim non
possibile est hoc fieri non potest, quod fieri non potest necesse est ut non
sit, quod autem necesse est ut non sit ut sit impossibile est. Recte igitur
dicitur eam propositionem quae dicit aliquid non posse esse et eam quae dicit
non contingere esse consequi illas quae esse cum necesse est negant et quae
impossibilitatem affirmant [non est contingens scilicet esse et non necessarium
esse]. Reliquam consequentiam, in qua eas propositiones quae dicerent NON
POSSIBILE ESSE aliquid NON ESSE ET NON CONTINGERE NON ESSE illas quae
proponerent NECESSE ESSE ET IMPOSSIBILE NON ESSE, neque ullam habet
obscuritatem. Nam quod non est possibile ut non sit hoc impossibile est ut non
sit. Id quod enim dicimus impossibile esse idem valet tamquam si dicamus non
possibile esse. Quod enim facit negatio in ea interpretatione in qua dicimus
non possibile, idem facit privatio in ea in qua dicimus impossibile. Quod autem
impossibile est non esse late patet, quia necesse est esse. Ergo et quod non
est possibile ut non sit manifestum est quoniam esse necesse est. Idem quoque ƿ
et de contingenti dicendum est. Describit autem eas hoc modo, ut non solum
mente et ratione capiantur verum etiam subiectae oculis faciliores intellectu
sint. Nos autem, ut sit lucidior explanatio, de his duos facimus ordines. Et in
primo quidem eas proposuimus quae praecedunt, in secundo vero eas quae
sequuntur, ut sit multa facultas vel per se earum rationes non intellegentibus,
ad descriptionem tamen respicientibus, quae quam sequatur agnoscere. PRAECEDENTES:
SEQUENTES: Possibile esse Non impossibile esse Contingens esse Non necesse esse
Possibile non esse Non necessarium non esse Contingens non esse Non impossibile
non esse Non possibile esse Necessarium non esse Non contingens esse
Impossibile esse Non possibile non esse Necesse esse Non contingens non esse
Impossibile non esse Hac igitur descriptione facta, quid Aristoteles
communiter de propositionibus universaliterque tractaverit, nulli sollertius
intuenti videtur ambiguum. Caetera vero quae singillatim de eorum consequentiis
disputavit, quoniam defetigari lectores nolumus, sextum volumen expediet.
Sextus hic liber longae commentationi terminum ponit, quae quodam magno
labore constiterit ac temporis mora. Nam et plurimorum sunt in unum coaceruatae
sententiae et duorum ferme annorum spatium continuo commentandi sudore
consumpsimus. Neque ego arbitror quibusdam sinistre interpretantibus gloriose
factum videri, ut quod dici breviter posset id nos ostentatione doctrinae non
ad lectorum scientiam potius quam prolixitate ad fastidium tenderemus. Quibus
responsum velim non haec tam mendaciter esse sensuros, si prioris commenti
perlegerent brevitatem. Nam neque brevius explicari potuit angustissimorum
obscuritas impedita sermonum et quam multa ad plenam libri huius intellegentiam
desint agnoscitur. Quid autem utrumque opus legentibus utilitatis exhibeat,
hinc facillime mihi videtur posse perpendi, quod cum hanc secundam editioneni
in manus quisquam primum sumpserit rerum ipsarum spatiosa varietate
confunditur, ut qui in maioribus intendere mentem nequit editionis primae
brevitatem simplicitatemque desideret. Quod si quis ad prioris editionis duos
libros rector accesserit, sumpsisse sibi ad scientiam quiddam fortasse
videbitur sed cum postremo hanc secundam cognoverit editionem, quam multa in
prima ignorarit agnoscit. Nec homines a legendo longum opus labore deterreat,
cum nos non impedierit ad scribendum. Sed ne ipsum quoque prooemium tendi
longius videatur, ad Aristotelis seriem et ad ea quae de consequentia
propositionum diligenter exsequitur reuertamur. Ea quae communiter
universaliterque de propositionibus omnibus et de earum ad se inuicem
consequentiis speculanda fuerant in superiori propositionum ipsarum
descriptione disposuit nunc vero quae singillatim singulis accidunt
diligentissimo tractatu persequitur. Ait enim ita: ERGO IMPOSSIBILE ET NON
IMPOSSIBILE ILLUD QUOD EST CONTINGENS ET POSSIBILE ET NON CONTINGENS ET NON
POSSIBILE SEQUITUR QUIDEM CONTRADICTORIE SED CONVERSIM; ILLUD ENIM QUOD EST
POSSIBILE ESSE NEGATIO IMPOSSIBILIS, NEGATIONEM VERO AFFIRMATIO; ILLUD ENIM
QUOD EST NON POSSIBILE ESSE ILLUD QUOD EST IMPOSSIBILE ESSE; AFFIRMATIO ENIM
EST IMPOSSIBILE ESSE, NON IMPOSSIBILE VERO NEGATIO. Consequentia propositionum
(ut superior descriptio docet) secundum possibile et necessarium facta est.
Quam rem illa quoque secuta est, ut et de contingentibus ƿ et impossibilibus
propositionibus consequentiisque diceretur. Nam cum contingens recto modo
possibili consentiat, impossibile converso ordine necessarium est, ut paulo
post docebimus. Speculatur ergo de possibili contingenti et impossibili,
quemadmodum ad se inuicem vel quas habeant consequentias idque constituit hoc
modo dicens: impossibile et non impossi bile sequuntur quidem possibile et non
possibile contradictorie quidem sed conversim. Hoc autem huiusmodi est: scimus
affirmationem privatoriam esse eam quae dicit impossibile esse, huius vero negationem
non impossibile esse, rursus affirmationem possibilem eam quae dicit possibile
esse, huius negationem quae proponit non possibile esse. Sequitur ergo
affirmationem possibilem negatio impossibilitatis. Nam quod possibile est idem
est non impossibile. Alioquin si ea quae dicit non impossibile est non sequitur
possibilitatem, sequitur eius affirmatio, id est impossibile esse. Erit ergo
quod possibile est impossibile, quod fieri non potest. Quod si impossibilitas
possibilitatem non sequitur, non impossibile esse sequitur possibilitatem. At
vero negationem possibilitatis sequitur affirmatio impossibilitatis. Nam quod
non possibile est impossibile est. Eandem enim vim optinet negatio in
propositionibus quam etiam privatio. Et de contingenti eodem modo. Nam quod
contingens est illud est non impossibile. Nam si contingens et possibile se
sequuntur, possibile vero et non impossibile consentiunt, contingens et non
impossibile idem designant. Rursus non contingens ƿ et impossibile idem videri
poterit perspicienti, quod non contingens quidem et non possibile idem
sentiunt. Sed non possibile impossibilitati consentit. Quocirca et non
contingens quoque impossibile aliquid esse denuntiat. Fit ergo ut affirmatio
impossibilitatis contradictionem possibilitatis sequatur sed non ut affirmatio
affirmationem, nec ut negatio negationem sed conversim, id est ut affirmatio
negationi, negatio vero affirmationi consentiat. Affirmationem namque quae est
possibile es se sequitur negatio impossibilis quae dicit non impossibile esse,
negationem vero possibilitatis quae est non possibile esse sequitur
impossibilitatis affirmatio quae proponit impossibile esse. Idem quoque et de
contingenti dicendum est. Affirmationem namque contingentis sequitur negatio
impossibilitatis, negationem vero contingentis sequitur affirmatio
impossibilitatis. Omnino enim quicquid de possibilitate proponitur idem de
contingentibus iudicatur. Disponantur ergo hoc modo: primum quidem affirmatio
impossibilis, contra eam negatio impossibilis, et sub affirmatione impossibili
ponantur ex contingentibus et possibilibus, quas ipsa sequitur impossibilitas,
sub negatione vero impossibilitatis illae possibilis et contingentis
propositiones, quibus ipsa impossibilitatis negatio consentit, hoc modo: ƿ
AFFIRMATIO CONTRADICTIO NEGATIO Impossibile esse Non impossibile esse NEGATIO
CONTRADICTIO AFFIRMATIO Non possibile esse Possibile esse Non contingens esse
Contingens esse Patet ergo ut contradictiones quidem aliis
contradictionibus consentiant. Qua in re illud quoque manifestum est, quod
affirmationes negationibus, negationes vero affirmationibus consentiunt. Seusus
ergo totus talis est, sermonum vero ratio haec est: IMPOSSIBILE, inquit, ET NON
IMPOSSIBILE scilicet quod est contradictio duas contradictiones id est ILLUD
QUOD EST CONTINGENS ET POSSIBILE ET NON CONTINGENS ET NON POSSIBILE SEQUITUR
QUIDEM CONTRADICTORIE (nam una contradictio impossibilis duas sequitur
contradictiones, id est contingens et non contingens, possibile et non
possibile) sed quamquam contradictionem sequatur alia contradictio, CONVERSIM
tamen sibi consentiunt. Nam QUOD EST POSSIBILE ESSE SEQUITUR NEGATIO
IMPOSSIBILIA, ut superior descriptio docet, NEGATIONEM VERO possibilis
AFFIRMATIO scilicet impossibilis. Nam quod est non possibile consentit ei quod
est impossibile. Est autem affirmatio impossibilis ea quae dicit impossibile
esse. Et quamquam inuoluta sit sermonum ratio, tamen si quis secundum
superiorem expositionem ad ipsius Aristotelis sermones superiores ƿ redeat et
quod illis deest ex nostra expositione compenset, sensus planissimus a ratione
non denat. NECESSARIUM VERO QUEMADMODUM, CONSIDERANDUM EST. MANIFESTUM QUONIAM
NON EODEM MODO SED CONTRARIAE SEQUUNTUR, CONTRADICTORIAE AUTEM EXTRA. NON ENIM
EST NEGATIO EIUS, QUOD EST NECESSE NON ESSE, NON NECESSE ESSE, CONTINGIT ENIM
VERAS ESSE IN EODEM UTRASQUE; QUOD ENIM EST NECESSARIUM NON ESSE, NON EST
NECESSARIUM ESSE. Impossibilis atque possibilis dudum comparatione didicimus,
quod affirmationem possibilem impossibilis negatio sequeretur, rursus negationi
possibilis impossibilis affirmatio consentiret. Quaerens ergo nunc, quemadmodum
possibilium et necessariarum propositionum fiat consequentia, dicit non eodem
modo in his evenire quemadmodum in illis evenit quae ex possibilis et
impossibilis comparationibus nascebantur. In illis enim contradictiones oppositae
contradictiones rursus oppositas sequebantur, ut affirmationem negatio,
negationem affirmatio sequeretur. In his autem hoc est in necessariis et
possibilibus non eodem modo est sed contrariae quidem sequuntur,
contradictoriae vero et oppositae extra sunt et non sequuntur. Et prius quidem
quae sint contrariae, quae contradictoriae disponamus. Propositionis enim quae
dicit necesse esse ea quae proponit non necesse esse contradictoria est, ea ƿ
vero quae dicit necesse esse non esse contraria: ut si quis dicat solem necesse
esse moveri, huic est opposita contradictorie solem non necesse esse moveri,
contraria vero solem necesse esse non moveri. Possibilem igitur propositionem
sequitur contradictio necessarii, contradictionem vero possibilis non sequitur
necessitas (quod eveniret si in his sese oppositae sequerentur) sed potius ea
quae est contraria necessitati. Age enim propositioni quae dicit possibile esse
videamus quae ex necessariis consentiat. Illa quidem quae dicit necesse esse
non ei poterit consentire. Quod enim possibile est esse potest et non esse,
quod autem esse necesse est non esse non poterit. Ergo si possibilitatem
necessitas non sequitur, sequitur eam necessitatis contradictio. Non sequitur ergo
propositionem eam quae dicit possibile esse ea scilicet quae proponit necesse
esse: sequitur ergo propositionem possibilem contradictio necessitatis quae
proponit non necesse esse. Sed contradictioni possibilis necessitas non
consentit. Neque enim dicere possumus, quoniam eam propositionem quae dicit non
possibile esse sequatur ea quae proponit necesse esse sed potius contraria
necessariae illa quae dicit necesse esse non esse. Nam cum non possibile est,
necesse est non esse. Disponantur enim hae scilicet quae se sequuntur et sub
his necessaria et quae sit contradictio, quae contrarietas adscribatur. ƿ
Possibile Non possibile Non necesse esse Necesse esse non esse CONTRADICTIO
CONTRARIETAS Necesse esse Nulli ergo dubium est quin affirmationem
possibilis sequatur necessarii negatio, negationem vero possibilis necessarium
non sequatur sed potius contrarietas necessarii. Nam cum possibile esse
sequatur contradictio necessitatis, quod est non necesse est, contradictionem
possibilis quae dicit non possibile esse non sequitur necessitas ipsa sed
potius contraria ea scilicet quae proponit necesse esse non esse. Sensus ergo
huiusmodi est, talis vero est ordo sermonum: NECESSARIUM VERO, inquit,
QUEMADMODUM id est quas habeat consequentias, CONSIDERANDUM EST. Primo quidem
definit dicens: MANIFESTUM EST QUONIAM NON EODEM MODO, quo loco subaudiendum
est: quemadmodum in his quae sunt possibiles et impossibiles SED CONTRARIAE
SEQUUNTUR, CONTRADICTORIAE VERO EXTRA sunt et non sequuntur. Namque
contradictionem possibilis necessarii non contradictio sed (ut supra docuimus)
contrarietas sequebatur. Non enim contradictio contradictioni in hac necessarii
consequentia consentiebat. Sequebatur namque possibilitatem illud quod est non
necessarium, non possibile autem sequebatur ea propositio quae diceret necesse
esse non esse, non autem necesse esse. Sed rursus necesse esse non esse et non
necesse esse non sunt contradictiones sed non necesse esse quidem negatio
necessarii est, illa vero quae dicit necesse esse non esse contraria necessarii.
Contra se autem non sunt contradictoriae. Possunt enim in uno eodemque simul
inveniri. Quod per hoc ait quod dixit:CONTINGIT ENIM VERAS ESSE IN EODEM
UTRASQUE. NAM QUOD EST NECESSARIUM NON ESSE, NON EST NECESSARIUM ESSE ut
quoniam necesse est hominem quadrupedem non esse, non necesse est esse hominem
quadrupedem. Nam si hoc falsum est, necesse erit hominem esse quadrupedem, cum
necesse sit non esse. Quocirca manifestum est, quoniam simul aliquando inveniri
possunt non necesse esse et rursus necesse esse non esse propositiones. Quae
cum ita sint, contradictiones non sunt. Causam vero reddens cur, cum secundum
possibilis comparationem ad contradictiones sit reddita consequentia, non eodem
modo in necessariis potuerit evenire, sic dicit: CAUSA AUTEM CUR NON
CONSEQUATUR SIMILITER CAETERIS, QUONIAM CONTRARIE IMPOSSIBILE NECESSARIO
REDDITUR IDEM VALENS. NAM SI IMPOSSIBILE EST ESSE, NECESSE EST HOC, NON ESSE
SED NON ESSE; SI VERO IMPOSSIBILE NON ESSE, HOC NECESSARIUM EST ESSE. QUARE SI
ILLA SIMILITER ƿ POSSIBILE ET NON, HAEC E CONTRARIO: NAM IDEM SIGNIFICAT
NECESSARIUM ET IMPOSSIBILE SED (QUEMADMODUM DICTUM EST) CONTRARIE. Causa est,
inquit, cur consequentia in necessariis ita reddatur, quod necessarium semper
impossibili contraria ratione consentit. Nam quod impossibile est esse hoc
necesse est non esse, et rursus quod necesse est esse hoc impossibile est non
esse. Fit igitur contrarietas quaedam. Nam cum impossibilitas esse habet,
necessitas non esse, et cum necessitas esse, impossibilitas non esse. Ergo idem
valet impossibilitas et necessitas non eodem modo reddita sed si necessitas
secundum esse, impossibilitas secundum non esse, et si impossibilitas secundum
esse, secundum non esse necessitas. Quare idcirco evenit ista contrario modo
consensio. Nam ubi est impossibile esse, ibi est necesse non esse sed
impossibile esse et non possibile esse consentiunt: igitur non possibile esse
et necesse non esse consentiunt. Nulli ergo dubium est idcirco necesse esse non
esse sequi possibilis negationem, quoniam impossibilitas quae sequitur
possibilis negationem consentit ei quae dicit necesse non esse. Hoc autem ideo
quia impossibilitas et necessitas idem valent (ut dixi) si contrarie
proponantur. Quare quod dicitur hoc modo est: CAUSA AUTEM est, inquit, CUR NON
CONSEQUATUR SIMILITER CAETERIS, id est quae secundum possibile et impossibile
factae sunt, QUONIAM CONTRARIE IMPOSSIBILE NECESSARIO REDDITUR IDEM valENS, id
est contrario ƿ modo reddita et pronuntiata impossibilitas necessitati idem
valet. NAM SI IMPOSSIBILE EST ESSE, NECESSE EST HOC, NON ESSE SED necesse NON
ESSE hoc est quod impossibile est esse. Nullus ergo dixerit quoniam esse
necesse est sed potius quoniam necesse est non esse, tamquam si ita dixisset:
nam si impossibile est esse, necesse est hoc non esse sed non putandum est
quoniam impossibile est esse hoc est quod necesse est esse. Quod si rursus
impossibile est non esse, hoc necesse est esse. Conversim igitur et contrarie
impossibilitas necessitati redditur idem valens [id est contrario modo reddita
et pronuntiata impossibilitatis necessitati]. Quod si impossibilitas ad
possibile simili contradictione et contradictionum conversione consequentiam
reddit, idem autem valet impossibilitas et nesessitas contrarie praedicata,
nulli dubium est quin recte hic contraria et non opposita fuerit consequentia. An
certe ita exponendum est: quoniam in consequentia impossibilis et non
impossibilis ad eas quae proponebant possibile et non possibile eam quae est
non possibile ea quae dicit aliquid esse impossibile sequebatur, contrarie vero
impossibile idem valet quod necessarium, manifestum est quoniam, si similiter
se habet, id est eo modo quo dictum est, impossibile ad consequentiam
possibilis et non possibilis, impossibile vero ei quod est non possibile
consentaneum sit, id quod e contrario idem valet, id est necessarium non esse,
id sequi eam propositionem quam etiam impossibilitas ƿ sequebatur. Est autem
contrarie idem valens impossibilitati ea quae est necessarium non esse
sequiturque impossibilitas eam propositionem quae est non possibile esse: et
necessarium non esse igitur sequitur eam quae est non possibile esse, ut sit
sensus hic: quoniam impossibile necessario idem potest e contrario, similiter
vero sese habet, id est eo modo quo dictum est, impossibilis consequentia ad
eas quae sunt possibile et non possibile. AN CERTE IMPOSSIBILE SIC PONI
NECESSARII CONTRADICTIONES? NAM QUOD EST NECESSARIUM ESSE, POSSIBILE EST ESSE,
NAM SI NON, NEGATIO CONSEQUETUR; NECESSE ENIM AUT DICERE AUT NEGARE. QUARE SI
NON POSSIBILE EST ESSE, IMPOSSIBILE EST ESSE: IMPOSSIBILE IGITUR EST ESSE QUOD
NECESSE EST ESSE, QUOD EST INCONVENIENS. AT VERO ILLUD QUOD EST POSSIBILE ESSE
NON IMPOSSIBILE ESSE SEQUITUR, HOC VERO ILLUD QUOD EST NON NECESSARIUM ESSE.
QUARE CONTINGIT QUOD EST NECESSARIUM ESSE NON NECESSARIUM ESSE, QUOD EST
INCONVENIENS. AT VERO NEQUE NECESSARIUM ESSE SEQUITUR POSSIBILE ESSE NEQUE
NECESSARIUM NON ESSE; ILLI ENIM UTRAQUE CONTINGIT ACCIDERE, HORUM AUTEM
UTRUMLIBET VERUM FUERIT, NON ERUNT ILLA VERA. SIMUL ENIM POSSIBILE ESSE ET NON
ESSE; SIN VERO NECESSE ESSE VEL NON ESSE, NON ƿ ERIT POSSIBILE UTRUMQUE.
RELINQUITUR ERGO NON NECESSARLUM NON ESSE SEQUI POSSIBILE ESSE. HOC ENIM VERUM
EST ET DE NECESSE ESSE. HAEC ENIM FIT CONTRADICTIO EIUS QUAE SEQUITUR NON
POSSIBILE ESSE; ILLUD ENIM SEQUITUR IMPOSSIBILE ESSE ET NECESSE NON ESSE, CUIUS
NEGATIO NON NECESSE NON ESSE. SEQUUNTUR IGITUR ET HAE CONTRADICTIONES SECUNDUM
PRAEDICTUM MODUM ET NIHIL IMPOSSIBILE CONTINGIT SIC POSITIS. Superius quidem
propositionum facta conversio est ita, ut possibilem propositionem necessarii
negatio sequeretur. Atque his ita positis non evenit, ut contradictio
contradictionem sequeretur nec ut converso modo sequeretur, quod in illis
scilicet eveniebat in quibus possibilium et impossibilium sequentia
considerabatur, quoniam contradictio necessarii, quod est scilicet non
necessarium esse, sequebatur possibilem propositionem, possibilis vero
contradictionem non consecuta est necessitas sed contrarium necessitatis. Hoc
permutare volens intendit ita constituere consequentias, ut simili modo
contradictio quidem contradictioni consentiat sed conversim. Hoc autem hac
ratione disponit. Dicit enim: erravi fortasse quod necessarii et possibilis
consequentiam ex possibili inchoavi et non ex necessario, ut eius hoc
consensionem metiretur. Posuit enim praecedens ƿ possibile esse eique sicut
consentiens non necessarium esse. Et haec quidem superius. Nunc autem convertit
et dicit: an fortasse, inquit, errore lapsi ita has consequentias constituimus,
ut primo poneremus possibile esse, huic autem adiungeremus velut consequens
necessarii negationem quae diceret non necesse esse? Ac potius illud verum est,
ut posito prius necessario necessitati possibilitas consentiens subsequatur?
Videtur enim omnem necessariam propositionem possibilitas subsequi. Quod si
quis neget, illi confitendum est, quoniam negatio possibilis sequitur
necessitatem. In omnibus enim aut affirmatio aut negatio est. Ergo si
necessariam propositionem non sequitur possibilitas, possibilitatis negatio
consequitur. [Ut ita dicatur] ergo recta consequentia ita dicit: quod necesse
est esse non possibile est esse. Sed dudum dictum est, quod ei propositioni
quae proponeret non possibile esse impossibilitas consentiret. Sed non
possibile esse consequitur necessitatem, et impossibilitas igitur consequitur
necessitatem. Erit itaque recta propositionum consequentia: si necesse est
esse, impossibile est esse. Sed hoc fieri non potest. Si igitur impossibilitas
non sequitur necessitatem, sequitur autem propositio quae aliquid non posse esse
denuntiat impossibilem propositionem, necessariae propositioni possibilitatis
negatio quae est non possibile esse non consentit. Quod si haec necessariae
enuntiationi non consentit, consentiet affirmatio. Necessitatem igitur
possibilitas consequitur. ƿ Erit ergo recta propositionum consequentia hoc
modo: si necesse est esse, possibile est esse. Sed rursus alia nobis ex his
impedimenta nascuntur. Nam si quis dicat necessitati propositionem possibilem
consentire quoniam possibilitati ea propositio quae dicit non impossibile esse
et rursus ea quae enuntiat non necesse esse consentit, quod superior ordo
praedocuit, erit ut necessariae propositioni consentiat ea quae dicit non
necesse esse. Erit igitur recta consequentia: si necesse est esse, non necesse
est esse. Sed hoc rursus est impossibile. Quod si ita est, aliquid in
possibilis consequentiis propositionum permutandum est, ut possit ipsa sibi
ratio consentire. Aut igitur illud primo inconvenienter dictum est, quod
necessarii negatio affirmationem possibilem sequeretur, ut ea quae est non
necesse esse sequatur eam quae dicit possibile esse vel certe illud non recte
sensimus ad possibilem propositionem necessarium consentire. Quod quia
perabsurdum est (nullus enim dixerit necessitati possibilitatem esse contrariam:
evenit enim quod necesse est' hoc fieri non posse) rectaque est haec
consequentia: si necesse est, possibile est, fit ut potius necessarii negatio
propositionem possibilem non sequatur. Sed cum haec dicuntur, illud intellegi
placet, quod necessitatem possibilitas sequatur, ut id quod necesse est, hoc
dicatur esse possibile, illud autem quod per se possibile est non modis omnibus
sit necesse. Nam si necesse est, fieri non potest ut non sit, quod vero
possibile est, et non esse potest. Igitur quod possibile ƿ est non est necesse.
Dico autem quia neque ea propositio sequitur possibilitatem, quae necessitati
omnino contraria est. Est namque necessariae propositioni contraria ea quae
dicit necesse est non esse. Hanc possibilitati consentire nullus impellet. Nam
quod necesse est non esse, illud non potest esse, quod autem possibile est, et
esse et non esse potest. Necessitas ergo propositionis quae secundum esse
praedicatur idcirco non sequitur possibilitatem, quoniam possibilitas quidem et
non esse potest, necessitas vero quae secundum esse est non esse non potest.
Rursus necessitas quae secundum non esse praedicatur a possibilitate differt
eamque non sequitur, quod necessitas ea quae secundum non esse dicitur non
potest esse, possibile vero et esse et non esse potest. Quid igitur ut neque
opposita negatio necessarii possibilitatem sequatur, quae non necesse esse
proponit, neque ipsa necessitas affirmandi quae dicit necesse esse neque huic
contraria quae dicit necesse esse non esse? Sed in his quatuor videbuntur. Est
enim necessaria affirmatio quae dicit necesse esse, huic opposita est ea quae
praedicatur non necesse esse, rursus contraria necessitati affirmatio est quae
dicit necesse est non esse, huic opponitur ea quae proponit non necesse est non
esse, quod subiecta docet subscriptio: Necesse est esse Non necesse est esse
Necesse est non esse Non necesse est non esse Si igitur neque ea quae
dicit necesse est esse neque huic opposita quae proponit non necesse est esse
nec necessitati contraria, cuius sententia est quoniam ƿ necesse est non esse,
possibilitati consentit, restat ut ei consentiat quarta quae dicit non necesse
est non esse, quae scilicet quarta aliquatenus etiam ipsi necessitati
consentit, necessitas vero possibilitati minime. Omne enim quod necesse est
esse et possibile est esse et ut non sit non est necesse. Idcirco autem haec
propositio quae dicit non necesse est non esse necessitati consentit, quia
necessitati quidem contraria est ea quae dicit necesse est non esse, haec vero
opposita est huic propositioni quae dicit necesse est non esse, ea scilicet
quae proponit non necesse est non esse: quare consentiet ei propositio quae
contraria est sibimet oppositae affirmationi. Quod si quis attentius inspicit
et ad supra scriptum omnino reuertitur, facile cognoscit. Si igitur possibile
est (ut dictum est) sequitur ea propositio quae dicit non necesse est non esse,
negationem possibilis sequitur huic opposita quae dicit necesse est non esse
eritque huiusmodi consequentia: si possibile est, non necesse est non esse,
rursus si non possibile est, necesse est non esse. Reuersa est igitur illa
consequentia quae contradictorie quidem fiebat sed conversim, sicut supra de
possibilibus dictum est. Hic namque affirmationem possibilem negatio sequitur
quae necessarium quidem destruit sed id quod ad non esse ponitur, ea scilicet
quae dicit non necesse est non esse, rursus negationem possibilis affirmatio
sequitur necessaria quae secundum non esse ponitur. Est igitur hic quoque eadem
conversio, ut contradictio quidem contradictionem sequatur sed conversim, ut
affirmatio negationi, negatio vero affirmationi conveniat. Melius vero hoc si
sub ƿ oculos caderet liquere credidimus atque ideo apertissime sententiam rei
subiectae dispositionis nos ordo commoneat. Affirmatio possibilis Negatio
possibilis oppositae secundum esse: secundum esse: Possibile esse Non possibile
esse Negatio necessaria Affirmatio necessaria secundum non esse: secundum non
esse: Non necesse est non esse Necesse est non esse Omnis quidem sententia
est talis, ordo autem sermonum huiusmodi est: postquam dixit de possibilium et
impossibilium consequentia, quod contradictiones quidem contradictionibus
convenirent sed conversim, id est quod affirmatio negationi, negatio vero
consentiret affirmationi, haec eadem, inquit, consequentia quemadmodum in
necessariis evenit, videndum est. Speculatus igitur et de necessariis idem non
repperit. Nam cum dixisset necessarii negationem consentire possibilitati,
affirmatio necessaria negationi possibilitatis non consensit. Eiusdem rei
reddens causas illud arguit quod impossibilitas necessitati idem valeret
contrarie reddita. Quam rem emendare volens ita dixit: AN CERTE, inquit,
IMPOSSIBILE EST SIC PONI NECESSARII CONTRADICTIONES? Ut negationem scilicet
necessarii possibilitati consentire diceremus. Addit autem dubitationem
quandam, quae ita sese habet. NAM QUOD EST, inquit, NECESSARIUM ESSE, illud
sine dubio POSSIBILE EST ESSE. NAM SI NON, id est si quod necessarium est
possibile non est, NEGATIO possibilitatis CONSEQUITUR. NECESSE EST ENIM in omnibus
rebus AUT DICERE id est affirmare AUT CERTE NEGARE. In omnibus namque rebus aut
affirmatio vera est aut negatio. QUARE SI NON POSSIBILE EST ESSE, id est si hoc
est non possibile esse [quod impossibile est, fiet id] quod necessarium est
esse, sequitur autem propositionem quae dicit non possibile est esse illa quae
proponit IMPOSSIBILE EST ESSE, fit aliquid impossibile ut dicatur: IMPOSSIBILE
IGITUR EST ESSE ID QUOD NECESSE EST ESSE. Sed hoc inconveniens est. Ergo hic
docuit, quod necessitatem possibilitas sequeretur. Nunc autem aliud addit:
quoniam supra dixit possibili propositioni necessariae affirmationis negationem
consentire, nunc de eadem re dubitationem dicens: AT VERO ILLUD QUOD EST
POSSIBILE ESSE NON IMPOSSIBILE ESSE SEQUITUR. Nam quod possibile est, hoc non
est impossibile sed quod non est impossibile esse non necesse est esse. Ergo si
non impossibile esse sequitur possibilitatem, non impossibilitatem autem
sequitur id quod dicitur non necessarium esse sequiturque possibilem propositionem
id quod dicimus non necessarium ƿ esse, nulli dubium est quin, si necessitatem
possibilitas sequitur, sequatur affirmationem necessariam negatio necessariae.
QUARE CONTINGIT QUOD EST NECESSARIUM ESSE id ipsum NON NECESSARIUM ESSE. QUOD
EST INCONVENIENS. Constat ergo quoniam affirmationem possibilem non sequitur
opposita negatio necessariae affirmationi, idcirco quod illud removendum est:
aut, quod supra diximus, ne sequatur possibilem affirmationem negatio
necessariae, aut ne necessitatem possibilitas sequatur. Quod quia fieri nullo
modo potest, illud est removendum, ne possibilitatem necessitati opposita negatio
subsequatur. Igitur ea quae dicit non necesse est esse non sequitur
possibilitatem. Et quia haec omnia in medio tacuerat, supra dictis addit: AT
VERO NEQUE NECESSARIUM ESSE SEQUITUR POSSIBILE ESSE, hoc scilicet sententiae
includens possibilitati non consentire necessarium, nec hoc solum sed NEQUE
illud quod dicimus NECESSARIUM NON ESSE. Hoc ut tractatum sit ipse planius monstrat.
ILLI ENIM id est possibili UTRAQUE CONTINGIT ACCIDERE et esse scilicet et non
esse, HORUM AUTEM, id est necessarii secundum esse et necessarii secundum non
esse, UTRUMLIBET VERUM FUERIT, NON ERUNT ILLA VERA. Hoc ipse exponit. De
possibili enim utroque ita dicit: SIMUL ENIM POSSIBILE EST ET ESSE ET NON ESSE
(hoc est ergo quod ait: ILLI ENIM UTRAQUE CONTINGIT ACCIDERE); SIN VERO,
INQUIT, NECESSE EST ESSE ƿ VEL NON ESSE, id est si non potest non esse et non
poterit esse, NON ERIT POSSIBILE UTRUMQUE, ut si esse necesse est, non poterit
non esse vel si non esse necesse est, non poterit esse. Tres igitur
propositiones non necesse esse, necesse esse, necesse esse non esse
possibilitatem non sequuntur. RELINQUITUR ERGO id est ut quarta propositio,
quae opponitur necessario secundum non esse affirmatur, possibilitatem
sequatur, id est NON NECESSARIUM NON ESSE SEQUI POSSIBILE ESSE. Sed quia
possibile consentit necessario, haec quoque necessario consentit. Namque hoc
est quod dixit: HOC ENIM VERUM EST ET DE NECESSE ESSE. Nam quod necesse est,
non necesse est ut non sit. Haec igitur propositio quae dicit non necesse est
non esse contradictio est eius affirmationis quae sequitur negationem
possibilitatis eam scilicet quae dicit non possibile esse. Nam cum affirmationem
eam quae est scilicet possibile esse sequatur necessarii secundum non esse
negatio ea quae proponit non necesse est non esse, negationem possibilis eam
scilicet quae proponit non possibile est esse sequitur affirmatio necessaria
secundum non esse quae dicit necesse est non esse, quam eandem quae proponit
non possibile esse, quae est scilicet negatio possibilitatis, impossibilis
affirmatio sequitur quae proponit impossibile esse. Hoc est ergo quod ait: HAEC
ENIM FIT CONTRADICTIO EIUS QUAE SEQUITUR ID QUOD EST NON POSSIBILE ESSE. Nam
cum possibilem affirmationem sequatur necessariae secundum ƿ non esse negatio
quae dicit non necesse est non esse, haec necessaria secundum non esse negatio
contradictio est eius quae sequitur negationem possibilitatis. ILLUD ENIM, id
est negationem possibilitatis, SEQUITUR ID QUOD EST IMPOSSIBILE. Nam cum
negatio possibilitatis sit quae dicit non possibile esse, hanc sequitur ea quae
dicit impossibile est esse, cui consentit ea quae dicit necesse esse non esse.
Sequitur igitur possibilis propositionis negationem ea quae dicit necesse esse
non esse, cuius est contradictio ea quae dicit non necesse esse non esse. Fit
ergo hic quo que ut contradictio contradictionem sequatur sed conversim. Quod
ait per hoc cum dixit: SEQUUNTUR IGITUR ET HAE CONTRADICTIONES SECUNDUM
PRAEDICTUM MODUM eum scilicet, ut affirmatio negationem, negatio vero sequatur
affirmationem, et nihil quidem erit vel inconveniens vel impossibile ita
positis consequentiis, ut affirmationem quidem possibilem negatio necessarii
secundum non esse sequatur, negationi vero possibilis affirmatio necessaria
secundum non esse consentiat. Quibus explicitis alias rursus adicit
dubitationes. Sopra namque consequentias ita disposuit, ut praecedens
necessarium possibilitas sequeretur, nunc de eodem ipso ambigit. Sive enim quis
ponat consentire necessario possibile, sive quis neget, utrumque videtur
incongrnum, quoniam si quis neget possibilitatem ƿ necessitati congruere, is
dicit quoniam possibilitatis negatio necessariae propositioni conveniet. Si
quis enim abnuat propositioni quae dicit aliquid necesse esse consentire eam
quae proponit possibile esse, is illud abnuere non potest, quia negatio
possibilitatis necessitati consentiat, eritque integra consequentia: si necesse
est esse, non possibile est esse, quandoquidem illa falsa est consequentia quae
dicit: si necesse est esse, possibile est esse. Quod si hoc fieri non potest,
ut possibilitatis negatio necessariae consentiat affirmationi, illud verum est
affirmationem possibilem necessariae convenire. Sed in hoc quoque maior inerit
difficultas. Omne namque quod possibile est esse, possibile est et non esse.
Sed si possibilitas necessitatem sequitur, erit id quod necesse est ut possit
esse et possit non esse secundum naturam scilicet possibilitatis, quae ipsi
convenit necessitati. Sed hoc impossibile est: non igitur possibilitas sequitur
necessitatem. Quod si possibilitas necessitatem non sequitur, negatio
possibilitatis sequitur, ea scilicet quae est non possibile esse, evenientque
ea rursus incommoda, quae dudum cum eum locum tractaremus expressimus. Quod si
quis possibilitatis non velit esse negationem eam quae dicit non possibile esse
sed potius eam quae dicit possibile esse non esse, quamquam ille non recto
ordine affirmationem negationi accommodet dictumque supra sit, quotiens cum
modo propositiones dicuntur ad modos ipsos potius negationem poni oportere quam
ad verba, dandae tamen manus sunt, ut cum eo quoque concesso, quod ad
defensionem ƿ utile aliquibus videri possit, argumentationis falsam sententiam
fregerimus, penitus atque altius sit veritas constituta. Sit ergo haec negatio
possibilitatis quam ipsi volunt, id est ea quae dicit possibile esse non esse
sed haec quoque necessitati non convenit. Si quis enim dicat quoniam possibile
esse necessarium non sequitur, sequitur mox possibilis contradictio necessitatem.
Quod si quis contradictionem possibilis ponat eam quae dicit possibile esse non
esse eaque necessitati consentire putatur, erit secundum eum recta
consequentia: si necesse est esse, possibile est non esse sed hoc fieri non
potest. Quod enim necesse est esse non potest non esse. Si igitur possibilitas
non sequitur necessitatem (erit enim quod necesse est contingens, possibile
namque et contingens idem valet), negationes possibilitatis, sive ea quae dicit
non possibile esse, sive ea cuius sententia est possibile esse non esse,
necessitati convenient. Sed utrumque impossibile est. Quod si haec non
sequuntur, sequitur ea quae est earum affirmatio, id est possibilitas. Sed hoc quoque
fieri non potest, ut saepius supra monstravi. Haec ergo huiusmodi quaestio in
sequenti ordine ab ipso resolvitur. Nunc quoniam quaestionis supra dictae talis
sensus est, verba ipsa sermonumque ordo videatur. Ait namque ita: DUBITABIT
AUTEM, inquit, ALIQUIS, SI ILLUD QUOD EST NECESSARIUM ESSE POSSIBILE ESSE
SEQUITUR, ƿ id est si necessitati possibilitas consentit. NAM SI NON SEQUITUR,
id est si neget aliquis ut possibilitas necessitatem sequatur, CONTRADICTIO
CONSEQUITUR, possibilitatis scilicet contradictio. Nam quod possibilitas non
sequitur, contradictio possibilitatis sequitur, ea scilicet quae dicit non
possibile esse. Et praetermisit quod ex his esset impossibile. Hoc autem est
ut, si necessitatem possibilitas non sequatur et contradictio possibilitatis
consentiat, sit recta consequentia: si necessarium est esse, non possibile est
esse, quod est inconveniens. ET SI QUIS NON HANC DICAT ESSE CONTRADICTIONEM, id
est si quis neget possibilitatis contradictionem esse quae dicit non possibile
esse, illud certe ei NECESSE EST DICERE quod possibilitatis contradictio ea sit
quae dicit POSSIBILE esse NON ESSE. SED UTRAEQUE FALSAE SUNT DE NECESSE ESSE.
Nam quod necesse est, fieri non potest ut non possibile sit, et rursus quod
necesse est, fieri non potest ut possibile sit non esse. RURSUS IDEM VIDETUR
ESSE POSSIBILE INCIDI ET NON INCIDI. Possibilitas enim affirmationi
negationique communis est. Namque ET ESSE ET NON ESSE potest quod possibile
esse dicitur. HOC AUTEM FALSUM est, id est de necessario praedicari. Necessarium
namque si est, non esse non poterit; si non est, nulla ratione contingit. Quod
si quis dicat quoniam possibilitas necessitatem sequitur, eadem possibilitas
consentit contingenti et ERIT NECESSE ESSE CONTINGERE NON ESSE, id est erit
contingens id quod necesse ƿ esse praedicatur. Nam si quod possibile est potest
non esse, quod autem potest non esse contingit ut non sit, non dubium est quin,
si necessitatem possibilitas sequitur, sequatur eam quoque et contingentia.
Sed, contingens possumus dicere in negatione, ut dicatur contingit non esse:
est igitur quod necesse est esse contingens non esse. HOC AUTEM FALSUM EST.
Atque hic quidem ordo sermonum est, ut in aliis fere omnibus perplexus atque
constrictus: alias enim similitudo enuntiationum, alias id quod deest
implicitam reddit obscuramque sententiam. Quod si quis Aristotelis verbis
seriem nostrae expositionis adnectat et quod illic propter similitudinem
confusum est per expositionis nostrae distinctionem ac separationem disgreget,
quod vero in Aristotelis sermonibus minus est hinc compenset, sententiae ratio
totius elucebit.Nunc ergo quoniam proposuit quaestionem, eam continenter
exsequitur his verbis: MANIFESTUM AUTEM QUONIAM NON OMNE POSSIBILE VEL ESSE VEL
AMBULARE ET OPPOSITA valET SED EST IN QUIBUS NON SIT VERUM, ET PRIMUM QUIDEM IN
HIS QUAE NON SECUNDUM RATIONEM POSSUNT, UT IGNIS CALFACTIBILIS ET HABET viM
IRRATIONABILEM. ERGO SECUNDUM RATIONEM POTE, STATES IPSAE EAEDEM PLURIMORUM
ETIAM CONTRARIORUM. IRRATIONABILES VERO NON OMNES SED QUEMADMODUM DICTUM EST,
IGNEM NON EST POSSIBILE ƿ CALEFACERE ET NON, NEC QUAECUMQUE ALIA SEMPER AGUNT.
ALIQUA VERO POSSUNT ET SECUNDUM IRRATIONABILES POTESTATES SIMUL QUAEDAM
OPPOSITA. SED HOC QUIDEM IDCIRCO DICTUM EST QUONIAM NON OMNIS POTESTAS
OPPOSITORUM EST NEC QUAECUMQUE SECUNDUM EANDEM SPECIEM DICUNTUR. Cum de
possibilis et necessarii consequentia dubitasset cumque si possibilitas
necessitati consentiret, quod erat incommodum, vel si possibilitas rursus
necessitatem sequeretur necessitas ipsa cui possibilitas consentiret in se et
esse et non esse susciperet, nunc incongruentem ambiguitatem rationabili
argumentatione dissolvit dicens. Non vere illud metui, ne possibilitas
necessitatem sequens ipsam naturam necessitatis atque rigorem frangeret, ut id
quod necesse esset in contingentiam permPombaur neque enim, inquit, omne quod
possibile est esse et possibile est non esse. Sunt enim plura quae unam tantum
vim continent et ad negationem nullo modo sint apta, ut in his possibilitatibus
quas irrationabilis actus efficit. Nam cum sit possibile ignem calefacere, non
est possibile ut non calefaciat. Quare haec potestas non potest opposita. Si
qua enim potestas opposita potest, illa et esse potest et non esse et facere et
non facere, quae vero non potest opposita, unam ƿ rem tantum potest, quae
affirmationem tantum dat, negationem vero repudiet. Si quis ergo ponat
possibilitatem necessitati consentire, non idcirco iam necesse est ipsam
necessitatem in contingentiam verti, cui contingenti scilicet possibilitas
consentit. Non enim, inquit, omne possibile utrumque potest, id est et posse
esse et posse non esse, atque ideo non omne possibile contingentiae consentit.
Docet autem hoc his modis: IN HIS, inquit, QUAE NON SECUNDUM RATIONEM POSSUNT,
possibilitas quae esse dicitur non valet opposita, ut ignem calefacere
irrationale est. Nulla onim ratio est cur ignis calefaciat: omnium namque quae
naturaliter fiunt nulla ratio est. Ergo haec quorum potestas irrationabilis est
non possum opposita, ut ignis non potest calefacere et non calefacere. Si enim
utrumque possint, opposita possum. Calefacere enim et non cale. Facere opposita
sunt. Cum ergo irrationabiles potestates et opposita agendi non habeant
facultatem, illa quae secundum rationem fiunt ad oppositorum aecum actuary
poterunt retineri, ut quicquid ex voluntate et ratione conceptum est ad
utrumque valeat, medicinam mihi exercere et possibile est et possibile non est
vel rursus ambulare. Quod enim quisquis animi ratione vel appetentia uult, hoc
ex ratione venire dicitur. Et in his omnibus illa potestas est quae ad utrumque
valeat, id est et ad affirmationem et ad negationem, ut sit scilicet et non
sit. In his autem quae sunt ƿ irrationabilia, licet in solis evenire possit, ut
ea potestas quae dicitur non etiam possit opposita, tamen non omnis
irrationabilis potestas opposita non potest, ut aqua et friget et humida est:
ergo et frigescere potest facile et humectari sed eadem permutata in calidam
potest frigescendi non habere vim, cum non possit humectandi amittere
potestaten, dum aqua sit. Quocirca non omnis potestas opposita valet sed valet
quidem opposita potestas ea quae secundum rationabiles motus valuit, illa vero
potestas quae opposita non valet in solis irrationabilibus invenitur, licet non
in omnibus. Sunt enim irrationabiles potestates quae utrumque possint, ut id
quod dictum est de aquae frigore. Et tota quidem sententiae vis talis est, nunc
quis sermonum ordo sit explicetur. MANIFESTUM, inquit, est QUONIAM NON OMNE
POSSIBILE VEL ESSE VEL AMBULARE ET OPPOSITA valET. Quod ita dictum esse
manifestum est, non ut putaremus quoniam omne quod ambulare potest vel quod
esse potest non possit opposita, id est non possit non esse: hoc enim videtur
textus ostendere sed nemo ita intellegat potiusque sic dictum videatur:
manifestum est quoniam non omne possibile, ut possibile frequenter solemus
usurpare, cum dicimus possibile esse ambulare, opposita valet. Neque enim quod
omnis potestas affirmationi negationique conveniat sed sunt quaedam quae unum
tantum possint, ut supra iam diximus. Atque hoc apertius intellegitur si ita
dicamus: manifestum est autem quoniam non ƿ omne possibile et opposita valet,
quoniam scilicet possibile frequenter et de esse et de ambulare praedicamus. Hoc
ita cogitans facilius quis agnoscit, quid ipsius textus verba denuntient, cum
etiam adminiculari quis debeat obscuris sensibus patientia atque consensu, quod
ad sententiam potius dicentis exspectet, etsi se sermonum ratio ita non habeat.
Hoc ergo ita constituto manifestum esse scilicet non omnes potestates opposita
valere sed esse quasdam IN QUIBUS NON SIT VERUM dicere quoniam opposita valent,
[et] datur exemplum: in his quidem primum quae irrationabiliter possunt, id est
non secundum aliquam rationem, quarum scilicet potestatum reddi ratio non
potest, quod ipsarum natura sit, ut quoniam ignis calfactibilis est, idcirco de
eo ratio reddi non potest: hoc namque illi naturaliter adest. Et haec quidem
ignis potestas non valet opposita, scilicet sit irrationalis, quae vero
rationabiles sunt et secundum rationabilem potestatem EAEDEM PLURIMORUM ETIAM
CONTRARIORUM SUNT. Nam quibus ratio dominatur, ad utraque opposita natura
ipsorum apta est, ut eaedem potestates sint plurimorum quae sunt contraria, ut
si est mihi possibile ambulare, quoniam hoc ex ratione et ex voluntate fit, sit
possibile non ambulare et est haec potestas non unius sed plurimorum eorumque
contrariorum. Licet enim affirmatio et negatio sit quodammodo ambulare et non ƿ
ambulare, tamen nunc ab Aristotele in contrarii vice disponitur. Et hoc quidem
in omnibus rationabilibus potestatibus planum est eas plurimorum esse
contrariorum et opposita valere, quae vero secundum rationem non sunt, licet
sint quaedam quae opposita valeant, non tamen omnia. Nam cum aqua frigendi
habeat potestatem, quod est irrationabile, est ei rursus alia potestas
calefaciendi, cum ipsa sit calefacta sed non in omnibus potestatibus
irrationabilibus hoc inveniri potest. Ignis enim (ut dictum est) unam
calefaciendi tantum videtur habere potestatem. Hoc est enim quod ait:
IRRATIONABILES VERO NON OMNES, id est opposita valent sed QUEMADMODUM DICTUM
EST, IGNEM NON EST POSSIBILE CALEFACERE ET NON, daturque in omnibus regula quae
non sint possibilia contrariorum, ea scilicet quae semper unam rem actu
continent, ut ignis semper calet, sol semper movetur et caetera huiusmodi, quod
per hoc ait quod dixit: NEC QUAECUMQUE ALIA SEMPER AGUNT. Aliqua vero possunt
quaedam opposita etiam secundum irrationabiles potestates, ut dictum est de
aqua. Sed hoc idcirco dictum esse testatur, ut cognosceremus nihil evenire contrariorum,
si quis diceret possibilitatem necessario consentire. Cum enim non omnis
possibilitas contraria valeret, ea scilicet necessitati consentit, quae
contraria non valet sed unam rem semper agit. Hoc est enim quod ait: SED HOC
QUIDEM IDCIRCO DICTUM EST, QUONIAM NON OMNIS POTESTAS OPPOSITORUM EST, NEC
QUAECUMQUE SECUNDUM EANDEM SPECIEM DICUNTUR. Quod ait: NEC QUAECUMQUE SECUNDUM
EANDEM SPECIEM DICUNTUR tale est: non modo, inquit, omne quod dicitur possibile
contrariorum esse potest sed etiam quae sub eadem specie sunt quaedam contraria
non possunt, ut ea quae sunt irrationabilium. Nam cum omnium irrationabilium in
eo quod irrationabilia sunt una sit species, tamen ne in his quidem inveniri
potest, ut in omnibus eadem sit contrariorum potestas, ut de igne quod supra
iam dictum est. Nam cum eius irrationabilis sit potestas, non tamen talis est
ut ad contraria transferatur. Recte igitur dictum est, quoniam nec quae sub
eadem specie sunt poterunt omnia contrariorum esse potentia. Nam cum ignis
potestas cum aliis omnibus potestatibus irrationabilibus sub eadem sit specie,
quod irrationabilis est potestas, tamen non valet opposita. Atque hoc quidem
quod attemptare possit totam quaestionem, non tamen validissime dissoluere
praedixit: quo vero maxime dirigat dubitationem ambiguitatemque constituat,
ipse continuata oratione adicit dicens: QUAEDAM VERO POTESTATES AEQUIVOCAE
SUNT. POSSIBILE ENIM NON SIMPLICITER DICITUR SED HOC QUIDEM QUONIAM VERUM EST
UT IN ACTU, UT POSSIBILE EST AMBULARE QUONIAM AMBULAT, ET OMNINO POSSIBILE EST
ESSE QUONIAM IAM EST ACTU QUOD DICITUR POSSIBILE, ILLUD VERO QUOD FORSITAN
AGET, UT POSSIBILE EST AMBULARE QUONIAM AMBULABIT. ET HAEC QUIDEM IN MOBILIBUS
SOLIS EST POTESTAS, ILLA VERO ET IN IMMOBILIBUS. IN ƿ UTRISQUE VERO VERUM EST
DICERE NON IMPOSSIBILE ESSE AMBULARE VEL ESSE, ET QUOD AMBULAT IAM ET AGIT ET
AMBULABILE. SIC IGITUR POSSIBILE NON EST VERUM DE NECESSARIO SIMPLICITER
DICERE, ALTERUM AUTEM VERUM EST. QUARE QUONIAM PARTEM UNIVERSALE SEQUITUR,
ILLUD QUOD EX NECESSITATE EST SEQUITUR POSSE ESSE SED NON OMNINO. Quid haec
sententia contineret, quam nunc Aristoteles proposuit, quinto quidem libro
diligenter expressimus et nunc eam breviter exsequimur. Expositionis enim causa
doetrinaeque hunc nobis secundum expositionis sumpsimus laborem, non augendi
prolixitate fastidii. Talis ergo est tota sententia: possibile quod frequenter
in rebus dicimus non simpliciter dicitur atque ideo quoniam possibile a
potestate traductum est, ipsa quoque potestas aequivoca est. Hoc hinc
manifestum est, quod quaedam possibilitates ad hoc dicuntur non quoniam aguntur
sed quoniam ut agantur nihil impedit, ut si de aliquo sano corpore omnibusque
aliis quae impedire poterant remotis sedente dicatur possibile esse eum
ambulare, non quoniam ambularet sed quoniam ut ambularet nihil omnino prohibet.
Quaedam vero potestates ita dicuntur quoniam iam actu sunt atque aguntur, ut si
quis de ambulante homine dicat possibile eum esse ambulare. Atque ideo illa
possibilitas quae non secundum actum aliquem dicitur sed secundum id quod
posset agere dicitur, eo quod agere non prohibetur, a potestate possibilitas ƿ
nominatur. Haec vero quae iam agit atque in actu est, actus ipse, possibilitas
appellatur. Duae ergo significationes sunt possibilitatis: una quae eam
possibilitatem designat quae est potestate, quae scilicet actu non sit, altera
quae eam possibilitatem significet quae iam actu sit. Haec autem possibilitas
quae iam actu est aut ex potestate ad actum transit aut semper in actu
naturaliter fuit, ut cum homo ex eo quod sedet ambulat, potest ambulare atque
ideo ex potestate in actum vertit, sol vero cum movetur, numquam ex potestate
in actum vertit (neque enim aliquando hunc motum non egit) neque ignis ut nunc
caleret, aliquando non caluit. Ergo ea rursus possibilitas quae secundum actum
aliquem dicitur duas intra se species continet: unam quae talem actum
possibilitatis designet, quem non esse non liceat, et haec dicitur necessaria
et numquam ex potestate in actum vertit sed in actu naturaliter mansit; alterum
vero quod liceat et non esse, quod scilicet ex potestate in actum migravit, et
hoc non necessarium, cum sit actu. Et haec talis potestas, quae ex potestate in
actum vertit, in solis mobilibus est, hoc est quae moveri possunt, haec autem
sunt corporalia. Incorporalia enim non moveri quibus rationibus adstruatur
paulo post dicemus. Illae vero quae semper in actu propria naturae qualitate
manserunt, et in mobilibus inveniuntur, ut igni calor qui semper actu et
numquam fuerit potestate, ƿ et in his quae sunt immobilia, haec autem sunt
incorporalia et divina. Quare potestas ea quae ex potestate in actum migravit
solorum est corruptibilium et corporalium, ea vero quae semper actu fuit
divinis corporalibusque communis est. Ut igitur tota ratio breviter accingatur,
ita dicendum est: possibilitas aequivoca est et multa significans. Est enim una
possibilitas quae ipsa quidem non sit in actu, esse tamen possit atque ideo de
ea possibilitas praedicetur, est autem alia quae iam est actu. Haec autem
potestas quae iam actu est non est aequivoca sed genus. Habet enim sub se
species eam potestatem quae actu quidem est sed ex potestate migraverit, aliam
vero quae actu est sed ex potestate non migravit. Et illa quidem quae ex
potestate non migraverit, ipsa dicitur necessaria, quae numquam relinquet
subiectum, illa vero quae ex potestate ad actum transiit sine ulla dubitatione
dicitur non necessaria, idcirco quod poterit relinquere aliquando subiectum.
Sed de his utrisque, scilicet quae vel in potestate vel in actu possibilitates
dicuntur, communis poterit esse praedicatio, si dicamus utrasque esse non
impossibiles. Nam et qui potest ambulare, cum non ambulet, et qui iam ambulat,
verum est de his dicere quoniam non est impossibile eos id agere quod possunt
agere vel agunt. Cum vero sub significatione possibilitatis duo sint: una
possibilitas quae actu non est, alia vero quae actu est, illa possibilitas quae
secundum potestatem dicitur necessario non accommodatur neque aliquando
necessitati poterit consentire. Restat igitur, ut sub ea possibilitate necessitas
ponatur quae actu est. Sed ea ƿ quoque habet unam speciem per quam ex potestate
in actum migrat, quae est non necessaria: quare ne in hac quidenu potest poni
necessitas. Restat igitur ut, quoniam id quod necesse est esse nullus negat
esse possibile, sub possibili est autem et ea quae potestate esse dicitur sed
necessitas non ponitur neque sub ea potestate quae actu est et poterit
subiectum relinquere, ponatur sub eo actu qui subiectum relinquere non potest,
ut sit necessitas possibilitas quae sit actu et subiectum numquam relinquat, eo
quod ad actum ex potestate non venerit. Species igitur quaedam erit necessitas
possibilitatis, siquidem illic ponitur, ubi est ea possibilitas quae actu
semper est. Quod quoniam speciem sequitur genus et ubi est species genus deesse
non potest, sequitur speciem suam, id est necessitatem, genus proprium, id est
possibilitas sed non omne. Ea vero possibilitas necessitatem non sequitur, quae
potestate tantum est, non etiam actu, neque ea quae cum sit actu relinquere
subiectum potest sed ea tantum quae cum actu sit numquam poterit a subiecto
discedere. Sequitur ergo possibilitas necessitatem nihilque evenit impossibile
sed ea, ut dictum est, quae in actu sit et numquam in subiecto natura esse
desistat. Totus quidem sensus huiusmodi est, ratio vero verborum ita constabit:
QUAEDAM VERO, inquit, POTESTATES AEQUIVOCAE SUNT. Hoc idcirco dictum est,
quoniam non omnis potestas aequivoca est. Est enim potestas quae ut genus sit,
ea scilicet quae secundum actum praedicatur. Quemadmodum autem quaedam
potestates aequivocae sint exsequitur dicens: POSSIBILE ENIM NON SIMPLICITER ƿ
DICITUR, ET HOC PARTITUR: SED HOC QUIDEM QUONIAM VERUM EST UT IN ACTU, UT
POSSIBILE EST AMBULARE, QUONIAM AMBULAT, ET OMNINO POSSIBILE EST ESSE, QUONIAM
IAM EST ACTU QUOD DICITUR POSSIBILE. Hoc planius nihil poterit demonstrari quin
illud possibile dicat, quod iam agitur. Quod si quis possibile esse neget, hoc
agi et fieri atque esse dicit quod impossibile est sed hoc omnem modum
irrationabilitatis excedit. Aliam vero partem significationis possibilitatis
hanc dicit: ILLUD VERO QUOD FORSITAN AGET, et dat huius exemplum, UT POSSIBILE
EST AMBULARE, QUONIAM AMBULABIT. Non ergo quod iam agit sed QUOD FORSITAN AGET,
id est quod ut agat fortasse nihil prohibet. ET HAEC QUIDEM, inquit, IN
MOBILIBUS SOLIS EST POTESTAS, haec scilicet possibilitas quae potestate dicitur
non secundum actum. Mobilia vero, ut dictum est, sola corpora dicit. ILLA VERO,
id est quae actu sunt, ET IN IMMOBILIBUS, id est divinis. Atque ideo addidit
haec cum dicit et IN IMMOBILIBUS, ut non suspicemur in solis esse divinis actus
possibilitatem sed etiam in mortalibus atque corporeis. IN UTRISQUE VERO VERUM
EST DICERE NON IMPOSSIBILE ESSE AMBULARE VEL ESSE, ET QUOD AMBULAT IAM ET QUOD
AGIT ET AMBULABILE. In utrisque, inquit, significationibus una praedicatio
poterit convenire, ut dicamus non esse impossibile ƿ vel ambulare quod iam
ambulat vel ambulare quod potest ambulare et non ambulat, quod per hoc ait quod
dixit AMBULABILE. Ambulabile enim est quod non quidem ambulet, possit tamen
ambulare. His addit: SIC IGITUR POSSIBILE NON EST VERUM DE NECESSARIO
SIMPLICITER DICERE, id est sic possibile, quemadmodum aequivoce possibilitas
praedicatur, non est verum de necessario simpliciter et universaliter atque
omnino praedicare, hoc est non omne possibile necessario consentit. ALTERUM
AUTEM id est possibile VERUM EST, hoc est de necessario praedicare, illud
scilicet quod secundum actum dicitur immutabilem. QUARE QUONIAM PARTEM suam, id
est speciem, id quod est UNIVERSALE, id est genus, SEQUITUR, ILLUD QUOD EX
NECESSITATE EST, quod scilicet species est possibilitatis, SEQUITUR POSSE ESSE,
id est possibilitas SED NON, inquit, OMNINO. Nam illa possibilitas, quae in
actu praedicatur et relinquere subiectum potest, non sequitur necessitatem sed
ea tantum, quae cum in actu sit neque ex potestate in actum vertit neque poterit
subiectum relinquere. Atque haec quidem quae Aristoteles dixit huiusmodi sunt,
quae vero nos distulimus, ut doceremus immobilia esse divina, mobilia vero sola
corpora vocari brevissime demonstrandum est. Sex motus species esse manifestum
est, sicut in praedicamentorum libro Aristoteles digessit, quamquam hoc in
physicis permutaverit. Sed nunc ita ponamus tamquam si omnino sex sint. Si
secundum nullam motus speciem moveri divina atque incorporalia ratio
declaravit, ordine conuincitur non moveri divina. Ergo neque generantur neque
corrumpuntur neque crescunt neque minuuntur neque de loco in locum transeunt,
quippe quae plenitudine naturae suae ubique tota sunt nec de deo aliquid
intellegi fas est, nec rursus aliqrubus passionibus permutantur. Quod si
secundum nullum horum motuum divinarum rerum permutabilis est natura,
manifestum est ea omnino non esse mobilia atque sex motus hos solis corporibus
evenire. Atque hoc quidem de plurimis quae de ea re possunt dici rationibus
atque argumentis limasse sufficiat. Nunc quoniam Aristoteles consentire
necessario possibilitatem non omnem docuit et quae ei conveniret expressit,
rursus de ipsorum consequentia et quid primo, quid posterius poni debeat,
memoriter subicit dicens: ET EST QUIDEM FORTASSE PRINCIPIUM QUOD NECESSARIUM
EST ET QUOD NON NECESSARIUM OMNIUM VEL ESSE VEL NON ESSE, ET ALIA UT HORUM
CONSEQUENTIA CONSIDERARE OPORTET. MANIFESTUM EST AUTEM EX HIS QUAE DICTA SUNT,
QUONIAM QUOD EX NECESSITATE EST SECUNDUM ACTUM EST, QUARE SI PRIORA SEMPITERNA,
ET QUAE ACTU SUNT POTESTATE PRIORA SUNT. ET HAEC QUIDEM SINE POTESTATE ACTU
SUNT, UT PRIMAE SUBSTANTIAE, ƿ ALIA VERO CUM POTESTATE, QUAE NATURA PRIORA
SUNT, TEMPORE VERO POSTERIORA, ALIA VERO NUMQUAM SUNT ACTU SED POTESTATE SOLUM Postquam
de possibilis et necessarii consequentia quid videretur exposuit, haec ad
emendationem quodammodo superioris ordinis apponit, ut quoniam superius a
possibili inchoans caeteras omnes propositiones ad possibile et contingens et
ad eorum consensum reduxit, nunc hoc rationabiliter mPomba, ut non potius a
possibilitate inchoandum sit sed a necessitate. Nam si quis animadvertat
diligentius superiorem descriptionem, primo positum est possibile et contingens
et ad eadem cunctorum consensus relatus est. Nunc autem hoc permutatum videtur.
Dicit enim fortasse hoc esse rectius, ut magis propositionum consequentia a
necessariis inchoetur. Est autem totus sensus huiusmodi: quoniam, inquit,
necessaria sempiterna sunt, quae autem sempiterna sunt omnium aliorum quae
sempiterna non sunt principium sunt, necesse est ut id quod necessarium est
caeteris omnibus prius esse videatur. Ergo consequentiae quoque eodem modo
faciendae sunt, ut primo quidem necessitas, post vero possibilitas et caetera
proponantur, sintque consequentiae hoc modo: Necesse esse Non necesse esse Non
possibile esse non esse Possibile esse non esse Necesse esse non esse Non
necesse esse non esse Non possibile esse Possibile esse ƿ Videsne igitur
ut primo quidem necesse esse et non necesse esse propositum sit, secundo vero
loco ad necessitatis caetera consensum consequentiamque relata sint? Hoc est
ergo quod dixit fortasse principium quoddam esse omnium vel esse vel non esse
id quod esset necessarium, ut a necessario speculandarum propositionum
principium sumeretur, quod esse aliarum propositionum vel non esse secundum
consequentiam consensum constitueret. Et quoniam prius positum est necesse
esse, huic consentit ea quae dicit non possibile esse non esse. Istius ergo
propositionis quae dicit non esse possibile ut non sit, quae scilicet non esse
denuntiat (tollit enim possibile quod modus est), principium est necessitas,
cui sine ulla dubitatione consentit. Et rursus quoniam ei quae dicit non
necesse esse consentit ea quae dicit possibile est non esse, huius
propositionis, quae aliquid esse constituit, id est possibile, principium est
ea propositio quae dicit non necesse est. Ergo sive affirmative necessitas
proponatur sive negative, vide principium quoddam esse caeterorum et caetera
velut his, id est necessarlis, consentientia iudicari oportere. Et hoc est quod
ait: ET ALIA QUEMADMODUM ISTA CONSEQUENTIA CONSIDERARE OPORTET. Cur autem istud
eveniat, consequenter ostendit dicens: quoniam ea quae necessaria sunt actu ƿ
sunt, ut frequenter supra monstratum est, ea vero quae necessaria sunt
sempiterna sunt, quae vero sempiterna sunt priora sunt his quorum sunt
huiusmodi potestates quae in actu nondum sint, manifestum est quoniam et quae
actu sunt et potestate ad actum non veniunt priora sunt. Sed de eo actu
loquimur, qui ex potestate ad actum non venit sed semper actu propriae naturae
constitutione permansit, ut cum ignis calet vel sol movetur et caetera
huiusmodi ita sunt, ut actum numquam reliquerint neque ab his actus afuerit
aliquando neque ex potestate ad hunc venerint actum. Quoniam ergo huiusmodi
fuerunt ut semper essent, quae autem semper sunt, ea omnibus sunt priora, erunt
etiam potestate secundum propriam naturam priora. Sed quae priora semper
sempiterna sunt et rursus eadem necessaria, actu sunt et necesse est, ut ea
quae actu sunt his quae sunt potestate priora sint. Post haec fit ab Aristotele
divisio rerum hoc modo: rerum aliae sunt actu semper, qui ex potestate non
venerit, et istae sunt quarum nullae sunt potestates sed semper in actu sunt.
Aliae vero quae in actum ex potestate migraverint, quarum quidem substantia et
actus secundum tempus posterior est potestate, natura vero prior. In omnibus
enim illud quod est actu prius est et nobilius quam id quod potestate est.
Illud enim quod potestate est adhuc ad actum festinat atque ideo perfectio
quidem est actus, ƿ potestas vero adhuc quiddam est imperfectum, quod tunc
perficitur cum ad actum aliquando peruenerit. Quod autem perfectum est eo quod
est imperfectum generosius et prius esse manifestum est. Nam si res quae ad
actum suum ex potestate venerunt, prius fuerunt potestate, post vero actu, ergo
actus earum rerum posterior est potestate, si ad tempus referamus, prior vero eadem
potestate, si ad naturam. Et hoc est quod ait: alias res esse, quae cum
possibilitate sunt et actu sunt sed actum potestate tempore quidem posteriorem
habeant, natura vero priorem, quasdam autem res esse in quibus sola potestas
sit, numquam actus, ut numerus infinitus. Crescere enim potest in infinita
numerus, quicumque vero numerus dictus sit vel centum vel mille vel decem milia
et caeteri finitos; esse necesse est. Ergo actu numerus numquam est infinitus,
quoniam vero potest in infinita concrescere, idcirco solum potestate est
infinitus. Eodem quoque modo et tempus. Quantumcumque enim tempus dixeris
finitum est sed quoniam tempus potest in infinita concrescere, idcirco dicimus
tempus esse infinitum, quod potestate sit infinitum, non actu. Nihil enim actu
esse poterit infinitum. Quod autem supra dixit quae semper actu essent primas
esse substantias, non ita putandum est primas eum substantias dicere
quemadmodum in categoriis, ubi primas substantias indinduas dicit. Hic autem
primas substantias quae semper ƿ actu sunt idcirco nominat quia, ut dictum est,
quae semper actu sunt principalia caeterarum rerum sunt atque ideo primas eas
substantias esse necesse est. UTRUM AUTEM CONTRARIA EST AFFIRMATIO NEGATIONI ET
ORATIO ORATIONI QUAE DICIT QUONIAM OMNIS HOMO IUSTUS EST EI QUAE EST NULLUS
HOMO IUSTUS EST AN OMNIS HOMO IUSTUS EST EI QUAE EST OMNIS HOMO INIUSTUS EST?
CALLIAS IUSTUS EST, CALLIAS IUSTUS NON EST, CALLIAS INIUSTUS EST: QUAE HARUM
CONTRARIA EST? Post propositionum consequentias pertractatas easque subtili
inquisitione dispositas illud exoritur inquirendum, quod magnam in se
utilitatem ita praefert, ut quanta in eo vis utilitatis sit, prima quoque
fronte legentium mentibus ingeratur. Nam cum sit manifestum, quoniam
affirmationem opposita negatio semper oppugnat maximeque perimet universalem
affirmationem universalis negatio quoniamque non ignoratur, quod affirmatio
quae contrarium affirmat ipsa quoque contrarii perimat propositionem, quaeritur
quae magis perimat magisque oppugnet affirmativam, utrumne ea quae universalis
negatio est an ea quae contrarii vel privationis affirmatio. Sit enim positum
hanc esse affirmationem quae proponit OMNIS HOMO IUSTUS EST, hanc ergo duae
perimunt propositiones, et universalis scilicet negatio quae dicit quoniam
NULLUS HOMO IUSTUS EST et ea quae privationem ƿ iustitiae praedicat affirmando,
ea scilicet quae dicit OMNIS HOMO INIUSTUS EST. Affirmatio igitur quae
proponit: Omnis homo iustus est perimitur et a negatione propria
universali quae dicit: Nullus homo iustus est et ab affirmatione
privatoria quae proponit: Omnis homo iniustus est Cum igitur ab utrisque
perimatur, quod autem perimitur ei quod [eam] perimit videtur esse contrarium
quoniamque a duobus, ut dictum est, perimitur et duae unius contrariae esse non
possunt, quae duarum propositionum quas supra memoravimus, id est negationis
universalis et privatoriae affirmativae, contraria sit universali affirmationi
superius comprehensae? In qua re quam sit utilis quaestio nullus ignorat, qui
cogitat, quia nisi hoc ab Aristotele quaesitum enodatumque esset, magnam fore
dubitationem, an illud reciperetur, ut duo unius possent esse contraria, quod
manifesto fieri non potest. Nam cum duo unam rem perimant, quis esset qui
dubitaret aut unam rem duabus opponi aut duabus unam rem perimentibus quaeri
oportere, quae magis earum videretur contraria? Contrarias autem nunc dicimus
non secundum eum modum, quem Aristoteles in praedicamentis explicuit sed tantum
ad id quod res rem vel propositio perimit propositionem, ut quasi hoc modo ƿ
quaeratur: affirmatio universalis secundum quam magis perimitur, utrumne
secundum eam quae universalis est negatio an secundum eam quae vel prirationem
praedicat vel quodlibet aliud quod ex ipsa oppositione vim contrarii
repraesentet? Unde etiam illud latere non oportet, nulli esse dubium inter
universalem affirmationem privatoriam et universalem negationem quae esset
opposita contrarie. Supra enim iam dictum est affirmationi universali
negationem universalem esse contrariam sed hic, ut dictum est, non hoc dicitur
sed illud potius quae magis perimat rem. Nam quae magis perimit ea propemodum
magis videbitur esse contraria. Atque ideo non solum de universalibus proposuit
sed ne suspicaretur quis quod illam contrarietatem diceret quam vel in
praedicamentis locutus est vel rursus supra cum de universali affirmatione et
negatione loqueretur, de particularibus adiecit, quibus non erat contrariae
oppositionis affirmatio atque negatio. Nam si recte superius comprehensa
meminimus, affirmatio universalis et negatio universalis contrariae esse
dicebantur. Nec solum hoc sed etiam secundum iustum et iniustum constituit
quaestionem, quod habitus et privatio potius est quam ulla contrarietas. Quare,
ut diximus, intellegendum est esse nunc in quaestione, quae propositio quam
propositionem proxime efficaciusque destruat ac perimat. Huius inquirendae rei
via exsistet hoc modo: NAM SI EA QUAE SUNT IN VOCE SEQUUNTUR EA ƿ QUAE SUNT IN
ANIMA, ILLIC AUTEM CONTRARIA EST OPINIO CONTRARII, UT OMNIS HOMO IUSTUS EI QUAE
EST OMNIS HOMO INIUSTUS, ETIAM IN HIS QUAE SUNT IN VOCE AFFIRMATIONIBUS NECESSE
EST SIMILITER SESE HABERE. QUOD SI NEQUE ILLIC CONTRARII OPINATIO CONTRARIA
EST, NEC AFFIRMATIO AFFIRMATIONI ERIT CONTRARIA SED EA QUAE DICTA EST NEGATIO.
QUARE CONSIDERANDUM EST, QUAE OPINATIO VERA FALSAE OPINIONI CONTRARIA EST,
UTRUM NEGATIONIS AN CERTE EA QUAE CONTRARIUM ESSE OPINATUR. DICO AUTEM HOC
MODO. EST QUAEDAM OPINATIO VERA BONI QUONIAM BONUM EST, ALIA VERO QUONIAM NON
BONUM FALSA, ALIA VERO QUONIAM MALUM. QUAENAM ERGO HARUM CONTRARIA EST VERAE?
ET SI EST UNA, SECUNDUM QUAM CONTRARIA? Haec investigatio, quae magis sit
universali affirmationi contraria, utrumne privatoria universalis affirmatio an
universalis negatio, hinc sumitur quod omnis fere proprietas, quam in vocibus
venire necesse est, ex opinionibus venit quas voces ipsae significant. Quod
igitur quaerendum in vocibus est, hoc prius est in opinionibus perspiciendum.
Neque enim fieri potest ut, cum vocum significatio ex opinionibus veniat, quas
scilicet voces ipsae significant, non prius proprietates vocum in opinionibus
reperiantur. Requirendum igitur ƿ est quemadmodum se ista in opinionibus posita
habeant, ut quod in his fuerit repertum ad voces rationabiliter transferatur. Quaeratur
igitur prius in opinionibus hoc modo: si opinio privatoriae universalis
affirmationis magis est contraria opinioni simplicis universalis affirmationis
quam opinio universalis negationis, manifestum quoniam privatoria universalis
affirmatio magis perimit universalem simplicem affirmationem quam universalis
negatio. Quod si illud magis ratio reppererit, quod opinio negationis
universalis opinionem affirmationis universalis magis perimat potius quam
opinio privatoriae affirmationis opinionem universalis affirmationis, constat
quod universalis negatio magis contraria est universali affirmationi potius
quam privatoria affirmatio. Hoc autem ut inveniatur, ita faciendum est: ponatur
opinio quaedam vera, contra eam duae falsae, quarum una affirmatio sit
privatoria, altera universalis negatio. De duabus igitur falsis quam mendaciorem
ratio invenerit, eam dicimus verae opinioni magis esse contrariam. Sint igitur
tres opiniones, una vera, duae falsae, et sit quidem vera haec quae id quod
bonum est bonum esse arbitratur, ea scilicet quam dicit Aristoteles opinionem
esse BONI QUONIAM BONUM EST; sit autem ex falsis una quae id quod bonum est non
bonum esse arbitratur, quam Aristoteles dicit falsam opinionem ƿ boni quoniam
NON BONUM EST; reliqua quae id quod bonum est malum esse arbitratur ea est quae
ab Aristotele dicta est opinio boni quoniam malum est. Ex his igitur tribus,
una vera, duabus falsis, quaerendum est quae magis sit contraria verae. Sed
quia contingit saepe et negationem et privationem unum significare, in his
praesertim contrariis in quibus nulla medietas invenitur, addit: ET SI EST UNA,
SECUNDUM QUAM CONTRARIA? Hoc autem huiusmodi est: in his contrariis in quibus
nulla medietas est idem negatio valet quod etiam privatio, in his vero in
quibus est quaedam medietas affirmatio privatoria et negatio non eiusdem
significationis sunt. Age enim sint huiusmodi contraria quae sint immediata
genitum esse et ingenitum esse. In contrariis igitur immediatis idem privatoria
affirmatio quod negatio valet, in his autem quae medietatem habent non idem.
Neque enim aequum est dicere quemlibet illum esse malum et rursus non esse
bonum. nam cum bonum negatur, potest aliquid medium audientis animus suspicari;
cum vero malum ponitur, tota audientis suspicio in contrarium reiecta est,
atque ideo non idem significant. Sed quia saepe (ut dictum est) privatio vel
contrarietas negationi consentit, quotiens tales quaedam propositiones
reperiuntur, in quibus nihil negatione diserepet privatoria affirmatio,
quaerendum est, ut Aristoteli videtur, secundum quam potius prolationem ƿ vel
opinionem verae affirmationi vel opinioni contraria propositio vel opinio fiat.
Quamquam enim interdum idem eignificent, alio tamen modo ipsis propositionibus
utuntur. Nam qui negationem ponit id quod est dicit non esse, qui vero
privationem id quod non est dicit esse. Cum igitur diversum initium et diversa
intentio quodammodo sit propositionum sub eadem significatione, et quae earum
magis verae propositioni contraria sit et secundum quem motum animi magis vera
propositio perimatur quaerendum est. Hoc est enim quod ait: ET SI EST UNA,
SECUNDUM QUAM CONTRARIA? Non enim dicit quoniam omnino negatio et privatio idem
sunt sed in his in quibus idem sunt, hoc est in immediatis contrariis, et
quando idem significant, quoniam non secundum unum motum animi unam
significationem dicunt, qui contrarium vel privationem ponunt et qui
negationem, secundum quam contraria magis est propositio, utrumne secundum eam
quae privationem ponit an secundum eam quae negationem? Post hoc quemadmodum
sit contrarietatis natura designat. NAM ARBITRARI CONTRARIAS OPINIONES DEFINIRI
IN EO, QUOD CONTRARIORUM SUNT, FALAUM EST. BONI ENIM QUONIAM BONUM EST ET MALI
QUONIAM MALUM EADEM FORTASSE ET VERA, SIVE PLURES SIVE UNA SIT. SUNT AUTEM ISTA
CONTRARIA SED NON EO QUOD CONTRARIORUM SINT CONTRARIAE SUNT SED MAGIS EO QUOD
CONTRARIE. Sensus quidem breviter expeditus sed summa rationis veritate
contextus est. Cum enim de contrariis disputat, quemadmodum contrariae
opiniones esse pos sint prima fronte disponit. Arbitratur enim quidam
contrarias esso opiniones, quae de contrariis aliquid arbitrarentur sed hoc
falsum esse conuincitur. Neque enim si bonum et malum contrarium est et aliqui
de bono et malo opinetur, mox necesae est ut contrarietas subsequatur. Age enim
quilibet de bono opinetur quoniam bonum est et rursus de malo opinetur quoniam
malum est. Cum igitur idem de bono et de malo opinetur, illud quoniam bonum,
illud quoniam malum, tamen contrariae opiniones non sunt. Neque enim contrarium
est opinari id quod bonum est bonum esse et id quod malum est malum esse. Utraeque
enim verae sunt, opinionum autem contrarietas in falsitate cognascitur. Quo
autem modo huiusmodi opiniones contrariae esse possunt, quae de eadem
quodammodo affectione animi proficiscuntur, id est opiniones cognoscentes quod
verum est? Non igitur si quis contrariorum aliquam opinionem habeat et quicquam
de contrariis arbitretur, statim necesse est subsequi in opinionibus
contrarietatem. Ergo non est contrarietas opinionum in ea arbitratione, quae
contrariorum est vel quae de contrariis habetur sed potius contrarietas in
opinionibus tunc fit, quotiens de una eademque re contrarie quisquam opinatur.
Ut ƿ quaelibet res sit proposita bona: de ea si quis contrario modo opinetur,
quoniam bonum est, de eadem rursus quoniam malum est, opinio quae id quod est bonum
bonum esse putat vera est, altera vero quae id quod est bonum malum esse
arbitratur falsa est, vera autem et falsa contrariae sunt. Recte igitur has
opiniones quas veritas falsitasque disiungit contrarias esse dicimus et sunt
non contrariorum sed de una eademque re per contrarietatem ductae. Recte igitur
dictum est non oportere definire contrarias opiniones in eo quod contrariorum
sint sed potius in eo quod de eadem re contrarie suspicentur. Ordo vero
sermonum talis est: NAM ARBITRARI, inquit, CONTRARIAS OPINIONES DEFINIRI IN EO,
QUOD CONTRARIORUM SINT, id est in eo quod quaedam de contrariis opinentur,
FALSUM EST. Quomodo autem falsum sit ipse declarat. BONI ENIM QUONIAM BONUM EST
ET MALI QUONIAM MALUM est EADEM FORTASSE est, id est non sibi sunt contrariae
opiniones sed utraeque idem sunt. Quemadmodum autem idem sint ipse subiunxit
dicens ET VERA. Idcirco enim idem sunt, quia verae sunt, contrarietas autem in
veritate, ut dictum est, et falsitate est posita. Qua in re si consentiunt,
idem in veritate et falsitate esse videbuntur. Nec hoc numerositas impediet.
SIVE ENIM PLURES SIVE UNA SIT, in eo quod verae sunt idem sunt. SUNT AUTEM,
inquit, ISTA CONTRARIA, id est quae in opinionibus versantur. SED NON EO QUOD
VEL CONTRARIORUM SUNT vel do contrariis arbitrantur, contrariae opiniones
inveniuntur sed ipsarum contrarietas inde nascitur, quod de una re contrario
modo opinantur. Hoc est qund ait: sed magis eo quod contrarie. Hic enim
contrarie adverbii loco positum est, tamquam si diceret: sed magis ea re contrariae
sunt, quod contrarie opinantur, et subintellegimus de una scilicet re. Si enim
non de una re contrarie opinentur sed de pluribus, poterunt non esse
contrariae. Quod facile cauteque perspiciens unusquisque reperiet. SI ERGO EST
BONI QUONIAM EST BONUM OPINATIO, EST AUTEM QUONIAM NON BONUM, EST VERO QUONIAM
ALIQUID ALIUD QUOD NON EST NEQUE POTEST ESSE, ALIARUM QUIDEM NULLA PONENDA EST,
NEQUE QUAECUMQUE ESSE QUOD NON EST OPINANTUR NEQUE QUAECUMQUE NON ESSE QUOD EST
(INFINITAE ENIM UTRAEQUE SUNT, ET QUAECUMQUE ESSE OPINANTUR QUOD NON EST ET
QUAECUMQUE NON ESSE QUOD EST) SED IN QUIBUS EST FALLACIA. HAE AUTEM EX QUIBUS
SUNT GENERATIONES. EX OPPOSITIS VERO GENERATIONES, QUARE ETIAM FALLACIA. Validam
quidem sententiam brevissimis sermonibus clausit, cuius, ut breviter dicendum
sit, haec vis est: qui de contrarietate propositionum nosse quaerebat, debebat
primo quae propositionum non esset infinita constituere atque ad eam vim
contrarietatis aptare. In omnibus enim contrariis unum uni contrarium est. Si
autem sit quaedam in propositionibus infinitas, illa. Tota infinitas
propositionum uni propositioni contraria esse non poterit. Hoc sumendo totum
textum argumentationis ingreditur aitque non solum exspectari oportere in
propositionibus quod falsa verae sit contraria sed quod inter omnes falsas illa
falsa sit verae contraria, quae una est et non infinita. Possum esse infinitae
propositiones et falsse, potest una finita eadem quoque falsa, quae verae
contraria esse rationabiliter ponenda est. Volens ergo constare, quoniam
negatio potius contraria sit affirmationi quam ea affirmatio quae contrarium
ponit, hoc dicit: potest, inquit, esse opinatio quaedam quae id quod est de
unaquaque re esse opinetur. Est etiam alia quae id quod non est rem ullam esse
arbitretur. Est alia quae id quod secum habet res ulla proposita non eam habere
pPomba. Est rursus alia quae id quod est res ipsa non eam id esse arbitretur.
Ut autem hoc per uagatum luceat exemplum, sumpsit propositum de quo opinaretur
aliquis id quod est bonum. Si quis igitur hoc bonum bonum esse opinetur, vere
opinabitur. Rursus si quis hoc esse bonum quod non est bonum pPomba, falsa
opinabitur: ut si quis arbitretur quoniam bonum laedit, quoniam inutile est,
quoniam bonum iniustum est, is ea de bono opinabitur quae non sunt et hoc
falsum est Rursus qui id quod in se habet bonum non habere arbitratur, is
opinabitur hoc modo: bonum non esse utile, bonum non esse iustum, bonum non
esse expetendum, et is quoque fallitur. Quod si quis sit qui hoc ipsum quod est
bonum, non esse bonum arbitretur, ut non pPomba bonum neque malum esse, id est
quod non est, neque expetendum esse, id est quod in sese habet sed id quod est
ipsum bonum non esse, ita arbitratur bonum non esse bonum. Caeterae igitur
omnes opiniones infinitae sunt. Possumus enim permulta colligere falsa quae cum
non sint de unaquaque re ea tamen esse dicamus, ut in eo ipso bono possum
dicere, quia malum est, possum quia turpe, quia iniustum, quia vitabile, quia
periculosum, et caetera quaecumque in bono nullus inveniet et haeo sunt
infinita. Rursus possum dicere ea quae habet bonum non esse in bono, ut si
dicam bonum non esse utile, bonum non esse expetendum, bonum non esse quod
auget atque haec quidem rursus infinita sunt. Sed quando id quod est aliqua res
aufert opinio, hoc facere nisi semel non potest. Neque enim aliqua per id
effici possum, si quod bonum est non esse bonum arbitratur. Ergo caeterae
quaecumque aut id ƿ quod non est bonum esse arbitrantur aut id quod habet in
sese bonum non esse arbitrantur falsae sunt sed in infinitum. Bonum autem ita nunc
usurpat, tamquam si dicat bonitas. Si quis autem ipsam bonitatem non esse bonum
arbitretur, is et falsus est et definito modo falsus est. Sed in falsis quae
definita sunt et una numero, ea magis et proxime veris videntur esse contraria.
Una enim res semper uni rei est contraria. Quocirca recte haec magis contraria
est quae negat id quod est potius quam ea quae negat vel id quod in sese habet
vel affirmat quod in se non habet. Hoc autem ut ostenderet non recto sermone
usus est sed ad quiddam aliud orationem detorsit, quae res confusionem non
minimam fecit. Nam cum dixisset non debere nos illas potius ponere contrarias
verae opinioni quae infinitae sunt, subiunxit illud quod ait: SED IN QUIBUS EST
FALLACIA. Haec autem est ex his ex quibus sunt et generationes. Hoc autem talem
sententiam claudit: inquit opiniones veris opinionibus opponendum esse
contrarias in quibus principium est fallaciae. Fallaciae autem ex his nascuntur
ex quibus etiam et generationes, generationes autem in oppositis inveniuntur.
Hoc autem tale est: omnis generatio ex permutatione eius quod fuit surgit. Nisi
enim id quod fuit prius esse desierit, non potest esse generatio. Omne enim
quod gignitur in aliam quodammodo formam substantiae permutatur. Ergo cum non
fuerit id quod fuit tunc gignitur et est quiddam aliud quam fuit et qui
fallitur id quod est quaelibet ƿ res non esse arbitratur. Nam qui quod bonum
est malum esse putat fallitur sed fieri aliter non potest ut sit malum, nisi
non sit bonum et in caeteris eodem modo. Fallacia igitur est et principium
fallaciae est, quod quis id quod est aliqua res non eam esse arbitratur. Haec
autem fallacia ex his est ex quibus sunt generationes. Omnis enim, ut dixi,
generatio ex detrimento surget, ut quod fit dulce non fit ex albo sed ex non
dulci, et rursus quod fit album non fit ex duro sed ex non albo, et caeterae
generationes es negationibus potius proficiscuntur et est prima inde fallacia.
Quod si ubi prima fallacia [ex quibus sunt generationes], ibi integerrima
falsitas est et proxima verae opinioni, haec autem in oppositis reperiuntur,
hoc est in affirmationibus et negationibus, dubium non est quin negationis
opinatio magis contraria sit ea opinione quae contrarium aliquid in
arbitratione confirmat. Et sensus quidem huiusmodi est, verba autem sese sic
habent: SI ERGO EST, inquit, BONI QUONIAM EST BONUM OPINATIO, quae scilicet
vera est, EST AUTEM QUONIAM NON BONUM EST, quae falsa est ac definita, EST VERO
QUONIAM ALIQUID ALIUD EST QUOD NON EST NEQUE POTEST ESSE, id est ea quae id
esse adscribit quod non est, ALIARUM ƿ QUIDEM omnium NULLA PONENDA EST, dicit,
NEQUE QUAECUMQUE ESSE QUOD NON EST OPINATUR, id est quae id quod non est res
proposita esse eam putat, NEQUE QUAECUMQUE NON ESSE QUOD EST, id est neque ea
quae id quod habet res proposita in opinionibus negat. Cur autem istae non
ponantur contrariae docet hoc modo: INFINITAE ENIM, inquit, UTRAEQUE SUNT, ET
QUAE ESSE OPINANTUR QUOD NON EST, ET QUAE NON ESSE QUOD EST. Sed quae magis
ponenda est? IN QUIBUS EST, inquit, FALLACIA, id est in quibus principium
fallaciae. Principium autem fallaciae unde ducitur? Ex his ducitur, EX QUIBUS
SUNT ET GENERATIONES. Unde autem sunt generationes? EX OPPOSITIS. Omnis enim,
ut dictum est, generatio ex eo quoniam non est id quod fuit, quod scilicet ad
negationem vergit. Quare, inquit, etiam fallacia et principium fallaciae in
oppositis invenitur, ubi etiam generahones, ex quibus est ipsa fallacia. SI
ERGO QUOD BONUM EST ET BONUM ET NON MALUM EST, ET HOC QUIDEM SECUNDUM SE, ILLUD
VERO SECUNDUM ACCIDENS (ACCIDIT ENIM EI MALO NON ESSE), MAGIS AUTEM IN
UNOQUOQUE EST VERA QUAE SECUNDUM SE EST, ETIAM FALSA, SIQUIDEM ET VERA. ERGO EA
QUAE EST QUONIAM NON EST ƿ BONUM QUOD BONUM EST EIUS QUOD SECUNDUM SE EST FALSA
EST, ILLA VERO QUAE EST QUONIAM MALUM EIUS QUOD EST SECUNDUM ACCIDENS. QUARE
MAGIS ERIT FALSA DE BONO EA QUAE EST NEGATIONIS OPINIO QUAM EA QUAE EST
CONTRARII. Licet haec omnia in primae editionis secundo commentario
diligentissime explicuerimus, ne tamen curta expositio huius libri esse
videatur, hic quoque eadem repetentes explicabimus. Est namque ingressus huius
argumentationis huiusmodi: si, inquit, posita vera propositione plures sint
quae eam perimunt falsae, illa inter eas verae propositioni magis erit contraria,
quaecumque magis est falsa. Quaerendum igitur est quae inter plures falsas
propositiones magis falsa sit, ut ea verae propositioni magis videatur esse
contraria. Hoc autem per veritatem dicendum est. Nam cum vere et per ipsam rem
aliquid dici possit et per accidens, illud tamen maxime veritatis naturam tenet,
quod secundum rem ipsam dicitur potius quam quod secundum aecidens venit. Ut si
quis de bono opinetur, quoniam bonum est, hic secundum ipsam rem veram
opinionom habet, sin vero aliquis arbitretur, quoniam bonum utile est, verum
quidem opinabitur sed ista veritas de bono per accidens fit boni. Accidit ƿ
enim bono ut utile quoque sit. Quare illa quae bonum bonum esse arbitratur per
se vera est, id est secundum ipsam rem vera est, illa vero quae id quod bonum
est utile esse opinatur per accidens boni vera est. Quare propinquior naturae
bonitatis est ea quae id quod bonum est bonum esse arbitratur quam ea quae id
quod bonum est utile. Quod si ita est, verior illa est quae secundum ipsam rem
vera est potius quam ea quae secundum accidens videtur. His igitur ita
constitutis et de falsitate idem dicendum. Falsa enim propositio quae illi
verae contraria est, quae secundum se est, magis falsa est quam ea quae illam
veram perimit, quae secundum accidens vera est. Nam si verior ea quae de ipsa
natura rei verum aliquid opinatur, illa erit magis falsa quae perimit veriorem.
Quod si illa, quamquam sit vera, minus tamen, quae de rei accidente pronuntiat,
minus quoque illa erit falsa quae minus veriorem perimit. His igitur ita
constitutis videamus nunc quemadmodum se in his habeant opinionibus vel
propositionibus de quibus nunc tractatur. Idem igitur sit exemplum: ut supra
dictum, id quod est bonum et bonum est et non malum sed quod bonum est secundum
ipsam rem est, quod vero malum non est accidit ei. Nam id quod bonum est per
naturam bonum est, quod vero malum non est secundo loco et quasi accidenter
est. Ergo opinio de bono quoniam bonum est verior erit propinquiorque naturae
ea opinione quae est de bono ƿ quoniam malum non est. Si igitur ita est et ea
quae veriorem opinionem perimit magis falsa est quam ea quae illam quae
quamquam vera sit minus tamen est vera, manifestum est quoniam negatio magis
est falsior quam ea affirmatio quae contrarium ponit. Nam negatio dicit non
esse bonum quod bonum est, affirmatio vero malum esse quod bonum est: negatio
ea quae est non esse bonum quod bonum illam secundum se opinionem veram perimit
quae dicit bonum esse quod bonum est, illa vero affirmatio contrarii quae est
malum esse quod bonum est illam opinionem perimit veram quae de bono secundum
accidens est, id est non malum esse quod bonum est. Constat igitur magis falsam
esse opinionem quae dicit non esse bonum quod bonum est potius quam eam quae
opinatur malum esse quod bonum est. Quod si haec falsior, magis contraria:
magis igitur contraria est negationis opinio quam contrariae affirmationis. Expedito
igitur sensu verba ipsa discutienda sunt. SI ERGO, inquit, QUOD BONUM EST sit
bonum et non sit malum, ET HOC QUIDEM SECUNDUM SE, id est ut quod bonum est
bonum sit, ILLUD VERO SECUNDUM ACCIDENS, hoc est quod bonum est ut malum non
sit, (ACCIDIT ENIM EI MALUM NON ESSE), MAGIS AUTEM IN UNOQUOQUE EST VERA, QUAE
SECUNDUM SE EST, nam quod secundum uniuscuiusque naturam est propinquius ƿ est
ei rei cui secundum naturam: quocirca et veritas secundum rem, quia rei proxima
est, verior est quam est ea quae secundum accidens est (hoc est enim quod ait:
MAGIS AUTEM IN UNOQUOQUE EST VERA QUAE SECUNDUM SE EST): quod si hoc ita est,
ETIAM FALSA, id est etiam illa est falsitas magis falsior quae illam perimit
opinionem vel propositionem quae secundum se vera est, siquidem illa secundum
naturam rei vera verior est quam quae secundum accidens vera est, hoc est enim
quod dixit: SIQUIDEM ET VERA. Hoc igitur disponens exemplo confirmat: ERGO EA
QUAE EST QUONIAM NON EST BONUM QUOD BONUM EST EIUS QUOD SECUNDUM SE EST FALSA
EST, hoc est illa quae opinatur illi opinioni quae secundum se vera fuit. Hoc
enim haec verba demonstrant, quod dixit: ERGO EA QUAE EST QUONIAM NON EST BONUM
QUOD BONUM EST EIUS QUOD SECUNDUM SE EST FALSA EST, id est quae ipsum bonum
negat bonum esse per se verae propositionis falsa est, id est opposita.
Falsitas enim veritati opponitur. ILLA VERO QUAE EST QUONIAM MALUM EIUS QUOD
EST SECUNDUM ACCIDENS, hoc est illa opinio quae id quod bonum est malum
arbitratur esse falsa est et apta ei propositioni quae est secundum accidens
vera, id est quae ƿ opinabatur bonum non esse malum. QUARE MAGIS ERIT FALSA DE
BONO EA QUAE EST NEGATIONIS OPINIO QUAM EA QUAE EST CONTRARII, id est magis
contraria est negatio quam affirmatio contrarii, siquidem cum sint de bono
utraeque praedicatae, falsior tamen negatio reperitur. Sed quod dixit bono
accidere, ut malum non sit, non ita intellegendum est, quemadmodum solemus
dicere substantiae aliquid acoidere. Neque enim fieri potest sed accidere hic
intellegendum est secundo loco dici. Principaliter enim quod est bonum dicitur
bonum, secundo vero loco dicitur non est malum. Hoc autem tractum est a
similitudine substantiae et accidentis. Unaquaeque enim substantia principaliter
quidem substantia est, secundo vero vel alba vel bipeda vel iacens vel quicquid
substantiis accidere potest. FALSUS EST AUTEM MAGIS CIRCA SINGULA QUI HABET
CONTRARIAM OPINIONEM; CONTRARIA ENIM EORUM QUAE PLURIMUM CIRCA IDEM DIFFERUNT.
QUODSI HARUM CONTRARIA EST ALTERA, MAGIS VERO CONTRARIA CONTRADICTIONIS,
MANIFESTUM EST QUONIAM HAEC ERIT CONTRARIA. Vis omnis argumentationis, ut
brevissime expediatur, huiusmodi est: omne verum aut secundum se verum est aut
secundum accidens, quare necesse est etiam falsum aut secundum se falsum esse
aut per accidens. Verum autem illud esse verius constat quod secundum se est
potius quam illud quod per accidens. Qui vero contrariam de re aliqua habet
opinionem quam res ipsa est, necesse est ut plurimum falsus sit. Etenim
contrarietas opinionum, quotiens de una eademque re longissime a se absistentes
opiniones sunt. Quod igitur magis falsum est, hoc erit etiam falsum contrarium.
Illud enim quod magis a veritate abest, hoc magis falsum est. In opinionibus
vero quae a se plurimum differunt, ea sunt contraria illa igitur in opinionibus
contraria est quae plurimum falsa est. Est autem, ut dictum est, plurimum
falsa, quae secundum se falsa est, id est quae illam perimit propositionem quae
secundum se vera est. Quocirca (haec enim est negatio) negatio contraria est
affirmationi potius quam ea affirmatio quae contrarium ponit. Talis igitur
sensus his verbis includitur: FALSUS EST AUTEM MAGIS, inquit, CIRCA SINGULA QUI
HABET CONTRARIAM OPINIONEM. Quamquam enim possit esse quilibet falsus, etiamsi
de eadem re contrariam non habeat opinionem, ille tamen magis fallitur qui
contrarium aliquid opinatur. Hoc autem cur eveniat dicit: CONTRARIA ENIM EORUM
SUNT QUAE PLURIMUM CIRCA IDEM DIFFERUNT. Idcirco enim maxime falsa contraria
opinantur, quia contrarietas non nisi in plurimum discrepantibus invenitur.
QUOD SI HARUM CONTRARIA EST ALTERA, id est quod si harum propositionum, quae
per se falsa est vel quae per accidens, unam contrariam esse necesse est, MAGIS
VERO CONTRARIA CONTRADICTIONIS, hoc est magis autem falsa negatio ƿ (hoc enim
quod ait: MAGIS VERO CONTRARIA hoc sensit tamquam si dixisset: magis vero falsa
contradictionis est, id est magis vero falsa negatio est), concludit: si illa,
ut dictum est superius, ita sunt, MANIFESTUM esse, QUONIAM HAEC, id est contradictionis,
ERIT CONTRARIA. ILLA VERO QUAE EST QUONIAM MALUM EST QUOD BONUM IMPLICITA EST;
ETENIM QUONIAM NON BONUM EST NECESSE EST FERE IDEM IPSUM OPINARI.Postquam
idcirco contrariam potius negationem esse monstravit, quod haec magis esset
falsa quam ea quae contrarium affirmaret, et distinctione falsitatis contrariam
esse propositionem opinionemque quae rem propositam negaret edocuit, nunc ex
simplicibus implicitisque propositionibus opinionibusque idem nititur
approbare. Dicit enim quod ea affirmatio quae contrarium ponit implicita et non
simplex sit. Idcirco autem implicita est, quod quae arbitratur id quod bonum
est malum esse mox illi quoque opinari necesse est id quod bonum est bonum non
esse. Neque enim aliter esse malum potest, nisi bonum non sit. Quare qui quod
bonum est malum esse arbitratur, et rem bonam malum putat et eandem ipsam non
esse bonum. Non igitur simplex est haec opinio de bono, quoniam malum est.
Continet enim intra se illam, quoniam non est bonum. Qui vero opinatur non esse
bonum quod bonum est, non illi quoque necesse est opinari quoniam ƿ malum est.
Potest enim et non esse aliquid bonum et malum non esse. Atque hoc quidem in
his innititur rebus in quibus aliqua medietas poterit inveniri. Hoc quoque cautissime
addidit. His igitur ita positis quoniam contrarii opinio non est simplex,
simplex vero est negationis, necesse est ut contra simplicem opinionem simplex
potius videatur esse contrarium. Est autem simplex opinio boni quoniam bonum
est vera, simplex vero boni quoniam non bonum est falsa. Simplici igitur
opinioni de bono quoniam bonum est simplex erit contraria, negationis scilicet,
quae est boni quoniam non est bonum. Tota vero vis huius argumentationis hinc
tracta est: quotiens vera est quaedam propositio et duae quae eam perimere
possint, si una earum nihil indigens alterius veram propositionem perimat,
reliqua vero praeter alteram eandem veram propositionem perimere non possit,
illa magis dicenda contraria est, quae sibi sufficiens nec reliquae indigens propositam
propositionem perimere valet. Veram autem propositionem de bono quoniam bonum
est sola perimere potest et ad illius verae interitum est sibi ipsa sufficiens
illa quae opinatur non esse bonum quod bonum est. Illa vero quae opinatur malum
esse sibi sola non sufficiet, nisi illa quoque ei auxilietur, quae est id quod
bonum est bonum non esse. Idcirco enim contraria illa aufert, quia secum
negationem trahit. Manifestum est hanc quae ad verae ƿ propositionis interitum
sibi ipsa sufficit recte magis videri contrariam quam eam quae sibi ipsa non
sufficit, nisi ei vis negativae propositionis addatur. AMPLIUS, SI ETIAM IN
ALIIS SIMILITER OPORTET SE HABERE, ET HIC VIDEBITUR BENE ESSE DICTUM; AUT ENIM
UBIQUE EA QUAE EST CONTRADICTIONIS AUT NUSQUAM. QUIBUS VERO NON EST CONTRARIA,
DE HIS EST QUIDEM FALSA EA QUAE EST VERAE OPPOSITA, UT QUI HOMINEM NON PUTAT
HOMINEM FALSUS EST. SI ERGO HAE CONTRARIAE SUNT, ET ALIAE CONTRADICTIONIS.Quod
de his, inquit, propositionibus dicimus si hoc in omnibus invenitur, firmum debet
esse quod dicimus. Neque enim verisimile est in aliis quidem propositionibus
negationes esse contrarias, in aliis vero affirmationes quae contrarium ponunt
sed si hoc in omnibus propositionibus invenitur et contradictionibus, ut
contradictio potius contraria sit, id est negatio, quam quae contrarium habet,
nihil est dubium quin haec ratio consistat in omnibus: sin vero in aliis ea
quae contrarium ponit magis contraria est quam negatio, hic quoque ita sese
manifestum est non habere. Ubi enim inveniri potest contrarietas, in his
dubitatio est, quaenam sit contraria, utrumne ea quae contrarium affirmat an ea
quae id quod propositum est negat. Ergo in his in quibus dubium non est
quemadmodum ƿ sit hoc speculandum est. Dubium autem non est in his in quibus
nulla est contrarietas, ut in substantiis. Hic enim solae sunt contrariae
negationes. Si ergo huic opinioni quae est de homine quoniam homo est illa
opponitur quae est de homine quoniam homo non est, manifestum est in aliis
quoque in quibus contrarietas invenitur locum contrarietatis negationem potius
optinere. [Nam si in his in quibus contrarietas est, ut in bono vel malo,
manifestum est potius illam esse contrariam quae bonum negaret quam eam quae
malum opponeret ei quae id quod bonum est bonum esse arbitretur, nec in his eam
contrariam esse oporteret in quibus contrarietas nulla est.] Quid enim attinet
cum de homine dicimus, quod contrarium non habet, ibi esse negationem
contrariam, cum vero de bono, quod contrarium habet, ibi non esse sed potius
eam quae contrarium poneret? Quodcumque enim convertitur a negatione suam vim
in omnibus servare debet.Quod ergo dicitur ab Aristotele, ut breviter explicem,
tale est: si in aliis negatio est contraria, hie quoque negationem esse
contrariam manifestum est quod si in aliis minime, in his quoque quae supra
posuit. Sed in omnibus aliis in quibus contrarietas non invenitur contradictio
contrarietatis locum tenet, et in his igitur in quibus est aliqua contrarietas
eundem locum neque alium tenebit. Quod in his verbis ƿ explicuit: AMPLIUS, SI
ETIAM IN ALIIS SIMILITER OPORTET SE HABERE, ET HIC VIDEBITUR BENE ESSE DICTUM. Nam
si in caeteris omnibus ita se habere necesse est, et in his quae supra sunt
dicta ita sese habet et id quod dictum est optime dictum esse videbitur. AUT
ENIM UBIQUE EA QUAE EST CONTRADICTIONIS alicubi quidem contrariam reperiri,
alicubi vero minime. QUIBUS VERO NON EST CONTRARIUM, ut in substantiis in
quibus nulla est contraria (hoc enim nos, si bene meminimus, praedicamenta
docuerunt), DE HIS EST QUIDEM FALSA EA QUAE EST VERAE OPPOSITA, id est in his
invenitur quidem opposita falsa opinio verae opinion) sed quae sit ista
manifestum est. Nam ubi nulla contrarietas, liquet contradictionis esse
contrarietatem. UT QUI HOMINEM NON PUTAT HOMINEM FALSUS EST. Haec enim
sola contrarietas verae propositionis invenitur. SI ERGO HAE CONTRARIAE SUNT,
et illae aliae quae sunt CONTRADICTIONIS, id est si in his quae contrarietatem
non habent negationes sunt contrariae (necesse est enim aliquas esse
contraries), in aliis omnibus etiam in quibus est aliqua contrarietas, ut bono
et malo, negatio locum optinet contrarietatis. AMPLIUS SIMILITER SE HABET BOND
QUONIAM BONUM EST ET NON BOND QUONIAM NON BONUM ƿ EST, ET SUPER HAS BONI
QUONIAM NON BONUM EST ET NON BONI QUONIAM BONUM EST. ILLI ERGO QUAE EST NON
BONI QUONIAM NON BONUM VERAE OPINIONI QUAE EST CONTRARIA? NON ENIM EA QUAE
DICIT QUONIAM MALUM; SIMUL ENIM ALIQUANDO ERIT VERA, NUMQUAM AUTEM VERA VERAE
CONTRARIA EST; EST ENIM QUIDDAM NON BONUM MALUM, QUARE CONTINGIT SIMUL VERAS
ESSE. AT VERO NEC ILLA QUAE EST NON MALUM; SIMUL ENIM ET HAEC ERUNT.
RELINQUITUR ERGO EI QUAE EST NON BONI QUONIAM NON BONUM CONTRARIA EA QUAE EST
NON BONI QUONIAM BONUM, QUARE ET EA QUAE EST BONI QUONIAM NON BONUM EI QUAE EST
BONI QUONIAM BONUM. Quaecumque superius dicta sunt, ea rursus validiore per
proportionem argumentatione confirmat. Proportio autem est rerum inter se
inuicem similitudo. Si igitur positae sint res quatuor, quarum duae sint
praecedentes, reliquae sequentes, et sic se habeat prima ad secundam
quemadmodum tertia ad quartam, necesse est ita sese habere primam ad tertiam
quemadmodum fuerit secunda ad quartam. Hoc enim ipsum ƿ breviter facillimeque
numeris agnoscamus. Sit enim primus numerus II, secundus VI, rursus
inchoantibus tertius IIII, quartus XII. II VI IIII XII In his igitur
praecedentes quidem unt duo et quattuor, sequentes vero sex et duodecim. Sunt
autem ut duo ad sex, ita quatuor ad duodecim. Nam sicut duo senarii tertia pars
est, ita quaternarius duodenarii tertia pars est. Quocirca sicuti quaternarius
praecedens ad sequentem, ita alius praecedens ad alium sequentem erit; ut
praecedens ad praecedentem, ita sequens ad sequentem. Sed duo ad quatuor qui
sunt praecedentes medietas est, et sex igitur ad duodecim medietas est. Igitur in
omni proportione hoc respiciendum, quod si de quatuor propositis rebus sicut
prima est ad secundam, ita tertia ad quartam, erit ut prima ad tertiam, ita
secunda ad quartam. Ista igitur numerorum proportio ad propositionum vim
naturamque transferatur sintque duae propositiones primae, quarum una
praecedens, altera sequens, et aliae rursus duae, quarum una praecedens, altera
similiter sequens, et in his sit aliqua similitudo. Sit enim prima boni quoniam
bonum est, hanc sequatur boni quoniam ƿ bonum non est. Rursus sit praecedens
tertia non boni quoniam non bonum est, hanc autem sequens quarta non boni
quoniam bonum est. I II Boni quoniam bonum est Boni quoniam boni non est III
IIII Non boni quoniam non bonum est Non boni quoniam bonum est
Praesciatur igitur in his quae sit proportionis similitudo. Est enim ut prima
boni quoniam bonum est ad secundam boni quoniam bonum non est, ita tertia non
boni quoniam bonum non est ad quartam non boni quoniam bonum est. Nam sicut
boni quoniam bonum est vera propositio est, falsa autem boni quomam non est
bonum, ita quoque non boni quoniam non est bonum vera propositio est, falsa
autem non boni quoniam bonum est. Quod si ita est et eodem modo sese habet
opinio boni quoniam bonum est ad opinionem quae est boni quoniam bonum non est,
quemadmodum etiam opinio non boni quoniam non bonum est ad opinionem non boni
quoniam bonum est, et quemadmodum se habet prima ad tertiam, ita sese habebit
secunda ad quartam. Quemadmodum sese habet igitur boni quoniam bonum est ad eam
quae est non boni quoniam non bonum est, cum utraeque sint verae, ita sese
habet opinio boni quoniam bonum non est ad opinionem non boni quoniam bonum
est, quod ipsae quoque utraeque sunt falsae. Nam ut istae ƿ simul verae, ita
illae simul falsae. Quocirca ut est prima ad tertiam, ita secunda ad quartam. Ostensa
igitur hac proportione immutato ordine eaedem disponantur. Sed sit prior opinio
ea quae est non boni quoniam bonum non est eamque sequatur boni quoniam bonum
est et sub his praecedens tertia non boni quoniam bonum est, quarta sequens
boni quoniam bonum non est. I VERA II VERA Non boni quoniam bonum est Boni
quoniam bonum est III FALSA IIII FALSA Non boni quoniam bonum est Boni quoniam
bonum non est Ut igitur superius demonstratum est, ita se habet opinio
non boni quoniam non bonum est ad eam opinionem quae est boni quoniam bonum
est, quemadmodum non boni quoniam bonum est ad eam quae est boni quoniam non
est bonum. Ut enim illae simul verae, ita hae simul falsae eademque proportio
est. Quocirca erit sicut prima quae est non boni quoniam non bonum est ad
tertiam eam quae est non boni quoniam bonum est, ita erit secunda boni quoniam
bonum est ad quartam boni quoniam non est bonum. Requirendum igitur est
quemadmodum hic nunc sit prima ad tertiam, ut ex eo speculemur, quemadmodum sit
secunda ad quartam. Dico enim, quoniam huic opinioni quae arbitratur non esse
bonum quod bonum non est contraria illa est quae arbitratur id quod ƿ bonum non
est bonum esse. Age enim, si potis est, contra eam opinionem quae id quod bonum
non est non bonum putat sit ea quae id quod bonum non est malum putat. Sed hoc
fieri non potest. Contrariae enim opiniones simul numquam verae sunt, possunt
autem simul hae esse verae. Si quis enim parricidium quod non est bonum pPomba
non esse bonum, idem quoque parricidium quod per naturam non est bonum malum pPomba,
vere in utraque opinione arbitratur. Igitur non est contraria opinio ei quae id
quod bonum non est non bonum putat ea quae id quod bonum non est malum
arbitrator. Rursus ponatur eidem opinioni de non bono quoniam non est bonum
contraria ea quae arbitratur id quod non est bonum non esse malum. Id quoque
interdum est. Fieri enim potest ut id quod bonum non est nec malum sit. Neque
enim omnia quaecumque bona non sunt statim mala sunt sed est ut bona quidem non
sint, nec tamen mala sint. Si quis enim lapidem nequiquam iacentem, quod per se
bonum non est, non bonum esse pPomba, vere arbitrabitur, idem ipsum lapidem,
quod per se bonum non est, si non malum pPomba, nihil eius opinioni falsitatis
incurrit. Quare quoniam ea quae est non boni quoniam non bonum est et cum ea
quae est non boni quoniam malum est et cum ea quae est non boni quoniam non est
malum vera aliquotiens ƿ invenitur, neutri contraria est. Restat igitur ut ei
sit contraria opinio non boni quoniam non bonum est quae opinatur id quod non
est bonum bonum esse, haec autem est non boni quoniam bonum est. Contraria
igitur est non boni quoniam non bonum est ei quae est non boni quoniam bonum
est. Sed hic ita sese habebat opinio non boni quoniam bonum est ad opinionem
non boni quoniam non bonum est, quemadmodum opinio boni quoniam bonum est ad
eandem opinionem quae est boni quoniam non est bonum. Sed prima tertisque
contrariae, secunda igitur quartaque secundum similitudinem proportionis sunt
sine ulla dubitatione contrariae. Potest vero et simplicius intellegi hoc modo:
si boni quoniam bonum est opinio et non boni quoniam non est bonum opinio
similes secundum veritatem sunt, boni autem quoniam non est bonum et rursus non
boni quoniam bonum est ipsae quoque similes secundum falsitatem sunt, si una
falsarum uni verarum opinionum inventa fuerit contraria, erit reliqua falsa
reliquae verae contraria, quod sola efficit similitudo. Ostenditur autem una
falsa uni verae, quemadmodum supra exposuimus, contraria, hoc est ea quae dicit
id quod non est bonum bonum esse ei quae arbitratur id quod non est bonum non
esse bonum. Relinquitur igitur ea quae arbitratur id quod bonum est non esse
bonum contraria esse ei quae opinatur id quod bonum est esse bonum. Qua in re
colligitur negationem potius quam contrarium ƿ ponentem affirmationem verae
affirmationi esse contrariam. Perplexa igitur sententia his modis quibus
diximus expedita est sed se sic habet ordo sermonum: AMPLIUS, inquit, SIMILITER
SE HABET BONI QUONIAM BONUM EST ET NON BONI QUONIAM NON BONUM EST, quae
utraeque verae sunt, ET SUPER HAS BONI QUONIAM NON BONUM EST ET NON BONI
QUONIAM BONUM EST, quae sunt utraeque mendaces. ILLI ERGO QUAE EST NON BONI
QUONIAM NON BONUM est VERAE OPINIONI QUAENAM EST CONTRARIA? Hoc quasi
interrogativo modo dictum est. NON ENIM EA QUAE DICIT QUONIAM MALUM est,
quoniam simul aliquando esse poterit vera. Hoc autem in contrariis non potest
inveniri. NUMQUAM enim VERA VERAE CONTRARIA EST. Quemadmodum autem fieri
potest, ut simul sint verae? Quoniam est QUIDDAM NON BONUM MALUM, QUARE
CONTINGIT SIMUL VERAS ESSE. AT VERO NEC ILLA QUAE EST NON MALUM; SIMUL ENIM ET
HAE ERUNT, id est possunt aliquando simul esse verae, in his praesertim rebus
quae inter bonum malumque sunt. RELINQUITUR ERGO EI QUAE EST NON BONI QUONIAM
NON BONUM, quae scilicet vera est, CONTRARIA EA QUAE EST NON BONI QUONIAM BONUM
est, quae falsa est et simul vera non potest inveniri. QUARE, ad similitudinem
superius positam proportionis reuertitur, ut dicat ET EAM QUAE EST BONI QUONIAM
NON BONUM EST EI QUAE EST BONI QUONIAM ƿ BONUM est contrariam. Quod si quis ea
quae superius dicta sunt diligentius intuetur, nec in totius sententiae statu
nec quicquam in ordine fallitur. MANIFESTUM VERO QUONIAM NIHIL INTEREST, NEC SI
UNIVERSALITER PONAMUS AFFIRMATIONEM; HUIC ENIM UNIVERSALIS NEGATIO CONTRARIA
ERIT, UT OPINIONI QUAE OPINATUR QUONIAM OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST EA QUAE
EST QUONIAM NIHIL EORUM QUAE BONA SUNT BONUM EST. In superiori
argumentatione omnia de indefinitis explicuit sed quoniam fortasse aliquis
poterat suspicari non eandem rationem esse posse in his propositionibus quae
sunt definitae atque in his aliquid interesse, utrum eadem demonstratio in his
quae indefinitae sunt eveniret, hoc addit nihil interesse, utrum eandem
demonstrationem, quam ipse superius in propositionibus indefinitis fecit,
quisquam faciat in universalibus, quae iam sine dubio definitae sunt. Si quis
enim secundum indefinitarum propositionum superiorem dispositionem definitas
disponat easque secundum praedictum modum speculetur, non aliam universatis
affirmationis opinioni contrariam reperiet quam eam quae est universalis
negationis opinio. Nihil enim interest inter indefinitas definitasque
propositiones, nisi quod indefinitae quidem sine determinatione, definitae ƿ
vero cum augmento determinationis sunt, vel universalitatis vel
particularitatis. Hoc est enim quod ait: NIHIL INTEREST, NEC SI UNIVERSALITER
ponatur affirmatio. Universali namque affirmationi universalis contraria erit
negatio, UT OPINIONI QUAE OPINATUR QUONIAM OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST, quae
scilicet est universalis affirmationis, EA SIT CONTRARIA QUAE EST QUONIAM NIHIL
EORUM QUAE BONA SUNT BONUM EST, hoc est opinio universalis negationis. Hoc
autem cur fiat ostendit. NAM EA QUAE EST BOVI QUONIAM BONUM, SI UNIVERSALITER
SIT BONUM, EADEM EST EI QUAE OPINATUR QUICQUID EST BONUM QUONIAM BONUM EST.
NIHIL DIFFERT AB EO QUOD EST OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST. SIMILITER AUTEM ET
IN NON BONO. Gradatim indefinitam propositionem ad similitudinem universalis
adduxit. Dicit autem: quaecumque fuerit indefinita propositio, ei si quod in
sermone solemus dicere quicquid addatur, universalis fit, ut nihil omnino
distet ea quae ad rem in affirmatione omne praedicat. Ut ea opinio vel
propositio quae est de bono quoniam bonum est hoc scilicet opinatur, quoniam
bonum bonum est, huic si addatur quicquid, ut ita dicamus: quicquid bonum est
bonum est, nihil differt ab ea quae opinatur omne bonum bonum esse. Quare eadem
vis est superioris demonstrationis in ƿ propositionibus indefinitis, quae etiam
in universalibus, quae paruulum quiddam distant, quod non ad qualitatem nec ad
vim propositionis sed ad quantitatem refertur. Universalitas enim quantitatis
ponitur. Et sensus quidem huiusmodi est, verba vero sic sunt. Superius
proposuerat nihil interesse, an indefinita esset propositio an universalis. Cur
autem nihil intersit hoc modo dicit: NAM EA QUAE EST BONI QUONIAM BONUM est, id
est indefinita affirmatio, SI UNIVERSALITER SIT BONUM, id est si bonum
universaliter proferatur, EADEM EST EI QUAE OPINATUR QUICQUID BONUM EST QUONIAM
BONUM EST, id est nihil discrepat ab ea opinione quae opinatur quicquid bonum
est bonum esse. Huiusmodi autem opinio NIHIL DIFFERT AB ea, quae aperte
universaliter proponitur, quae est OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST. SIMILITER
AUTEM ET IN NON BONO, id est non bonum quoque eadem ratione dicimus. Ea namque
propositio vel opinio quae opinatur non bonum esse quod non bonum est, si ei
adicitur universalitas, nihil differt ab ea quae dicit quicquid non bonum est
non est bonum. Haec autem nullo distat ab ea, quae universaliter aperte
proponitur, quae est omne quod bonum non est non est bonum. QUARE SI IN
OPINIONE SIC SE HABET, SUNT AUTEM HAE QUAE SUNT IN VOCE AFFIRMATIONES ET ƿ
NEGATIONES NOTAE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA, MANIFESTUM EST, QUONIAM ETIAM AFFIRM
ATIONI CONTRARIA QUIDEM NEGATIO CIRCA IDEM UNIVERSALIS, UT EI QUAE EST QUONIAM
OMNE BONUM BONUM EST VEL QUONIAM OMNIS HOMO BONUS EA QUAE EST VEL QUONIAM
NULLUM VEL NULLUS, CONTRADICTORIE AUTEM AUT NON OMNIS AUT NON OMNE. Superiores
omnes argumentationes ad unum colligit redigitque ad conclusionem omnem
quaestionis vim. Supra enim negationes et affirmationes earumque contrarietates
de opinionibus pensari oportere praedixerat, nunc vero quoniam in opinionibus
repperit illam contrariam esse, quae esset universalis negatio, idem refert ad
propositiones, quas manifestum est, quoniam voces sunt et significativae,
passiones animi designare. In principio enim libri significativas voces
passiones animae monstrare veraciter docuit, nunc ea velut probaturus est:
quoniam in opinionibus illa potius contraria universali affirmationi reperta
est, quae esset universalis negatio potius quam ea quae contrarium universali
affirmationi affirmaret, idem quoque arbitratur in vocibus provenire, hoc est
affirmationi universali non affirmationem contrariam rem ponentem sed
universalem negationem esse contrariam, ƿ contradictorias vero eas quae, cum
affirmatio universalis esset, particularis negatio inveniretur. Atque hoc
quidem planissime dictum est nec aliquis in verbis error est sed nos, ut
caetera nihil ambiguum relinquentes ipsorum quoque verborum, eorum ordinem
persequemur. Ait enim: QUARE SI IN OPINIONE SE SIC HABET, id est quod opinio
negationis contraria invenitur opinioni affirmationis potius quam contrarium
ponens affirmatio, SUNT AUTEM HAE QUAE SUNT IN VOCE AFFIRMATIONES ET NEGATIONES
NOTAE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA (nam sicut in voce affirmatio et negatio est,
ita quoque etiam in opinione, cum ipse animus in cogitatione sua aliquid
affirmat aut quid negat, quod nos alio loco diligentius expediemus): ergo
quoniam affirmationes et negationes quae sunt in voce notae earum sunt
affirmationum vel negationum quae sunt in anima, MANIFESTUM EST, QUONIAM ETIAM
AFFIRMATIONI CONTRARI. QUIDEM EST NEGATIO CIRCA IDEM UNIVERSALIS. CIRCA IDEM
autem addidit, ne disiunctas affirmationes et negationes contrarias diceremus
sed ut affirmatio et negatio de una eademque re illa quidem universaliter
affirmaret, illa vero universaliter negaret. Earum autem exempla haec sunt: UT
EI QUAE EST QUONIAM ƿ OMNE BONUM BONUM EST VEL QUONIAM OMNIS HOMO BONUS EST EA
QUAE EST QUONIAM NULLUM, id est nullum bonum bonum est, quae contraria est, VEL
NULLUS, hoc est quoniam nullus homo bonus est. CONTRADICTORIA AUTEM AUT NON
OMNIS, id est non omnis homo bonus est contra eam quae dicit: Omnis homo bonus
est AUT NON OMNE, hoc est non omne bonum bonum est contra eam quae dicit
quoniam omne bonum bonum est. Constat igitur in his propositionibus quas supra
proposuit illam magis esse contrariam, affirmationi quae dicit: Omnis homo
iustus est eam quae dicit: Nullus homo iustus est potius quam eam
quae dicit: Omnis homo iniustus est MANIFESTUM AUTEM QUONIAM ET VERAM
VERAE NON CONTINGIT ESSE CONTRARIAM NEC OPINIOVEM NEC CONTRADICTIONEM.
CONTRARIAE ENIM SUNT QUAE CIRCA OPPOSITA SUNT, CIRCA EADEM AUTEM CONTINGIT
VERUM DICERE EUNDEM; SIMUL AUTEM EIDEM NON CONTINGIT INESSE CONTRARIA. Post
haec libri terminum expedit in ea speculatione et demonstratione, per quam,
licet verum sit manifestumque omnibus duas propositiones veras non esse
contrarias, tamen id ipsum demonstrare conatur. Est autem huius argumentationis
ingressus huiusmodi: ea quae sunt contraria opposita sunt, opposita vero non
possunt eidem simul inesse: contraria igitur eidem simul inesse non possunt. De
quibus autem aliquid simul verum dici potest, illa simul eidem inesse possunt,
quae vero simul eidem inesse ƿ non possunt, de his simul verae propositiones,
affirmatio et negatio, esse non possunt. Sed contraria simul eidem inesse non
possunt: quae igitur simul verum dicunt contrariae non sunt, idcirco quoniam de
quibus et affirmatio et negatio simul verae esse possunt, illa simul eidem
insunt. Quocirca quae simul verae sunt contrariae non sunt. Sensus hic est,
verba autem sic constant: MANIFESTUM AUTEM EST, inquit, QUONIAM ET VERAM VERAE
NON CONTINGIT ESSE CONTRARIAM, id est duas veras propositiones non posse esse
contrarias? NEC OPINIONEM NEC CONTRADICTIONEM: si opinio non est vera verae
contraria, multo magis nec contradictio quae ex opinionibus venit. Contradictio
autem hic pro contrarietate posuit: de ea enim non agebatur. CONTRARIAE ENIM
SUNT QUAE CIRCA OPPOSITA SUNT, id est omne contrarium oppositum. CIRCA EADEM
AUTEM CONTINGIT VERUM DICERE, idcirco quod de his solis et negatio et
affirmatio verae simul esse possunt, quae eidem simul esse contingit, SIMUL
AUTEM EIDEM NON CONTINGIT INESSE CONTRARIA, ut concludatur: quoniam de quibus
affirmatio et negatio simul verae sunt, ea simul eidem inesse possunt,
contraria vero simul eidem inesse non possunt, quae simul verae sunt non
possunt esse contrarialNoster quoque labor iam tranquillo constitit portu.
Nihil enim, ut arbitror, relictum est quod ad plenam ƿ huius libri notitiam
pertineret. Quare si rem propositam studio diligentiaque perfecimus, erit
perutile his qui harum rerum scientia complectendarum cupiditate tenebuntur:
sin vero minus id eiecimus, quod nobis propositum fuit, ut obscurissimas libri
sententias enodaremus, labori nostro nihil ut aliis nocituro, et si non
proderit, obloquitur. Multa ueteres philosophiae duces posteriorum
studiis contulerunt, in quibus priusquam ad res profunda mersas caligine
peiuenirent qandam quasi intelligentiae luctatione praeluderent: hinc
institutionum breuior compendii facilitate doctrina, hinc per ea quae illi
*prolegomena* uocant, ad intelligentiam promptior uiam unitur. Huius igitur
aemulus prouidentiae statui obscura rum aditus doctrinarum praemissae
institutionis luce reserare, et praesentem operam syllogismis quorum
connexionibus omnis ratio continetur, addicere, modumque eum custodire dicendi,
ut facilitati atque intelligentiae seruientes, astringamus a ueteribus dicta
latius, enuntiata breuius porrigamus, obscurata improprii nouitate sermonis
consueti uocabuli proprietate pandamus. Sed qui ad hoc opus lector accedit, ab
eo primitus petitum uelimus ne in hic quae nunquam alias attigerit statim
audeat iudicare, neue si quid in ludo puerilium disciplinarum rudis adhuc et
nondum firmus acceperit, id amplexandum atque etiam colendum pPomba; alia enim
teneris atque imbuendis adhuc auribus accomotata, alia firmis ac robustioribus
doctrina mentibus, reseruatur. Quare si quid est quod discrepet, ne statim
obstrepat sed ratione consulta, quid ipse sentiat quid nos afferamus, ueriore
mentis acumine et subtiliore consideratione diiudicet. Idem namque eueniet, ut
quae in primo statim studendi aditu didicerunt, perspecta penitus ac potius
deprehensa contemnant. At si iam quisque duae scientiae defensor esse cupidus
malit (habent hoc quoque uitii homines quos comprehendit discendi uetus ac
longa, segnities, ut si arreptis semel opinionibus non recedant, ne in
senectute discendo, nihil usque in senectutem didicisse uideantur), si, inquam,
malunt uindicare quam uertere quae uulgatis semel etudiis imbiberunt, nemo
expetit ut priora condemnent sed ut maiora quaedam construant atque altiora
coniungant. Non enim una atque eadem diuersarum ratio disciplinarum, cum sit
diuersissimis disciplinis una atque eadem substantia materies. Aliter enim de
qualibet orationis parte grammatico, aliter dialectico disserendum est, nec
eodem modo lineam uel superficiem mathematicus ac physicus tractant. Quo fit ut
altera alteram non impediat disciplina, sed multorum consideratione coniuncta
fiat uera naturae atque ex omnibus explicata cognitio. Sed de his hactenus;
nunc de propositis ordinamur. Quoniam igitur nobis hoc opus est in categoricos
syllogismos, syllogismorum uero compago propositionibus texitur, propositionum
uero partes sunt nomen et uerbum, pars autem ab eo cuius pars est, prior est;
de nomine et uerbo, quae prima sunt, disputatio prima ponatur, dehinc de
propositione ad ultimum de syllogismorum connexione tractabitur. Nomen
est uox significatiua secundum placitum sine tempore, cuius nulla pars
significatiua eit separata; quae definitio paulo enodatius explicanda
est. Nomen enim uocem esse dicimus, quoniam uox nominum genus est; omne
autem genus de sua specie praedicatur, omnisque definitio a genere sumitur, ut
si definias hominem prius animal dicas, quod est genus, Post uero differentias
iungas quae sunt rationale et mortale. Ita igitur nos quoque in nominis
difinitione uocem quidem ut genus sumimus, caetera autem uoci quasi
differentiae aggregamus, uelut quod nomen designatiua uox dicitur. Sunt enim
uoces quae nihil designant, ut syllabae, nomen uero designatiua uox est, quon
iam nomen designat id semper cuius nomen est. Secundum placitum uero
adiunctum est, quoniam nullum nomen natura significat sed secundum placitum
ponentis constituentisque uoluntatem. Illud enim unaquaeque res dicitur quodei
placuit qui primus rei nomen impressit. Aliae enim sunt uoces naturaliter
significantes, ut canum latratus, iras canum significat, et aliae eius quaedam
uox blandimenta; gemitus etiam designant dolorem, sed non sunt nomina, quia non
designant secundum placitum sed secundum naturam. Sine tempore uero, quod
et uerba uoces sunt significatiuae et secundum placitum sed distant a
nominibus, quia nomina quidem sine tempore sunt, uerba uero cum tempore.
Cuius nulla pars significatiua est separata, nomina ab oratione disiungit.
Oratio namque uox est significatiua secundum placitum et aliquoties sine
tempore, ut hic uersus: Nerine Galathea thymo mihi dulcior Hyblae. Sed
orationis partes, separatae a tota oratione, designant: nominum uero nihil
extra designat, atque in illis quidem nominibus quae figurae sunt simplicis
nihil pars omnino significare manifestum est, ut in eo quod est Cicero, nulla
pars separata [763C] designat neque ci, neque ce, neque ro. At si nomen
compositum fiat, significare aliquid separata, partes uidentur; sed in eodem
nomine quod ex utrisque compositum est, separate nihil designant, ut si dicam
magister, partes eius nominis sunt magis atque ter, quae sumpta extrinsecus et
a nominis parte separatae significatione non carent, utraque enim ad uerbi
aliter significat quantitatem; sed cum magister quod est compositum nomen
alicuius artis peritum doctoremque significet, magis neque partem doctoris,
neque totum doctorem poterit designare. Eodem quoque modo ter, neque in toto
significat, neque in parte doctorem, id est, rem illam quae magistri uocabulo
subiecta est nulla ratione designat. Compositorum ergo nominum partes
nihil eius rei quam in unum conuenientes uocabulum designabant disiunctae
distractaeque significant; alia uero significare possunt sed tunc non partes
nominis sed ipsa sunt nomina. Quod enim coniuncta significant, id diuisa atque
se posita non designant. iuncta autem magis et ter doctoris significationem
tenebant, separata igitur omnem significationem doctoris amitunt. Sed ne
quis superius posito calumnietur exemplo, nec magister compositum nomen esse
concedat, uir fortis esse compositum nomen, si uno praeferatur accentu nullus
negabit, cuius partes uir atque fortis quod in eo quod est uir fortis
significare dicantur, non iam nominis partes sed ipsa sunt nomina, nec uir
fortis unius erit nomen sed potius oratio, quae duorum nominum collata
significatione conuincitur, quod uir fortis cum unius accentus intentione
prolatum non est oratio sed nomen, cuius partes nomina esse non poterunt, ac si
nomina non sunt, cum neque naturales affectus neque actus, ut uerba
significent, omnino non nihil designant. Quare concludendum est, cum quaelibet
uoces propriam significationem tenent, non partes nominum, sed ipsa esse
nomina, cum uero unius formam nominis copulauerint, eo considerantur ut partes
uim propriae significationis amittere. Sed de his in commentario libri
*Peri hermeneias* Aristotelis satis dictum est, et maior eius rei tractatus est
quam ut nunc totus ualeat expediri. Sed quoniam sunt quaedam uoces quae
et designatiuae sunt et secundum placitum, et sine tempore, quarumque partes
nihil extra significant, neque tamen proprietates nominis naturamque obseruent,
discernendae prius sunt, additisque differentiis a nomine segregandae, ut quae
sit uis nominis euidenter appareat. Adiecta enim semper negatio nomini, uocem
dubiam facit, quae neque uerbo neque orationi, etsi interius consideratum sit,
neque nomini possit annecti, ut si quis dicat, non homo, uox est significatiua.
Designat enim quidquid homo non fuerit, secundum placitum. Eas enim omnino
partes habet quis ad significationem uel negationis uel hominis placitum
uocabula ponentis assumpsit. Sine tempore, quae res eam uocem quae dicit non homo
separat ac seiungit a uerbo, cuius partes nihil extra significant, ne oratio
esse uideatur. Non homo enim uox seiuncta est ex negatiua particula et homine, quae
in eodem nomine separata nihil designant, significat enim non homo, uel equum,
uel canem, uel quidquid (ut dictum est) non homo non fuerit. Sed quae est
negatiua, neque hominis, neque equi, neque ullius substantiae significationem
tenet. Item homo neque canem, neque quidquid homo non fuerit, significare
potest; quocirca in ea uoce quae est non homo partes nihil separatae
significant eius rei quam tota uocis compositio designabat. Atque ideo nec in
oratione quidem poni potest. Si quis enim eam uocem quae est non homo orationem
concedat, nihil aliud eam esse fatebitur quam negationem. Negatio autem omnis
uera uel falsa est. Qui autem dicit non homo, neque ueritatem nuntiat, neque
mendacium. Praeterea ab omni negatione si quis negatiuum seiungat aduerbium,
affirmatio relinquetur; ab ea autem uoce quae est non homo, si quis aufert id
quod est negatiuum aduerbium, homo relinquetur, quod nondum est affirmatio.
Quocirca si non homo haec uox negatio esse non potest, nihil autem aliud esse
uideretur si esset oratio, concludendum est negationem iunctam eum nomine
orationem esse non posse. Nomen enim omne certum aliquid definitumque
significat, ut homo, equus, canis et caetera; non homo autem uox aufert quidem
quod significatur a nomine, nec praescribit quid ipse significet. Quocirca
quoniam significat quidem aliquid sed non finitum negatio iuncta cum homine, infinitum
nomen uocetur. Addenda est ergo definitioni nominis differentia, scilicet
ut nomen sit quod cum caeteris quae dicta sunt sit definitae significationis.
Iam uero casus nominum non altius intuentibus nomina uideantur. Quid enim
Catonis, et Catoni, atque huiusmodi uoces quae rectis nominibus inflectuntur,
nomina esse non existimet? Sed hae quoque uoces a nomine quadam differentia
discrepabunt. Omne enim nomen iunctum cum est uerbo, enuntiationem reddit ac
suscipit mendacii ueritatisque naturam, ut Cato est, uel dies est, at si est
uerbum casibus adiungatur, neque enuntiatio sit, neque plena sententia
orationis absoluitur, ut Catonis est, nec sententiam habet absolutam, nec ueri
aliquid potest notare nec falsi, atque idcirco non nomina, sed casus nominum
nuncupantur. Nam cum id a quo quidquam flectitur primum sit, illud uero quod ab
inflexione primi nascitur sit secundum, neque idem primum ac secundum esse
possit, manifestum est casus nominum non idem esse quod nomina: idcirco
caeteros quidem genitiuum, datiuum, accusatiuum, casus appellant grammatici,
primum uero rectum ac nominatiuum quod hic locum principem in significatione
possederit. Facienda est igitur nominis plena neque ullo diminuta
definitio sic: Nomen est uox significatiua secundum placitum sine tempore,
cuius nulla pars significatiua est separata, aliquid finitum designans, cum est
uerbo coniuncta faciens enuntiationem. Separat igitur nomen uox quidem ab
articulis atque inanimatis sonis; designatiua uero a uocibus quae nihil
significant, secundum placitum a uocibus aliquid natura significantibus; sine
tempore a uerbo quod a temporis significatione non recedit, cuius nulla pars
separata significat, ab oratione, cuius quemadmodum partes extra significent,
paulo posterius disseram; aliquid definitum designans, ab his uocibus quae
nomen negationemque coniungunt et nomina faciunt infinita, cum est uerbo
faciens enuntiationem, a casibus qui cum est copulati non possunt plenam
perficere atque explicare sententiam. In uerbo quoque eadem fere cuncta
conueniunt, nisi quod in significatione temporis a nomine separatur. Omne enim
uerbum actionem passionemue designat, quae fieri sine temporis notatione non
potest. Est itaque uerbi definitio haec: uerbum est uox significatiua secundum
placitum cum tempore, cuius nulla pars significatiua est separata, ut currit,
uincit; sed si uerbis negatiua copulentur aduerbia, fiunt infinita uerba, sicut
fieri nomina diximus infinita, ut cum currit, nut uincit, certum aliquid
finitumue designet, addita negatione, id quidem quod a uerbo designatur
intercipit, quid uero aliud fieri dicat tali significatione non terminat;
praeterea negatio iuncta cum uerbo siue in eo quod est, siue in eo quod non
est, recte dici potest, ut homo non currit. Non esse autem orationem aut enuntiationem
negatiuam illa prorsus argumenta monstrabunt, quae infinitum nomen ab oratione
aut negatione diuidebant. Sed quoniam principaliter praesentia quaeque
sentimus, his autem rebus quas praesenti sensu concipimus indita esse a
mortalibus uocabula manifestum est, recte dicis uerbum semper significationis
temporis habere praesentis, ut currit aut uincit. Curret autem aut uincet, et
cucurrerit aut uicerit, non sunt uerba sed uerborum casus, scilicet quia a
praesentis temporis significatione flectuntur; est ergo uerbi plena definitio
sic: Verbum est uox significatiua secundum placitum cum significatione
temporis, cuius nulla pars significatiua est separata, aliquid finitum
designans et praesens. Restat igitur ut de oratione dicamus sed prius
uidetur esse monstrandum utrumne nomen et uerbum sola in partibus orationis
ponantur, an ut grammatici uolunt et reliquae orationis partibus debeant
aggregari. Grammatici enim considerantes uocum figuras, octo orationis partes
annumerant. Philosophi uero, quorum omnis de nomine uerboque tractatus in
significatione est constituta, duas tantum orationis partes esse docuerunt,
quidquid plenam significationem tenet, siquidem sine tempore significat, nomen
uocantes, uerbum uero si cum tempore: atque ideo aduerbia quidem atque pronomina
nominibus iungunt, sine tempore enim quiddam constitutum definitumque
significant, nec interest quod flecti casibus nequeunt, non est hoc nominum
proprium ut casibus inflectantur. Sunt enim nomina quae a grammaticis
*monoptota* nominantur, participium uero quia temporis significationem trahit,
etsi casibus effertur, uerbo tamen recte coniungitur. Interiectiones autem
siquidem, naturaliter significent, nec uerbo, nec nomini copulandae sunt; uerbi
enim ac nominis definitiones non habent esse naturalia sed ad ponentis placitum
constituta, atque ideo nec in orationis partibus numerabuntur. Oratio enim
positione significat, nam si naturaliter significaret oratio, non diuersa
gentes orationes loquerentur. Si quae uero interiectionem positione significant,
quoniam finitam sine tempore affectionem designant, recte nominibus
annumerantur. Quae uero ipsa, quidem nulla propria significatione nituntur, cum
aliis uero iunctae designant, ut coniunctiones atque praepositiones, illae ne
partes quidem orationis esse dicendae sunt; oratio enim ex significatiuis
partibus iuncta est. Quocirca recte nomen ac uerbum solae orationis partes esse
dicuntur. Oratio est uox significatiua secundum placitam, cuius
partes aliquid extra significant ut dictio, non ut affirmatio.
Oratio igitur habet simul cum uerbo et nomine commune, quod uox est, quod
significatiua est, quod secundum placitum est. Separatim uero cum nomine illi
commune, est quod aliquando sine tempore est, ut Virgilianus quem supradiximus
uersus: Nerine Galathea thymo mihi dulcior Hyblae et qui
sequitur: Candidior cygnis, bedera formosior alba. Cum uerbo autem
quod interdum cum temporis significatione profertur, ut: Si qua tui
Coridonis habet te cura, uenito. Differt autem ab utroque quod partes
orationis a tota separatae oratione significant. Sunt enim partes orationis
nomen et uerbum quae significatiua esse dum ea definiremus ostendimus.
Significant igitur partes orationis ut dictio, non ut affirmatio, quanquam
aliquoties quidem ut affirmatio sed non semper tamen, semper autem ut dictio.
Est enim dictio simplex uerbi ac nominis nuncupatio. Nam cum dicimus: Si
dies est, lux est hanc totam orationem si diuidere in partes uelimus,
scilicet dies est, lux est, utraque pars ut affirmatio significabit, dies est,
lux est, aftirmationes esse manifestum est. At si minutatim tota orationis
membra carpamus, usque in nomina ac uerba postrema fiet resolutio. Dicemus enim
partes esse superius positae orationis, dies et lux et est, quae per se prolata
non sunt affirmationes sed tantum dictiones. Omnis uero oratio, quoniam ex
uerbis nominibusque consistit, in nomina et uerba solui potest. Non enim omnem
orationem in affirmationem cedi possibile est, ueluti si quis dicat lux est,
huius partes sunt, lux atque est, quas non esse affirmationes sed simplices
dictiones nullus ignorat. Cum igitur oratio quidem non semper in affirmationem
solui queat semper autem in simplices dictiones, iure dictum est orationis
partes extra aliquid designare non ut affirmationes sed potius ut
dictiones. Orationis autem species (ut arctissime diuidamus) sunt
quinque, interrogatiua, ut Quo te, Meri, pedes? an quo uia ducit in
urbem? Imperatiua, ut: Suggere tela mihi. Inuocatiua,
ut: Dii maris et terrae, tempestatumque potentes. Deprecatiua: Ferte
uiam, uenti, facilem, et spirate secundi. Enuntiatiua: Est mihi
disparibus septem compacta cicutis Fistula. Quarum quidem praeter
enuntiationem nulla uel esse aliquid, uel non esse designat. Caeterae namque
uel interrogant, uel inuocant, uel imperant, uel precantur. Enuntiatio uero
semper esse aliquid aut non esse significat. Atque ideo sola enuntiatio est, in
qua ueritas uel falsitas inueniri queant. Unde etiam enuntiationis nascitur
definitio, est enim enuntiatio quae uerum falsumue denuntiat. Hanc etiam
proloquium uel propositionem Tullius uocat, quae quidem partim simplex, partim
composita. Simplex est quae conditione seposita esse aliquid uel non esse
proponit, ut: Plato philosophus est. Composita uero quae ex duabus
simplicibus copulante conditione consistit, ut: Plato si doctus est,
philosophus est. Simplicium uero enuntiationum alias in qualitate sitas,
alias in quantitate differentias inuenimus. In qualitate quidem quod alia
affirmatiua, alia negatiua est. Enuntiatio affirmatiua est enuntiatio aliquid de
aliquo significans, ut: Plato philosophus est philosophum de Platone
praedicamus. Negatiua uero est enuntiatio aliquid ab aliquo praedicatione
seiungens, ut: Plato philosophus non est philosophum enim a Platone
tali praedicatione seiunximus. Secundum quantitatem uero differentiae
enuntiationum sunt, quod aliae quidem uniuersales aliae particulares aliae
indefinitae, alio singulares. Uniuersales sunt quae siue affirment, siue
negent, uniuersaliter tamen enuntiant uniuersale subiectum, ut: Omnis homo
sapiens est. Nullus homo sapiens est homo uniuersale quiddam est. Multos
enim sub se indiuiduos coercet et continet, qui uniuersaliter enuntiantur, dum
ei omnis uel nullus adiungitur. Particulares uero quae uel affirmando uel
negando ambitum subiecti uniuersalis in partem redigunt, ut: Quidam homo
sapiens est. Quidam homo sapiens non est hic enim uniuersalitas hominis,
adiecta particulari determinatione minuta est, atque in partem redacta.
Indefinitae uero sunt quae absque uniuersalitatis et particularitatis determinatione
dicuntur, ut: Est homo sapiens. Non est homo sapiens Singulares uero
sunt quae de singulari aliquid et de indiuiduo affirmando negandoue proponunt,
ut: Socrates sapiens est. Socrates sapiens non est Differt autem
particularis propositio a singulari, quod particularis quidem unum aliquem
subiicit, nec quis sit iste designat, ut: Quidam homo sapiens est
quis iste homo sit propositio non declarat. Singularis uero unum aliquem sumit,
et quis iste sit significat, ut: Socrates sapiens est unum enim et
hunc Socratem sapientem esse proposuit. Amplius particularis omnis uniuersalem
quidem terminum ponit sed ei detrahit uniuersalitatem, dum qualitatem
particularitas adiungit, ut in propositione: Quidam homo sapiens est
Homo uniuersalis est terminus, multos enim propria praedicatione concludit. Sed
quia dicitur quidam, ad unum homo redigitur, qui uniuersale persisteret, nisi
particularitas fuisset adiuncta; in singularibus uero propositionibus
praedicato termino semper indiuiduum supponitur, ut: Socrates sapiens
est Socrates enim singularis est, atque indiuiduus; idcirco igitur illa
particularis propositio quae partem ex uniuersalitatem detrahit, haec singularis
quae in singularis atque indiuidui praedicatione consistit. Simplicium
uero enuntiationum partes sunt subiectum atque praedicatum. Subiectum st quod
praedicati suscipit dictionem, ut in ea propositione quae est: Plato
philosophus est. Plato subiectum est, de ipso enim philosophos praedicatur, et
in eo philosophi suscipit dictionem. Praedicatum uero est quod dicitur de
subiecto, ut in eadem propositione, philosophos dicitur de Platone subiecto,
semper enim quod subiectum est uel minus est, uel aequale praedicato: minus
quidem ut in ea propositione de qua paulo ante tractauimus. Plato enim
philosophi nomen non potest aequare neque solus Plato philosophus est; aequalis
uero est subiectus terminus praedicato, ut si quis dicat: Homo risibilis
est homo enim qui subiectus est terminos praedicato risibili coaequatur.
Unde fit ut possit reddi reciproca praedicatio, scilicet, ut uices subiectum
praedicatumque permutent, subiectumque fiat quo erat antea praedicatum,
uersoque ordine praedicetur quod fuerat ante subiectum, ut si dicatur quod
risibile est homo est; omnia enim quae sunt aequalia de se inuicem
praedicantur. Ut uero id quod subiectum est maius possit esse praedicato, nulla
prorsus enuntiatione contingit, ipsa enim praedicata natura minora esse non
patitur. Sed quod aequale uel maius est, id semper de aequali uel minore
praedicatur. Has uero enuntiationum partes, id est praedicatum atque subiectum
terminos appellamus. Termini uero dicuntur quod in eos postrema sit resolutio:
itaque in singularibus uel indefinitis propositionibus duos terminos semper
inuenimus, et uerbum quod propositionis determinet qualitatem, ut in propositione
qua dicimus: Socrates sapiens est Socrates quidem ac sapiens
terminos esse manifestom est. Est uero uerbum non est terminus sed designatio
qualitatis, et qualis propositio sit negatiuam affirmatio significat, et nunc
quidem solo est uerbo propositioni accommodato facta est affirmatio. At si non,
quod est abuerbium negatiuam esset ad iunctum ita diceretur: Socrates
sapiens non est atque hoc modo mutata qualitate fieret de affirmatione
negatio. "Est" igitur et "non est" non sunt termini
sed, ut dictum est, significatio qualitatis. Eadem omnia etiam in indefinita
propositione conueniunt; quod si sint tales orationes: Socrates est, dies
est "est" ui gemina fungitur, scilicet praedicati, est enim
uerbum de Socrate et die praedicatum, et signi qualitatis, idem namque est
solum positum affirmationem efficit, cum negatiuo aduerbio negationem. At si
sint propositiones quae differentias secum habeant quantitatum, ut sunt
uniuersales ac particulares, eadem uis permanet terminorum; "omnis"
enim ac "nullus" et "quidam" terminis non annumerantur sed
enuntiationem significant qualitatem. Atque ideo recte quod subiicitur ac
praedicatur termini nuncupati sunt, quoniam in eos tantum resoluitur propositio.
Caetera enim quae simplicibus enuntationibus adiunguntur, aut qualitatem
propositionum retinent, aut quantitatem significant. Propositionum uero
simplicium aliae sunt quae in nulla parte conueniunt, ut: Plato
philosophus est et: Virtus bona est utraque enim aliud quiddam
de alio praedicatur, nec babent aliquid in proponendi ratione commune. Illa
enim Platonem philosophum dicit, illa uirtutem bonam esse pronuntiat. Aliae
uero sunt quae aliqua terminorum participatione iunguntur. Id autem duobus
fieri modis potest, aut enim ordine eodem, aut per ordinis commutationem. Eodem
uero ordine duplici modo, si uel simplices terminos in utriusque constituas uel
si per oppositionem fiat participatio terminorum: quod tribus neque amplius
continget modis, nam uel praedicato, uel subiecto, uel utriusque terminis
negatio copulatur. Ordinis etiam commutatione conueniunt duobus modis, aut enim
per simplicem terminorum praedicationem, aut per eorumdem terminorum
oppositionem. Haec quoque oppositio terminorum triplicem recipit modum, cum
negatio uel praedicato, uel subiecto, uel utrisque coniungitur; illae uero quae
altero termino participant et tribus modis, uel cum in una propositione quod
praedicatur in altera subiectum est, uel cum idem in utriusque praedicatur, uel
cum idem in utrisque subiectus est. Et quoniam omnium sibimet conuenientium
propositionum ordinatissimam fecimus diuisionem, nunc de singulis quibusque
tractemus, ac primum de ea propositionum conuenientia, quae cum utrisque
participet terminis, participandi tamen ordinem seruent, ea est
huiusmodi: Omnis homo sapiens est. Nullus homo sapiens est. Utraque enim
propositio hominem subiicit, et praedicat sapientiam, et cum utroque termino
congruant, sunt tamen diuersae, quoniam haec affirmatio est, illa negatio. Et
hoc quidem exempli gratia dictum sit, plenius uero fiet de tali participatione
tractatus hoc modo. Cunctarum simplicium propositionum differentias, uel
in qualitate, uel in quantitate sitas esse ostendimus; in quantitate cum
uniuersaliter pronuntiat [F. pronuntiantur] uel particulariter uel indefinite,
uel singulariter proferuntur, in qualitate uero cum hae quidem affirmatiuae
sunt, illae uero negatiuae. Si igitur duas affirmatiuas aggregamus fiunt mixtae
cum utrisque octo differentiae, quae simul qualitatem quantitatemque
contineant. Sunt autem mixtae hae, affirmatio uniuersalis, negatio uniuersalis,
affimatio particularis, negatio particularis, affirmatio indefinita, negatio
indefinita, affirmatio singularis, negatio singularis. Quarum quidem
indefinitas singularesque segregemus, et de uniuersalibus ac particularibus
disseramus. Describatur ergo uniuersalis primum affirmatio: Omnis homo
iustus est cuius aduersum tenet locum negatiua propositio
uniuersalis: Nullus homo iustus est item sub uniuersali affirmatione
ponatur particalaris affirmatio, quidam homo iustus est, hanc aduersa fronte
respiciat, sitque uniuersali negatiuae supposita particularis negatio: Quidam
homo iustus non est. Uniuersalis affirmatio: Omnis homo
iustus est. Uniuersalis negatio: Nullus homo iustus est. Particularis
affirmatio: Quidam homo iustus est Particularis negatio: Quidam
homo iustus non est Harum igitur affirmatio atque negatio uniuersalis
qualitate quidem discrepant sed quantitate concordant; nam quod haec quidem
affirmatio est, illa uero negatiua est, sunt in qualitate diuersae, quia uero
utraque unuersalis est quantitate conueniunt. Harum igitur uel utrasque falsas,
uel alteram ueram alteram falsam recipere possibile est, utraeque autem simul
uerae nequeunt inueniri, nam in proposita descriptione affirmatio quae
est: Omnis homo iustus est et negatio quae est: Nullus homo
iustus est cum utraeque sint uniuersales, neutra tamen est uera. At si
sit affirmatio: Omnis homo animal est atque uniuersaliter denegetur
ita: Nullus homo animal est uel ita: Omnis homo lapis est.
Nullus homo lapis est unam ueram, alteram falsam esse necesse est. Atque
ideo quoties ea praedicantur quae et conuenire subiecto et ab eo ualeant
segregari et uniuersaliter illa confirmat haec denegat, utrasque falsas
contingit, et superius positis declaratur exemplis. Iustitia enim cum esse in
hominibus possit, non tamen ita hominibus inhaesit, ut ab eis separari nullo
modo queat, atque ideo neque omnis homo iustus est, neque omnis homo iustus non
est, contingit utrasque mentiri; at si tale sit quod a subiecto abstrahi
separarique non possit, uel quod nunquam possit euenire subiecto, et quae
uniuersaliter affirmatiua est uniuersaliter abnuatur, euenit uni ueritatem,
alteri semper adesse mendacium sed ita ut si a subiecto quod praedicatur non potest
segregari, uera sit semper affirmatio, falsa negatio; at si quod euenire non
potest praedicatur, affirmatio quidem falsa sit sed uera sit negatio. Nam
quoniam anima non ab homine potest segregari, quae hominem animal esse
confirmat uera est, falsa uero illae quae denegat; item si quod non potest
fieri praedicetur, fiatque affirmatio, omnem hominem esse lapidem, idque
aduersa propositio neget, nullumque hominem lapidem esse concedat, negatio
quidem ueritati, affirmatio autem iuncta est mendacio: simul autem ueras esse
affirmationem uniuersalem uniuersalemque negationem nulla poterunt exempla
monstrare. Atque ideo uniuersalis quidem affirmatio, uniuersalisque negatio
contraria dicuntur, nam ut in contrariis aliquid medium cortinentibus potest
neutrum inesse subiecto, ut corpus neque nigrum sit neque album, quoniam est
quod praeter ea esse possit, ut rubrum, itemque in contrariis medietate
carentibus necesse est alterum semper inesse subiecto ut omne animal aut
dormita ut uigilat, quoniam inter dormire ac uigilare nihil medium est; autem
simul atque in eodem utraque contraria reperiantur fieri nequit. Ita etiam in
uniuersalibus affirmatione ac negatione: ut utraeque falsae sint, exemplo
contrariorum aliquid medium claudiunt; uel altera uera, falsa uero altera,
sicut in contrariis quae medio carent fieri posse manifestum est sed
impossibile est ut utriusque sententia in ueritate conueniat, sicut nulla
contraria simul esse patiuntur. Atque ideo uniuersalis aftirmalio uniuersalisque
negatio contrariae nominantur. Hae igitur non eam uim ipsa semper aduersitate
conseruant, ut eis sit perpetua atque inconciliata discordia, nec se semper
inuicem perimunt, quae cum sententia dissideant communi tamen falsitate
concordant. Si igitur earum una sub mota sit, non necesse est ut esse
altera consequatur: fieri enim potest ut neutra sit, uelut si omnem iustum esse
hominem destruat, non est consequens ut nullus homo sit iustus. Quae autem sub
his propositionibus collocantur, id est particularis affirmatiua atque negatio,
subcontrariae nomen habent, idcirco quod uniuersalitati particulare commune
subiectum est; cum igitur uniuersales intelliguntur esse contrariae,
subcontrarias esse necesse et quae sub uniuersalibus contrariis collocantur.
Horum quoque quantitas est eadem, quoniam utraeque sunt particulares; diuersa
qualitas intelligitur, quoniam affirmatio haec est, illa uero negatio; sed
quanquam contrariis uideantur esse subiectae, conuerso tamen modo particulares
in ueritate sibimet, noii in falsitate consentiunt. Nam ut haec uerum, falsum
illa pronuntiet, atque utraeque sint uerae tacile propositis declaratur
exemplis; ut uero utraeque falsae sint, non potest inueniri. Nam si quod neque
separari, neque possit adesse subiecto, alterutra enuntiet propositio, una est
ueritati, altera cognata mendacio. Et siquidem quod a subiecto separari non
potest praedicetur, affirmatio sola ueritatis calculum tenet; at si quod
subiecto impossibile adesse dicatur, sola obtinet negatio ueritatem, ut si quis
enuntiet: Quidam homo animal est et alius neget: Quidam homo
animal non est uel ita: Quidam homo lapis est. Quidam homo lapis non
erat utraque affirmationum negationumque oppositio uerum inter falsumque
partitur. Sed in prioribus quidem affirmatio, in posterioribus autem uera
negatio est. At si quod euenire quadem possit sed a subiecto tamen aliquando ualeat
segregari, affirmatio particularis, negatioque pronuntietur, utrasque ueras
esse necesse est, ut: Quidam homo iustus est Quidam homo iustus non
est ut uero utraeque falsae sint, nulla potuerunt exempla congruere.
Quocirca ne ista quidem quas subcontrarias appellamus semper sese inuicenm
perimunt, quandoquidem aliquoties in ueritate concordant. At si omnibus differentiis
dissidentes ac inuicem destruentes inuenire conemur, respiciendae sunt
angulares; hae uero sunt uniuersalis affirmatio et negatio particularis, uel
uniuersalis negatio et affirmatio particularis; his enim tanta inter se
discordia manifesta est, ut neque in falsitate unquam, neque in ueritate conueniant,
semperque necesse est cum affirmatio sit uera, negationem esse mendacem, cum
negationi adsit ueritas, affirmationi esse propriam falsitatem. At primum cum
geminas esse propositionum differentias dixerimus in qualitate scilicet et
quantitate, harum et qualitas diuisa esse probator et quantitas: nam quod haec
affirmatio est, illa negatio, in qualitate dissentiunt; quod uero haec
uniuersalis, in particularis quantitate discordant. Item neque in
falsitate, neque in ueritate unquam poterunt conuenire. Siue enim de his
quae a subiecto abesse non possunt unam semper ueram esse necesse est, alteram
falsam, nam si talis terminus praedicatur, ut cum uel adesse subiecto uel non
adesse contingat, uniuersales semper falsae sunt, particulares uerae sunt, si
quis enim ita proponat: Omnis homo iustus est atque alius
neget: Quidam homo iustus non est uniuersalis affirmatio falsa est,
particularis est uero negatio, similiter autem si quis ita pronuntiet: Nullus
homo iustus est uniuersalis negationis falsa, particularis affirmationis
uera sententia est; ita in his quae uel adesse subiecto, uel abesse contingant,
uniuersales falsitati coniunctae sunt, particulares obtinent ueritatem.
At si tales termini sint, qui separari atque a subiecto diuidi nequeant, siue illa
sit uniuersalis, siue particularis, haerebit semper affirmationi ueritas,
negationi mendacium, ut si quis uniuersaliter enuntiet omnem hominem esse
animal, aliusque particulariter neget, quemdam hominem non esse animal
affirmatio uniuersalis uerum loquitur, particularis negatiuae falsa sententia
est. Item si quis uniuersaliter negando proponat nullum hominem esse animal,
particularem affirmationem ueritas sequitur, haeret uniuersalis negatio
falsitati; quod si sint quae predicantur ut nunquam possint adesse subiecto,
seu illae uniuersaliter seu particulariter proponantur, negationes ornat
ueritas, affirmationes falsitas decolorat. Si quis enim confirmat dicens omnem
hominem lapidem esse, aliusque quemdam hominem non esse lapidem respondeat,
uniuersalem affirmationem falsitas, particularem negationem ueritas tenet; quod
si ita quis uniuersaliter neget: Nullus homo lapis est et
particulariter affirmet: Quidam homo lapis est uniuersali constat
negatione ueritas, particularis affirmatio non caret falsitate. Quoquo
igitur modo praedicata uel subiecta mutaueris, si tamen uniuersalem
affirmatiuam particulari negatiuae, uel uniuersalem negatiuam particulari
affirmatiuae consertam a singulari consideratione committas, si haec falsa
illam reram esse contingit, et si haec uera est illam falsam necesse est
inueniri, atque idcirco has inter se oppositas et contradictorias
nuncupamus. Et hactenus quidem affirmationes et negationes auersis
intentionibus conferentes, quid in eis discordiae ac diuersitatis esset
ostendimus; nunc uniuersalem affirmationem particulari affirmatiuae, et
uniuersale in negationem particulari negatiuae ad ueritatis falsitatisque
conuenientiam comparemus. Harum namque inter se nulla discordia est, atque ideo
non de earum dissensu sed de consensu potius uidetur esse quaerendum.
Primum igitur uniuersalis affirmatio et particularis affirmatio subalternae
dicuntur, quoniam altera subiacet alteri, id est particularis affirmatio
uniuersali affirmationi supposita est atque subiecta, ueluti pars intra totius
semper ambitum latet; idemque de uniuersali et particulari negatiua dicendum
est, subalternae enim uocantur, quod superior atque amplior uniuersalis negatio
intra se particularem negationem claudit et continet. Haec igitur tali
ratione consentiant, si enim uniuersales in ueritate praecedant, particulares
ueras esse necesse est, ut si quis uniuersaliter affirmando proponat, omnem
hominem animal, ea cum sit uera, particularis sibi affirmationis ueritatem comitem
trahit, ea uero est: Quidam homo animal est. Nam si uerum est omnem
hominem esse animal, uerum est esse aliquem; item si quis uniuersaliter
enuntiet nullum hominem esse lapidem, et uerum dixerit, subiecta ei
particularis negatio idem retinet, nec mentitur qui dixerit quemdam hominem
lapidem non esse; ita igitur uniuersalibus affirmatione ac negatione uera
dicentibus, particularis affirmatio et negatio ueram uniuersalium sententiam consequuntur.
At si uniuersales falsae sint, non necesse est particulares uniuersalium
consensu praebere mendacinm, uelut in his uniuersalibus qua proponunt omnem
hominem esse iustum, uel nullum hominem esse iustum, quae cum una sit
affirmatio, altera negatio, utraeque sunt falsae; sed eas particularium
falsitas non ex necessitate consequitur, nam et quemdam hominem esse iustum,
quae particularis est affimatio, uere quis dixerit, atque ideo falsis
uniuersalibus, particulares ueras esse non necesse est. Quod enim uniuersalis
affirmatio falsa dicatur omnem hominem esse lapidem, errat particularis
affirmatio quae proponit quemdam hominem esse lapidem. At si uniuersalis
negatio falsa proponatur nullum hominem esse animal non idcirco partirularis
erit uera negatio, si pronuntiet quendam hominem non esse animal, atque ideo
uniuersalibus quidem in ueritate manentibus, particulares necesse est
uniuersalium consentire ueritati, at si uniuersalibus falsitas inhaerebit,
particulares tum ueras, tum etiam falsas esse possibile est, ueras quidem si
quidtale praedicetur quod adesse subiecto possit, et a subiecto ualeat
separari, falsas esse utrasque, affirmationem quidem particularem, si in eo sit
uniuersalis falsa affirmatio quod subiecto non potest conuenire, negationem
particularem, si in eo uniuersalis negatio mentiatur quod a subiecto non potest
segregari, ut posita superius exempla declarant. Quod si ad ueritatis et
falsitatis consequentiam particulares propositiones locum principem sortiantur,
contraria eis uniuersalis propositionis ratione conueniunt. Nam si sint falsae,
particulares falsas esse necesse est; sin uero particulares uerae sint, tum uniuersales
uerae sunt, tum etiam falsae. Nam si particularis affirmatio est falsa, quae
dicit aliquem hominem esse lapidem, uniuersalis quoque affirmatio falsa est
quae proponit omnem hominen esse lapidem. Item si particularis est falsa negatio
quae decernit quemdam hominem non esse animal, falsa erit uniuersalis negatio
quae nullum hominem animal esse contendit. At si particularis affirmatio uel
negatio uerae sunt, idque praedicatur quod a subiecto diuidi ac segregari
queat, affirmationem negationemque uniuersales non est dubium posse mentiri, ut
quod iam uerae sint particulares quae proponunt quemdam hominem esse iustum, et
quemdam hominem non esse iustum, his suppositas uniuersales falsas esse
manifestum est, ut ea quae dicit: Omnis homo iustus est et: Nullus
homo iustus est. At si quid tale affirmatio particularis pronuntiet quo
subiectum carere non possit, uera erit superposita affirmatio uniuersalis, ut
cum aliquis enuntiat quemdam hominem esse animal, huic uniuersalis affirmatio
in ueritate consentit, quae est omnis homo animal est. At si quid particularis
negatio tale proponat, quod subiecto nequeat inhaerere, ueritatem particularis
negationis uniuersalis negatiuae ueritas necesso est consequatur, ut cum
aliquis dicit quemdam hominem lapidem non esse, consonat uniuersalis ueritas
propositionis quae nullum hominem lapidem esse pronuntiat: quo fit ut
praecedentibus quidem uniuersalibus ueris, particulares ueras esse necesse sit;
praecedentibus uero in falsitate particularibus, uniuersalium ueritas non
subsequatur; manentibus uero uniuersalibus falsis, particulares mendacium
dicere non sit necesse, sicut ne uera quidem particularibus proponentibus,
ueram uniuersalium necesse est esse sententiam. Et hoc quidem exempla docuerunt:
ut autem firma demonstratione clarescat, utilis ad euidentiam rerum descriptio
proponatur. Ex his ergo quae superius dicta sunt intelligi potest contrarias
quidem uel uerum inter se falsumque diuidere, uel simul posse mentiri, ueras
simul esse non posse; subcontrarias uero uel utrasque ueras esse, uel alteram
ueram, alteram falsam, nunquam tamen simul proferre mendacium; angulares autem
neque in ueritate unquam, neque in mendacio consonare sed uni semper ueram,
alteri semper falsam esse sententiam. Nunc demonstrandum est
uniuersalibus ueris particulares non posse mentiri, falsis autem uniuersalibus
posse particulares non falsa proferre. Dico enim si uniuersalis affirmatio sit
uera, particularem quoque affirmationem ueram futuram; nam si falsa est, erit
uera quae particulari affirmationi opponitur uniuersalis negatio sed posita est
uera affirmatio uniuersalis; hoc igitur modo utrasque simul ueras esse
contingit, affirmationem scilicet uniuersalem uniuersalemque negationem, quod
euenire non posse monstratum est; non igitur fieri potest ut affirmatiua
uniuersali uera proposita, particularis affirmatio mentiatur. Rursus si
uera est uniuersalis negatio, particularem quoque negationem ueram esse
concedo, nam si falsam quis dixerit uniuersalem affirmationem, quae est ei
opposita ueram necessario esse fatebitur. At si uniuersalis negatio uera esse
proposita est, simul igitur uniuersales negationem et affirmationem ueras esse
contingit; quod fieri non posse superius posita exempla docuerunt. At si
falsa est uniuersalis affirmatio, particularis uel falsum poterit enuntiare uel
uerum: quo posito nihil impossibile comitatur, siue enim falsa sit, erit uera
negatio uniuersalis, seu uera illa sit, uniuersalem negationem falsitas
obtinebit. Quod fit ut falsa uniuersali affimatione, uniuersalis negatio, tum
si falsitate consonet, tum ab ea ueritate discordet, quod non esse impossibile
superioribus docetur exemplis. Eodem quoquo modo et si uniuersalis
negatio falsa sit, particularem negationem, uel ueram uel falsam esse possibile
est, neque idcirco aliquid sequitur incongruum. Particulari namque negatione
uera, uniuersalis affirmatio mentietur; eadem falsa, uerum uniuersalis
affirmatio pronuntiat: quo fit ut falsa uniuersali negatione proposita,
affirmationem uniuersalem tum ueram, tum falsam rationis demonstret euentus,
quod impossibile non est. Rursus si particulares false sunt, uniuersalis
quoque falsitas sequitur. Nam si particularis affirmatiua pronuntiet mendacium,
uniuersali quoque affirmationi falsitas inhaerebit, nam si haec uera est, falsa
erit ei apposita negatio particularis; sed affirmationem particularem
constituimus esse mendacem, simul igitur particularis affirmatio et negatio
falsa sunt, quod esse inconueniens praecedens tractatus declarauit. Item,
si particularis negatio falsa dicatur, uniuersalis quoque negationis falsitas
consonabit: nam si negatio uniuersalis uera est, falsa est opposita, quae est
affirmatio particularis, quomodo utrasque particulares, affirmationem scilicet
ac negationem, simul falsas esse contingit, quod fieri non posse
praediximus. At si uera sit affirmatio particularis, falsa uel uera
uniuersalis affirmatio esse potest: sed si falsa sit particularis, negationem
ueram esse necesse est; si uera sit, habebit particularis negatiua mendacium.
Sed cum uera sit affirmatio particularis, negationem particularem uel falsam
esse uel ueram nihil est impossibile. Rursus si negatio particularis
teneat ueritatem, uniuersalis negatio uel ueritatem tenere potest uel proferre
mendacium. Nam si uera est, oppositam affirmationem particularem falsam esse
manifestum est; si falsa est, ueritatem particularis affirmatiua custodiet: quo
fit ut si particularis negatio teneat ueritatem, affirmatio particularis uera
uel falsa sit, quorum neutrum impossibile. non esse praemissa docuerunt.
Atque haec quidem de uniuersalibus dicta sufficiant. Nunc de infinitis ac
singularibus disseramus, quarum quidem indefinitae sunt, quibus nulla
significatio determinationis adiungitur sed praeter uniuersalis et particularis
intelligentiam quantitatis proferuntur, ut: Homo iustus est. Homo iustus
non est quibus tametsi ut, dictum est, nulla significatio determinationis
adiungitur, uim tamen obtinent particularium propositionum. Namque ut illae
quas subcontrarias in priore descriptione signauimus, alias quidem inter se
uerum falsumque distribaunt, alias quidem inuicem ueritate conspirant, nunquam
tamen simul uidentur posse mentiri, ita etiam indefinitae, siquidem tale est
quod enuntiat quod subiecto semper inesse necesse sit, affirmatio est uera,
falsa negatio, ut in his propositionibus: Homo animal est. Homo animal non
est. At si id in indefinitis propositionibus efferatur quod subiecti
natura non suscipit, negatio quidem uera est sed affimatio iuncta est falsitati,
ut si quis dicat: Homo lapis est. Homo lapis non est ut uero
utraeque in pronuntianda falsitate consentiant, non potest inueniri. Eadem
tamen ab uniuersalibus affirmatiuis atque negatiuis, ita dissentiunt, ut quoquo
modo subiecta permutes, una semper ueritatis, altera sit semper plena mendacii.
Exemplum uero huiusmodi praedicati, quod subiecto semper inhaereat, hoc
est: Omnis homo animal est. Homo animal non est. Nullus homo animal est. Homo
animal est. Hic indefinitae ui eadem funguntur qua et particularis, huius
uero quod nunquam inhaeret, hoc est: Omnis homo lapis est. Homo lapis non
est. Nullus homo lapis estt. Homo lapis est in his quoque
indefinita, uniuersalibus oppositae per unamquamque oppositionem unam ueram,
falsam alteram reddiderunt, item quod suscipere subiecti naturam ualeat et
possit amittere. Omnis homo iustus est. Homo iustus non est. Nullus homo
iustus est. Homo iustus est in his etiam indefinitae particularibus
immutatae sunt, quae uniuersalibus obiecta per unamquamque propositionum
aduersitatem, uni semper uerum, alteri diuisere mendacium. Praeterea quoque
modo terminorum exempla ponantur, si affirmationes affirmationibus, negationes
negationibus comparemus, uniuersalibus ueris indefinitarum ueritas prouenit, ut
cum uerae sunt, omnem hominem esse animal, et nullum hominem esse lapidem,
constat ueritas indefinitis quae proponunt, et hominem animal esse, et hominem
lapidem non esse. At si uniuersalium falsitas antecedat, indefinitarum uel
ueritas, uel mendacium uariabit, hoc modo. Falsa enim est uniuersalis
enuntiatio quae proponit omnem hominem esse iustum; sed ea quae dicit hominem
esse iustum, tenet in humanae naturae parte ueritatem. Nam si non habet omnis
homo iustitiam, cum tamen aliquis habeat, uere dici potest hominem esse
iustum. Item, cum proponitur uniuersaliter: Nullus homo iustus est
falsum est, at si id indefinitae denegetur, a ueritate non discrepat. Nam cum
sit aliquis homo non iustus, non mentietur qui pronuntiauerit hominem esse non
iustum. Item cum sit falsa quae uniuersaliter affirmat dicens omnem hominem
esse lapidem, falsa est quae idem indefinita enuntiatione confirmat dicens
hominem esse lapidem. Rursus cum sit falsa negatio per quam proponitur
nullum hominem esse animal, falsa est indefinita negatio quae pronuntiat
hominem non esse animal. Hic quoque particularium similitudo seruata est. Nam
in subalternis uera uniuersalitas ueritatem particularitatis trahebat. Falsa
uero uniuersalitas nec ueritatis, nec mendacii necessitatem particularibus
afferebat. Eadem omnia uniuersalium atque indefinitarum collatione
proueniunt. Rursus indefinitas primum falsas constet, uniuersales quoque
necesse est esse mendaces, ut si falsum sit esse hominem iustum, falsum erit
omnem hominem esse iustum, quandoquidem non capit ueritatem, si iustus uel unus
homo non fuerit. Item, si indefinita negatio mentiatur, uerum uniuersalis
negatio non habebit, ueluti si falsa sit ea qeae dicit hominem non esse iustum,
quandoquidem non potest uniuersaliter ab homine denegari, si uel uni hominum
probabitur adesse iustitia. At si indefinitae sententiam ueritatis obtineant,
uniuersales tum ueras, tum eueniet esse mendaces: uelut cum dicimus hominem
esse iustum uerum est, est enim homo qui iustitia non careat. Huius uniuersalis
negatio mentietur, cum quis dixerit nullum hominem esse iustum. At si id
affirmabitur indefinite quod a subiecto diuelli secernique non possit, uera
nihilominus erit affirmatiua que proponit omnem hominem esse animal. At si id
quod subiecti naturam non recipit proponit indefinita negatio, ueluti si dicat
hominem lapidem non esso nihil ab eius ueritate uniuersalis negatiua dissentiet
ut ea quae nullum animal esse proponit. Nihil igitur dubium est indefinitas
particularibus esse consimiles, eamdemque uim ueritatis ac falsatis
significationibus obtinere: de quibus sufficienter dictum est. Nunc de
singularibus explicemus, quae nihil superioribus similes exstant. Illae
namque quoniam constituebant uniuersale subiectum, de quo praedicatum terminum
dicerent, idcirco suscipiebant etiam differentias quantitatis. Nam quod
uniuersale est et uniuersaliter et particulariter et indefinite poterit
pronuntiari. At hae quae unum aliquid ponunt, singuiariter atque indiuidue
differentias quantitatis habere non possunt, atque ideo sola in eis relinquitur
discrepantia qualitatis, quod haec quidem affirmatio, illa uero negatio. Semper
igitur inter se affirmatio et negatio singularis uerum falsumque distribuent,
si non caetera impediant quae sensum in alias atque in alias significationes
solent deflectere ac detorquere. Cum uero unum atque idem praedicatum
atque subiectum in affirmatione et negatione constiterit, uno eodemque sumptum
tempore, uno eodemque prolatum modo, ad unum atque idem relatum, de una atque
eadem parte propositum, necesse est ex his unam semper esse ueram, alteram
semper esse falsam. Nam siue aequiuocos terminos sumant siue non ad idem tempus
procedant, siue alius utrisque insit modus, siue ad alias partes uel ad aliquid
aliud referantur, ueras utrasque esse contingit. Age enim aequiuocum terminum
sumat affirmatio, dicatque: Cato Uticae se peremit negetque
negatio: Cato se Uticae non peremit. Hic igitur utraeque sunt uerae,
quoniam Cato aequiuocum est. Namque Cato praetorius Uticae sibi manus intulit,
Cato uero censorius minime. Item proponatur affirmatiua hoc modo: Nocte lucet
negatio respondeat: Nocte non lucet. Hic igitur lucere aequiuocum est.
Atque ideo nihil impedit quominus utraeque in ueritate permaneant. Affirmatio
namque cum dicit lucere nocte, lunae loquitur locem. Illa uero cum negat, de
solis luce significat. Hic igitur aequiuocum praedicatum utrasque uerum
conseruare permisit. Item si quis de Socrate proponat dicens: Socrates
sedet atque alius neget: Socrates non sedet utraeque uerae
esse queunt, si ad diuersa tempora referantur. Potest enim nunc quidem Socrates
sedere, alio uero tempore non sedere. Rursus si quis humani oculi colorem
nigrum esse confirmet, aliusque nigrum non esse contendat, utrique uerum
loquentur, si ad singulas oculi partes affirmatio negatioque referantur. Nam
quod circa orbem est qui medius pupulam tenet, album est. Ipse uero orbis niger
uisitur. Rursus si de Socrate inter duos locato quis dixerit: Socrates
dexter est aliusque respondeat: Socrates dexter non est
utrisque constare ueritas potest. Ad eum qui cum sinistra Socratis est, dexter
est. Ad eum uero cuius laeuo lateris pars Socratis dextra coniungitur, dexter
non est. Item, si quis ouum animal esse constituat, aliusque ouum animal
esse neget, utraeque a ueritate non dissonant: namque ouum potestate animal
est, actu animal non est. Ita igitur inter se singulariam subiectorum
propositiones uerum faleumque distribuent, ut unam ueritatem necesse sit
habere, alteram mendacium, si neque quod subiectum est, neque quod predicatum,
aliqua sit aequiuocatione confusum ad idem tempus, ad easdem partes, ad eumdem
modum, eademque rem ad quam affirmatio retulit ea quae proponuntur in negatione
afferatur, ut si quis de Socrate pronuntiet: Socrates caluus est Socrates
caluus non est si igitur de Socrate eodem affirmatio negatioque
proponant, si eamdem caluitii significationem affirmatio sumpserit et negatio,
si eamdem utraeque capitis partem loquantur, si uel actum utraeque potestatemue
significant, si nulla diuersitate temporis erretur, si non ad alium affirmatio,
ad alium negatio referatur, una semper ueritati coniuncta est, retinet semper
altera falsitatem. Quoniam de ea conuenientia propositionum quae utrisque
simplicibus terminis eodemque ordine captaretur explicui, nunc de ea partici
patione dicendum est quae et utrosque terminos et eumdem ordinem seruat; hoc
autem (ut dictum est) tribus contingere modis potest -- aut enim predicatus
tantum, aut subiectus terminus, aut uterque cum negatione proponitur. At tum
enuntiatio uel ab infinito subiecto, uel ab infinito praedicato, uel ab
infinitis utrisque consistit. Quoties enim nomini negatio subiungitur, nomen
redditur infinitum. Atque ideo per oppositionem participatio fieri
dicitur. Nomini enim simplici semper infinitum nomen opponitur, ut
"homo" "non homo", "animal" "non
animal", et caetera: quae cum ita sint, disponantur simplices, atque ex
earum natura caeteras colligamus. Primo igitur propositionum series
describatur, ea scilicet quae utrisque iungitur finitis, propositisque
simplicibus ita ex infinitis omnibus copulatarum propositionum ordo iungatur,
ut affirmationes affirmationibus, negationes negationibus, aduersis frontibus
collocentur. Omnis homo rationalis est. Omnis non homo non rationalis
est. Nullus homo rationalis est. Nullus non homo non rationalis est. Quidam
homo rationalis est. Quidam non homo non rationalis est. Quidam homo
rationalis non est. Quidam non homo non rationalis non est.
Omnis homo grammaticus est. Omnis non homo non grammaticus est. Nullus
homo grammaticus est. Nullus non homo non grammaticus est. Quidam homo
grammaticus est. Quidam non homo non grammaticus est. Quidam homo grammaticus
non est. Quidam non homo non grammaticus non est. Omnis homo lapis
est. Omnis non homo non lapis est Nullus homo lapis est. Nullus non
homo non lapis est. Quidam homo lapis est. Quidam non homo non lapis est.
Quidam homo lapis non est. Quidam non homo non lapis non est. Omnis homo
iustus est. Omnis non homo non iustus est. Nullus homo iustus est. Nullus
non homo non iustus est. Quidam homo iustus est. Quidam non homo non
iustus est. Quidam homo iustus non est. Quidam non homo non iustus non
est. Omnis homo risibilis est. Omnis non homo non risibilis est. Nullus
homo risibilis est. Nullus non homo non risibilis est. Quidam homo risibilis
est. Quidam non homo non risibilis est. Quidam homo risibilis non est. Quidam
non homo non risibilis non est. Harum igitur talis est consocianda
falsitate uel ueritate proprietas, ut affirmationes quidem inter se uniuersales
particularesque negationes uel in ueritate uel in mendacio consentire queant,
uel uerum inter se falsumque diuidere. Si quid enim de subiecto tale
praedicetur quod uel de subiecto nequeat segregari, ut ab homine
rationabilitas, uel a subiecto quidem recedere queat sed subiecti naturam non
possit aequare, ut hominis grammaticus, unam ueram, alteram falsam esse proueniet.
Nam qui dicit: Omnis homo rationalis est uerum loquitur, et qui
dixerit: Omnis non homo non rationalis est mentietur. Diuinae namque
substantiae rationis quidem compotes sunt sed homines non sunt. Item si
quis pronuntiet, omnis homo grammaticus, est falsum dixerit. At qui
proponit: Omnis non homo non grammaticus est uerum dixerit. Nam qui
homo non est, grammaticus esse non potest. At si id de subiecto praedicetur quod
uel nunquam subiecto ualeat conuenire, ut lapis homini, uel conueniens ab eo
possit abscedere, cum sit maius atque uniuersalius subiecto, ut iustitia
homini, simul utrisque falsitas prouenit. Nam si quis dicit: Omnis homo
lapis est falsam fecerit propositionem. Eodem quoque modo qui dixerit,
omnis non homo non lapis est, cum silex homo non sit sed lapis. Item
propositio: Omnis homo iustus est falsa est, cuius sequitur
falsitatem: Omnis non homo non iustus est. Nam diuinis substantiis adest
semper iustitia, cum non sit humanitas. At si quid tale de subiecto
praedicetur quod et semper ei copuletur, neque tamen subiectum possit excedere,
ut risibile homini, utrinque sententia in significandi ueritate
concurrit: Omnis homo risibilis est uera est: Omnis non homo
non risibilis est haec retinet ueritatem. Nam quia risibile hominis
proprium est, recte dicitur non esse risibile quidquid homo non fuerit. Eadem
omnia in particulari negatione redduntur. Nam siue quae sunt maiora subiecto
atque ab eo discedere nequeunt, at rationabilitas ab homine, uel quae discedunt
quidem sed sunt maiora subiecto, ut grammaticus homine, de subiecto
praedicentur, unam ueram, alteram falsam faciunt. Nam qui dicit: Quidam homo
rationalis non est falsum proposuit; qui uero respondet: Quidam non
homo non rationalis non est uerum loquitur. Diuina quippe
substantia non est quidam homo sed carere non potest humanae ratione naturae.
Item: Quidam homo grammaticus non est uera est sed falsa est si
dicam: Quidam non homo non grammaticus non est. Cum illud sit uerius,
quoniam qui homo non fuerit, non potest esse grammaticus. At si quae uel
nunquam de subiecto possunt uere praedicari, ut lapis de homine, uel
praedicantur quidem et sunt maiora subiecto sed ab eo discedere separarique
patiuntur, ut iustitia ab homine, ueras protinus utrasque conseruant. Nam qui
dicit: Quidam homo lapis non est uerum dixerit. At si quis
respondeat: Quidam non homo non lapis non est is quoque uerum
dixerit: si quidem de silice uel de huiusmodi caeteris uelit intelligi, quae
cum non sint homines, non lapides non sunt. Item: Quidam homo iustus
non est propositio ueritatem tenet. Sed ne illa quidem falsa est quae
proponit: Quemdam non hominem non iustum non esse hoc enim, ut
dictum est, diuinis substantiis inuenitur, ut iustitiam teneant, quamuis ab
hominis definitione seiunctae sunt. Item, si id quod abesse non potest,
et sit aequale subiecto, de eodem subiecto praedicetur, ut risibile homini,
incurrit utrisque mendacium. Nam: Quidem homo risibilis non est
falsa est, cuius falsitati sese aemulam praestat quae proponit: Quidam non
homo non risibile non est quasi qui homo non sit possit esse risibilis.
Ita igitur quidem in affirmationibus uniuersalibus et particularibus negatiuis
ueritas falsitasque et simul aliquoties inuenitur, et inter utrasque diuiditur.
Negationes uero uniuersales et particulares affirmationes non simili respondent
modo. Sed negationes quidem uniuersales, unam uerum dicere, alteram falsam,
simul utrasque falsas esse possibile est. Simul autem ueras nunquam esse
contingit. Nam si id quod adesse subiecto non potest, praedicetur, ut lapis
homini, unam ueram faciunt, alteram falsam, ut est: Nullus homo lapis est
uera est; falsa est quae proponit: Nullus non homo non lapis est
omnia quippe animalia praeter hominem ita non sunt lapides, sicut ab hominum
natura seiuncta sunt. Quidquid uero aliud de subiecto praedicetur, neutri
constare ueritas potest, ut si quis proponat: Nullus homo rationalis
est falsum dixerit; aliusque respondeat: Nullus non homo non
rationalis est hanc quoque conuincit ratio mentiri, equus quippe non homo
est, nec eum quis dixerit rationis esse participem; ut autem simul uerae sint,
nullus poterit terminus approbare. Particulares autem affirmatiuae in differentiam
ueritatis falsitatisque discedunt, quoties aliquid tale de subiecto dicitur,
quod nunquam possit adesse subiecto, ut lapis: nam si quis enuntiet: Quidam
homo lapis est falsa propositio est; at si quis respondeat: Quidam
non homo non lapis est tenet contrariam ueritatem, equus quippe non homo
est, nec lapis esse dicetur. Quidquid uero aliud de subiecto praedicabitur, est
eas in ueritatis significationem conuenire, ut: Quidam homo rationalis
est uera est, Quidam non homo non rationalis est huic quoque
ueritas constat, equus quippe non homo est, nec ratione subsistit; ut uero
simul falsae sint, nullis reperietur exemplis. Ad hunc igitur modum ei de
caeteris quae uel subiectum uel praedicatum retinent infinitum, ad ueritatis
falsitatisque consensum enuntiationum proprietas consideranda est, de quibus
modo breuiter quid eueniat tetigisse sufficiat, singula uero lectoris
exploranda diligentiae, et per conuenientes terminos rimanda permittimus.
Disponantur igitur propositiones quae ex utrisque simplicibus terminis
constant, easque quarum subiectum tantum abnuatur ex aduerse parte
respiciant. SIMPLICES EX SUBIECTIS FINITIS Omnis homo
rationalis est. Omnis non homo rationalis est. Nullus homo rationalis
est. Nullus non homo rationalis est. Quidam homo rationalis est. Quidam
non homo rationalis est. Quidam homo rationalis non est. Quidam non homo
rationalis non est. Omnis homo risibilis est. Omnis non homo
risibilis est. Nullus homo risibilis est. Nullus non homo risibilis est.
Quidam homo risibilis est.Quidam non homo risibilis est. Quidam homo risibilis
non est. Quidam non homo risibilis non est. Omnis homo iustus
est. Omnis non homo iustus est. Nullus homo iustus est. Nullus non
homo iustus est. Quidam homo iustus est. Quidam non homo iustus est. Quidam
homo iustus non est. Quidam non homo iustus non est. Omnis homo
grammaticus est. Omnis non homo grammaticus est. Nullus homo grammaticus
est. Nullus non homo grammaticus est. Quidam homo grammaticus est. Quidam
non homo grammaticus est. Quidam homo grammaticus non est. Quidam non
homo grammaticus non est. Omnis homo lapis est. Omnis non homo
lapis est Nullus homo lapis est. Nullus non homo lapis est. Quidam homo
lapis est. Quidam non homo lapis est. Quidam homo lapis non est. Quidam
non homo lapis non est. In harum igitur affirmationibus quidem
uniuersalibus ueritas et falsitas distribuitur, si quis tale de subiecto
praedicetur quod abesse non possit, siue illud maius sit, ut animal homine,
siue aequale, ut risibile homini. In his enim unam ueram, alteram falsam esae
neoesse est, quidquid uero praeter ea fuerit praedicatum, unam semper ueritas,
alteram semper falsitas non sequetur: ut autem simul uerae sint nequit
ostendi. Particularium uero in affirmationibus quidem, siquidem ea
praedicentur quae ualeant transire subiectum, siue ab eo separari nequeunt, ut
animal ab homine, seu possint, ut iustitia ab homine, loquitur utraque uera
sententia. Quidquid uero praeter ea fuerit praedicatum, unam ueritas, alteram
falsitas tenet; falsae uero simul nequeunt inueniri. Negationes uero
particulares siquidem id praedicent quod a subiecto non possit abscedere, siue
illud maius sit, ut rationale homine, seu aequale, ul risibile homini, uni
constabit ueritas, aItera mentietur. Si quid uero praeter ei fuerit
praedicatum, ueras semper utrasque constat, ut ineas communis falsitasnunquam
possit incidere. Item disponantur in ordinem primum quidem simplices, has e
regione respiciant quae subiecto simplici denegantur praedicato. SIMPLICES EX
INFINITO PRAEDICATO Omnis homo lapis est. Omnis homo non lapis est
Nullus homo lapis est. Nullus homo non lapis est. Quidam homo lapis
est. Quidam homo non lapis est. Quidam homo lapis non est. Quidam
homo non lapis non est. Omnis homo animal est. Omnis homo non
animal est Nullus homo animal est. Nullus homo non animal est. Quidam homo
animal est. Quidam homo non animal est. Quidam homo animal non est. Quidam
homo non animal non est. Omnis homo risibilis est. Omnis non homo
non risibilis est. Nullus homo risibilis est. Nullus non homo non
risibilis est. Quidam homo risibilis est. Quidam non homo non risibilis
est. Quidam homo risibilis non est. Quidam non homo non risibilis non
est. Omnis homo iustus est. Omnis non homo non iustus est. Nullus
homo iustus est. Nullus non homo non iustus est. Quidam homo iustus
est. Quidam non homo non iustus est. Quidam homo iustus non est. Quidam
non homo non iustus non est. Omnis homo grammaticus est. Omnis non
homo non grammaticus est. Nullus homo grammaticus est. Nullus non homo non
grammaticus est. Quidam homo grammaticus est. Quidam non homo non
grammaticus est. Quidam homo grammaticus non est. Quidam non homo non
grammaticus non est. Harum igitur affirmationes uniuersales, siquidem
praedicent quod subiecto nequeat conuenire, ut lapis homini, uel a subiecto,
cum sit aequale uel sit maius, non possit abscedere, ut animal uel risibile ab
homine, unam semper necesse est ueritatem. alteram proferre mendacium:
quidquiduero praeterea fuerit praedicatum, utrisque falsitas inuenitur, ut ad
ueritatem conuenire non possint. Negationes uero uniuersales siquidem id de
subiecto praedicent quod subiecto adesse possit et abesse, ita ut excedat, ut
uirtus hominem, uel id quod adesse quidem queat sed non possit adaequare
subiectum, ut grammaticus hominem, utraeque in falsitate communicant. Quidquid
uero aliud fuerit praedicatum, unam ueritas, alteram falsitas consequetur; ut
autem simul uerae sint, nequit ostendi. Particularium uero affirmationes
quidem simul uerae sunt, si id quod uel adesse possit uel abesse praedicetur,
siue illud maius sit ut iustitia homine, seu minus ut grammaticus ab homine. Si
quid uero aliud fuerit praedioatum, ueritas in eas ac falsitas distribuitur,
ita ut nunquam communem consonent falsitatem. Particulares quoque negatiuae in
similibus terminis ueritate concordant. Nam si quod adesse uel abesse potest,
siue illud maius sit ut iustus ab homine, siue minus, ut grammaticus ab homine,
de subiecto praedicetur, ueritas utrisque constabit. In aliis uero cunctis
praedicationibus uni ueritas, alteri falsitas cedit. Nunquam tamen utraeque in
prodenda falsitate consentient. Praeter hanc autem inter se conuenientiam
propositionum, habent aliquid hae proprium quae praedicatum adiecia negatione
pronuntiant, quod caeteris inesse non possit.Affirmationes namque negationibus,
negationesque affirmationibus, quarum uniuersalis est propositio, itemque
particulares affirmationes negationibus, negationes affirmationibus ita
conueniunt, ut nunquam neque in falsitate, neque in ueritate discordent.
Conuenientium autem ordinem seriemque describimus quas si quis in superius
posita respexerit; uidebit angulariter conuersas. Omnis homo rationalis
est. Nullus homo non rationalis est. Omnis homo non rationalis est. Nullus homo
rationalis est Quidam homo non rationalis est. Quidam homo rationalis non est.
Quidam homo rationalis est. Quidam homo non rationalis non est. Quod idcirco in
his tantum uidetur euenire, quod de eodem subiecto uterque intelligitur ordo
oppositionis. Nam quae dicit: Omnis homo rationalis est de homine
rationale praedicauit; item quae proponit: Omnis homo non rationalis
est de eodem homine rationale seiunxit, ut merito simplices affirmationes
negationi consentiant. At non in aliis intelligitur idem esse subiectum. Nam et
illa quae proponit omnem non hominem esse rationalem, et illa quae enuntiat
omnem non hominem esse non risibilem, de homine non loquantur sed quolibet alio
quod hominis negatione relinquitur. Atque ideo uelut extraneae atque a semet
alienae, nec in ueritate possidet aliquam nec in falsitate concordiam.
Indefinitas autem propositiones, quoniam particularibus similes esse
monstrauimus, adiungendas superioribus non putaui. Id enim indefinitis necesse
est euenire, quod particularibus solet incurrere. Expeditis igitur his
propositionibus quae ex utrisque communicant terminia atque eodem ordine
collocatis, nunc eam propositionum conuenientiam uel participationem loquimur,
quae in utrisque quidem terminis conuenientia sed ordinis commutatione
consistunt, cuius disceptationis hic finis est, de propositionum conuersione
docuisse, quid enim est aliud propositiones mutato ordine conuenire utrisque
terminis, nisi propositiones conuerti? Conuerti autem uel sibi uel aliis propositiones
dicuntur, quoties, mutato ordine terminorum, id est quod subiectum fuerat
praedicato et quod praedicabatur ante subiecto, ueritatem simul obtinent uel
falsitatem. De quibus plenissime hic disputandi sumemus exordium. Quatuor
propositiones esse praediximus, quae habeant differentias quantitatum et
utrisque terminis absque ordinis permutatione participant. Hae uero sunt
affirmatio uniuersalis, negatio uniuersalis, affirmatio particularis, negatio
particularis. Harum igitur particularis affirmatio particulariter quidem
sibi ipsa conuertitur, uniuersali autem affirmationi per accidens, et rursus
uniuersalis negatio, loco principe sui recipit conuersionem, ad particularem
uero negationem per accidens conuerti potest. Affirmationis uero
uniuersalis ad se ipsam perpetua non potest esse conuersio, ad particularem
uero affirmationem per accidens potest. Nec uero negationis particularis ad se
ipsam principaliter stabilis ac firma conuersio est sed negationi uniuersali
secundo loco atque accidentaliter. Quae omnia facilius declarantur
exemplis. Affirmatio enim particularis, ut ea quae proponit: Quidam
homo albus est facile sibi ipsa conuertitur, si dicamus, quoddam album
homo est, atque in utrisque simul ueritas constat. At si quis proponat quendam
hominem esse lapidem, eamque conuertat dicens quemdam lapidem esse hominem,
mansit in utrisque mendacium. Hoc igitur modo affirmatio particularis sui
recipit conuersionem. Item negatio uniuersalis conuerti potest, ut si
quis enuntiet nullum hominem esse lapidem, eamdemque conuersis terminis dicat
nullum lapidem esse hominem, simul ueritatem tuentur. At si quis dicat nullum
hominem esse animal, atque eamdem sub terminorum conuersione proponat dicens
nullum animal esse hominem; neutra suam perdidit falsitatem. Hoc igitur modo
uniuersalis quoque negatio sibi ipsa conuertitur, uniuersalis uero affirmatio
non tenet perpetuam conuersionem: quamuis enim quoties de speciebus propria
praedicentur conuerti uniuersales affirmationes queant, ut si quis dicat: Omnis
homo risibilis est poterit terminorum ordinem permutare, omne risibile
esse hominem, tamen non est haec aequalis atque in omnibus terminis fida
conuersio. Quid enim cum quis ita proponit: Omnis homo animal est
nunquid conuertere uere potest, ut omne animal hominem esse pronuntiet? Quare
cum aliquoties uniuersalis affirmatio conuersa propriam non teneat ueritatem,
dicitur conuersionis naturam non posse suscipere. Negatio quoque
particularis interdum uidetur posse conuerti, ueluti si quis enuntiet quemdam
hominem lapidem non esse, uerum loquetur, cum dixerit quemdam lapidem hominem
non esse; sed est instabilis et incerta conuersio: nam cum quidam homo
grammaticus non sit, falsum est dicere quemdam grammaticum hominem non esse.
Ita igitur haec quoque conuersio protinus a sua ueritate deficit.
Superius igitur propositarum quatuor enuntiationem duae quidem oppositae, id
est particularis affirmatio et uniuersalis negatio, conuersionem sui firmam
perpetuamque suscipiunt; duae uero oppositae, id est affirmatio uniuersalis et
negatio particularis, conuersionis non tenent firmitatem sed quia uniuersalis
affirmatio, quae in sui conuersione uidetur instabilis, si uera est,
particularem quoque affirmationem ueram esse necesse est. Si autem particularis
affirmatio conuersa non amittit propriam ueritatem, uniuersalis quoque
affirmatio conuersa particulari affirmationi eamdem ueritatem sonabit, uelut
his exemplis probabitur. Si quis enim proponat omnem hominem esse animal, uerum
dixerit, huius subalterna particularis affirmatio quemdam hominem esse animal,
ea quoque uera est, quoniam uniuersalis affirmationis ueritas antecessit. Sed
eamdem conuerti sibi uerissime potest, dicitur enim quoddam animal esse
hominem. Quocirca affirmatio uniuersalis quae proponit omnem hominem esse
animal, et conuersa particularis affirmatio quae pronuntiat quoddam animal esse
hominem, utraeque simul a ueritatis significatione non deficiunt. Ita igitur
uniuersalis affirmatio, quae sui conuersionem perpetuam ferre non poterat, per
accidens particulari affirmationi conuersa est. Per accidens autem idem quoniam
particularis affirmatio principe sibi ipsa loco conuertitur, conuersae autem
particulari affirmationi uniuersalis affirmatio eamdem retinet in ueritate
sententiam. Eadem ideo est etiam uniuersalis negationis, quae quoniam ipsa
principaliter conuerti potest, conuersaeque negationi uniuersali illa quae
subalterna est eamdem. ueritatis refert sententiam. Particularis negatio
conuersa ad ueritatis signiticationem poterit conuenire, ut si quis nullum
hominem esse lapidem confiirmet, et huius conuersio est, nullum lapidem esse
bominem, quae cum uera praecedat, subalternae particularis negatiuae perficit
ueritatem: ea uero est, quidam lapis homo non est, quae comparata uniuersali
negationi quae dicit nullum hominem esse lapidem, quamuis terminis discrepans,
tamen similis ueritate proponitur. Igitur particularis negatio, quae sibi ipsi
conuerti non poterit, uniuersali negationi per accidens conuerti potest. Per
accidens autem idcirco quoniam uniuersalis negatio in se ipsam priore loco
conuerti potest. Per conuersionem autem sui cum particulari negatione similem
ueritatis uidetur obtinere sententiam. Itaque concludendum est particularem
quoque affirmationem uniuersalemque negationem conuersionem sui firmam ac
stabilem custodire. Affirmationem autem uniuersalem particularemque negationem
in conuertendo firmas esse non posse sed hanc affirmationi particulari, illam
uniuersali negationi per accidens, posse conuerti. Restat nunc de ea
propositionum conuenientia uel participatione disserere, in qua utrinque
terminorum ordine permutato, uni uel utrique eorum negatiuum copulatur
aduerbium. Sed quanquam huiusmodi participationis plures esse
differentias nouerimus, ad instructionem tamen Categoricorum Syllogismorum de
hac tantum proposuisse sufficiat, quarum quidem propositionum pars ex
simplicibus nominibus constat, pars uero ex infinitis. Nam propositio
uniuersalis, quae est: Omnis homo animal est ex utrisque nominibus
finitis constat. Namque et homo et animal finita nomina esse manifestum est. Ea
uero affirmatio quae proponit omne non animal non hominem esse infinitorum
terminorum positione coniuncta est. Non animal enim et non homo nomina esse
infinita, in nominis definitione praediximus, quae quidem sese ad ueritatis
falsitatisue rationem sic habent, ut enim negationibus adiunctis infinita
nomina simplicibus opponuntur, ita etiam conuersio propositionum econtrario
contingit quam paulo ante in simplicibus hababatur. Atque in his
enuntiationibus conuerti termini per appositionem dicuntur, unusque enim
terminorum negatione praeposita terminis simpliciter pronuntiatis uidetur
oppositus. Huius uero participationis est triplex modus: aut enim
praedicato tantum termino, negatio iungitur, aut subiecto, aut utrique termini
denegantur. Primum igitur supposita descriptione pandantur exempla. Post autem
quemadmodum se habent ad ueritatis falsitatisue consensum consequentis ordine
dispPombaur. Ac primum quidem de hac disserimus cuius subiectum
praedicatumque negatur. Post uero cuius subiectum solum, postremo cuius qui
praedicatur terminus cum negatione profertur. Atque earum quidem naturam atque
ordinem ex simplicibus informabimus. Simplices autem, in quantitatum differentiis
constitutas, quatuor esse monstrauimus. Sit igitur prima quidem affirmatio
uniuersalis, quae proponat omnem hominem esse animal; aduersum hanc collocetur
affirmatio uniuersalis, quae non solum conuersis terminis enuntietur uerum in
uno quoque termino negatiuum aduerbium habeat adiunctum hoc modo: Omne non
animal non homo est. Rursus proponatur uniuersalis negatio, ea quae
est: Nullus homo animal est huic aduersam teneat locum uniuersalis
negatio terminis cum negatione conuersis, id: Nullum non animal non homo
est. Item sit particularis affirmatio simplex: Quidam homo animal
est huic terminus atque ex aduerso referatur particularis affirmatio,
quae, commutatis in ordinem terminis, negationes utrisque gestet oppositas, ut
est: Quoddam non animal non homo est. Item sit particularis simplex
negatio quae proponat quemdam hominem animal non esse; hanc ex aduerso
respiciat particularis negatio, quae, permutatis ad ordinem terminis, aduerbium
negationis adiecerit, ut est: Quoddam non animal non homo non est.
SIMPLICES CONVERSAE UTRISQUE INFINITIS Omnis homo animal est. Omne
non animal non homo est Nullus homo animal est. Nullum non animal non homo
est. Quidam homo animal est. Quoddam non animal non homo est. Quidam homo
animal non est. Quoddam animal non homo non est. In illis enim
affirmatio uniuersalis particularisque negatio conuersionem stabilem non
tenebant. Affirmatio autem particularis atque uniuersalis negatio conuersae
certissime tuebantur uel in ueritate, uel in falsitate consensum. Hic omne
diuersum est. Uniuersalis namque affirmatio et particularis negatio per
oppositionem sibi ipsa conuertitur, uniuersalis autem negationis et
particularis affirmationis non est ad ueritatis falsitatisue consensum fide
conuersio. Ac primum de uniuersali affirmatio tractemus, quae cum in
simplicibus uera sit, ueritatem quoque per oppositionem conuerse custodit, ut
ea qua dicit omnem hominem esse animal, uera est, atque illi per oppositionem
conuertitur, id est: Omne non animal non homo est eam quoque ueram
esse necesse est. Propositionis autem huius ista sententia est, quoniam non est
homo, quidquid animal non est, quod uerum esse nullus ignorat. Item si sit
falsa uniuersalis affirmatio in simplicibus terminis constituta, falsa quoque
eius per oppositionem probabitur esse conuersio: nam cum dicimus: Omnis
lapis animal est falsa est, atque illi per oppositionem conuertitur, id
est: Ommne non animal non lapis est eam quoque fals&m esse
necesse est. Id enim ex tali enuntiatione sentitur, quoniam quidquid animal non
fuerit, id lapis non est, quod apertissime falsum est, cum lapis ipse animal
non sit: quod si uniuersalis affirmatio terminorum oppositionem conuersa
sibimet in ueritate conuenit et in falsitate, non est dubium quin uniuersalis
simplex affirmatio stabili per oppositionem conuersione monstretur. Idem
de simplici etiam particulari negatione dicemus. Nam cum haec falsa est, ut ea
quae dicit: Quidam homo animal non est illa quoque falsitatem
tenebit, quae huic terminorum oppositione conuertitur, ut ea quae
proponit: Quoddam non animal non homo non est. Id enim ex bac
enuntiatione colligitur, quod res quae non sit animal, sit homo. Etenim hoc
esse hominem, quod non esse non hominem. At si uera sit negatio particularis ex
simplicibus terminis iuncta, ut est: Quidam lapis animal non est non
deerit ueritas cum terminorum oppositione conuersae quae proponit quoddam non
animal non lapidem non esse. Id enim conuersio ita significat, quod res quaedam
quae animal non sit lapis sit, hoc est enim esse lapidem quod non esse non
lapidem; quod si particularis simplex negatio per oppositiones propriae conuersioni
et in ueritatis et in falsitatis significatione concordat, non est dubium
particularem simplicem negationem certo sibi ac stabili modo per oppositionem
terminorum posse conuerti. In negatione uero uniuersali non est perpetua
neque fida conuersio. Quod quidem fallere poterit, si quis ad solam respiciat
conuenienliam falsitatis. Nam cum sit falsa simplex uniuersalis negatio quae
proponit nullum hominem esse animal, falsa est quae ei per oppositionem
conuertitur, ut est: Nullum non animal non homo est. Id enim ex haec
propositione monstratur, quoniam omne quod animal non est, id homo est, hominem
esse significat, quidquid animal non sit, quae proponit, nullum esse non
hominem, qui animal non sit. Sed hic in falsitate consensus ad ueritatem usque
non peruenit. Age enim sit uera simplex uniuersalis negatio: Nullus homo
lapis est non uera potest esse: Nullus non lapis non homo est.
Id namque designat ista conuersio, quoniam quidquid lapis non fuerit, id homo
est; hominem namque esse designat quod lapis non sit, qui pronuntiat nullum
esse non hominem quod lapis non est, quod apertissime falsum est; quamuis enim
multa proferam quaecum lapides non sint, tamen ab hominum natura seiuncta sunt,
ut equus, arbor atque alia plurima. Si igitur negatio uniuersalis per
oppositionem propriae conuersioni in falsitate quidem conuenit, nec tamen in
ueritate consentit, recte pronuntiatur conuersionem perpetuam atque aequabilem
non habere. Eadem quoque ratio est in affirmatione simplici particulari.
Nam in hoc quoque saepe error deprehenditur, ut certae propositionum
conuersiones putentur, si quis non ad falsitatis quoque sed ad solam
conuenientiam ueritatis aspiciat. Nam cum affirmatio simplex particularis uera
sit, ut est: Quidam homo animal est si huius termini cum oppositione
conuertantur, fiatque propositio: Quoddam non animal non homo est a
ueritate non discrepat. Quid enim aliud enuntiatio ista designet quam esse rem
aliquam quae cum animal non sit, ne homo quidem sit, ut lapis simul et animalis
et hominis natura deficiat. Sed hic in ueritate consensus ad falsitatem usque
non tendit. Quid enim si sit falsa simplex affirmatio particularis, ut
est: Quidam homo lapis est non erit eius per oppositionem falsa
conuersio: Quidam non lapis non homo est? Atqui haec firma ueritate
consistit, id enim ex hac propositione datur intelligi quod sit quidam quod cum
lapis non sit, ne homo quidem sit, ut equus atque arbor, quae neque hominis,
neque lapidis definitione clauduntur. Quod si particularis affirmatio, dum per
oppositionem conuertitur, in ueritate quidem tenet secum ipsam concordiam, in
falsitate autem sibimet ipsa dissentit, rectum est pronuntiare quod termini
negatione coniuncta conuersionem firmam stabilemque non teneant. Quare cum
in simplicibus, ac praeter oppositionem conuersionibus, uniuersalis quidem negatio
particulurisque affirmatio pernetua fidaque terminorum permutatione uertantur,
affirmamatio uero uniuersalis particularisque negatio minime, dum per
terminorum oppositionem simplex propositio sibi ipsa conuertitur, omnia, ut
dictum est, aduersa ratione contingunt, uniuersalia namque affirmatio et
particularis negatio firmam negatarum partium retinent conuersionem.
Uniuersalis autem negatio in falsitate quidem recte sibi ipsa conuertitur. In
ueritate autem sibi ipsa discordat. Particularis autem affirmatio in ueritate
quidem sibi conuenit sed in falsitate dissentit. Similis autem
contemplatio est in his quae, conuerso ordine terminorum, praedicato tantum uel
subiecto sibi copulant negationem: in quibus, ut in superioribus quoque
fecimus, propositionum tantum ordinem describemus, et quid eueniat sub
breuilate monstrabimus, perquirenda atque examinanda singula lectoris
diligentiae derelinquentes. Descriptis ergo simplicibus ex aduersa parte, quae,
conuerso ordine praedicatum cum negatione pronuntiant, conferantur. SIMPLICES CONVERSAE
DE PRAEDICATO INFINITO: Omnis homo animal est. Omne animal non homo est.
Nullus homo animal est. Nullum animal non homo est. Quidam homo animal
est. Quoddam animal non homo est. Quidam homo animal non est. Quoddam
animal non homo non est. Omnis homo iustus est. Omnis iustus non homo
est. Nullus homo iustus est. Nullus iustus non homo est. Quidam homo
iustus est. Quidam iustus non homo est. Quidam homo iustus non est. Quidam
iustus non homo non est. Omnis homo grammaticus est. Omnis grammaticus
non homo est. Nullus homo grammaticus est. Nullus grammaticus non homo
est. Quidam homo grammaticus est. Quidam grammaticus non homo est. Quidam
homo grammaticus non est. Quidam grammaticus non homo non est. Omnis
homo lapis est. Omnis lapis non homo est Nullus homo lapis est. Nullus
lapis non homo est. Quidam homo lapis est. Quidam lapis non homo est. Quidam
homo lapis non est. Quidam lapis non homo non est. Omnis homo
risibilis est. Omne risibile non homo est. Nullus homo risibilis est. Nullum
risibile non homo est. Quidam homo risibilis est. Quoddam risibile non
homo est. Quidam homo risibilis non est. Quoddam risibile non homo
non est. Harum igitur in affirmationibus quidem uniuersalibus si ea de
subiecto praedicentur quae et adesse et abesse contingent, siue illud subiecto
maius sit ut iustitia homine, siue minus ut grammaticus homine, uel si ea quae
omnino adesse non possum ut lapis homini, simul semper falsas esse necesse est.
Si quid uero praeter haec fuerit praedicatum, unam ueram, falsam alteram esse
proueniet, nunquam uero utrique ueritas consonabit. In negationibus uero
uniuersalibus siquidem ea de subiecto praedicentur quae a subiecto ualeant
segregari, siue illa maiora sint ut iustitia homine, siue minora ut eodem homine
grammaticus, utrisque aderit falsa sententia. Quidquid uero reliquorum
fuerit praedicatum uni uerum, alteri faciet adesse mendacium. Nunquam uero in
his concors ueritas inuenitur. In particularibus uero affirmationibus
siquidem ea praedicentur, quae [792A] cum separari possint, tum uel maiora sunt
ut iustus homine, uel minora ut grammaticus homine, communis affirmationes
ueritates obtinebit. Alia uero quaelibet praedicatio unam ueram, alteram semper
faciet esse mendacem sed nunquam communiter mentientur. In negationibus
uero particularibus hic modus est, ut siue ea quae adesse non rossunt, ut lapis
homini, siue quae possum ac poterunt segregari, cum tamen eorum aliud maius
sit, ut iustitia homine, aiitld minus, ut grammaticus homine, praedicentur,
ueritas utrisque constabit. Quidquid uero absque hic praedicabitur,
ueritatem uni, alteri diuides falsitatem, simul tamen falsas esse non euenit.
Item descriptio supponatur quae priore parte simplicibus collocatis, eas quae
conuerso ordine subiectum cum negatione proponunt contraria fronte
constituat. SIMPLICES CONVERSAE DE SUBIECTO INFINITO: Omnis homo
animal est. Omne non animal homo est. Nullus homo animal est. Nullum
non animal homo est. Quidam homo animal est. Quoddam non animal homo est.
Quidam homo animal non est. Quoddam non animal homo non est. Omnis
homo risibilis est. Omne non risibile homo est. Nullus homo risibilis
est. Nullum non risibile homo est. Quidam homo risibilis est. Quoddam
non risibile homo est. Quidam homo risibilis non est. Quoddam non risibile homo
non est. Omnis homo lapis est. Omnis non lapis homo est. Nullus homo
lapis est. Nullus non lapis homo est. Quidam homo lapis est. Quidam
non lapis homo est. Quidam homo lapis non est. Quidam non lapis homo non
est. Omnis homo iustus est. Omnis non iustus homo est. Nullus homo
iustus est. Nullus non iustus homo est. Quidam homo iustus est.
Quidam non iustus homo est. Quidam homo iustus non est. Quidam non iustus
homo non est. Omnis homo grammaticus est. Omnis non grammaticus homo
est. Nullus homo grammaticus est. Nullus non grammaticus homo est. Quidam
homo grammaticus est. Quidam non grammaticus homo est. Quidam homo
grammaticus non est. Quidam non grammaticus homo non est. Superius igitur
descriptarum enuntiationum affirmationes quidem uniuersales, siue de subiecto
praedicentur quae ab eo nunquam ualeant amoueri, siue illud maius sit, ut
animal homine, seu aequale ut risibile homini, seu tale quod subiecto nullo
modo possit obtingere ut lapis homini, uni ueritatem dispartient, alteri
falsitatem. At si quod absque his praedicabitur, utrasque falsitas obtinebit,
communi autem propositionum ueritati locus esse non poterit. At in
negationibus quidem uniuersalia et maiora praedicentur, seu ea quae relinquere
subiectum nequeant ut animal hominem, seu quae possint ut iustitia hominem,
utrisque falsitas inhaeredit. Aliae quaelibet praedicamenta unam ueram faciunt,
alteram falsam, ita ut communis utraeque ueritatis non possint esse participes.At
in particularibus affirmationibus quidem, siquidem maiora de subiecto
praedicentur, quae uel nunquam subiecti coniunctione diicedant ut animal
homine, uel etiam segregentur ut iustitia ab homine, respondebit utraque ueritatem;
caeterae uero praedicationes ueritatem propositionibus falsitatemue distribuunt
in commune participantibus falsitatem. Particulares uero negationes, siquidem
ea praedicent quae possint a subiecto separari, siue illud maius sit ut
iustitia homine, seu minus ut grammaticus homine, ueras utrasque esse recesse
est. Si quid uero extra praedicabitur, uni oportet uerum, alteri adesse
mendacium, ut simul falsae nequeant inueniri. Atque haec quidem de his
propositionibus quae cum determinatione proferuntur dicta sunt. Quae uero
indefinitae sunt, quoniam particularium proprietatibus adaequantur, eadem omnia
comparatae uniuersalibus obtinebunt quae in superiore descriptione
particularium propositionum ordo seruauit. Restarent subiectorum
singularium propositiones, de quibus, quoniam et longum est dicere, et nihil ad
operis propositi affert utilitatem, et sibi ipse exemplo earum quas superius
proposuimus easdem lector inueniet, praetereundum uidetur. Multa Graeci ueteres
posteris suis in consultissimis reliquere tractatibus, in quibus priusquam ad
res densa caligantes obscuritate uenirent, quasi quadam intelligentia
luctatione praeludunt: hinc per introductionem est facilior discibiliorque
doctrina, hinc per ea quae illi *prolegomena* uocant, nos praedicta uel
praedicenda possumus dicere, ad intelligentiam promptior uia munitur. Hanc
igitur prouidentiam non exosus, statui ego quoque in res obscurissimas aliquem
quodammodo pontem ponere, mediocriter quidque delibans ita ut si quid breuius
dictum sit, id nos dilatione ad intelligentiam porrigamus; si quid suo more
Aristoteles nominum uerborumque mutatione turbauit, nos intelligentiae
seruientes ad consuetum uocabulum reducamus; si quid uero ut ad doctos scribens
summa tantum tangens designatione monstrauit, nos id introductionis modo aliqua
in eas res tractatione disposita perquiramus. Sed si qui ad hoc opus
legendum accenserint, ab his petitum sit ne in his quae nunquam attigerint
statim audeant iudicare; neue si quid in puerilibus disciplinis acceperint, id
sacrosanctum iudicent, quandoquidem res teneris auribus accommodatas saepe
philosophiae seuerior tractatus eliminat. Si quid uero in his non uidebitur, ne
statim obstrepant sed, ratione consulta, quid ipsi opinentur, quidue, nos
ponimus, ueriore mentis acumine et subtiliore pertractata ratione diiudicent.
Et hi quidem sic. Nos enim, ut arbitror, suffecimus eos commentarios, de quibus
haec nos protulimus, degustent blando fortasse sapore subtilitatis eliciti,
quamuis infrenis et indomiti creatores sint, tamen ueterum uirorum
inexpugnabilibus auctoritatibus acquiescent; si quis uero Graecae orationis
expers est, in his, uel si qua aliorum sunt similia, desudabit. Itaque haec
huius prooemii lex erit, ut forum nostrum nemo non intellecturus, et ob id
culpaturus inspiciat. Sed ne prooemiis nihil afferentibus tempus teratur,
inchoandum nobis est illo prius depulso periculo, ne a quoquam sterilis
culpetur oratio. Non enim eloquentiae compositiones sed planitiem consectamur:
qua in re si hoc efficimus, quamlibet incompte loquentes, intentio quoque
nostra nobis perfecta est. Sed quoniam syllogismorum structura nobis est
hoc opere explicanda, syllogismis autem prior est propositio, de
propositionibus hoc libello tractatus habebitur. Et quoniam propositionis
partes sunt nomen et uerbum, pars autem ab eo cuius pars est prior est, de
nomine, et uerbo, quae prima sunt, disputatio prima ponatur. Nomen est uox
designatiua ad placitum sine tempore, cuius nulla pars extra designatiua
est. VOX autem dictum est, quia uox nominum genus est. Omnis autem
definitio a genere trahitur, ut si definias hominem, animal dicis, id est
genus; post uero rationale, id est differentia. DESIGNATIVA uero dicta
est, quia sunt uoces quaedam quae nihil significant, ut sunt syllabis. NOMEN
uero, designat id cuius est nomen. AD PLACITUM uero, quia nullum nomen
aliquid per se significat sed ad ponentis placitum. Illud enim unaquaeque res
dicitur quod ei placuit qui primus rei nomen illud impressit. Sunt enim uoces
naturaliter significantes, ut canum latratus iras canum significat, et alia
eius quaedam uox blandimenta; sed non sunt nomina non sunt ad placitum significantes
sed natura. SINE TEMPORE uero, quod uerba quidem uoces sunt designatiuae
et secundum placitum sed distant, quod nomina sine tempore sunt, uerba cum
tempore. CUIUS NULLA PARS EXTRA DESIGNATIVA EST: nomen ab oratione
disiungit, quod oratio et ipsa uox est, et desiguatiua, et secundum placitum,
aliquoties sine tempore est sed orationis partes significant, nominum uero
minime. In Ciceronis enim nomine nulla extra pars designatiua est, neque 'ci' neque
'ce' neque 'ro'. Neque si ex duobus integris nomina sint. Quod enim in uno
consignificat, id extra non significat. In nomine enim 'magister',
'magis' et 'ter' consignificauit, quia est magister. Sublatum uero 'ter'
et 'magis' non erit alicuius significatio, nisi tibi hoc alii nomen dare
placuerit. Omnia enim nomina non naturaliter sunt, sed ad placitum ponuntur.
Sed de hoc in commentario libri *Peri hermeneias* Aristotelis dictum est et
maior eius rei tractatus est, quam ut nunc queat expediri. Reuertamur
igitur ad nomen. Sed quoniam sunt quaedam uoces quae et designatiuae sunt, et
secundum placitum et sine tempore, quarum dubia sit natura, ut est 'non-homo',
hoc enim significat quiddam et secundum placitum, impositum est enim sed dubium
est cui subdi possit, nomini enim non potest, omne enim nomen significat
aliquid definitum, 'non-homo' autem quod definitum est perimit, oratio uero
dici non potest, omnis enim oratio ex nominibus et uerbis constat, 'non-homo'
autem, neque ex nominibus constat neque ex uerbis sed multo magis esse non
potest uerbum, omne enim uerbum cum tempore est, 'non-homo' uero sine tempore
est: quid sit ergo ita uidendum est: et quoniam 'non-homo' uox significat
quiddam, quid autem significet in homine ipso non continetur (potest enim
'non-homo' et equus esse et lapis et domus, et quidquid homo non fuerit,
quoniam ea qui re significare potest infinita sunt, infinitum nomen uocatur);
et quoniam sunt quaedam uoces et designatiuae et ad placitum, et definitae, et
quarum partes extra nihil significant, ut sunt casus nominum, ut 'Ciceronis' et
'Cicerone' et caetera, haec nomina non erunt. Omne enim nomen iunctum cum est
uerbo, aut uerum aut falsum demonstrat. Ut si dicas: Dies est hoc
uero aut uerum aut falsum est. Si uero casum iungas, neque uerum neque falsum
efficis. Si enim dicas: Diei est nihil quod sit aut non sit
demonstrasti. Itaque nihil ex hoc neque uerum neque falsum efficies. Et merito
dictum uidetur. Quod enim primo uocabulum nomina rebus imponentes dixerunt, id
solum numen uocabitur merito. Qui enim primus circo circum nomen imposuit, ita
dixisse uidetur: Dicutur hoc circus! Atque ideo primus hic casus
nominatiuus uocatur, quod nomen sit. Aliis uero nominibus non nominis caeteros
casus appellauere. Ergo a capite reuoluendum est, uocem dictum quod uox
nominum genus sit; designatiuam uero, quod sunt quaedam uoces quae nihil
designant, ut ad his uocibus separetur quae nihil significant; ad placitum, ut
ab his uocibus separetur quae naturaliter significant, ut sunt pecudum. Sine
tempore uero dictum est, ad diuisionem uerbi quod cum tempore est; cuius nullapars
extra significat, ut diuideretur ab oratione, cuius partes nomina sunt et
uerba, quae significant; finita uero, ut ab infinitis separetur; recta, ut a
casibus distingueretur. Et in uerbo eadem omnia fere conueniunt. Est
enim uerbum uox significatiua ad placitum cum tempore, cuius nulla pars
extra significatiua est. Et quia est quaedam uox significatiua et ad
placitum cum tempore, cuius pars nihil significat, ut 'non albet' (Albet enim,
quod cum non iunctum consignificat, solum non significat), et quia nihil
definitum monstrat (quod enim non albet, potest et rubere, potest et
nigrescere, potest et pallere, et quidquid non albet), ideo "infinitum
uerbum" uocatum est. 'Faciebat' autem et 'facturus', ut superius in
nomine, non uerba sed casus uerborum sunt. Repetendum est igitur ab
initio uerbum esse uocem dictum, a genere; significatiuam, ut a non
significatiuis uocibus diuidatur; ad placitum, ut ab illis quae natura sunt
significatiuae uocibus separetur: cum tempore, ut a nomine diuideretur;
praesens aliquid significare, ut a uerbi casibus disiungeretur; finita, ut ab
infinitis disterminaretur. Restat ergo nunc quid sit oratio dicere. Haec
enim ex nomine et uerbo componi uidetur: sed prius utrum nomen et uerbum solae
partes orationis sint consideremus, an etiam aliae sex, ut grammaticorum opinio
fert, an aliquae ex his in uerbi et nominis iura uertantur; quod nisi prius
constitutum sit, tota propositionum ac deinceps ea ipsa quae ex propositionibus
componitur syllogismorum ratio titubabit. Nam si ex quo sint genere termini
nesciatur, totum ignorabitur. Nomen et uerbum, duae solae partes sunt putandae,
caeterae enim non partes sed orationis supplementa sunt: ut enim quadrigarum
frena uel lora non partes sed quaedam quodammodo ligaturae sunt et, ut dictum
est, supplementa non etiam partes, sic coniunctiones et praepositiones et alia
huiusmodi non partes orationis sunt sed quaedam colligamenta. Participium uero
quod uocatur, uerbi loco ponetur, quoniam temporis demonstratiuum est.
Aduerbium uero nomen est, cuiusdam enim definitae significationis est sine
tempore, quod si per casus non flectitur, nihil impedit. Non enim est proprium
nominis flecti per casus. Sunt enim quaedam nomina quae flecti non possunt,
quae a grammaticis *monoptata* nominantur -- sed hoc grammaticae magis quam huius
considerationis est. Oratio est uox designatiua ad placitum, cuius partes
aliquid extra significant, ut dictio, non ut affirmatio. Et est
orationi commune cum nomine et uerbo quod VOX est, et DESIGNATIVA, et AD
PLACITUM. Cuius enim partes ad placitum sunt, ea quoque ipsa ad placitum est;
orationis autem partes sunt nomen et uerbum; sed haec ad placitum; oratio
igitur ad placitum est. Termini uero orationis a dialecticis nominantur nomina
et uerba. Termini uero dicti sunt, quod usque ad uerbum et nomen resolutio
partium orationis fiat, ne quis orationem usque ad syllabas nominum uel
uerborum tentet resoluere, quae iam designatiuae non sunt. Distat autem a
nomine uel uerbo oratio quod illis partes extra significant, uerbi et nominis
partes nihil extra designant. Est autem dictio unius simplex uocabuli
nuncupatio, uel simplex affirmatio. Atque ideo dictum est orationis partes
significare ut dictionem id est ut simplicis uocabuli nuncupationem. In
oratione enim: Socrates ambulat utraque extra significat tantum
quantum simplex uocabuli nuncupatio designare queat. Quomodo autem ut
affirmatio simplex non significet in commentario Perihermeneias explicui. (Quid
autem sit affirmatio et negatio paulo post explicabimus.) Sunt uero
species orationis in angustissima diuisione quinque. Interrogatiua, ut: Putasne
anima immortalis est? Imperatiua, ut: Accipe codicem! Optatiua
uel deprecatiua, ut: Faciat Deus. Vocatiua, ut: Adesto
Deus. Enuntiatiua, ut: Socrates ambulat sed in illis quatuor
nulla neque ueritas est, neque falsistas Enuntiatiua uero sola aut uerum aut
falsum continet. Atque hinc propositiones oriuntur. Enuntiatio autem in
duas partes secabitur, in affirmationem et negationem. Affirmatio est
enuntiatio alicuius ad aliquid. Negatio est enuntiatio alicuius ab aliquo. Et
est affirmatio, ut puta: Plato philosophus est. Negatio: Plato
philosophus non est. Affirmatio enim ad Platonem philosophiam enuntiat
aliquam, id est Platonem esse philosopbum. Negatio uero ab aliquo Platone
aliquam pbilosophiam enuntiando tollit, id est enuntiat Platonem non esse
philosophum. Enuntiatiuarum igitur orationum aliae sunt simplices, aliae
non simplices. Simplices sunt ut si dicas: Dies est. Lux est.
Non simplices ut: Si dies est lux est. Affirmationes uero simplices
et negationes, aliae sunt uniuersales, aliae sunt particulares, aliae
indefinitae. Uniuersales sunt quae aut omne affirmant ut: Omnis homo
animal est aut omne negant, ut: Nullus homo animal est
Particulares uero quae aliquem affirmant uel aliquem negant, ut: Aliquis
homo animal est. Aliquis homo animal non est indefinitae uero quae neque
uniuersaliter affirmant aut negant, neque particulariter, ut: Homo animal
est. Homo animal non est Diuiditur autem simplex propositio in duas
partes: in subiectum et praedicatum, ut: Homo animal est 'homo' subiectum
est, 'animal' uero de homine praedicatur. Hae autem partes termini nominantur. Quos
definimus sic: Termini sunt partes simplicis propositionis in quibus diuiditur
principaliter propositio. Est enim simplicis propositionis uniuersalis secunda
diuisio, ut sit in propositione: Omnis homo animal est 'omnis homo'
unus terminus, alius uero 'animal est'. Sed hoc secundo loco, illud uero
principaliter. Nam primi termini sunt subiectum et praedicatum. 'Est' enim et
'non est', non magis termini sunt quam affirmationis uel negationis designatiua
sunt, et 'omnis' uel 'nullus' uel 'aliquis' non magis sunt termini quam
definitionum, utrum particulariter an uniuersaliter dictum sit, designatiua
sunt. Diuiditur ergo, ut dictum est, propositio in id quod subiectum est,
et in id quod praedicatur. Dico autem subiectum, ut in: Omnis homo animal
est propositione hominem, id uero quod pradicatur dico animal, et semper
quod praedicatur, aut abundat et superest sub#ecto, aut aequatur. Minus autem
praedicatum a subiecto nunquam reperietur. Sed id quod diximus diuersis
demonstremus exemplis. Subiecto praedicatum abundat quoties genus aliquod de
aliquo praedicatur, ut si dicas: Omnis homo animal est Non enim potes
conuertere, ut dicas: Omne animal homo est quia animal ab homine
plus est et abundat. Aequatur autem praedicatum subiecto quoties proprium
quoddam cuipiam praedicatur, ut: Omnis homo risibile est potes
conuertere: Omne risibile homo est ut autem minus sit id quod
praedicatur, fieri nequit. Dicitur etiam praecedere pracdicatum, sequi quod subiectum
est. Idonior est enim praedicatio constituere propositionem, quam id quod
subiectum est. Simplicium autem propositionum aliae sunt in nullo sibi
participantes ut sunt: Omnis homo animal est et: Virtus bona
est et aliae huiusmodi propositiones, aliae uero quae participant.
Participantium aliae sunt quae in utroque termino participant, aliae quae in
altero, et quae altero termino participant tribus modis, utroque uero
duobus. Ostendamus ergo exemplis quomodo altero tribus modis participant.
Communis enim terminus est, cum in una subiectus sit, in altera praedicatus, ut
est: Omnis homo animal est et: Omne animal animatum. In
priore enim propositione animal praedicatur ad hominem, in posteriore
praedicatur ad animal animatum, et fit animal subiectum. Et est hic primus
modus de eis qua altero termino participant. Secundus uero modus est in
quo in utrisque communis terminus praedicatur, ut si quis dicat: Omnis nix
est candida et: Omnis margarita est candida. Etenim in prima
et secunda propositione candida praedicatur, in prima ad niuem, in secunda ad margaritam.
Et est hic secundus modus altero termino participantium. Tertius uero
modus est, quoties in utrisque propositionibus cornmunis terminus subiectus
est, ut si dices: Virtus bonum est Virtus iustum est In
utrisque enim ad iustum et ad bonum uirtus subiectum est. Sunt igitur
participantes alterum terminum his tribus modis, aut cum in una communis
terminus praedicatur, in illa subiectus est; aut cum in utrisque praedicatur;
aut cum in utrisque subiectus est. Earum uero quae ad utrosque participant
terminos duo sunt modi. Aliae enim ad eumdem ordinem, aliae ad ordinis
commutationem. Ad eumdem sunt quae de eodem idem demonstrant, uel affirmatiue
uel negatiue, uel uniuersaliter aliter uel particulariter: Omnis uoluptas bonum
est. Nulla uoluptas bonum est et rursus particulariter: Quaedam
uoluptas bonum est. Quaedam uoluptas bonum non est. Ad ordinis uero
commutationem sunt quoties qui in altera subiectus est terminus, in alia
praedicatur ut: Omne bonum iustum est et: Omne iustum bonum.
Nam in priore bonum subiectum est, iustum praedicatum, in secunda iustum subiectum
est, bonum praedicatum. Nunc ergo quoniam aliae ad eumdem ordinem, aliae
ad ordinis commutationem sunt, prius dicemus de his quae ad eumdem ordinem
utroque termino participant. Et quoniam sunt propositiones, aliae affirmatiuae
aliae negatiuae; aliae uniuersales aliae particulares aliae indefinitae: --
duae sunt ex his quae qualitate differunt, tres quae quantitate. Et sunt quae
qualitate differunt affirmatiua et negatiua; ad quantitatem quae uero
differunt, sunt uniuersalis, particularis, et indefinita. In affirmatiuis
enim et negatiuis quale quid sit aut non sit ostenditur. In uniuersali
particulari et indefinita de omnium uel nullorum uel nonnullorum quantitate
monstratur. Ex his ergo quinque differentiis, id est uniuersali, particulari,
indefinita, affirmatiua, negatiua, sex coniunctiones fiunt, ita ut tribus quae
ad quantitatem dicuntur duae quae ad qualitatem dicuntur aptentur, et fit uniuersalis
affirmatiua, et uniuersalis negatiua, ut: Omnis homo iustus est. Nullus
homo iustus est et particularis affirmatiua, et particularis negatiua,
ut: Quidam homo iustus est. Quidam homo iustus non est et indefinita
affirmatiua et negatiua, ut: Homo iustus est. Homo iustus non est
fiunt ergo ex duabus quae sunt ad qualitatem, tribus quae sunt ad quantitatem
iunctis, sex coniunctiones, de quibus indefinitas, affirmatiuas et negatiuas
separemus, et de solis uniuersalibus et particularibus tractatus habeatur.
Subscribantur etiam earum participantium quae ad eumdem ordinem utroque termino
participant, duae uniuersales propositiones, una affirmatiua, et altera
negatiua, et sit affirmatiua uniuersalis: Omnis homo iustus est et
contra ipsam uniuersalis negatiua: Nullus homo iustus est. Item sub
his ponantur particularis affirmatio et particularis negatio, ita ut sub
uniuersali affirmatiua ponatur particularis affirmatiua, et sub uniuersali
negatiua ponatur particularis negatiua, et sit particuiaris affirmatiua: Quidam
homo iustus est et contra ipsam particularis negatiua: Quidam homo iustus
non est quod demonstrat sequens descriptio. In superiori igitur
descriptione uniuersalis affirmatiua et uniuersalis negutiua contrariae sunt,
subcontrariae uero particularis affirmatiua et particularis negatiua,
subalternae uero dicuntur uniuersalis affirmatiua et particularis affirmatiua,
et item uniuersalis negatiua et particularis negatiua. Contraiacentes sunt
angulares, id est uniuersalis affirmatiua et particularis negatiua. Et item
uniuersalis negatiua et particularis affirmatiua, ut: Omnis homo iustus est. Quidam
homo iustus non est. Nullus homo iustus est. Quidam homo iustus est et
sunt ut hoc modo definiri possint. Contrariae sunt quae uniuersaliter eidem
idem haec affirmat, haec negat. Subcontrariae sunt quae particulariter eidem
idem haec affirmat, haec negat. Subalternae sunt quae eidem idem affirmant uel
negant, haec particulariter, illa uniuersaliter. Contraiacentes sunt quando
eidem eamdem rem haec affirmat, haec negat, uel haec negat, haec affirmat, illa
generaliter, haec particulariter, et uocantur contrariae, quis quod affirmatio
uniuersaliter ponit negatio uniuersaliter tollit. Subalternae uero, quoniam
quod illa uniuersaliter ponit, etiam haec particulariter ponit. Subcontrariae
uero dictae sunt, uel quod naturaliter sub ipsis contrariis positae sunt, ut
descriptio docet, uel quod a contrariis diuersae sunt, et ipsis contrariis
quodammodo contrariae. Nam contraria, ut utraeque simul sint fieri non potest,
ut utraeque omnino non sint fieri potest, contrariam uim obtinebunt
subcontrariae. Nam ut utraeque omnino non sint fieri non potest, ut utraeque
simul sint fieri potest, quod in sequentibus melius explicabitur.
Contraiacentes dicuntur, quoniam uniuersalis affirmatio uel negatio,
particularem affirmationem uel negationem angulariter respiciunt. Cum
autem singulae propositiones habeant duas differentias, unam ad qualitatem,
alteram ad quantitatem, ut quae uniuersalis, affirmatiua est, habeat
differentiam ad quantitatem quod uniuersalis est, et aliam ad qualitatem quod
affirmatiua est; eodem modo caeterae propositiones binas habeant differentias,
unam secundum qualitatem, alteram secundum quantitatem. Subalternae quae
sunt, una tantum differentia distant quantitatis, quod haec particularis, illa
uniuersalia est. Nam qualitatis differentiam nullam retinent. Utraeque enim
affirmatiuae sunt. Hae uero aliae, id est contrariae et subcontrariae ad
qualitatem, quod illa affirmatiua, illa negatiua est, nam ad quantitatem nihil
differunt. Utraeque enim contrariae uniuersales, utraeque subcontrariae
particulares sunt, illae autem quae contraiacentes dicuntur utrisque
differentiis differunt. Nam et illa uniuersalis affirmatio est, haec
particularis negatio, et illa uniuersalis negatio, est, haec particularis affirmatio.
Nunc quoniam quae secundum qualitatem uel secundum quantitatem et quomodo
differant dictum est, earum proprietates, qus secundum uerum falsumque sunt,
explicemus. Igitur earum quae subalternae sunt, si fuerit uera
uniuersalis affirmatio uera erit particularis affirmatio. Si enim: Omnis
homo iustus est uera est, uera erit etiam quae dicit: Aliquis homo
iustus est. Nam si omnis homo iustus est, et quidam. Eodem modo negatiuae
subalternae nam si uniuersalis negatiua uera fuerit, erit etiam uera negatiua
particularis, ut si: Nullus homo iustus est uera fuerit, etiam erit
uera: Quidam homo iustus non est. Nam si nullus homo iustus est, nec
quidam. Conuerti autem non potest, nam si particularis uera fuerit, non necesse
erit ueram esse etiam uniuersalem. Ut si: Quidam homo iustus est
uera fuerit, non necesse erit ueram esse: Omnis homo iustus est.
Possunt enim esse non omnes. Et eodem modo de negatiua. Nam si particularis
negatiua uera fuerit, ut est: Quidam homo non est iustus non necesse
erit uniuersalem: Nullus homo iustus est ueram esse. Potest enim
fieri ut quidam iusti sint. Ergo dicamus in subalternis propositionibes
si uniuersales uerae sint, ueras esse necesse est particulares sed non
conuertitur. Nam si particulares uerae fuerint non necesse est ueras etiam
uniuersales esse. Particulares uero ad uniuersales contrariam
conuersionem habent. Nam ut superius si uniuersales uerae essent, etiam
particulares uerae essent; et si particulares uerae essent, non omnino uere
essent etiam uniuersales in particularibas; si particulares falsae fuerint,
falsae erunt etiam uniuersales. Nam si particularis: Quidam homo iustus
est falsa fuerit, uniuersalis etiam: Omnis homo iustus est
falsa erit. Nam si quidam homo iustus est falsa est, uera est nullus homo
iustus est. Si uera est: Nullus homo iustus est falsa est: Omnis
homo iustus est. Falsa igitur particulari, falsa erit uniuersalis.
Item si negatiua particularis falsa fuerit, quae est: Quidam homo iustus non
est falsa erit etiam: Nullus homo iustus est. Nam si falsum
est quia quidam homo iustus non est, uera est quia omnis homo iustus est. Si uera
est haec, falsa est: Nullus homo iustus est falsa igitur particulari,
falsa erit etiam uniuersalis. Sed non conuertitur, ut si uniuersales falsae
sint, falsas necesse sit esse particulares: nam si uniuersalis: Omnis homo
iustus est falsa fuerit, non necesse est particularem: Quidam homo
iustus est falsam esse. Potest enim fieri ut si omnis homo iustus non
fuerit, sit quidam iustus. Et item si uniuersalis negatiua: Nullus homo
iustus est falsa fuerit, non necesse erit: Quidam homo non est
iustus falsam esse. Nam si falsa est nullus homo iustus est, uerum est esse
aliquos iustos, uera est etiam quae dicit: Quidam homo iustus non
est quod sint quidam etiam non iusti. Repetens igitur a capite
dicat quod in subalternis. Si uniuersales uerae fuerint, uerae erunt etiam
particulares. Sed non conuertitur. Item si particularea falsae fuerint, falsae
erunt etiam uniuersales; sed non conuertitur, contrariae uero simul eese uerae
nunquam possunt. Potest autem fieri ut alias utraeque falsae sint, alias una
uera, altera falsa. Utraeque falsae sunt, ut si quis dicat: Omnis homo
grammaticus est falsa est, nam non omnis; et: Nullus homo
grammaticus est falsa est, nam non nullus; est autem una uera, altera
alsa, ut si quis dicat: Omnis homo bipes est haec affirmatiua uera
est; Nullus homo bipes est haec negatiua falsa est. Et item: Omnis
homo quadrupes est haec affirmatiua falsa est; Nullus homo quadrupes
est haec negatiua uera est. Sunt ergo contrariae aliquoties utraeque
falsae, aliquoties inter se uerum falsumque diuidentes; ut utraeque autem uerae
sint fieri nunquam potest, subcontrariae uero contraria patiuntur. Nam falsae
nunquam reperiri queunt. Sed alias uerae utraeque sunt, ut est: Quidam
homo grammaticus est uera est, et: Quidam homo grammaticus non
est etiam haec uera est. Potest enim alius esse grammaticus et alius non
esse. Alias una uera est, altera falsa. Vera est enim affirmatio: Quidam
homo bipes est falsa est autem negatio: Quidam homo bipes non est.
Item falsa est affirmatio: Quidam homo quadrupes est uera est
negatio: Quidam homo quadrupes non est ut uero utraeque falsae sint
fieri nunquam potest. Restat igitur ut de contreiacentibus dicamus, quae
neque falsae simul aliquando esse possunt neque uerae sed semper una uera est,
altera falsa, quod facilius liquet, si quis sibi quaecumque fingat exempla.
Res admonet ut quaedam de indefinitis propositionibus consideremus. Indefinitae
etenim propositiones aequam uim retinent particularibus propositionibus. Dictum
est enim quod si uniuersales uel affirmatiuae uel negatiuae in subalternis
propositionibus essent uerae, essent quoque uerae particulares. Nunc uero
dicimus quod si uniuersalis propositiones uerae fuerint, uerae erunt etiam
indefinitas. Nam si uera est: Omnis homo bipes est uera est
etiam: Quidam homo bipes est uera erit etiam indefinita quae
dicit: Homo bipes est. Item dictum est quod si particulares falsae
essent, falsae essent etiam uniuersales, nunc uero dicendum est quod si
indefinita falsa fuerit, falsa erit etiam uniuersalis. Nam si falsa est quae
dicit: Homo quadrupes est falsa erit etiam quae dicit: Quidam
homo quadrupes est et: Omnis homo quadrupes est. Atque idem
hoc etiam in negatiuis conuenire uidetur. Unde constat quod omnes indefinitae
particularibus propositionibus aequam uim continent. Rursus dictum est
quod subcontrariae, quae particulares affirmatiuae et negatiuae sunt, simul
uerae esse possunt, diuidere etiam uerum falsumque ualent, simul uero falsae
esse non posse. Hoc idem in indefinitis propositionibus exspectandum est. Nam
diuidunt inter se uerum falsumque, ut si quis dicat: Homo bipes est
uera est; Homo bipes non est falsa est, et item: Homo quadrupes
est falsa est; Homo quadrupes non est uera est; uerae autem
simul inueniri possunt, ut si quis dicat: Homo grammaticus est si
quis hoc dicat de Donato, uerum est. Item: Homo grammaticus non est
si quis hoc dicat de Catone, uerum est, ut simul falsae sint nunquam
reperiemus. Hinc quoque ostenditur indefinitas cum particularibus aequali esse
potentia. Amplius quod dictum est, contraiacentes, id est uniuersalem
affirmatiuam et particularem negatiuam, et item uniuersalem negatiuam et
particularem affirmatiuam neque ueras simul esse neque falsas sed inter se
diuidere uerum falsumque, hoc idem euenit in indefinitis. Nam uniuersalis
affirmatiua et indefinita negatiua, uel uniuersalis negatiua et indefinita
affirmatiua, neque uerae simul esse possunt, neque simul falsae. Diuiduntur
autem inter se uerum falsumque: nam si dixeris: Omnis homo bipes est
uera est; et si dicas: Homo bipes non est falsa est. Item si
dixeris: Homo quadrupes est falsa est, si dixeris, Nullus homo
quadrupes est uera est: unde hinc quoque colligere licet omnes
indefinitas potestate et ui aequales esse particularibus. Sunt etiam
quaedam propositiones quae diuidunt quidem et ipsae uerum et falsum,
ut: Deus fulminat. Deus non fulminat. Sed istae tunc diuidunt inter
se uerum et falsum, cum idem tempus, idem subiectum, idem praedicatum sit. Quod
autem dico tale est, si aequiuocum subiectum fuerit, non diuidunt uerum et
falsum. Si quis enim dicat:Cato se Uticae occidit et
respondeatur: Cato se Uticae non occidit utraeque uerae sunt. Nam et
Cato Minor se peremit, et Cato Censorius se Uticae non occidit. Sed hoc idcirco
euenit, quod Catonis nomen aequiuoce dicitur, dicitur enim et Maior Cato Censorius,
et Minor Uticensis. Item si aequiuoca fuerit in propositione praedicatio, uerum
inter se affirmatio negatioque non diuidunt. Si quis enim sic dicat: In
nocte lucet et respondeatur: In nocte non lucet fieri potest
ut utraeque uerae sint. Nam in nocte lucerna lucere potest, et sol lucere non
potest: hoc ideo euenit quia lucere aequiuoce et ad lucernae lumen et ad solis
dicitur. Amplius si aliud est aliud in subiectis et praedicatis tempus
fuerit, uerum falsumque inter se affirmatio negatioque non diuidunt. Nam si
quis dicat: Socrates ambulat et respondeatur: Socrates non
ambulat possunt utraeque uerae esse, potest enim fieri ut Socrates alio
tempore ambulet, alio tempore non ambulet; sed aut stet aut sedeat, aut
quodlibet aliud: in talibus ergo propositionibus quales sunt: Socrate
ambulat. Socrates non ambulat illae inter se uerum falsumque diuidunt
quae ad idem subiectum, ad idem praedicatum, ad idem tempus dicuntur.
Sunt etiam aliae quae contradictoriae uocantur, quae sunt huiusmodi, quoties
affirmationem uniuersalem tollit negatio particularis: Omnis homo iustus est. Non
omnis homo iustus est et rursus: Nullus homo iustus est
et: Quidam homo iustus est in his enim uniuersalis determinatio
tollitur. Sed de his alias. Et quoniam dictum est de his quae eodem
ordine participant, dicamus nunc de his quae ordinis commutatione participant.
Harum quoque propositionum quae ad comnmutationem ordinis participant duplex
modus est. Est enim per contrapositionem conuersio, ut si dicas: Omnis
homo animal est Omne non animal non homo est simplex conuersio est,
ut si dicas: Omnis homo <est> risibile et conuertas: Omne
risibile est homo sed in illis terminorum tantum commutatio conuersionem
facit, in quibus neque praedictum subiecto, neque subiectum praedicato abundat.
In hac enim propositione quae dicit: Omnis homo est risibile homo
subiectum, risibile praedicatum, aequam uim habet, et ideo conuerti potest ut
si risibile subiectum et homo praedicatum, et dicatur omne risibile homo. In
quibus uero unus terminus alio abundauerit, conuerti propositio non potest. Nam
si dicas: Omnis homo animal est uera est; non tamen potest ueri ut
conuersa haec propositio terminis commutatis uera sit: falsum est enim
dicere: Omne animal homo est. Sed hoc cur euenit? Quia homine animal
abundat. Illa uero conuersio, quae per contrapositionem fit hoc modo fit
quoties in affirmatiua subiectum fuerit, idem mutatum et factum praedicatum ad
negatiuam particulam ponitur, ut est: Omnis homo animal est. Hic
homo subiectum est et ad hoc animal praedicatur. Si uero quis per
contrapositionem conuertat, et faciat animal subiectum hominem praedicatum, et
ad hominem particulam negatiuam ponat, hoc modo faciet: Omne non animal
non homo est et erit ista conuersio: Omnis homo animal est. Omne non
animal non homo est. Sed de his posterius tractabimus. Nunc ad
simplices reuertamur. Cum sint igitur quatuor propositiones quarum quae
uniuersales sunt, id est affirmatiua et negatiua, duae uero particulares, id
est affirmatiua et negatiua, particularis affirmatiua, et uniuersalis negatiua
commutatis terminis sibi ipsa conuertitur. Conuertuntur autem illae ut dictum
est quoties, commutatis terminis, uel simul uerae sunt, uel simul falsae. Nam
si quis dicat: Quidam homo animal est uera est. Conuersio uero
eius: Quoddam animal homo est uera est. Item: Quidam homo lapis
est falsa est, quemadmodum et eius conuersio: Quidam lapis homo
est nam et ista falsa est. Est igitur particularis affirmatiua quae
commutatis terminis sibi ipsa conuertitur. Idem uere patitur uniuersalis negatio.
Si quis enim dicat: Nullus homo lapis est uera est, et potest
conuerti: Nullus lapis homo est nam et ista uera est. Item: Nullus
homo rhetor est falsa est, et eius conuersio: Nullus rhetor homo
est falsa est. In quatuor igitur his propositionibus quae tantum
contraiacentes sibi ipsae conuertuntur, id est particularis affirmatio et
uniuersalis negatio. Aliae uero duae sibi ipsis non conuertuntur. Nam neque
uniuersalis affirmatio, neque particul&ris negatio sibi ipsa conuertitur.
Si quis enim dicat: Omnis homo animal est uera est. Si quis uero
conuertat: Omne animal homo est falsum est. Non igitur sibi ipsi
conuerti potest, quoniam conuersa prioris ueritatem non recipit. Neque uero
particularis negatio sibi conuertitur. Nam si quis dicat: Quidam homo
grammaticus non est uera est; si uero conuertat: Quidam grammaticus
homo non est falsa est: omnis enim grammaticus homo est. Repetendum
est igitur a capite quod cum quatuor propositiones sint, affirmatio
uniuersalis, negatio uniuersalis, affirmatio particularis, negatio
particularis, particularis affirmatio et uniuersalis, negatio quae contraiacentes
sunt, sibi ipsis conuerti possunt. Uniuersalis uero affirmatio et particularis
negatio, quae ipsae contraiacentes sunt, nunquam possunt sibi ipsis conuerti.
Nec hoc nos turbet quod quaedam affirmationes uniuersales et quaedam
particulares negationes conuerti possunt. Potest enim dici: Omnis homo
risibilis est Omne risibile homo est et utraeque uerae sunt. Et
item: Omnis homo hinnibilis est falsa est; et: Omne hinnibile
homo est et haec quoque falsa est. Item in particulari negatione: Quidam
homo non est lapis uera est; et: Quidam lapis non est homo
uera est. Item: Quidam homo non est risibile falsa est; Quoddam
risibile homo non est et haec quoque falsa est. Ergo uidentur posse
uniuersales affirmationes et particulares negationes conuerti, et conuertuntur
quidem sed non uniuersaliter. Generaliter autem dico propositiones posse
conuerti, quoties uniuersaliter, id est in omnibus conuertuntur. Istae autem in
duabus solis materiebus conuerti possunt. Si quis enim proprium cuiuslibet
speciei ad ipsam speciem cuius est proprium uelut ad subiectum praedicet,
potest conuertere. Nam quia risibile proprium est homini, si praedices
risibile, et subiicias hominem, ut est: Omnis homo risibile est
potes iterum subiicere risibile et hominem praedicare, ut si dicas: Omne
risibile est homo. In illis uero simul falsae sunt generalium
affirmationum conuersiones, in quibus id quod praedicatur ad subiectum nullo
tempore uere dici potest, ut si quis dicat: Omnis homo lapis est
falsa est. Et iterum: Omnis lapis homo est falsa est haec, quoniam
nullo tempore neque homo lapis est, neque lapis homo uere praedicabitur. In
particularibus negatiuis contrarium est; nam aut falsae sunt, cum proprium
subiectum est aut praedicatum, ut si quis dicat: Quidam homo risibile non
est falsum est. Item: Quoddam risibile homo non est et haec
quoque falsa est. In illis uerae sunt, quando id quod affirmando nullo tempore
uere praedicari potest ad subiectum praedicant, ut si dicas: Quidam homo
lapis non est uera est. Iterum: Quidam lapis homo non est uera est.
Ergo uniuersales affirmationes tum sibi conuertuntur ut uerae sint cum proprium
praedicant, tum sibi conuertunturut falsae sint cum id quod nullo tempore
adsubiectum uere dici poterit praedicatur. Item in particularibus negatiuis,
tum falsae sunt, cum proprium praedicant, tum uerae, cum id quod nullo tempore
uere dici poterit praedicant. In his ergo solae conuerti possunt. In aliis uero
conuerti non possunt. Atque ideo uniuersaliter non conuertuntur; remanet ergo
ut in aliis rebus omnibus, ut superius dictum est, non conuertantur. Hoc
uero perpiciendum est, quod particularis affirmatioque sibi ipsi conuertitur,
uniuersali affirmationi, quae sibi non conuertitur, per accidens conuerti
potest. Et item contraiacens uniuersali affirmationi particularis negatio, quae
sibi ipsi non conuertitur, conuerti potest per accidens negationi uniuersali,
quae sibi ipsi conuertitur. Sed quomodo particularis affirmatio et uniuersalis
negatio sibi ipsis conuertantur ostendimus. Nunc uero quomodo
particularis affirmatio uniuersali affirmationi per accidens, uel quomodo
particularis negatio uniuersali negationi per accidens couertantur,
demonstrandum est. Dictum est superius quod si uera est uniuersalis affirmatio,
uera est etiam particularis, et sequeretur particularis uniuersalem. Nam si
uera est: Omnis homo animal est uera est etiam: Quidam homo
animal est. Si enim omnis, et quidam; sed particularis affirmatio sibi
ipsi conuertitur, conuertitur etiam uniuersali affirmationi. Nam si omnis homo
animal est, et quidam homo animal est. Sed ista sibi conuertitur hoc modo, si
dicas: Quidam homo animal est potest igitur conuerti ad: Omnis
homo animal est uniuersalem affirmationem particularis affirmatio, quae
est: Quidam homo animal est et conuertitur, ut si dicas: Quoddam
animal homo est utraeque enim uerae sunt -- et quae dicit: Omnis
homo animal est et quae dicit: Quoddam animal homo est per
accidens autem conuerti dicitur particularis affirmatio uniuersali
affirmationi, qui particularis affirmatio sibi ipsi principaliter conuertitur,
secundo uero loco uniuersali affirmationi conuertitur. Restat igitur ut
hoc monstremus: quomodo particularis negatio quae sibi non conuertitur
uniuersali negationi quae sibi conuertitur per accidens conuertatur, et hic
eadem ratio est. Nam quoniam uniuersalis negatio si uera est, uera est etiam particularis,
uniuersalis uero negatio sibi ipsa conuertitur potest uniuersali negationi
conuersae particularis conuerti negatio. Age enim uniuersalem negationem, id
est:. Nullus homo hinnibilis est conuertamus, ut sit: Nullum
hinnibile homo est. Sed istam propositionem, id est uniuersalem negatiuam
quae est: Nullus homo hinnibilis est sequitur particularis negatio
quae est: Quidam homo non est hinnibilis. Conuerte igitur
uniuersalem quae est: Nullus homo hinnibilis est et fac: Nullum
hinnibile homo est conuerte huic particularem negationem quae est: Quidam
homo non est hinnibilis et fac: Quoddam hinnibile non est homo
utraeque uerae sunt. Nam et: Nullum hinnibile homo est quae est
uniuersalis conuersio negationis, uera est, et: Quoddam hinnibile non est
homo quae conuersio particularis negationis est. Cur autem per accidens
conuerti dicatur, superius dictum est. Liquet ergo talis per accidens
conuersio: quod igitur habet uniuersalis affirmatio, hoc habet etiam
contraiacens particularis negatio, utraeque enim sibi conuerti non possunt;
quod autem habet uniuersalis negatio, hoo habet et ei contraiacens affirmatio
particularis, utraeque enim sibi conuerti possunt. Iunctae ergo quae sibi
conuerti possunt, et quae sibi conuerti non possunt, ut quae sibi conuerti potest
iungatur ei quae sibi conuerti non potest, et quae sibi conuerti non potest
iungatur ei quae sibi conuerti potest, faciunt per accidens conuersiones quae
superius demonstratae sunt. Restat ut de his conuersionibus dicamus quae
per contrapositionem fiunt, et primum earum sit dispositio in descriptione
subiecta, generalis enim affirmationis quae dicit: Omnis homo animal
est conuersio per contrapositionem est quae dicit: Omne non animal
non homo est. Item generalis negationis quae dicit: Nullus homo
animal est conuersio per contrapositionem est: Nullum non animal non
homo est. Item particularis affirmationis quae dicit: Quidam homo
animal est conuersio per contrapositionem est quae dicit: Quoddam
non animal non homo est. Item particularis negationis quae dicit: Quidam
homo animal non est conuersio per contrapositionem est quae dicit: Quoddam
non animal non homo est quod demonstrat subiecta descriptio: Omnis
homo animal est Omne non animal non homo est Nullus homo
animal est. Nullum non animal non homo est. Quidam homo animal est Quoddam
non animal non homo est Quidam homo animal non est Quoddam
non animal non homo non est. His ergo ita positis, quomodo dictum est superius
in simplici terminorum conuersione, quod particularis affirmatio et generalis
negatio sibi ipsis conuerterentur, generalis uero affirmatio et particularis
negatio sibi ipsis non conuerterentur, hic in per contrapositionem
conuersionibus contra est. Nam generalis affirmatio per contrapositionem sibi
ipsa conuertitur, et particularis negatio sibi ipsi conuertitur. Generalis uero
negatio et particularis affirmatio per contrapositionem sibi non
conuertuntur. Quod ita esse his exemplis probabimus. Si enim uera sit
affirmatio generalis quae dicit: Omnis homo animal est uera erit
eius per contrapositionem conuersio quae dicit: Omne non animal non homo
est. Quod enim animal non fuerit, id homo non erit. Et si falsa fuerit generalis
affirmatio quae dicit: Omne animal homo est falsa erit etiam eius
per contrapositionem conuersio quae dicit: Omnis non homo non animal
est potest enim fieri ut quod homo non est, animal sit. Illa enim negat
esse animal quod homo non fuerit. Quod si cum uera est generalis affirmatiua,
uera est eius per contrapositionem conuersio, et si cum falsa est generalis
affirmatio, falsa est eius per contrapositionem conuersio, non est dubium quin
generalis affirmatio possit sibi ipsa conuerti. Item nunc ostendendum est
quomodo particularis negatio sibi ipsi per contrapositionem conuertitur. Nam si
falsa est quae dicit: Quidam homo animal non est falsa eius erit
etiam per contrapositionem conuersio quae dicit: Quoddam non animal non
homo est. Hoc enim uidetur haec propositio dicere, ac si diceret: Quaedam
res quae animal non est homo est, qui enim dicit: Non homo non est
hominem esse significat quod animal non sit. Hoc uero aperte falsum est, omnis
enim homo animal est, et si uera fuerit particularis negatio quae
dicit: Quoddam animal homo non est uera erit et eius per
contrapositionem conuersio quae dicit: Quidam non homo non animal non
est. Aequale est enim ac si diceret: Res quae homo non est non est non
animal sed est animal, ut equus et bos homo non est, et non est non
animal. Ergo si cum particularis negatio falsa est, falsa est etiam eius
per compositionem conuersio, et si cum particularis negatio uera est, uera est
eius per contrapositionem conuersio, non est dubium quin particularis negatio
possit per contrapositionem sibi ipsa conuerti. Nunc quoniam ostensum
generalem affirmatiuam et particularem negatiuam, per contrapositionem sibi
posse conuerti, ostendamus generalem negatiuam et particularem affirmatiuam per
contrapositionem sibi non posse conuerti. Et prius de generali negatione
dicendum est. Nam si generalis negatio uera est, non necesse erit per
contrapositionem sibi conuersam ueram esse. Sed si falsa fuerit et per
contrapositionem sibi conuersam falsam esse necesse est. Nam si falsa est quae
dicit: Nullus homo animal est falsa erit fortasse eius per
contrapositionem conuersio, quae dicit: Nullum non animal non homo
est. Aequale est enim ac si dicat: Nulla res est quae non sit animal et
sit non homo, quod est omnis res quae animam non habet homo est, quod aperte
falsum est. Item si uera fuerit generalis negatio, falsa erit eius per
contrapositionem conuersio. Nam si uera est quae dicit: Nullus homo est
lapis falsa erit eius per contrapositionem conuersio quae dicit: Nullus
non lapis non homo est. Aequale est enim ac si dicat: Nulla res est quae
cum non sit lapis non homo sit, quod est omnis res quaecumque lapis non fuerit
homo est, quod falsum est. Innumerabilia enim inuenies quae non sunt lapides,
et non homines non sunt; ergo quoniam si generalis negatio falsa fuerit, Falsa
est eius per contrapositionem conuersio, uel si eadem uera fuerit, falsa erit
eius per contrapositionem conuersio, non est dubium generalem negationem sibi
non posse conuerti, quod enim in aliquo fallit, generaliter colligi non
potest. Restat igitur ut id quod reliquum est monstremus, particularem
affirmationem per contrapositionem sibi non posse conuerti. Cum enim fuerit
particularis affirmatio uera, uera erit eius etiam per contrapositionem
conuersio. Nam si uera est quae dicit: Quidam homo animal est uera
est eius per contrapositionem conuersio: Quoddam non animal non homo
est. Aequale est enim ac si dicat: Quaedam res quae animam non habet homo
non est, quod uerum est. Lapis enim animam non habet, et tamen homo non est.
Item si particularis affirmatio quae dicit: Quidam lapis homo est
falsa est, uera erit eius per contrapositionem conuersio quae
dicit: Quidam non homo non lapis est. Aequale est enim ac si
diceret: Quaedam res quae homo non fuerit lapis non est, quod uerum est. Equus
enim homo non est, et tamen lapis non est. Ergo si cum in quibusdam
particularis affirmatio uera fuerit, uera erit eius per contrapositionem
conuersio, et si cum in quibusdam falsa fuerit particularis affirmatio, uera
erit eius per contrapositionem conuersio, non est dubium particulares
affirmationes per contrapositionem sibi non posse conuerti. Generalis enim
negatio et particularis affirmatio, quae contraiacentes sunt, in per
contrapositionem conuersionibus contraria patiuntur. Nam in generalibus
negatiuis siue generales negatiuae uerae fuerint siue falsae per contrapositionem
conuersiones semper falsae sunt; in particularibus autem affirmatiuis, siue
particularis affirmatio uera fuerit siue falsa, siue per contrapositionem
conuersio uera est. Repetendum est igitur a superioribus et confirmandum quod
in simplicibus terminorum conuersionibus particularis affirmatio et generalis
negatio sibi conuerti possunt. Generales uero affirmatio et particularis
negatio sibi conuerti uon possunt. In his uero conuersionibus quae per
contrapositionem fiunt, contra est; nam generalis affirmatio et particularis
negatio per contrapositionem sibi ipsis conuerti possunt, generalis uero
negatio, et particularis affirmatio per contrapositionem sibi ipsis conuerti
non possunt, et generalis negatio et particularis affirmatio quae sunt
contraiacentes in ueri falsique distantia (ut demonstratum est), sibi ipsis
inuicem contraria patiuntur. Haec de categoricorum syllogismorum
categoricis propositionibus dicta sufficiant. Si qua uero in his praetermissa
sunt, in Perihermenias Aristotelis commentario diligentius subtiliusque
tractata sunt. Superioris series uoluminis quod ad categoricorum
syllogismorum propositiones attinebat explicuit. Nunc autem, quantum
introductionis patitur temperamentum, de ipsa categoricorum syllogismorum
ratione tractabitur; et quoniam omnium compositorum firmitudo uel uitium, aut
in his maxime reperitur ex quibus est compositum, aut penes bonam malamue
compositionem eius laus uituperatioque tenetur: namque domus si fortibus
lapidibus debilibusue constructa, ipsa quoque est fortis aut debilis; porro
autem si artificis compositionem aequabilem solertemque fuerit nacta, ipsa
quoque constructio, merito stabilitatis erit laudabile fundamentum; si uero insolertior
compositio fiat, tota quoque quamuis ex bonis ordinata lapidibus, nulla sese gerens
fabrica stabilitate nutabit; nos quoque hanc eamdem imaginem secuti, prius de
his quibus ipse syllogismus constat, id est propositionibus explicuimus.
Nunc uero de ipsa inter se syllogismorum coniunctione compositioneque
tractubimus. Illud uero meminisse debebis, introducendis hic me praestitisse
docendis, non introductis. Et prius quid sit esse in omni uel non esse,
paucis ostendam. Si qua enim res alterius generis fuerit, omnem intra se
speciem continebit, et in toto species genere illa esse dicetur. Sit enim genus
animal, homo uero species. Homo ergo quoniam minus est quam animal, in toto
animali esse dicetur. Omnis enim homo animal est. Si quis ergo sic dicat
aliquam rem de omni alia re praedicari, conuersa uice nihil interest. Nam sicut
in toto animali homo est, sic etiam animal de omni homine praedicatur. In toto
uero non esse est, quoties alia res ab alia re omni disiuncta est: ut si
dicas: Animal in nullo lapide est nullum enim animal lapis est; et
si dicas: Animal de nullo lapide praedicatur de nulloenim lapide
animal dicitur. Definimus ergo in toto esse, uel in toto non esse sic: in toto
esse, uel de omni praedicari dicitur, quoties non potest inueniri aliquid
subiecti ad quod illud quod praedicatur dici non possit. Namque nihil hominis
inuenitur ad quod animal dici non possit. In toto uero non esse, uel de nullo
praedicari dicitur, quoties nihil subiecti poterit inueniri ad quod illud quod
praedicatur dici possit. Nihil enim lapidis inueniri potest de quo possit
animal praedicari. Illud sane notandum est, quod esse in toto uersa uice
dicitur. Nam si aliquid de omni aliquo praedicatur, illud de quo illud
praedicatur in toto illo esse dicitur quod praedicatur, ut animal de omni
homine dicitur. Homo uero in toto est, id est uelut quaedam pars intra totum
animal latet. Et si quid in alio omni fuerit, in eo toto res illa de quo
superius dicebatur esse dicitur, ut idem animal cum in omni sit homine, et de
eo omni praedicetur, homo in toto est animali. His igitur ita positis,
quotiescumque ita dicimus, ut litteras pro terminis disponamus, pro breuitate
hoc et compendio facimus, id quod per litteras demonstrare uolumus
uniuersaliter demonstrarnus. Nam fortasse in terminis aliquibus falsum
ingerendum necesse sit. In litteris uero nunquam fallimur, quoniam ad hoo
utimur litteris quasi terminos poneremus. In litteris uero ipsis, nisi
terminorum coniunctio per se firma ualensque fuerit, ulla neque ueritas, neque
falsitas reperietur. Quoties igitur aliud de alio omni predicari uolumus
ostendere, sic ponimus. Sit primus terminus a, secundus b, et praedicetur a de
omni b. Hoc autem ita accipito tanquam si posuerimus a animal, b hominem. Eodem
modo et de negatiuis. Nam si dicamus, a de nullo b praedicatur, tale est ac si
dicamus, a, quod est animal, de nullo lapido praedicatur, quod est b, et alia
quaecumque eis fuerint consimilia. Omnis autem syllogismus simplex tribus
terminis demonstratur atque concluditur. Sed prius ipsorum syllogismorum
figurae aspiciumus, post uero do modis ordinibusque eorum tractabimus.
Tribus igitur terminis ita positis, ut prope se et sibi connexi sint, tres non
ultra fieri complexiones necesse est hoc modo: sit enim a, sit b, sit c; aut
enim a de b praedicabitur, et b de c, aut certe a et de b praedicabitur et de
c, uel iisdem ipsis a et b c terminus uidebitur esse subiectus. Sit enim a bonum,
sit b iustum, sit c uirtus, aut enim a, id est bonum erit in omni b, id est
iusto, et dicetur: Omne iustum bonum est et item b iustum in omni c,
id est uirtute, et dicetur: Omnis uirtus iusta est. Et erunt
huiusmodi propositiones: Omne iustum bonum est et: Omnis uirtus
iusta est aut a, id est bonum, de b, quod iustum est, et de c, quod
uirtus est, predicabitur, ut sit: Omne iustum bonum est. Omnis uirtus bona
est aut certe a bonum, b iusto, et c uiriuti subiacebit, ut
dicatur: Omne bonum iustum est et:Omne bonum uirtus est. In
hac enim complexione b et c de solo a termino praedicantur. Ubi uero a de omni
b termino, et b item predicatur de omni c. Hanc figuram uoco primam quae definitur
sic: Prima figura est in qua is qui subiectus est de alio
praedicatur. Namque b, quod a termino subiectum est, ad c item terminum
praedicatur. Extremitates uero dico huius figurae quod praedicatur et quod
subiectum est, id est a c. Namque a pradicatur de b termino, c uero terminus b
termino subiacet. Medium autem illud uoco quod alii subiacet, et de alio
praedicatur, id est b. Nam b terminus a termino subiacet, de c uero termino
praedicatur. Maior uero extremitas est, quae prima praedicatur, id est a.
Namque idem a de b termino praedicatur. Minor uero quae medio termino subiicitur,
id est c, namque c terminus medio termino, id est b, subiecius est; de eo enim
b medius terminus dicitur. Maior uero terminus a uocatus est, id est qui
praedicatur, quoniam omne praedicatum ab e. de quo praedicatur maius est. Et in
conclusionie, sicut in prima propositione, semper a terminus praedicatur, a
enim bonum praedicatur de b iusto, et dicitur: Omne iustum bonum est
b uero medius terminus predicatur de c, et dicitur: Omnis uirtus iusta
est. Ex his igitur concluditur in syllogismo: Omnis uirtus bonum
est et a bonum nominabitur de c uirtute, atque ideo maior a nobis
extremitas appeliatur. Id uero meminisse debemus, quod ea quae paria sunt
retorqueri possunt, et ad se inuicem praedicari, et sicut id quod predicatur in
eo quod subiectum est, omni est, ita rursus conuersum quod fuerit subiectum, in
eo quod antea praedicabatur omne erit. Nam si f et g duo termini ita sibi sint
aequales, ut neuter neutro maior sit, cum praedicaueris f de omni g, erit f
terminus in omni g termino. Si uero conuertas et praedices g terminum de f
termino, erit iterum g terminus in omni f termino. Sit enim f risibile, g homo.
Ergo si praedices f risibile, et g hominem subiicias, f risibile in omni g
inuenitur. Omnis enim homo risibile est. Si uero praedicas g hominem ad f
risibile, g homo in omni f risibile reperitur. Omne enim risibile homo
est. Quid autem termini sint, uel quid praedicatio, aut subiecto, priori
de propositionibus libro satis dictum est. Sed ne forte erremus quod uidetur
uniuersalis affirmatio conuersa. Nam de hoc quoque superius dictum est.
Modo uero hoc solum monstrare uolumus, quod quae sunt in toto paria sola
conuertantur. Hoc tamen prodest ad ostensionem syllogismorum quae fit in
circulo, quam in Analyticis diximus. Ac de prima syllogismorum
categoricorum figura expeditum est. Secunda uero figura est quoties a terminus
de utrisque b et c terminis praedicatur hoc modo: Si enim dicas a bonum de omni
b iusto, ut sit hoc modo propositio: Omne iustum bonum est et inde a
bonum de omni c uirtute, ut dicas: Omnis uirtus bonum est solum a de
utrisque b et c terminis praedicasti, et erit haec secunda figura. Medius autem
terminus in hac figura erit qui de utrisque praedicatur, id est a. Extremitates
uero ea quae subiecta sunt, id est b et c. Maior uero extremitas est de qua
primo a terminus appellatur, id est b iustum; uel si ad c primo praedicabitur c
terminus maior extremitas inuenitur. Idcirco quod ea extremitas de qua medius
terminus primo praedicatur, in conclusione ipsa quoque praedicabitur, ut
posterius demonstrandum est. Minor uero extremitas erit ad quod medius terminus
posterius praedicabitur. Tertia uero figura est, quoties a et b termini
de ullo c praedicantur. Si quis enim praedicet a, id est bonum de c, id est
uirtute, ut sit huiusmodi propositio: Omnis uirtus bonum est item b praedicetur
de c, ut sit: Omnis uirtus iustum est tertiam figuram facit. In hac
uero figura medius terminus erit qui utrisque subiectus est, id est c. Namque de
c termino a et b termini praedicantur. Maior uero extremitas est quae primo
praedicatur, id est a; minor uero quae postea, id est b; uel si quem libuerit b
prius, a posterius praedicare secundum priorem posterioremque praedicationem,
maior minorue extremitas inuenietur, et hic quoque maior extremitas in
conclusionibus, sicut in superioribus aliis figuris, de minore
praedicatur. Expeditis igitur tribus syllogismorum figuris, dicendum est
quia perfectus syllogismus est cui ad integram probatamque conclusionem ex
superius sumptis et propositis nihil deest. Sed modo atque ordine facta
conclusio nihil dehabens, per ea quae antea proposuit terminatur.
Imperfectus uero syllogismus est cui nihil aeque ad perfectionem deest,
uerumtamen in his quae in propositionibus sumpta sunt aliqua desunt cur ita
esse uidetur. Sed et hae definitiones omnes posterius liquebunt. Nunc
autem unde hae figurae nascantur breuiter expliicandum est. Quoniam unde
nascuntur, in eadem iterum resoluuntur. Sed secunda et tertia figura de prima
figura nasci et procreari uidentur. Sit enim a terminus in omni b termino, et
de omni eo praedicetur, b uero terminus de omni c termino praedicatur. Haec, ut
dictum est, prima syllogismorum figura est. Si quis igitur maiorem extremitatem
propositionemque conuertat, et quod fuerat antea praedicatum faciat esse
subiectum, secundam faciet figuram. Nam quemadmodum a terminus praedicatur de b
termino, ita b de c. Si ergo conuertatur, et fiat b terminus de a termino
praedicetur, inuenitur b terminus qui antea medius fuerat, et a termino
subiectus, de c uero termino praedicatur ad utrosque terminos
praedicatiuus. Age enim quoniam a bonum de b iusto praedicabatur, b
uero iustum de c uirtute praedicabatur, erat propositio: Omne iustum bonum
est Omnis uirtus iusta est manente propositione quae
est: Omnis uirtus iusta est prima propositio (id est "Omne
iustum bonum est") contrauertatur et fiat: Omne bonum iustum
est. Inueniuntur igitur propositiones sic: Omne bonum iustum est. Omnis
uirtus iusta est et iustum, id est b de a et c terminis praedicabitur.
Conuersa igitur maiore prioris figurae extremitate, secunda syllogismorum
figura procreatur. Tertia uero figura nascitur, minori propositione
conuersa. Nam si a bonum predicatur de b iusto, ut dicatur: Omne iustum
bonum est b uero iustum praedicatur de c uirtute, ut dicatur: Omnis
uirtus iusta est si, priore propositione manente, id est: Omne
iustum bonum est secunda quae est: Omnis uirtus iusta est
conuertatur et fiat: Omne iustum uirtus est inuenietur omnes
propositiones sic: Omne iustum bonum est. Omne iustum uirtus est et
de b iusto a et c termini praedicantur, et fit tertiae figurae connexio.
Conuersis igitur primis posterisque extremitatibus primae figure, tertia uel
secunda figura nascuntur. At uero unaquaeque harum trium figurarum habet sub se
plures syllogismorum modos, ut modi sub figuris ita sint ut sunt species sub
suis generibus. Habet enim prima figura sub se, Aristotele auctore, modos
quatuor; sed Theophrastus uel Eudemus super hos quatuor quinque alios modos
addunt, Aristolele dante principium in secundo Priorum Analylicorum uolumine,
quod melius postmodum explicabitur. Secunda uero figura habet sub se quatuor
modos; tertia uero, auctore Aristotele, sex; addunt etiam alii unum, sicut ipse
Porphyrius, superiores scilicet sequens. Et quoniam (ut superiore libro
dictum est) aliae propositiones affirmatiuae sunt, aliae negatiuae, et earum
aliae uniuersales, aliae uero particulares, secundum eas ipsas, propositiones syllogismorum
conclusionesque iunguntur. BARBARA Namque primae figurae primus modus est
qui fit ex duabus uniuersalibus affirmatiuis, uniuersalem colligens affirmatiuam.
Si enim a termimis fuerit in omni b termino, et si b terminus de omni c termino
fuerit praedicatus, a terminus de omni c termino praedicabitur. Namque a bonum
si praedicetur de omni b iusto, ut sit: Omne iustum bonum est
b uero iustum, si de c praedicetur uirtute, ut sit: Omnis uirtus iustum
est necessario concluditur extremitatibus ad se inuicem praedicatis, id
est a et c, ut sit: Omnis uirtus bonum est Sunt igitur huiusmodi
propositiones atque conclusio? Si a in omni b fuerit, et b in omni c fuerit, a
terminus de omni c praedicabitur, id est: Omne iustum bonum
est, Omnis uirtus iusta est; et conclusio: Omnis igitur uirtus
bonum est et hic primae figurae primus modus est. CELARENT Secundus
uero modus primae figurae est, quoties ex prima uniuersali negatiua et secunda
uniuersali affirmatiua conclusio uniuersali negatione colligitur. Si enim sit a
malum, b bonum, c iustum, a terminus de nullo b termino praedicabitur. Nullum
enim bonum malum est, b uero terminus de omni c termino praedicabitur, omne
enim iustum bonum est. Quare colligitur, nullum iustum malum est, ut est hoc
modo: Si a terminus de nullo b termino praedicatur, b uero terminus de omni c
fuerit praedicatus, a terminus de nullo c praedicabitur, ut est: Nullum bonum
malum est, Omne iustum bonum est; Nullum igitur iustum malum
est. DARII Tertius uero modus primae figurae est, quoties ex uniuersali
affirmatiua, et particulari affirmatiua, particularis affirmatiua colligitur.
Nam si a uirtus de omni b, id est bono, praedicetur, et b bonum de quodam c, id
est iusto, fuerit praedicatum particulariter, erit quoque conclusio
particularis, hoc modo, ut a uirtus de quodam c iusto particulariter
praedicetur. Si igitur fuerit a terminus in omni b, et b terminus in aliquo c
particulariter, erit a terminus in aliquo c particulariter, ut sit: Omne
bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum
uirtus est. FERIO Quartus modus primae figurae est talis, quoties ex
uniuersali negatione et particulari affirmatione paricularis negatiua
colligitur. Nam si a terminus de nullo b termino praedicetur, b uero termimis
de quodam c termino praedicetur, a terminus de quodam c termino non praedicabitur,
quod monstrat subiecta descriptio. Nam sunt huiusmodi propositiones: Nullum
bonum malum est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum
malum non est. Hos ergo quatuor in prima figura modos in Analyticis suis
Aristoteles posuit. Caeteros uero quinque modos Theophrastus et Eudemus
addiderunt, quibus Porphyrius, grauissimae uir auctoritatis, uisus est
consensisse, qui sunt huiusmodi. Nam quoniam particularis affirmatiua sibi ipsi
conuertitur, quisquis ostenderit in conclusione a terminum de quodam c termino
particulariter praedicari, in eadem ipsa conclusione monstrauit quod c terminus
de a termino rursus particulariter praedicetur. Nam si sibi particularis
propositio in coliclusione conuertitur, si a terminus in quodam c termino
fuerit, c terminus de quodam a termino praedicabitur. Item quisquis uniuersalem
negatiuam in conclusione probauerit, necesse est eum ipsius quoque conuersionem
in eadem conclusione probasse. Uniuersalis enim negatio semper sibi
couuertitur. Nam si quis probauit quod a terminus de nullo c termino
praedicatur, non est dubium quin in hac conclusione illud quoque probatum sit,
quod c terminus de nullo a termino praedicetur. Semper enim, ut dictum est,
uniuersalis negatiua sibi ipsi conuertitur. Uniuersalis quoque affirmatiua
duplici conclusione continetur: nam quisquis ostendit a terminum de omni c termino
praedicari, illud quoque ostendit quod c terminus de quodam a termino
particulariter praedicetur. Si quis enim probauerit animal de omni homine
praedicari, ita dicens, omnis homo animal est, illud quoque necessario
monstrauit particulariter, quoniam quoddam animal homo est. Ita semper
uniuersalis negatio, et uniuersalis affirmatio, uel particularis affirmatiua
dupliciter concluduntur. Aliae enim sibi ipsis conuertuntur, quae particularis
est particulariter, quae uniuersalis uniuersaliter. Alia uero, cum ipsa
uniuersalis affirmatiua sit, particulariter sibi ipsi conuertitur. Particularis
autem negatio nunquam sibi ipsi conuertitur, atque ideo simplicem in se retinet
conclusionem. Hoc autem quod nuper diximus, in secundo priorum
Analyticorum libro ab Aristotele monstratur, quod scilicet Theophrastus et
Eudemus principium capientes ad alios in prima figura syllogismos adiiciendos
animum adiecere, qui sunt huiusmodi qui *kata anaklasin* uocantur, id est, per
refractionem quamdam conuersionemque propositionis. BARALIPTON Et est
quintus modus ex duabus uniuersalibus affirmationibus, particularem colligens
affirmatiuam hoc modo: Si a fuerit in omni b, et b fuerit in omni c, posset
equidem concludi quod a terminus esset in omni c termino. Sed quoniam ista
uniuersalis propositio, ut dictum est, particulariter conuertitur, praetermisso
eo quod a terminus de omni c termino praedicatur, conclusio esse dicitur quod c
terminus de quodam a termino praedicatur, quod hoc exemplo monstrandum est. Si
enim sint propositiones sic:Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta
est; posset concludi equidem quoniam: Omnis uirtus bonum est.
Sed quoniam illa propositio sibi conuertitur, ut sit: Quoddam bonum uirtus
est particulariter, particularis syllogismus conclusioque colligitur ex
duabus uniuersalibus affirmatiuis. Eius uero forma talis est, a terminus in
omni b, b terminus in omni c; igitur c terminus in quodam a, ut est: Omne
iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est; Quoddam bonum iustus
est. Per conuersionem refractionemque dicitur, quoniam quod uniuersaliter
colligebatur conuersum, particulariter collectum est. CELANTES Sextus modus
est primae figurae qui fit ex uniuersali negatiua et uniuersali affirmatiua
uniuersalem conclusionem per conuersionem colligens. Nam si a terminus in nullo
b fuerit, b uero terminus in omni c termino fuerit, posset equidem colligi
quoniam a terminus in nullo c termino est: se quoniam uniuersalis negatiua
conuertitur, dicimus quoniam c terminus in nullo a termino est, ut sit hoc
modo: Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est; posset
colligi: Nullum iustum malum est sed ex his per conuersionem
colligimus: Nullum malum iustum est. DABITIS Septimus modus primae
figurae est, qui ex uniuersali affirmatiua et particulari affirmatiua per
conuersionem particularem colligit affirmatiuam. Si enim fuerit a terminus in
omni b, et b terminus de quodam c termino praedicetur, potest a terminus de
quodam c termino praedicari. Sed quoniam particularis affirmatio sibi ipsi
conuertitur, per conuersionem fit conclusio, et dicitur c terminus de quodam a
termino praedicari, ut sit sic: Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum
bonum est; posset equidem concludi, quoniam: Quoddam iustum uirtus
est sed quia particularis affirmatio conuertitur, dicimus quoniam:
Quaedam uirtus iusta est. FAPESMO Octauus modus primae figurae est,
quoties ex uniuersali affirmatione et uniuersali negatione particulariter
colligitur. Si enim a terminus de omni b termino praedicatus fuerit, b uero
terminus de nullo c termino praedicetur, non posset colligi quoniam a terminus
de nullo c termino praedicatur. Cur autem non possit, in resolutoriis dictum
est. Sed quoniam uniuersalis negatiua sibi ipsa conuertitur, potest dici et
conuerti, quoniam c terminus de nullo b termino praedicatur, b uero terminus de
quodam a termino dicitur, quoniam uniuersalis affirmatiua purtioulariter sibi
ipsa conuertitur: quare c terminus de quodam a termino non praedicabitur, ut
sit sic: Omne bonum iustum est, Nullum malum bonum est; non
posset colligi, quoniam: Nullum malum iustum est, sed conuertitur
sic: Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam
igitur iustum malum non est. FRISESOMORUM Nonus modus primae figurae est,
qui ex particulari affirmatiua et uniuersali negatiua particularem colligit
negatiuam per conuersionem. Si enim a terminus de quodam b termino, b uero
terminus de nullo c termino praedicetur, non potest quidem dici quoniam a
terminus de quodam c termino non praedicabitur. Cur autem non possit, hoc
quoque in resolutoriis diximus; sed quoniam uniuersalis negatio conuerti
potest, dicitur quoniam c terminns de nullo termino praedicatur, et b terminus
de quodam a praedicatur; c igitur terminus de quodam a non praedicabitur, ut
sit sic: Quoddam bonum iustum est, Nullum malum bonum est; Quoddam
igitur iustum malum non est. Expeditis igitur nouem primae figurae modis,
ad secundae figurae quatuor modos ueniamus. lllud tantum constet, quod
quemadmodum in prima figura per nouem supradictos modos et affirmatio
uniuersalis, et negatio uniuersalis, et affirmatio particularis, et negatio
particularis, in conclusione colligitur, in secunda figura affirmatiuam neque
generalem neque particularem posse colligi sed tantum uel particulariter, uel
uniuersaliter solas colligi negatiuas. CESARR Est autem secundae figurae
primus modus hic, quoties ex uniuersali negatione, et uniuersali affirmatione,
uniuersalis negatiue colligitur. Si enim a terminus de nullo b termino et de
omni c termino praedicetur, terminus de nullo c termino praedicabitur. Sit enim
a bonum, sit b malam, c iustum. Si quis igitur sic dicat: Nullum malum
bonum est, Omne iustum bonum est; concludit: Nullum iustum
malum est. Liquet igitur maiorem extremitatem de minore in conclusione
praedicari. Sed omnes secundae fgurae syllogismis quam uis ueri sint, uerum
tamen ex seipsis non probatur sed ex primae figurae modis implentur. Namque si
a terminos de nullo b termino praedicetur, et in omni c termino sit, nondum
probatum est quoniam omnino b terminus de nullo c termino praedicetur. Sed si
quis ex isto secundae figurae primo modo primae figurae secundum modum faciat,
per conuersionem totus syllogismus conclusioque probata est. Si quis enim in
hoc syllogismo qui est a terminus in nullo b, et idem a terminus de omni c
praedicetur, et a b propositionem conuertat, ut faciat esse b a, nam omnis
uniuersalis negatiua conuertitur; si quis igitur dicat quoniam a terminus de
nullo b termino praedicatur, et b igitur de nullo a termino praedicabitur sed a
terminus de omni c termino praedicabitur. Fit igitur primae figurae
secundus modus ex uniuersali negatiua et uniuersali affirmatiua uniuersalem
colligens negatiuam, ut sit conclusio. De nullo igitur c termino b
praedicabitur. His igitur conuersionibus omnis secundae et tertiae figurae
syllogismus conclusioque colligitur et probatur. Atque ideo quoniam ex seipsis
non sunt probati nisi ex superioribus comprobentur, id est, primae figurae
modis, quicumque in secunda uel tertia figura inuentus fuerit, imperfectus
uocatur syllogismus. CAMESTRES Secundus uero modus secundae figurae est
quoties ex uniuersali affirmatiua et uniuersali negatiua commutatis ordinibus
uniuersalibus rursus negatiua concluditur, Si enim a terminus in omni b termino
fuerit, et de nullo c termino praedicetur, b term in us de nullo c termino
praedicabitur. Sit enim a bonum, b iustum, c malum. Si quis igitur sic
dicat: Omne iustum bonum est, Nullum malum bonum est;
concludit: Nullum igitur malum iustum est. Sed haec complexio
coniunctioque propositionum duplicem conuersionem habet. Ostenditur enim de
secundo primae figurae modo sic. Nam si a terminus in omni b termino est, et de
nullo c termino praedicatur, hic uniuersalis negatiua conuertitur. Erit igitur
ut c terminus de nullo a termino praedicetur. Quod si ita est, erit huiusmodi
syllogismus: c terminus de nullo a termino praedicatur, a terminus in omni b
termino est, c igitur terminus de nullo b termino praedicabitur. Ecce una
conuersio facta est propositionis negatiuae. Sed quoniam diximus concludi non c
in nullo b sed b in nullo c termino, hic uniuersalis conclusio negatiua
conuertitur: et sicut conclusum est c terminum de nullo b termino praedicari,
ita concluditur de nullo c termino b terminum praedicari. FESTINO Tertius
modus secundae figurae est, quoties ex uniuersali negatiua et particulari
affirmatiua particularis negatiua colligitur. Si enim a terminus de nullo
b termino praedicetur, et in quodam c termino fuerit, b terminus de quodam c
termino non praedicabitur. Sit enim a bonum, b malum, c iustum. Si quis igitur
sic dicat: Nullum malum bonum est, Quoddam iustum bonum est;
concludat necesse est: Quoddam iustum malum est. Hic quoque
syllogismus per conuersionem hoc modo probatur. Nam si a terminus de nullo b
termino praedicatur, et b terminus de nullo a termino praedicabitur. Sed a
terminus de quodam c termino praedicatur. Redit igitur primae figurae modus
quartus, qui est ex uniuersali negatione est particulari affirmatione,
particularem scilicet colligens negatiuam, ut in hoc quoque syllogismo. Nam hic
quoque particularem nagatiuam colligit, id est b terminum de quodam c termino non
praedicari. BAROCO Quartus modus secundae figurae est, qui ex uniuersali
affimatione et particulari negatione particularem colligit negatiuam, Nam si a
terminus in omni b termino sit, et de quodam c termino non praedicetur, b
terminus de quodam c termino non praedicabitur. Sit enim a bonum, b iustum, c
malum. Si quis igitur dicat: Omne iustum bonum est, Quoddam malum
bonum non est; concludit: Quoddam igitur malum iustum non est.
Haec uero complexio atque ordo propositionum per conuersionem non potest
approbari. Generalis enim affirmatiua sibi ipsa conuerti non potest. Monstratur
igitur iste syllogismus ex prima figura non per conuersionem sed per impossibilitatem,
quoniam si particularis conclusio negatiua in hoc syllogismo non concluditur,
aliquod inconueniens impossibileque contingit. Sed haec impossibilitas per
primam figuram demonstrabitur. Dico enim quoniam si a terminus de omni b
termino praedicetur, et in aliquo c termino non sit, talem colligi
conclusionem, ut b terminus de aliquo c termino non praedicetur. Nam si hoc
falsum est, huic contraiacens propositio uera erit. Particularibus autem
negatiuis uniuersales affirmatiuae contraiacentes sunt, ut in superiore libro
docuimus. Si igitur hic particularis negatio non est conclusio, erit generalis
affirmatio. Sit enim affirmatio generalis, et b terminus de omni c termino
praedicetur; sed a terminus de omni b termino predicatur, b uero terminus de
omni c termino praedicari dicitur; a igitur terminus de omni c termino
praedicatur, quod fieri non potest. lta enim a c propositionem posuimus prius,
ut diceremus a terminum de quodam c termino non praedicari. Hoc igitur ostensum
est per primum modum primae figurae. Quare in secunda figura omnis
syllogismus imperfectus est, et eius probatio aut per conuersionem in primam
figuram reducitur, aut ex hypothetica dispositione per impossibilitatem, et
primam figuram aliter fieri non posse monstratar, et alii quidem omnes per
impossibile probantur, quod paulo post dernonstrabitur. Restat ut tertiae
figurae modos atque ordines explicemus. Sed antea quam id faciamus, illud prius
uidendum est, quod in tertiae figurae modis quam conclusio colligitur
uniuersalis. Sed si uel negatiuae uel affirmatiuae fuerint collectiones,
particulares semper erunt, nunquam etiam generales. DARAPTI Est autem
tertiae figurae primus modus hic, qui ex duabus uniuersalibus affirmationibus
particularem colligit affirmationem. Nam si a et b termini de omni c termino
praedicentur, a terminus de quodam b termino praedicabitur per conuersionem.
Nam si b terminus de omni c termino praedicatur, et uniuersalis affirmatio
particulariter sibi conuertitur, c terminus de quodam b termino praedicatur.
Quod si ita est, fit tertius primae figurae modus, qui est ex uniuersali et
particulari affirmatiua, et colligit a terminuni de quodam b termino
praedicari. Sit enim a iustum, b uirtus, c bonum. Si quis enim sic dicat: Omne
bonum iustum est, Omne bonum uirtus est; fit conclusio:
Quaedam uirtus iusta est. Mutant alii terminos, et uolunt facere secundum
modum, ut sit a uirtus, b iustum, c bonum, ut si talis syllogismus: Omne bonum
uirtus est, Omne bonum iustum est; et concludatur: Quoddam
iustum uirtus est. Sed hunc Aristoteles a superiore non diuidit, et hos
duos unum modum putat, et idcirco nos septem tertiae figurae esse diximus modos
dubitantes; sed magis Aristoteles sequendus est, atque ideo alium modum dicamus
esse qui possit integre uideri secundus. <III-2: FELAPTON> Secundus
uero modus tertiae figurae est, quoties ex uniuersali negatione et uniuersali
affirmatione negatio colligitur particularis. Si enim a terminus de nullo
c termino, b terminus uero de omni c termino praedicetur, a terminus de quodam
b termino non praedicabitur. Nam si a terminus de nullo c termino
praedicatur, b uero de omni c, et c terminus de quodam termino
praedicabitur. Particulariter enim sibi uniuersalis affirmatiua
conuertitur. Concluditur igitur in quarto primae figurae modo, a terminum
de quodam b termino non praedicari. Sit enim a malum iustum, c bonum. Si quis
sic dicat: Nullum bonum malum est, Omne bonum iustum est;
concludat necesse est: Quoddam igitur iustum malum non est. Ex quo
considerandum est maiorem extremitatem in conclusione praedicari. DISAMISTertius
modus tertiae figurae est, quoties ex particulari et uniuersali affirmatiua
particularis affirmatio concluditur. Si enim a terminus de quodam c, et b
terminus de omni c termino praedicetur, concluditur a terminum de quodam b
termino praedicari per duplicem conuersionem. Quoniam enim b terminus de omni c
termino praedicatur, et a terminus de quodam c termino praedicatur, et
particularis affirmatiua semper sibi ipsi conuertitur, c terminus de quodam a
termino praedicabitur. Sunt igitur propositiones sic: b terminus de omni c
termino, c uero terminus de quodam a termino praedicatur: quod si ita est,
colligitur in primae figurae modo tertio b terminum de quodam a termino
praedicari. Atque ita particularis affirmatiua conuertitur, et a terminus de
quodam b termino praedicabitur, eruntque duplices couuersiones, una
propositionis, alia conclusionis. Sit enim a iustum, b uirtus, c bonum. Si quis
igitur sic dicat: Quoddam bonum iustum est, Omne bonum uirtus
est; concludat necesse est: Quaedam uirtus iusta est. DATISI Quartus
modus tertiae figurae est quoties ex uniuersali affirmatione et particulari
affirmatione affirmatio particularis colligitur. Nam si a terminus de omni c
termino praedicetur, b uero terminus in quodam c termino sit, concluditur a
terminum de quodam b termino praedicari per conuersionem. Si enim b terniinus
de quodam c termino praedicetur, et c terminus de quodam b termino praedicatur,
quonium particularis affirmatiua sibi ipsi conuertitur, et fit syllogismus in
primae figurae tertio modo, qui at ex uniuersali affirmatiue et particulari
affirmatiue, particularem colligens affirmatiuam, ut sit syllogismus hoc modo:
a terminus in omni c, et c terminus in quodam b. Igitur b terminus in quodam b.
Sit n uirtus, h iustum, c bonum. Si quis igitur sic dicat: Omne bonum
uirtus est, Quoddam bonum iustum est; concludet quoniam: Quoddam
iustum uirtus est. BOCARDO Quintus modus tertiae figurae est quoties ex
particulari negatione et uniuersali affirmatione particularis colligitur
negatiua. Sed hic modus per conuersionem probari non potest sed per
impossibilitatem, sicut quartus secundae figurae probatus est modus. Si enim a
terminus de quodam c termino non praedicetur, b uero terminus de omni c termino
praedicetur, a terminus de quodam b termino non praedicabitur; nam si non ita
est, erit illud uerum, a terminum de omni b termino praedicari; sed b terminus
de omni c termino praedicatur, a igitur terminus de omni c termino
praedicabitur, quod fieri non potest. Prius enim ita positus est a terminus, ut
de quodam c termino non praedicaretur. Quod si generalis affirmatio in
conclusione syllogismi non est, ut sit a terminus in omni b termino, erit huic
contraiacans particularis negatio, ut a terminos de quodam b termino non
praedicetur. Sit enim a malum, b iustum, c bonum. Si quis igitur sic dicat: Quoddam
bonum malum non est, Omne bonum iustum est; concludat necesse
est: Quoddam igitur malum non est. FERISON Sextus modus tertiae
figurae est quoties ex uniuersali negatiua et particulari affirmatiua
particularis negatio colligitur per conuersionem. Nam si a terminus in nullo c
termino sit, b uero terminus de quodam c termino praedicetur, fit conclusio a
terminus de quodam b termino non praedicari. Nam si a terminus de nullo c
termino praedicatur, b uero termimis de quodam c termino praedicabitur, et c
terminus de quodam b termino praedicabitur, quoniam particularis affirmatiua
potest conuerti. Fit igitur talis syllogismus, ut a terminus de nullo c termino
praedicetur, c terminus de quodam b termino praedicetur, et a terminus de
quodam b termino non praedicetur. Sit a malum, b iustum, c bonum. Si quis
igitur dicat: Nullum bonum malum est, Quoddam bonum iustum est;
concludit: Quoddam iustum malum non est. His igitur
expeditis, quid ipse syllogismus sit definiendum est. Definitur autem
sic: Syllogismus est oratio in qua positis quibusdam atque
concessis, aliud quiddam quam sint ea quae posita et concessa
sunt, necessaria contingit per ipsa quae concessa sunt. Orationem
diximus esse syllogismum idcirco quoniam omnis definitio a generali trahitur,
genus autem syllogismi EST ORATIO. Quod autem dictum IN QUA POSITIS QUIBUSDAM
ET CONCESSIS, ita intelligendum est, quasi sic dictum esset, secundum quam
positis et concessis; ut enim syllogismus fiat, ante aliquid a proponente
dicitur, quod audiens concedat, quod si ille concesserit, concludit et perficit
syllogismum, idoirco, quia dubiae res per quaedam CONCESSA et probata
monstrantur, conceditur autem aequaliter et negatio uera. Caetera uero in
syllogismi definitione talia sunt quae non integre dispositos syllogismos a
syllogismorum definitione uerorum discernant. Nam quod dictum est IN QUA
POSITIS QUIBUSDAM, sumptorum scilicet et propositionum multitudo monstratur.
Sunt enim qui putantur esse huiusmodi syllogismi, in quibus tantum una
propositio est et una conclusio. Qualis est hic: Vides; Viuis
igitur. Homo es; Animal igitur es. et alia huiusmodi, quos
scilicet ueteres in syllogismis non acceperunt, syllogismos enim est aliquorum
collectio. At uero collectio non nisi plurimorum est, et quicumque unam posuit
propositionem, ille non colligit. Nullum igitur faciet syllogismum. Debet enim
syllogismus, ut angustissimus sit, duabus propositionibus comprobari. Quod
autem dictum est, aliud quiddam necessario euenire quam sint ipsa quae concessa
sunt, quoniam freqaenter tales ab aliquibus flunt syllogismi, ut ea quae
proposuerunt, ipsa etiam in conclusione concludant, ut est hic: Si homo
es, homo es; Homo autem es; Homo igitur es. Idem enim conclusit
quod ante proposuit. Atque ideo, ad istorum discretionem, aliud quiddam
contingere debere dictum est QUAM SINT EA QUAE CONCESSA SUNT, ut in
superioribus omnibus syllogismis quos in trium figurarum modis et
demonstratione posuimus. Tales uero syllogismi quales nunc dicti sunt per
ridiculi sunt, quod id quod ante concessum est quasi dubium quiddam in
conclusione colligitur. Nam quod positum est, necessario contingere, ad hoc
pertinet, quoniam frequenter ad inductionem uerae quaedam propositiones sunt
quarum conclusio nullo modo uera est, ut si quis sic dicat: Qui musicam
nouit musicus est et concedatur; et: Qui arithmeticam arithmeticus
est et: Qui medicinam medicus est et: Qui bonum bonus
est. Cum igitur haec omnia concessa sunt, dicat: Et qui malum, malus
est quod quasi superioribus simile uidetur sed omni modo falsum est: boni
enim homines non aliter cauent, nisi mala nouerint. Atque ideo propter eas
conclusiones quae sunt per eas propositiones quae per inductionem dicuntur,
additum est conclusiones in syllogismis necessarias contingere, id est ex
necessitate contingere. Est etiam alia exposilio sed in Analyticis
nostris iam dicta est. Illud uero quod dictum est, PER IPSA QUAE POSITA SUNT,
hoc propter eos dictum est qui tales faciunt syllogismis, in quibus aut minus
aliquid, aut plus, aut aliud propositum est quam proponi debuerat. Fiunt enim
huiusmodi syllogismi. Si quis enim ita dicat: Socrates homo
est, Omnis homo animal est; et concludat: Socrates igitur
animatus est minus proposuit, quod non dixit omne animal esse animatum.
Nunc si sic proposuisset, recte Socrates animatum esse concluderet, ita
dicendo: Socrates homo est, Omnis homo animal est, et: Omne
animal animatum est; Socrates igitur animatus est. Plus autem
proponere hoc est, ut si quis sic dicat: Omnis homo animal est, Omne
animal animatum est, sed et: Sol in Ariete est; Omnis igitur homo animatus
est hic uero superfluum est quod solem in Ariete esse interposuit. Aliud
autem quam necesss est quidam proponunt hoc modo, ut si quis sic dicat:
Omne homo animal est, Virtus autem bonum est; Omnis igitur homo
animatum est. Nulla igitur harum propositionum ad rem pertinet quod concludere
cupiebat. Expedita igitur syllogismi definitione, ad priorum modorum
naturam resolutionemque ueniamus, et prius omnes in ordinem disponatur. PRIMAE
FIGURAE MODI PRIMUS Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta
est; Omnis igitur uirtus bona est. SECUNDUS Nullum bonum malum
est, Omne iustum bonum est; Nullum igitur iustum malum
est. TERTIUS. Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam
igitur iustum uirtus est. QUARTUS Nullum bonum malum est, Quoddam
iustum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est. QUINTUS Omne
iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est; Quoddam igitur bonum uirtus
est. SEXTUS Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est; Nullum
igitur malum iustum est. SEPTIMUS Omne bonum uirtus est, Quoddam
iustum bonum est; Quaedam igitur uirtus iusta est. OCTAVUS Omne bonum
iustum est, Nullum malum honum est; Quoddam igitur iustum malum non
est. NONUS Quoddam bonum iustum est, Nullum malum bonum est; Quoddam
igitur iustum malum non est. SECUNDAE FIGURAE MODI PRIMUS
Nullum malum bonum est, Omne iustum bonum est; Nullum igitur iustum
malum est. SECUNDUS Omna iustum bonum est, Nullum malum bonum
est; Nullum igitur malum iustum est. TERTIUS Nullum malum bonum est, Quoddam
iustum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est.QUARTUS Omne iustum
bonum est, Quoddam malum bonum non est; Quoddam igitur malum iustum
non est. TERTIAE FIGURAE MODI PRIMUS Omne bonum iustum
est, Omne bonum uirtus est; Quaedam igitur uirtus iusta est. SECUNDUS
Omne bonum uirtus est, Omne bonum iustum est; Quoddam igitur iustum
uirtus est. TERTIUS Nullum bonum malum est, Omne bonum iustum
est; Quoddam igitur iustum malum non est QUARTUS Quoddam bonum
iustum est, Omne bonum uirtus est; Quaedam igitur uirtus iusta
est. QUINTUS Omne bonum uirtus est, Quoddam bonum iustum est; Quoddam
igitur iustum uirtus est. SEXTUS Quoddam bonum malum non est, Omne
bonum iustum est; Quoddam igitur iustum malum non est. SEPTIMUM Nullum
bonum malum est, Quoddam bonum iustum est; Quoddam igitur iustum
malum non est. Hi sunt igitur omnes trium figurarum modi quorum primae figurae
quatuor primae indemonstrabiles nominantur et directi, id est sine aliqua
conuersione monstrati; indemonstrabiles autem quoniam non per alios
demoiistrantur, et perfecti dicuntur, quoniam per seipsos comprobantur. Et
primi quoniam positione et natura primi sunt, et in eos omnes caeteri
resoluuntur. Illi quoque quinque primae figurae modi imperfecti et per
conuersionem sunt. Secundae uero figurae, uel tertiae, omnes imperfecti sunt,
quoniam per primos primae figurae modos quatuor comprobantur, namque in ipsos
resoluuntur: ut eos per conuersionem resoluamus, et per impossibilitatem, ut
duo illi superius demonstrati sunt, consideremus igitur eorum principia,
quoniam unde nascuntur in idipsum resoluuntur. Quintus igitur primae figurae
modus de prima, primo figurae modo procreatur. Binis enim propositionibus
prioribus manentibus, conclusio primi modi particulariter conuersa quintum
efficit syllogismum, quod in subiecta declaratur descriptione: Omne iustum
bonum est,- eadem - Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est;- eadem
- Omnis uirtus iusta est; Omnis uirtus bona est.- uersa - Quoddam
bonum uirtus est. Sextus uero primae figurae modus de secundo primae figurae
modo capit principium. Manentibus enim duabus prioribus propositionibus secundi
modi, uniuersali conclusione uniuersaliter conuersa, sextus nascitur
syllogismus, ut subiecta docet descriptio: Nullum bonum malum est,- eadem
- Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est;- eadem - Omne iustum
bonum est; Nullum iustum malum est.- uersa - Nullum malum iustum est. Septimus
modus primae figurae de tertio primae figura, nascitur modo. Manentibus
enim binis propositionibus prioribus, particulari affirmatiua in conclusione
conuersa, septimi modi collocatio procreatur: Omne bonum uirtus est,-
eadem - Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est;- eadem
- Quoddam iustum bonum est; Quoddam iustum uirtus est.- uertitur - Quaedam
uirtus iusta est. Octauus uero et nonus primae figurae modus in quartum
primae figurae modum resoluuntur, non etiam initium sumunt. Octauus resoluitur
in quartum hoc modo: prima enim quarti in secundam octaui uniuersaliter conuersa,
et prima propositione octaui modi particulariter in secundam quarti modi
conuersa, eadem conclusio colligitur, id est negatio particularis. Nullum
bonum malum est, negatio uniuersalis. Quoddam iustum bonum est,
particularis affirmatio. Uniuersaliter conuersa, Omne bonum iustum
est. Uniuersaliter conuersa, Nullum malum bonum est. Quoddam iustum
malum non est, eadem conclusio, Quoddam iustum malum non est. Nonus
uero modus in quartum modum resoluitur sic, prima quarti in secundam noni
propositionem uniuersaliter conuertatur, et secunda quarti particulariter in
primam noni, et eadem conclusio maneat negatio particularis. Nullum bonum
malum est, uniuersalis negatiua. Quoddam iustum bonum est, particularis
affirmatiua. Particulariter conuersa. Quoddam bonum iustum
est. Uniuersaliter conuersa, Nullum malum bonum est. Quoddam iustum
malum non est, eadem conclusio: Quoddam iustum malum non est. Resolutis
igitur quinque primae figurae modis in quatuor superioribus, secundae figurae
quatuor modos in prioris figurae modos quatuor resoluamus, quorum tres per
conuersionem probantur. Quartus uero per solam impossibilitatem. At uero primus
et secundae figurae secundus modus in secundum prioris figure modum
resoluuntur, et resoluitur primus sic. Conuersa enim prima uniuersali oegatione
uniuersaliter, et manente secunda uniuersali affirmatione, eadem conclusio utrorumque
nascitur: Nullum bonum malum est,- conuersa - Nullum malum bonum
est, Omne iustum bonum est;- eadem - Omne iustum bonum est; Nullum iustum
malum est- eadem - Nullum iustum malum est. Secundae figurae secundus
modus in primae figurae secundum modum resoluitur sic: conuersa secunda propositione,
et secunda prima manente, uniuersaliter fit conuersa conclusio: Nulllum
bonum malum est, Omne iustum bonum est, Omne iustum bonum est;- conuersa
- Nullum malum bonum est; Nullum iustum malum est.- conuersa -
Nullum malum iustum est. Tertius uero secundae figurae modus, de quarto primae figurae
procreatur. Ut enim uniuersaliter negatio in primam propositionem uniuersaliter
conuertatur, et secundae propositiones maneant, idem syllogismi terminus
propositioque colligitur hoc modo: Nullum bonum malum est,- conuersa
- Nullum malum bonum est, Quoddam iustum bonum est;- similis -
Quoddam iustum bonum est; Quoddam iustum malum non est.- eadem -
Quoddam iustum malum non est. Quartus modus seoundae figurae quoniam iam
primo, cum factus est per conuersionem, in superioris primae figurae modum
retorqueri non poterat sed per impossibile demonstratum est, hic quoque per
impossibile ad superiores reducitur modos, et quoniam omnes secundae figurae
modi per impossibile monstrantur, idcirco nos quoque inchoantes a quarto omnes
per impossibile resoluamus. Nam quartus secundae figurae modus in primum primae
figurae resoluitur per impossibilitatem, tertius in secundum, secundus in
tertium, primus in quartum, quod hoc modo liquebit. Si quis ergo duas istas
concesserit propositiones, id est: Omne bonum uirtus est. et: Quoddam
iustum uirtus non est necesse est quoque conclusionem concedat quae
est: Quoddam igitur iustum bonum non est. Nam si haec falsa est,
erit ei contraiacens uera quae est, omne iustum bonum est sed illam concessit
quae est prima quarti modi, id est: Omne bonum uirtus est. Ex his igitur
concludat: Omne igitur iustum uirtus est. Sed prius concessit quarti
modi secundum propositionem, quae est: Quoddam iustum uirtus non
est. Nunc uero concedit: Omne iustum uirtus est duas sibi
contraiacentes simul conclusurus est, quod fieri non potest. Hoc autem idcirco
euenit, quia conclusio quarti modi in primi modi secundam propositionem
conuersa est: quod si secunda propositio primi modi in quarti conclusione non
colligitur, quarti oonclusio, id est particularis negatio, permanebit. Sed ne
forte nos conturbet quod alios terminos in resoluendo modo posuimus, quam
superius in disponendo; non enim modo in terminis laboramus sed in figuris et
modis et complexionibus construendis atque resoluendis operam consumimus. Eodem
modo et caeteri secundae figurae in primos quatuor resoluuntur: Omne
bonum uirtus est- eadem - Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum
uirtus non est; Omne iustum bonum est; Quoddam igitur iustum bonum non est. Omne
igitur iustum uirtus est. Tertus secundae figurae modus secundo primae figurae
modo sic resoluitur: si quis duas primas tertii modi concesserit, particuiarem
quoque negatione concludet, quae est: Quoddam igitur iustum bonum non
est. Nam si haec falsa est uera erit contraiacens, quae est: Omne
iustum bonum est. Sed etiam illa concessa est, quae est: Nullum
bonum malum est. Ex his ergo colligitur: Nullum igitur iustum malum
est. Sed prius concessa erat: Quoddam iustum malum est nunc
uero: Nullum iustum malum est duas sibi contraiacentes, uno tempore
concedit, quod fieri non potest. Sublata igitur uniuersali conclusione, quae
est: Omne iustum bonum est remanebit particularis negatio, quae
est: Quoddam iustum bonum non est. Nullum bonum malum est,-
conc. - Nullum bonum malum est. Quoddam iustum malum est; -
contr. - Omne iustum bonum est. Quoddam igitur iustum bonum non
est. - perm. contr. - Nullum ergo iustum malum est. Secundus secundae
figurae in tertio primae figura, modo sic resoluitur: si quis duas secundae
figura, propositiones concesserit, conclusionem quoque concedit, quae
est: Igitur iustum bonum est. Nam si haec falsa est, erit uera
contraiacens ei particularis affirmatio: Quoddam iustum bonum est.
Sed idem concessit illam quae est: Omne bonum uirtus est concludat
necesse est: Quoddam iustum uirtus est qui iam ante concesserat
secundam secundi modi quae est: Nullum iustum uirtus est duas
contraiacentes uno tempore concedit, quod fieri non potest. Omne bonum
uirtus est,- concessae - Omne bonum uirtus est, Nullum iustum uirtus
est; - contraiac.- Quoddam iustum bonum est;
Nullum iustum bonum est. - permut. - Quoddam iustum uirtus
est. Primae item secundae figurae in quartum primae figurae sic
resoluitur: qui concedit duas primi modi propositiones, concedat necesse est et
conclusionem. Nam si illa falsa est, erit uera contraiacens ei particularis
affirmatiua quae est: Quiddam iustum bonum est. Sed idem concessit
illam quae est: Nullum bonum malum est concludat necesse est: Quoddam
igitur iustum malum non est qui ante concesserat illam quae
est: Omne iustum malum est. Uno tempore duas contraiacentes
concedit, quod fieri non potest. Sublata igitur particulari affirmatione quae
est: Quoddam iustum bonum est remanet illa quae est: Nullam
iustum bonum est. Nullum bonum malum est, - similes
- Nullum bonum malum est. Omne iustum malum est; - contraiac.
- Quoddam iustum bonum est. Nullum iustum bonum est. - perm. iacen.
- Quoddam igitur iustum malum non est. Sequitur ut tertiae figurae
modos ad primos quatuor reducamus, quorum quinque per conuersionem et per
impossibilitatem ad primos quatuor resoluuntur unus uero solus, id est quintus,
per solam impossibilitate in priora resoluitur. Primus tertiae modus figurae in
tertium primae figurae hoc modo resoluitur: Si enim prima propositio tertii
modi primae figurae maneat, et secunda propositio particularis tertii modi
prime figurae uniuersaliter conuertatur, et sit secunda propositio primi modi
tertiae figurae, eadem conclusio, colligitur, id est affirmatio particularis.
Omne bonum iustum est,- manet - Omne bonum iustum est, Quaedam
uirtus bona est;- conu. - Omne bonum uirtus est; Quaedam uirtus iusta
est.- manet - Quaedam uirtus iusta est. Vel certe sic, quia superius
talem syllogismum diximus terminis commutatis, quem Aristoteles dissimilem non
putat. Omne bonum uirtus est,- similes - Omne bonum uirtus est,
Quoddam iustum bonum est;- conu. - Omne honum iustum est; Quoddam iustum
uirtus est.- manet - Quoddam iustum uirtus est. Secundus modus
tertiae figurae in quartum modum primae figura, hoc modo resoluitur. Si enim
primae propositiones secundi tertiae figurae modi, et quarti modi primae
figurae maneant, quarti uero modi primae figurae secunda propositio
uniuersaliter conuertatur, et secunda sit proposilio secundi modi tertiae
figurae, eadem conclusio procreatur. Nullum bonum malum est,- manet
- Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum est;- uersa - Omne
bonum iustum est; Quoddam iustum malum non est.- manet - Quidam iustum
malum non est. Tertius modus tertiae figurae in tertium modum primae figurae
resoluitur. Si enim propositio prima tertii primae figurae modi, et secunda
propositio tertii modi tertiae figurae maneat, et secunda propositio tertli
modi primae figurae particularis particulariter conuertatur, ut sit prima
tertii modi tertiae figurae, conuersa particulariter conclusio nascitur.
Omne bonum uirtus est, Quoddam bonum iustum est, Quoddam iustum bonum est; Omne
bonum uirtus est; Quoddam iustum uirtus est.- uersa - Quaedam
uirtus iusta est. Quartus modus tertiae figurae in tertium modum primae
figure resoluitur: si enim utrorumque prima, maneant propositiones, et secundae
particulares particulariter conuertantur, eaedem conclusiones nascuntur. Omne
bonum uirtus est,- manet - Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum
est;- uertitur - Quoddam bonum iustum est; Quoddam iustum uirtus est - manet
- Quoddam iustum uirtus est. Reliquus sextus syllogismus tertiae
figurae de primae figurae quarto modo procreatur; manentibus enim primis eorum
propositionibus atque secundis particulariter immutatis particulis in utroque
manebit concluso. Nullum bonum malum est,- eadem - Nullum bonum
malum est, Quoddam iustum bonum est;- mutata - Quoddam bonum iustum est;
Quoddam iustum malum non est. - manet - Quoddam bonum iustum est. Quintus
autem qui restat, sicut ante per impossibile probatur, ita etiam nunc per
impossibilitatem resoluitur. Sed quemadmodum unus fuerit resolutus, eodem
ordine omnes resoluendi sunt. Resoluitur autem sextus tertiae figurae modus in
tertium prima, flgurae modum. Quintus autem tertiae figurae modus resoluitur in
primum primae figurae. Quartus tertiae figurae modus resoluitur in quartum
primae figurae modum. Tertius tertiae figurae modus resoluitur in
secundum primae figurae modum. Secundus tertiae figurae modus resoluitur in
primum primae figurae modum. Primae tertiae figurae modi resoluuntur in secundos
primae figurae modos. Resoluitur autem per impossibilitatem sextus tertiae figurae
modus in primae figurae modum tertium hoc modo: si quis igitur duas
proportiones sexti modi tertiae figurae concesserit, concedat etiam necesse est
conclusionem quae est: Quoddam iustum malum non est. Nam si haec
falsa est, erit uera contraiacens ei primae figurae tertii modi prima
propositio quae est: Omne iustum malum est. Sed etiam concessit
propositionem secundam, quae est: Quoddam bonum iustum est. Ex his
igitur concedat necesse est, quoddam bonum malum est qui ante concesserat
primam propositionem sexti modi tertiae figurae quae est: Nullum bonum
malum est. Uno tempore duas sibi contraiacentes concedit, quod fieri non
posse descriptio declarat. Nullum bonum malum est,- contraiac. - Omne
iustum malum est Quoddam bonum iustum est;- concessae - Quoddam bonum
iustum est Quoddam iustum malum est.- permut. iac. - Quoddam bonum malum est. Hoc
modo omnes caeteri modi tertiae figurae in primos modos primae figurae
referuntur, quod subiecta descriptio declarat, in qua prior quintus, qui per conuersionem
resolui non potuit, per impossibilitatem resolutus est. Quoddam bonum
malum non est,- contraiac. - Omne iustum malum est Omne bonum iustum est-
concessae - Omne bonum iustum est. Quoddam iustum malum non est- permut.
- Omne bonum malum est. Omne bonum uirtus est- contraiac. - Nullum iustum
uirtus est. Quoddam bonum iustum est- concessae - Quoddam bonum iustum
est. Quoddam iustum uirtus est- permut. - Nullum bonum uirtus est.
Quoddam bonum iustum est- contraiac. - Nulla uirtus iusta est. Omne bonum
uirtus est- concessae - Omne bonum uirtus est. Quaedam uirtus iust. est-
permut. - Nullum bonum iustum est. In resolutione modi secundi
tertiae figurae in primum modum primae figurae, haec impossibilitas euenit,
quod duas contrarias uno tempore concedit, quod fieri nequit. Numquam enim duae
contrariae uno tempore simul uerae inueniuntur. Nullum bonum malum est,-
contraiac. - Omne iustum malum est., Omne bonum iustum est;- concessae - Omne
bonum iustum est; Quoddam iustum malum non est.- permut. - Nullum bonum
iustum est. Et in sequenti quoque syllogismo duas concedit, quod
impossibile est. Omne bonum iustum est,- contraiac. - Nulla uirtus iustus
est, Omne bonum uirtus est;- concessae - Omne bonum uirtus est; Quaedam
uirtus iusta est.- permut. - Nullum bonum iustum est. Nec nos illud
turbet, quod in quibusdam contraria propositio et conclusio inuenitur, in
quibusdam uero contraiacens. Namque aequaliter peccauit tam qui utrasque
contrarias concesserit, quam si utrasque contraiacentes. Nam quo modo
contraiacentes uno tempore uerae esse non possunt unquam, sic etiam
contrariae. Omne bonum uirtus est,- contraiac. - Nullum iustum uirtus
est, Omne bonum iustum est;- concessae - Omne bonum iustum est; Quoddam
iustum uirtus est.- permut. - Nullum bonum uirtus est. Haec de
categoricorum syllogismorum introductione Aristotelem plurimum sequens, et
aliqua de Theophrasto et Porphyrio mutuatus quantum parcitas introducendi
permisit, expressi. Si qua uero desint in Analyticis nostris calcatius
exprimemus. Nunc uero quantum ad solam categoricorum syllogismorum formam
spectabat, perfectum hic nobis est, et ad cumulum introductionis elaboratum.
Nec hoc nos perturbet, si que hic propositiones et conclusiones falsae sunt,
quandoquidem non ueritates rerum sed connexiones syllogismorum figuras et modos
suscepimus disserendos. Nam his cognitis, si quos ad perfectum studium logicae
disciplinee disputationis subtibilitas traxerit, prius de ambiguis
disputationibus discant, post ab his ueritas in rebus mendaciumque meditabitur.
Cum in omnibus philosophiae disciplinis ediscendis atque tractandis
summum in uita positum solamen existimem, tum iocundius, et ueluti cum quodam
fructu etiam laboris arripio quae tecum communicanda compono. Nam et si ipsa
speculatio ueritatis sua quodam specie sectanda est, fit tamen amabilior cum in
commune deducitur. Nullum enim bonum est quod non pulchrius elucescat, si
plurimorum notitia comprobetur; namque alias taciturnitate compressum et iam
iamque silentio periturum, latius efflorescit et ab obliuionis interitu
scientium participatione defenditur. Fit quoque iocundior disciplina, cum
inter eiusdem sapientiae conscios iubet esse sapientem: quod si accedat, ut
tecum mihi nunc res est, ea quae sponte iocunda sunt in amicitiae
participationem deduci, necesse est studii suauitatem quodam ueluti dulcissimo
caritatis sapore condiri. Nam cum id in se obtineat amicitia proprium munus, ut
nolit habere solitarias cogitationes, tunc quod honeste quisque cogitat, nulli
promptius, nisi quem diligit, confitetur. Quo factum est ut, etiam si immensus
labor coepto operi uiam negabat, animus tamen ad efficiendum quod aggressus
fuerat tui contemplatione sufficeret. Quid enim magnum studiosus tui amor
efficeret, si intra facilitatis terminos constitisset? Quod igitur apud
scriptores quidem Graecos per quam rarissimos strictim atque confuse, apud
Latinos uero nullos repperi, id tuae scientiae dedicatum noster etsi diuturnus,
coepti tamen efficax labor excoluit. Nam cum categoricorum syllogismorum
plenissime notitiam percepisses, de hypotheticis syllogismis saepe quaerebas,
in quibus nihil est ab Aristotele conscriptum. Theophrastus uero, uir omnis
doctrinae capax, rerum tantum summas exsequitur; Eudemus latiorem docendi
graditur uiam sed ita ut ueluti quaedam seminaria sparsisse, nullum tamen
frugis uideatur extulisse prouentum. Nos igitur, quantum ingenii uiribus
et amicitiae tuae studio sufficimus, quae ab illis uel dicta breuiter uel
funditus omissa sunt, elucidanda diligenter et subtiliter persequenda
suscepimus; in qua re superatae difficultatis praemium fero, si tibi munus
implesse uidear amicitiae, etsi non uidear satisfecisse doctrinae.
Vale. Omnis syllogismus certis et conuenienter positis propositionibus
continetur. Propositio uero omnis aut categorica est, quae praedicatiua
dicitur, aut hypothetica, quae conditionalis uocatur. Praedicatiua est in
qua aliquid de alio praedicatur hoc modo: Homo animal est hic enim animal
de homine praedicatum est; hypothetica est quae cum quodam conditione denuntiat
esse aliquid si fuerit aliud, ueluti cum ita dicimus: Si dies est, lux
est Hypotheticae autem propositiones ex categoricis constant, ut paulo
posterius apparebit, quo fit ut syllogismus quidem, qui ex categoricis
propositionibus iunctus est, categoricus appelletur, id est praedicatiuus, qui
uero ex hypotheticis propositionibus constat, dicatur hypotheticus, id est
conditionalis. Ut igitur horum syllogismorum differentia peruideatur,
spectanda prius est eorum in propositionum natura discretio. Videtur enim
in aliquibus propositionibus nihil differre praedicatiua propositio a
conditionali, nisi tantum quidem orationis modo; uelut si quis ita
proponat: Homo animal est id si ita rursus enuntiet: Si homo
est, animal est hae propositiones orationis quidem modo diuersae sunt,
rem uero non uidentur significasse diuersam. Primum igitur dicendum est quod
praedicatiua propositio uim suam non in conditione sed in sola praedicatione
constituit, in conditionali uero consequentiae ratio ex conditione suscipitur.
Rursus praedicatiua simplex est propositio, conditionalis uero esse non
poterit, nisi ex praedicatiuis propositionibus coniungatur, ut cum
dicimus: Si dies est, lux est; Dies est; atque: Lux est
duae sunt praedicatiuae, id est simplices propositiones. Ad hoc illud est,
quo maxime declaratur utrarumque proprietas, quod praedicatiua quidem
propositio habet unum terminum subiectum, alterum praedicatum; et id quod in
praedicatiua propositione subicitur, illius suscipere nomen uidetur quod in
eadem propositione praedicatur hoc modo, ut cum dicimus: Homo animal
est homo subiectum est, animal praedicatum, et homo animalis suscipit
nomen, cum ipse homo animal esse proponitur. At in his propositionibus quae
conditionales dicuntur non est idem praedicationis modus; neque enim omnino
alterum de altero praedicatur sed id tantum dicitur esse alterum, si alterum
fuerit, ueluti cum dicimus: Si peperit, cum uiro concubuit Non enim tunc
dicitur ipsum peperisse id esse quod est cum uiro concumbere sed id tantum
proponitur quod partus numquam esse potuisset nisi fuisset cum uiro concubitus.
Quod si quando in una eademque propositionum proprietas incurrerit, tunc
secundum modum enuntiatae propositionis intelligendi ratio uariabitur hoc modo.
Nam cum dicimus: Homo animal est propositionem facimus praedicatiuam;
at si ita proponamus: Si homo est, animal est in conditionalem uertitur
enuntiationem. In praedicatiua igitur id spectabimus quod ipse homo animal
sit, id est nomen in se suscipiat animalis, in conditionali uero illud
intellegimus, quod si fuerit aliqua res quae homo esse dicatur, necesse sit
aliquam rem esse quae animal nuncupetur. Itaque praedicatiua propositio rem
quam subicit praedicatae rei suscipere nomen declarat; conditionalis uero
propositionis haec sententia est, ut ita demum sit aliquid, si fuerit alterum,
etiamsi neutrum alterius nomen excipiat. Ita igitur propositionibus disgregatis
ex enuntiationum proprietate syllogismi quoque uocabulum perceperunt, ut alii
dicantur praedicatiui alii conditionales. Nam in quibus propositiones
praedicatiuae sunt, eos praedicatiuos syllogismos uocamus, in quibus uero
hypothetica propositio prima est (potest namque et assumptio et conclusio esse
praedicatiua), hi tantum per unius hypotheticae propositionis naturam
hypothetici et conditionales dicuntur. At de simplicibus quidem, id est
praedicatiuis syllogismis, duobus libellis explicuimus, quos de eorum
institutione confecimus. Post simplicium uero syllogismorum disputationem, ordo
est ut de non simplicibus disseramus. Non simplices autem syllogismi sunt qui
hypothetici dicuntur, quos latino nomine conditionales uocamus. Non
simplices uero dicuntur quoniam ex simplicibus constant, atque in eosdem
ultimos resoluuntur, cum praesertim primae eorum propositiones uim propriae
consequentiae ex categoricis, id est simplicibus, capiant syllogismis. Namque
prima propositio hypothetici syllogismi, si dubitetur an uera sit, praedicatiua
conclusione demonstrabitur. Assumptio uero in pluribus modis talium
syllogismorum praedicatiua esse perspicitur, itemque conclusio, uelut cum
dicimus: Si dies est, lucet; Atqui dies est; Haec assumptio
praedicatiua est, et, si quaeratur, praedicatiuo probabitur syllogismo: Lucet.
igitur consecuta rursus est praedicatiua conclusio. Super haec omnis
conditionalis propositio ex praedicatiuis (ut dictum est) iungitur; quod si ex
his et fidem capiunt, et ordinem partium sortiuntur, necesse est categoricos
syllogismos hypotheticis uim conclusionis ministrare. Sed quoniam de
hypotheticis loquimur, quid significet hypothesis praedicendum est. Hypothesis
namque, unde hypothetici syllogismi accepere uocabulum, duobus (ut Eudemo
placet) dicitur modis: aut enim tale adquiescitur aliquid per quamdam inter se
consentientium conditionem, quod fieri nullo modo possit, ut ad suum terminum
ratio perducatur; aut in conditione posita consequentia ui coniunctionis uel
disiunctionis ostenditur. Ac prioris quidem propositionis exemplum est,
ueluti cum res omnes corporales materiae formaeque concursu subsistere
demonstramus. Tunc enim quod per rerum naturam fieri non potest, ponimus, id
est omnem formae naturam a subiecta materia, si non re, saltem cogitatione
separamus; et quoniam nihil ex rebus corporeis reliquum fit, demonstratum atque
ostensum putamus eisdem conuenientibus corporalium rerum substantiam confici,
quibus a se disiunctis ac discedentibus interimatur. In hoc igitur exemplo
posita consentiendi conditione, ut id paulisper fieri intelligatur quod fieri
non potest, id est ut formae a materia separentur, quid consequatur intendimus,
perire scilicet corpora, ut eadem ex iisdem consistere comprobemus. Nam quoniam
interitus corporalium rerum consequitur, iure dicimus res omnes corporeas forma
materiaque constare. Sed hae quidem huiusmodi propositiones quae ex
consentientium conditione proueniunt, nihil his differunt quas simplices
categoricae institutionis primi libri tractatus ostendit; quae uero a
simplicibus differunt illae sunt, quando aliquid dicitur esse uel non esse, si
quid uel fuerit uel non fuerit. Hae semper cum coniunctionibus proponuntur, ut
cum dicimus: Si homo est, animal est. Si ternarius est, impar est
uel caetera huiusmodi. Haec enim ita proponuntur, ut si quodlibet illud fuerit,
aliud consequatur. Vel cum dicimus: Si homo est, equus non est
rursus haec eodem modo proponitur in negatione, quo superior in affirmatione
proponebatur; hic enim dicitur: Si hoc est, illud non est et ad hunc
modum caeterae. Possunt autem aliquando etiam hoc enuntiari modo: Cum hoc
sit, illud est ueluti cum dicimus: Cum homo est, animal est
uel: Cum homo est, equus non est quae enuntiatio propositionis
eiusdem potestatis est cuius ea quae hoc /216/ modo proponitur: Si homo
est, animal est. Si homo est, equus non est. Fiunt uero propositiones
hypotheticae etiam per disiunctionem ita: Aut hoc aut illud est. Nec
eadem uideri debet haec propositio quae superior, quae sic enuntiatur: Si
hoc est, illud non est haec enim non est per disiunctionem sed per
negationem. Negatio uero omnis infinita est, atque ideo et in contrariis, et in
contrariorum medietatibus, et in disparatis fieri potest (disparata autem uoco,
quae tantum a se diuersa sunt, nulla contrarietate pugnantia, ueluti terra,
ignis, uestis, et caetera). Nam: Si album est, nigrum non est Si
album est, rubrum non est Si disciplina est, homo non est at in ea
quae disiunctione fit, alteram semper poni necesse est hoc modo: Aut dies est
aut nox est quod si cuncta ea quae per negationem dici conuenit ad
disiunctionem transferamus, ratio non procedit. Quid enim si quis
dicat: Aut album est aut nigrum Aut album est aut rubrum Aut
disciplina est aut homo...? fieri enim potest ut nihil horum sit. Igitur
quoniam per disiunctionem propositio in certis tantum rebus in quibus alterum
eorum euenire necesse est ponitur, haec autem per negationem separatio in
omnibus etiam his quae suam inuicem naturam non perimunt poni potest, aperta
ratione discreta est. Omnis igitur hypothetica propositio uel per
connexionem fit (per connexionem uero illum quoque modum qui per negationem fit
esse pronuntio), uel per disiunctionem; uterque enim modus ex simplicibus
propositionibus comparatur. Simplices autem propositiones sunt quas
praedicatiuas primo Institutionis Categoricae libro diximus. Haec uero sunt cum
aliquid de aliquo praedicatur, uel affirmando, uel negando, ut: Dies est,
lux est. At si his media conditio interueniat, fiet: Si dies est,
lux est fitque una hypothetica propositio ex duabus categoricis
iuncta. Sed quoniam omnis simplex propositio uel affirmatiua est uel
negatiua, quatuor modis per connexionem fieri hypotheticae propositiones
possunt, aut enim ex duabus affirmatiuis, aut ex duabus negatiuis, aut ex
affirmatiua et negatiua, aut ex negatiua et affirmatiua. Harum omnium exempla
subdenda sunt, quo id quod dicimus clarius innotescat. Ex duabus
affirmatiuis: Si dies est, lux est ex duabus negatiuis: Si non
est animal, non est homo ex affirmatiua et negatiua: Si dies est,
nox non est ex negatiua et affirmatiua: Si dies non est, nox
est. Sed quoniam dictum est idem significare "si" coniunctionem
et "cum" quando in hypotheticis propositionibus ponitur, duobus modis
conditionales fieri possunt: uno secundum accidens, altero ut habeant aliquam
naturae consequentiam. Secundum accidens hoc modo, ut cum dicimus: Cum
ignis calidus sit, caelum rotundum est. Non enim quia ignis calidus est,
caelum rotundum est sed id haec propositio designat, quia quo tempore ignis
calidus est, eodem tempore caelum quoque rotundum est. Sunt autem aliae quae
habent ad se consequentiam naturae; harum quoque duplex modus est, unus cum
necesse est consequi, ea tamen ipsa consequentia non per terminorum positionem fit;
alius uero cum fit consequentia per terminorum positionem. Ac prioris
quidem modi exemplum est, ut ita dicamus: Cum homo sit, animal est
non enim idcirco animal est quia homo est, sed fortasse a genere principium
ducitur, magisque essentiae causa ex uniuersalibus trahi potest, ut idcirco sit
homo quia animal est. Causa enim speciei genus est. At qui dicit: Cum homo
sit, animal est rectam ac necessariam consequentiam facit, per terminorum
uero positionem talis consequentia non procedit. Sunt autem aliae hypotheticae
propositiones in quibus et consequentia necessaria reperitur, et ipsius consequentiae
causam terminorum positio facit, hoc modo: Si terrae fuerit obiectus,
defectio lunae consequitur. Hic enim consequentia rata est, et idcirco
defectio lunae consequitur, quia terrae interuenit obiectus. Istae igitur sunt
propositiones certae atque utiles ad demonstrationem. Partimur autem
propositiones hypotheticas in suas ac simplices propositiones, et primam
quidem, cui coniunctio praeponitur, praecedentem dicimus, secundam uero
consequentem, ut in hac: Si dies est, lux est praecedentem dicimus eam
quae dicit: "si dies est"; consequentem uero partem: "lux
est". In disiunctiuis uero propositionibus ordo enuntiandi praecedentem
uel consequentem facit, ut: Aut dies est aut nox est nam quae prima
proponitur praecedens, quae posterior consequens appellatur. Ac de partibus
quidem hypotheticarum propositionum ista suffficiunt. Illud nunc expediendum
uidetur, quod etiam ab Aristotele dicitur. Idem cum sit et non sit, non
necesse est idem esse, ueluti cum sit a, si idcirco necesse est esse b, idem a
si non sit, non necesse est esse b, idcirca quoniam non est a. Ad huiusmodi
uero rei demonstrationem impossibilitatis definitio praemittenda est, quae est
huiusmodi. Impossibile est quo posito aliquid falsum atque impossibile
comitatur, eo nomine quod impossibile primitus propositum fuit. Sit igitur
positum, cum sit a, esse b, id est hanc inter a atque b esse consequentiam, ut
si concessum fuerit esse a, necesse sit concedere esse b. Itaque
proponatur: Si a est, b est dico quia si a non fuerit, non necesse
est esse b. Ac primum quae sit propositionum consequentia consideremus.
Si enim fuerit tale coniunctum, ut si sit a, etiam b esse necesse sit, si b non
fuerit, a non esse necesse est; quod tali demonstratione cognoscitur. Si sit a,
necesse sit esse b; dico quia si b non sit, a non erit. Ponatur enim non esse
b, et sit si fieri potest a. Sed dictum est, si sit a, necessario concedi esse
b. Cum igitur sit b, non erit b: nam quia ponimus non esse b, non erit b, quia
uero ponimus esse a, erit b; erit igitur b ac non erit, quod fieri non potest.
Impossibile est igitur non esse b et esse; et demonstratione quidem firma sic
utimur. Exemplo uero id clarius innotescet. Nam si homo est, animal est;
si non est animal, non est homo; non uero si homo non fuerit, animal non est,
multa enim sunt animalia quae homines non sunt. Itaque in consequentia
propositionis coniunctae, si est primum, secundum esse necesse est, si secundum
non fuerit, non erit primum; at uero si primum non fuerit, non necesse est ut
non sit secundum, nec uero necesse est ut sit. Id enim demonstrandum esse dudum
nobis propositum fuit. Sit enim a, idque cum sit, necesse sit esse b: dico quia
si non fuerit a, non necesse est esse b; nec id dico quoniam si non fuerit a,
necesse est non esse b sed tantum non necesse est esse b. Nam quia paulo
ante demonstratum est, si b non fuerit, necessario non esse a, si eundem b
terminum non esse contingerit, non erit a. Sed si cum non sit a, necesse est
esse b, idem b ex necessitate erit, ac non erit: nam quia b terminum non esse
contingit, non erit; quia uero, si a non fuerit, b esse necesse est, erit. Idem
igitur b terminus erit ac non erit, quod est impossibile. Ex his igitur
demonstratum esse arbitror, in coniuncta hypothetica propositione, si sit
primum consequi ut sit secundum; si non sit secundum, consequi ut non sit
primum; si uero non sit primum, non consequi ut sit uel non sit secundum. Nam
et illud apparet, si sit secundum non consequi ut sit uel non sit primum, ut in
ea propositione quae est: Si homo est, animal est si animal sit non
consequitur ut sit homo uel non sit; quod si primum non sit, non consequitur ut
necessario sit uel non sit secundum, uelut in eadem propositione, si homo non
fuerit, non necesse est ut aut sit animal, aut non sit. Ex omnibus igitur solae
duae consequentiae stabiles sunt et immutabiliter constant: si sit primum, ut
consequatur ut sit secundum; si secundum non fuerit, necessario consequi ut non
sit primum. His ita determinatis, illud adiungam, quoniam, cum omnis
hypothetica propositio simplex non sit, atque ex aliis propositionibus
coniungatur, sunt tamen quaedam hypotheticae quae, si reliquis conditionalibus
comparentur, simplices existimentur. Omnis enim conditionalis propositio aut
connexa est aut disiuncta; haec uero quoniam ex praedicatiuis copulantur, in
connexis propositionibus quatuor fieri necesse est huius copulationis modos. Namque
hypothetica propositio aut ex duabus simplicibus coniuncta est, et uocatur
simplex hypothetica, ut haec: Si a est, b est ueluti cum
dicimus: Si est homo, animal est; Homo est enim; et Animal
est. duae sunt simplices propositiones; aut ex duabus hypotheticis
copulatur, et dicitur composita, ueluti cum dicimus: Si cum a est, b
est; Cum sit c, est d ueluti cum tali propositione enuntiamus:
Si cum homo est, animal est, cum sit corpus erit substantia.
Etenim: Si cum homo est, animal est una est hypothetica; alia
uero: Cum sit corpus substantia est ex quibus coniungitur una
propositio quae composita nuncupatur. Aut ex una simplici et ex una hypothetica
copulatur, uelut haec: Si a est, cum sit b, est c ueluti cum
dicimus: Si homo est, cum sit animal, est substantia
namque: Homo est simplex est propositio; Cum sit animal esse
substantiam hypothetica ex ipsa consequentia conditionis ostenditur; aut
ex priore hypothetica et simplici posteriore committitur, ut cum
dicimus: Si cum sit a, est b, erit et c ueluti hoc modo: Si cum
sit homo, animal est, est et corpus. Hypothetica namque est prior ea quae
proponit: Si cum sit homo, animal est simplex posterior quae hanc
hypotheticam propositionem sequitur, id est, corpus esse. Haec quoque quoniam
non ex simplicibus copulatae sunt, compositae dicuntur. Sed priores quidem
quae ex simplicibus propositionibus constant, et simplices hypotheticae
nuncupantur, in duobus terminis constitutae sunt. Terminos autem nunc partes
propositionis simplices, quibus iunguntur, appello. Quae uero compositae
hypotheticae sunt, illae quidem quae ex duabus hypotheticis constant, quatuor
terminis copulatae sunt; illae uero quae ex hypothetica et simplici, uel
simplici atque hypothetica coniunctae sunt, ex tribus terminis coniunctae sunt.
Harum igitur quae sunt hypotheticae simplices uel compositae differentiae
similitudinesque dicendae sunt. Nam quae ex simplicibus copulantur, si ad
eas quae ex hypotheticis duabus iunctae sunt comparentur, consequentia quidem
eadem est et proportio manet, tantum termini duplicantur. Nam quem locum in his
propositionibus hypotheticis quae ex simplicibus constant ipsae simplices
propositiones tenent, eundem in his propositionibus quae sunt hypotheticae ex
hypotheticis constantes, illae conditiones tenent quibus illae propositiones
inter se iunctae et copulatae esse dicuntur. Nam in hac propositione quae
dicit: Si est a, est b et in ea quae dicit: Si cum sit a, est
b, cum sit c, est d quem locum in ea propositione quae ex duabus
simplicibus continetur tenet ea quae prior est: Si est a eundem locum
tenet, in ea propositione quae ex duabus hypotheticis propositionibus
copulatur, ea quae prior est: Si cum est a, est b. Hic namque
duarum inter se propositionum coniunctionis conditione facta est consequentia.
Itemque quam uim obtinet ex utrisque propositionibus copulatae hypotheticae
portio quae infertur, id est esse b eandem uim obtinet in
propositione ex hypotheticis iuncta ea quae sequitur, id est Cum sit c,
esse d atque id tantum differt, quia cum in prima propositione ex
simplicibus iuncta propositio propositionem sequatur, in secunda propositione
ex hypotheticis iuncta conditio consequentiae conditionis consequentiam
comitatur. Nihil est enim aliud dicere: Si est a, est b quam
ei propositioni per quam dicimus esse a, illam esse comitem per quam b esse
praedicamus; at in ea propositione quae ex hypotheticis iuncta est cum
dicimus: Si cum sit a, est b, cum sit c esse d illud dicitur, ei
consequentiae quae inter a et b est, eam esse consequentiam comitem quae est
inter c et d, ita ut si consequitur posito a esse b, consequatur sine dubio c
posito esse d. At in his propositionibus quae ex simplici et hypothetica
consistunt, illa ratio est ut uel propositionem conditio consequentiae
consequatur, uel conditionem consequentiae propositio comitetur. Nam cum
dicimus: Si a est, cum sit b, esse c id intellegi uolumus, ei
propositioni per quam dicimus: Est a consequi eam conditionem per
quam dicimus: Cum sit b, esse c id est ut, si est a, necesse sit b
termino comitem esse c terminum; cum uero dicimus: Si cum a est, b est,
esse c nihil aliud intellegi uolumus, nisi duarum inter se consequentium
propositionum alterius propositionis consequi ueritatem, ut si habeant inter se
consequentiam a atque b, necesse sit hanc conditionem consequentiae
propositionis eius per quam dicimus esse c consequi ueritatem, id est, si
necesse est a posito esse b, necesse est etiam c esse. Similes igitur
syllogismi fient earum propositionum quae ex simplicibus et earum quae ex non
simplicibus utrisque iunguntur: earum uero quae ex una simplici et ex altera
hypothtica copulantur, diuersi quidem a superioribus, ipsi tamen inter se
similes fiunt. Nec interest utrum prima hypothetica, secunda sit simplex, an e
conuerso, ad syllogismorum modos, nisi forsitan ad ipsius tantum ordinis
permutationem. Cum igitur demonstrata fuerit earum propositionum quae ex
simplicibus constant, syllogismorum ratio demonstrata quoque uidetur earum
propositionum esse, quae ex hypotheticis committuntur; et cum quarumlibet earum
propositionum quae ex simplici et hypothetica constant syllogismorum natura
perspecta sit, etiam conuersi ordinis propositionum natura quales faciat syllogismos
ostenditur. Est etiam species alia propositionum in connexio. ne
positarum, quae media quodammodo sit earum propositionum quae ex hypotheticis
simplicibusque iunguntur, et earum quae duabus hypotheticis copulantur. Nam si
ad numerum respicias propositionum quasi ex tribus terminis constant; quod si
ad conditionales animum referas, quasi ex duabus conditionalibus uidentur esse
compositae: quae medietas idcirco euenit quoniam unus in his terminus communis
utrisque conditionalibus inuenitur. Proponuntur uero hae uel per primam
figuram, uel per secundam, uel per tertiam. Per primam hoc modo: Si
est a, est b; et si est b, est c igitur b in utrisque numeratur, et sunt
tres quidem termini hi: Est a. Est b. Est c. Duae uero conditionales hoc
modo: Si est a, est b Si est b, est c namque b utrisque
communis est: atque ideo inter eas propositiones quae ex tribus terminis, et
eas quae ex quatuor componuntur, mediae sunt huiusmodi propositiones. Per
secundam uero figuram proponitur hoc modo: Si est a, est b; si non est a,
est c. Per tertiam uero figuram sic: Si est b, est a; si est c, non
est a. Ac de connexis quidem ista sufficiunt. Disiunctiuae uero
propositiones semper ex contrariis constant, ut haec: Aut a est aut b
est. Altero enim posito alterum tollitur, et interempto altero ponitur
alterum: nam si est a, non est b, si non est a, est b, eodem modo etiam, si sit
b, non erit a, si non sit b, erit a. His igitur expeditis, ad connexas
reuertamur. In illis enim uel propositio propositionem, uel conditio
conditionem, uel propositio conditionem, uel conditio sequitur propositionem.
Dicendum igitur est quae propositiones quarum propositionum consequentes esse
uideantur, et quae contrarietatis modo quam longissime a se differant, quae
uero oppositionis contradictione dissentiant. Simplicium namque, id est
praedicatiuarum propositionum, aliae praeter modum proponuntur, aliae cum modo:
praeter modum sunt quaecumque purum esse significant hoc modo: Dies
est Socrates philosophus est et quae similiter proponuntur; quae
uero cum modo sunt, ita proponuntur: Socrates uere philosophus est.
Hoc enim 'uere' modus est propositionis. Sed maximas syllogismorum faciunt
differentias haec propositiones cum modo enuntiatae, quibus necessitatis aut
possibilitatis nomen adiungitur. Necessitatis hoc modo, cum dicimus: Ignem
necesse est calere possibilitatis, ut cum ita proponimus: Possibile est a
Graecis superari Troianos. Quo fit ut omnis propositio aut inesse
significet, aut necessario inesse, aut, cum non sit aliquid, tamen enuntiet
posse contingere; quarum quidem ea quae inesse significat simplex est, neque in
nullas partes alias diduci potest, ea uero quae ex necessitate aliquid inesse
designat, tribus dicitur modis. Uno quidem quo ei consimilis est propositioni
quae inesse significat, ut cum dicimus, Necesse esse Socratem sedere, dum
sedet. Haec enim eandem uim obtinet ei quae dicit: Socrates
sedet. Alia uero necessitatis significatio est, cum hoc modo
proponimus: Hominem necesse est habere cor dum est atque uiuit hoc
enim significare uidetur haec dictio, non quoniam tamdiu eum necesse sit habere
quamdiu habet sed tamdiu eum necesse est habere quamdiu fuerit ille qui
habeat. Alia uero necessitatis significatio est uniuersalis et propria,
quae absolute praedicat necessitatem, ut cum dicimus: Necesse est Deum
esse immortalem nulla conditione determinationis apposita. Possibile
autem idem quoque tribus dicitur modis: aut enim quod inest possibile esse
dicitur, ut: Possibile est Socratem sedere, dum sedet aut quod omni
tempore contingere potest, dum ea res permanet cui aliquid contingere posse
proponitur, ut: Possibile est Socratem legere quamdiu enim Socrates
est, legere potest; item possibile est quod absolute omni tempore contingere potest,
ut auem uolare. Ex his igitur apparuit alias propositiones esse inesse
significantes, alias necessarias, alias contingentes atque possibiles, quarum
necessariarum et contingentium cum sit trina partitio, singulae ex iisdem
partitionibus ad eas quae inesse significant referuntur. Restant igitur duae
necessariae et duae contingentes, quae cum ea quae inesse significat numeratae,
quinque omnes propositionum faciunt differentias. Omnium uero harum
propositionum aliae sunt affirmatiuae, aliae negatiuae. Affirmatiua inesse
significans est quae dicit: Est Socrates negatiua quae proponit: Non
est Socrates. Necessariarum uero propositionum affirmatiuarum duae
uidentur esse negationes, una contraria, altera uero opposita. Eius namque,
quae dicit: Necesse est esse a quolibet modo ex utrisque qui dicti
sunt, aut ea est negatio quae dicit: Necesse est non esse a aut ea
quae dicit: Non necesse est esse a quarum quidem ea quae
dicit: Necesse est non esse a contraria est ei quae
dicit: Necesse est esse a. Utraeque enim falsae poterunt inueniri,
ueluti si dicimus: Necesse est Socratem legere Necesse est Socratem
non legere utraque mentitur. Nam et cum legit, non ex necessitate legit,
et cum non legit, nulla ne legat necessitate constringitur sed est utrumque
possibile. At uero ea quae dicit: Non necesse est esse
opposita est ei quae proponit: Necesse est esse una enim semper uera
est, semper falsa altera reperitur. In contingentibus uero atque possibilibus
eadem ratio est. Huic enim quae dicit: Contingit esse a tum ea
uidetur obiecta quae dicit: Contingit non esse a tum ea quae
proponit: Non contingit esse a. Atque ea quidem quae
dicit: Contingit non esse a contingens negatio nuncupatur, ueraque
esse potest cum ea affirmatione quae dicit: Contingit esse a ueluti
cum dicimus: Contingit sedere Socratem Contingit non sedere
Socratem. Et haec quidem non dicuntur esse contrariae, quoniam simul uerae
esse possunt; at uero opposita sunt quotiens ipsum contingens negatur, ut si
aduersus eam quae dicit: Contingit esse a ea proponatur quae
dicit: Non contingit esse a id enim ista significat omnino non posse
contingere. Quae cum ita sint, cumque inesse significantes propositiones
praeter ullum dicuntur modum, his ad esse iuncto aduerbio negatiuo, negatio
plena perficitur; quae uero cum modo proponuntur, si necessariae sint et ad esse
negatio coniungatur, ut ea quae dicit: Necesse est non esse fit
necessaria negatio. Si uero ipsi necessario negatio praeponatur, fit
negatio necessarii uehementer affirmationi opposita, ut ea quae dicit: Non
necesse est esse. Item in contingentibus si ad esse negatio ponatur, fit
contingens negatio, ut ea quae dicit: Contingit non esse. Si uero
ipsi contingenti negatio iungatur, fit contingentis negatio contingenti
affirmationi uehementer opposita, ut ea quae dicit: Non contingit
esse. Sed quoniam omnis propositio aut uniuersalis aut particularis aut
indefinita aut singularis proponitur -- uniuersalis hoc modo: Omnis homo
legit particularis sic: Quidam homo legit indefinita
sic: Homo legit singularis sic: Socrates legit -- necesse
est ut sicut in Categoricorum Syllogismorum Institutione monstratum est, illae
sibi maxime uideantur oppositae quaecumque uel uniuersale affirmant, si
particulariter denegetur, uel uniuersale denegant, si particulariter
affirmetur, et quae singulares sunt, si illa quidem in affirmatione sit posita,
illa uero in negatione. Quae cum ita sint, si haec eadem ratio ad contingentes
et necessarias referatur, idem in necessariis et contingentibus inuenitur, ut
si quis dicat: Omnem a terminum esse necesse est aliusque neget
dicens: Non necesse est omnem a terminum esse fecit oppositam
negationem. Et si dicat aliquis: Contingit omnem a terminum
esse itaque aliquis neget: Non contingit omnem a terminum esse
fecerit oppositam negationem; in utrisque enim negatio et modum remouet, et
significationem uniuersalitatis exstinguit. Atque hoc quidem in simplicibus et
categoricis propositionibus euenire necesse est, de quarum natura diligentius
persecuti sumus in his uoluminibus, quae secundae editionis expositionum in
Aristotelis *Perihermeneias* inscripsimus. Si quis igitur propositionum omnium
conditionalium numerum quaerat, ex categoricis poterit inuenire; ac primum in
connexis ex duabus simplicibus inquirendus est hoc modo. Nam quoniam
propositio simplex hypothetica ex categoricis duabus iungitur, una earum uel
inesse significabit, uel contingere esse dupliciter, uel necesse esse
dupliciter; quod si sint affirmatiuae, quinquies affirmatiua enuntiatione
proponentur; sed quoniam omnis affirmatio habet oppositam negationem, rursus
quinquies negatiua enuntiatione poterunt pronuntiari. Erunt igitur in
prima propositione, quae una pars est hypotheticae propositionis in negatione
et affirmatione constitutae modorum, propositiones decem. Secunda etiam
propositio, quae pars est hypotheticae, totidem affirmationibus et negationibus
proponi potest; erunt igitur eius quoque enuntiationes decem. Sed cum prima
propositio secundae propositioni quodam consequentia copuletur, ut una
hypothetica fiat, omnes decem affrmatiuae ac negatiuae propositiones omnibus
decem affirmatiuis negatiuisque propositionibus applicabuntur. Itaque
complexae centum omnes efficiunt propositiones, haec quae connexae ex
simplicibus coniunguntur. Secundum hunc uero modum potest propositionum numerus
inueniri etiam in his propositionibus /246/ quae ex categorica et hypothetica
copulantur, uel quae ex duabus conditionalibus fiunt. Nam quae ex categorica et
conditionali constant, uel e diuerso, haec tribus categoricis iunctae
sunt. Quod si duarum inter se praedicatiuarum in afffirmatione uel
negatione complexio secundum esse, uel necessario, uel contingenter esse,
quinque modos, centum efficit complexiones, quoniam tertia propositio uel
affirmatiua erit uel negatiua, et si affirmatiua quinque modis uel inesse
significans, uel necessario inesse dupliciter, uel contingenter inesse
dupliciter, itemque totidem negabitur modis, simul non amplius quam decies
proponetur. Quo fit ut tertia propositio cum duabus superioribus, centum inter
se modis copulatis atque complexis, iuncta atque commissa, mille omnes faciat
complexiones. Centum namque duarum propositionum modi, cum decem modis tertiae
propositionis complicati, mille perficiunt; decies enim centum mille sunt.
Rursus quoniam ex duabus hypotheticis iuncta conditionalis quatuor categoricis
copulatur, et duae inter se primae categoricae centum complexionibus
iungebantur, necesse est ut posteriores quoque duae centum complexionibus
connectantur; quod si centum superiorum propositionum categoricarum modi centum
posteriorum categoricarum modis complicentur, fient decem milia
complexiones. In illis autem propositionibus quae tribus uariantur
figuris, siquidem medius terminus similiter et in prima et in secunda
hypothetica proponatur, mille erunt complexiones, ad earum similitudinem quae
ex tribus categoricis connectuntur; tunc enim unus atque idem terminus in
utrisque tres neque amplius faciet enuntiationes. Similiter uero in utrisque
proponitur hoc modo: Si est a, est b; si est b, est c hic enim b terminus,
et ad a terminum, et ad c positus est, esse significans. Idem in
necessariis et contingentibus intelligendum est. At si ita proponatur: Si
est a, est b, et, si necesse est esse b, est uel non est c duae
propositiones conditionales, id est quatuor praedicatiuae fiunt. Quo fit ut
secundum eas quae ex quatuor praedicatiuis connectuntur, decem millia faciunt
complexiones. Atque hi numeri tam in prima quam in secunda uel tertia figura
sunt inspiciendi. Et nos quidem quantus esse propositionum numerus posset,
ascripsimus. Numquam tamen dissimiliter medius terminus enuntiatur:
namque ut fiat extremorum conclusio, medius terminus intercedit, cuius
communitas extrema coniungit. Quod si medius diuersis modis in utraque
propositione dicatur, nec connectuntur extrema, atque ideo ne syllogismus
quidem ullus fieri potest, cum praesertim ne una quidem propositio dici possit,
in qua medius terminus dissimiliter enuntiatur. Longe autem multiplex
propositionum numerus existeret, si inesse significantes et necessarias et
contingentes affirmatiuas negatiuasque propositiones per uniuersales ac
particulares, uel oppositas ac subalternas uariaremus; sed id non conuenit,
quia conditionalium termini propositionum indefinito maxime enuntiantur modo. Atque
ideo superuacuum iudicaui determinatarum secundum quantitatem propositionum
quaerere multitudinem, cum determinatae conditionales proponi non soleant; fere
autem hypotheticae propositiones ne per necessitatem quidem uel per contingens
enuntiantur sed illae maximae in usum collocutionis deducuntur, quae inesse
significant. Omnes uero necessariam tenere consequentiam uolunt, et quae inesse
significant, et quibus necessitas additur, et quibus praedicatio possibilitatis
aptatur; haec enim terminis applicatur. Necessitas uero hypotheticae
propositionis, et ratio earum propositionum ex quibus iunguntur inter se
connexiones, consequentiam quaerit, ut cum dico: Si Socrates sedet, et
uiuit neque sedere eum, neque uiuere necesse est sed, si sedet, uiuere
necesse est. Item cum dicimus: Si sol mouetur, necessario ueniet ad
occasum tantumdem significat quantum, si sol mouetur, ueniet ad occasum.
Necessitas enim propositionis in consequentiae immutabilitate consistit. Item
cum dicimus: Si possibile est legi librum, possibile est ad uersum
tertium perueniri rursus necessitas consequentiae conseruata est;
nam si possibile est legi librum, necesse est etiam id esse possibile, ut ad
uersum tertium perueniatur. Opponuntur autem hypotheticis propositionibus illne
solse quae earum substantiam perimunt. Substantia uero propositionum
hypotheticarum in eo est, ut earum consequentiae necessitas ualeat
permanere. Si quis igitur recte conditionali propositioni repugnabit, id efficiet
ut earum destruat consequentiam, ueluti cum ita dicimus: Si a est, b
est non in eo pugnabit si monstret, aut non esse a, aut non esse b sed si
posito quidem a, ostendit non statim consequi esse b sed posse esse a, etiamsi
b terminus non sit. Uel si negatiua sit conditionalis, eodem destruetur modo:
ut cum dicimus: Si a est, b non est non ostendendum est, aut non
esse a, aut b esse; sed cum a sit, posse esse b terminum. Sunt autem
hypotheticae propositiones, aliae quidem affirmatiuae, aliae negatiuae; sed de
his nunc loquor quae in consequentia positae in connexione esse dicuntur:
affirmatiuae quidem, ut cum dicimus: Si est a, est b. Si a non est, b
est negatiuae uero: Si a est, b non est. Si non est a, non est
b. Ad sequentem enim propositionem respiciendum est, ut an affirmatiua
uel negatiua sit propositio iudicetur; idem de compositis syllogismis
conditionalibus intellegi oportebit. De his autem propositionibus quae in
disiunctione sunt positae, cum de earum syllogismis tractauero, commodius atque
uberius dicam. Hypotheticos syllogismos, quos latine conditionales uocamus,
alii quinque, tribus alii constare partibus arbitrantur, quorum mox
controuersiam diiudicabo, si prius quibus nominibus talium syllogismorum partes
appellentur ostendero. Quoniam enim omnis syllogismus ex propositionibus texitur,
prima uel propositio, uel sumptum uocatur; secunda uero dicitur assumptio, his
quae infertur, conclusio nuncupatur. Cum enim ita dicimus: Si homo est,
animal est; Homo autem est; Animal igitur est ea quidem
enuntiatio per quam diximus: Si homo est, esse animal propositio uel
sumptum uocatur, ea uero quam huic adiunximus: Est autem homo
assumptio dicitur, tertia conclusio nominatur, per quam ostendimus animal esse
qui fuerit homo. Sed quoniam saepe euenit ut propositionis enuntiatae
consequentia non sit uerisimilis, propositioni saepe adiungitur approbatio, per
quam id quod est propositum uerum esse monstretur. Assumptio saepe ad fidem per
se non uidetur idonea: huic quoque iuuamen probationis adiungitur, ut uera esse
uideatur; quo fit ut saepe quinque partes, saepe quatuor, interdum tres
hypotheticos syllogismos habere contingat. Nam quinque constabit partibus si et
propositio et assumptio probationibus indigebunt; quod siue propositio, siue
assumptio probatione indigent, quadripartitus est syllogismus, quod si neutra
est approbanda, tripartitus esse relinquitur. In hac uero sententia etiam
Marcus Tullius esse deprehenditur: in Rhetoricis enim syllogismos quosdam
quinquepartitos, quadripartitos alios esse confirmat. Quibus uero non placet
talium syllogismorum partes ultra ternarium numerum propagari, hi probationes
propositionum atque assumptionum non putant in syllogismi partibus esse
ponendas, neque enim propositionem esse, de qua syllogismus possit existere,
cui non consentit auditor; quod si per se dubia est ea probatio quae
propositioni dubiae iungitur, fidem faciens eidem cui coniungitur propositioni,
faciat ut sit idonea syllogismo. Ac per hoc tunc incipit esse propositio
syllogismi, cum talis per probationem redditur, ut ex ea colligi aliquid possit;
tunc uero colligi ex se aliquid potest, cum probationis auxilio poterit ab
auditore concedi. Quocirca membrum quoddam, et quasi fulcimentum dubiae
propositionis uel assumptionis, probatio esse uidetur, non pars etiam
syllogismi; sed nostra sententia his potius accedit qui tribus eum partibus
constare pronuntiant. Etenim quaelibet probatio quae uel propositioni uel
assumptioni copulatur, propositionis esse uel assumptionis probatio
dicitur. Cum igitur non ad syllogismum sed ad propositionem uel assumptionem
cuius est probatio referatur, non oportet eam syllogismi proprie partem uideri.
Nam illud quod obici potest, nullus ignorat, quin partium partes etiam totius
partes esse dicantur; sed plurimum refert utrum ipsae sint primitus partes
totius, an in secundarum partium postremitate ponantur. Amplius, si sit per se
nota ac probabilis propositio, totus syllogismus probatione non indiget; quod
si per se propositionis nulla fides est, necesse est ut ea propositio quodam
ueluti testimonio probationis indigeat. Non igitur syllogismus
probatione, in eo quod syllogismus est, indigebit, sed propositio, si fide
propria fuerit destituta. Idem etiam de assumptione dici potest. Quare
manifestum est eorum esse sententiam praeponendam, qui sullogismum putant
tribus partibus constare. Praeterea si qua propositio probationis indigeat, ut
eam ueri fides sequatur, aliquo demonstrabitur syllogismo. Quocirca qui fieri
potest ut recte syllogismus pars syllogismi simplicis esse dicatur? ipsam enim
probationem propositionis syllogismum, uel ex syllogismo esse necesse est. His
itaque determinatis, de his protinus syllogismis quorum propositiones in
connexione positae duobus terminis constant, explicandum uidetur. Horum autem
duplex forma est: quatuor enim fiunt per praecedentis positionem qui sunt primi
hypothetici atque perfecti, quatuor uero per sequentis negationem, qui cum
demonstratione egeant, non uidentur esse perfecti. Prioris uero negatione, uel
sequentis positione, nullus omnino syllogismus efficitur. Omnium igitur talium
propositionum primum numerus explicetur, ut qui fiant ex his syllogismi facilis
acquiratur agnitio. Sunt autem quatuor: Si est a, est b Si est a, non
est b Si non est a, est b Si non est a, non est b Ac de
prioribus quidem syllogismis atque perfectis primo loco dicendum est. Horum
enim primus modus est hic ueniens a prima propositione: Si a est, b est; Atqui
est a; Est igitur b. Cum enim prima propositio eam conditionem
proponat, ut si sit a necesse sit consequi essentiam b termini, idem assumptio
quod praecedit assumit ac ponit, dicitque: At est a consequitur
igitur ut sit b. Si enim ex consequentia primae propositionis id quod secundum
est assumendo ponamus, nullus efficitur syllogismus. Age enim sit
huiusmodi consequentia, ut si sit a, sit b assumaturque quod sequitur hoc
modo: At est b non consequitur ut sit uel non sit a. Id uero clarius
fiet exemplo: sit enim propositio: Si homo est, animal est
assumaturque esse animal, scilicet quod consequitur, non necesse erit esse
hominem uel non esse; potest enim, cum sit animal, homo uel esse uel non esse.
Secundus uero modus est eorum in quibus prior propositionis pars in assumptione
repetitur, uenit autem ex secunda propositione superius digesta, hoc
modo: Si est a, non est b; Atqui est a; Non est igitur b. Id
enim propositum fuerat, si esset a, non esset b. Sumpto igitur praecedente,
consequentis est facta conclusio; quod si consequens sumas, nullus uidetur
fieri syllogismus, quia nec consequitur ulla necessitas, hoc modo: Si est
a, non est b; Atqui non est b; non necesse est esse a uel non
esse. Age enim ita sit propositio: Si est nigrum, album non est
et id quod sequitur assumatur: Atqui non est album non necesse erit
esse nigrum uel non esse, quia cum non sit album potest aliquid esse medium.
Tertius uero modus est talium syllogismorum qui uenit ex tertia propositione,
quorum in assumptione id ponitur quod praecedit hoc modo: Si non est a,
est b; Atqui non est a; Est igitur b. Haec igitur conclusio
rursus ex conditione propositionis euenit: id enim fuerat propositum, ut si non
esset a esset b; quod si conuertas et sumas esse b, id est quod sequitur, non
necesse erit uel esse uel non esse id quod praecedit. Sed huius exemplum
non potest inueniri, eo quod si ita proponitur, ut: Cum non sit a sit
b nihil esse medium uideatur inter a atque b; sed in his si alterum non
fuerit, statim necesse est esse alterum, et si alterum fuerit, statim alterum
non esse necesse est. Videtur ergo quodammodo et sequenti posito in his fieri
syllogismus; sed quantum ad rerum naturam ita est, quantum uero ad
propositionis ipsius pertinet conditionem, minime consequitur. Quod quidem ex
his patet quae superius dicta sunt. In utrisque enim superioribus modis
sequenti posito nihil ex necessitate collectum est, hic uero tertius modus,
quantum ad complexionem propositionum pertinet, in quo ponendo si id quod
consequebatur assumitur, nullum efficit syllogismum. Quantum uero ad rerum
naturam, in quibus solis hae propositiones enuntiari possunt, uidetur esse
necessaria consequentia hoc modo, ut: Si dies non est, nox sit Si
nox sit, dies non sit ex necessitate consequitur; similesque sunt hi
syllogismi his qui in disiunctione sunt constituti, de quibus paulo posterius
commemorabo, quorumque ad illos et differentias et similitudines dabo. Quartus
uero modus est ex quarta propositione, cum ita proponitur: Si a non est, b
non est; Atqui non est a; Non est igitur b rursus enim id
quoque consequi ex propositione monstratur, quae proposuit non fore b, si a prior
terminus non fuisset. At si id quod consequitur assumamus, nulla uidetur
fieri posse necessitas, ueluti si ita dicamus: Non est autem b non
necesse erit uel esse uel non esse a. Age enim proponatur si animal non est,
non esse hominem, assumaturque: At non est homo non necesse est ut
uel sit animal uel non sit. Demonstratum igitur est in huiusmodi syllogismis,
si id quidem quod praecedit ponendo assumatur, perfectos atque ex ipsis
propositionibus probabiles et necessarios fieri syllogismos. Si uero id
quod sequitur ponendo assumatur, nullam fieri necessitatem, praeter in tertio
modo, qui cum sit similis his syllogismis qui secundum disiunctionem propositis
enuntiationibus fiunt, uidetur in rebus de quibus proponi possit seruare
necessitatem, cum in complexione non seruet, quod ex caeteris tribus modis
arguitur primo, secundo atque quarto, in quibus assumpta ponendo sequente
propositionis parte, nihil ex necessitate conficitur. Ac de his quidem
syllogismis, qui duobus terminis coniunguntur, quorum prima pars propositionis
ponendo assumitur, quantum ad institutionis pertinet modum, sufficienter
expressimus. Nunc uero de his dicendum est, quorum consequens propositionis
pars ita assumitur, ut perimatur. Ex his quoque quatuor fiunt modi, cum prior
propositionis pars in assumptione non possit interimi, ut ulla syllogismi
necessitas consequatur. Est igitur primus modus talium syllogismorum a prima
ueniens propositione sic: Si est a, est b; Atqui non est b; Non
est igitur a. Hic igitur b terminus, qui in prima propositione consequens
fuerat, in assumptione est interemptus, ut a terminus, qui propositionis prima
pars fuerat, interimeretur, eaque necessitas tali ratione probabitur. Positum
namque est si a sit, b esse; et assumptio facta est ut consequens pars
propositionis interimeretur, id est, non esse b. Dico quia consequitur non esse
a: nam si potest esse a, ut non sit b, frustra erit prior propositio quae ait,
si a sit, b esse. Atqui ea propositio ualet; cum igitur a sit est b. Quod si
cum non sit b, sit a, quod scilicet ex assumptione proponitur, idem b erit
/268/ et non erit: non erit quidem, quia b non esse proponit assumptio; erit
autem, quia si est a, erit b, quod fieri non potest; non igitur, si b non
fuerit, erit a. Hic est igitur primus modus talium syllogismorum, qui ex
interempta parte consequenti propositionis fiunt, qui non sunt perfecti neque
ex se cogniti sed indigent uel eius quam superius proposui, uel cuiuslibet
alterius probationis, ut ueri esse monstrentur. Quod si prima pars interimatur,
non erit syllogismus; age enim ita dicamus: Si est a, est b; Atqui
non est a non consequitur ut sit uel non sit b, ut exemplo etiam
demonstratur. Sit enim propositio: Si est homo, animal est; Sed homo
non est; non necesse erit uel esse animal, uel non esse. Secundus modus
per contradictionem assumptionis, qui a secunda propositione descendit, ille
est cum ita proponimus: Si a est, b non est; Atqui est b; Igitur
a non est. Hic enim rursus secunda pars propositionis est interempta: nam
cum secunda pars propositionis b non esse diceret, si a fuisset, assumptio b
esse pronuntiat. Affirmatio autem perimit negationem, quam assumptionem
consequitur, ut a non sit, hoc modo. Sit enim propositio: Si a est, b non
est et sit b. Dico quia a non erit: nam si erit a, cum sit b, idem b erit
et non erit: non erit quidem ex prima propositione quae dicit: Si a est, b
non est erit autem per assumptionem, qua dicimus esse b. At si praecedens
propositionis pars auferatur, non fiet ulla necessitas. Age enim in
huiusmodi propositione: Si a est, b non est ita dicamus: Atqui
non est a non consequitur ut b sit aut non sit. Id uero tali arguitur
exemplo. Dicamus enim: Si nigrum est, album non est assumamusque non
esse nigrum, non statim consequitur ut uel album sit, uel non sit: potest enim
aliquid esse mediorum. Tertius modus ille est ex tertia propositione deductus,
cum ita proponimus: Si a non est, b est; b autem non est; a
igitur est. Hic quoque consequens pars propositionis assumpta est, et cum
in propositione affirmaretur, in assumptione negata est, et est rata consequentia,
et perficiens syllogismum hoc modo. Nam si uerum est, cum non sit a, esse b,
dico quia si b non sit, esse a: nam si poterit, cum b non sit, non esse a,
frustra est prima propositio, quae dicit cum non sit a esse b eritque b ac non
erit; non erit quidem ex ea assumptione quae proponit non esse b; erit autem,
quia, si a terminus esse negabitur, posito non esse b termino, cum non sit a,
erit b, quod est impossibile. Non igitur potest fieri ut cum non sit b,
non sit a; consequitur igitur ut, cum non sit b, sit a. Quod si prior pars
propositionis quae praecedens est auferatur, nullus est syllogismus, hoc modo:
cum enim dicimus si a non est, esse b, si assumamus: Atqui est a
nihil euenit necessarium, ut uel sit b uel non sit, secundum ipsius
complexionis naturam. Nam hic quoque, ut in his in quibus in assumptione
secundus terminus ponebatur, dicendum est secundum quidem ipsius complexionis
figuram nullum fieri syllogismum; secundum terminos uero in quibus solis dici
potest, necesse esse, si a fuerit, b non esse. In contrariis enim tantum, et in
his immediatis, id est medium non habentibus, haec sola propositio uere poterit
praedicari, ueluti cum dicimus: Si dies non est, nox est siue non
fuerit dies, nox erit, siue nox non fuerit, dies erit, siue dies fuerit, nox
non erit, siue nox fuerit, dies non erit. Quartus modus est horum
syllogismorum ex quarta propositione descendens, cuius haec prima est
propositio: Si a non est, non est b; Est autem b; Erit igitur
a. Hic quoque secunda pars propositionis assumpta est, et quaniam eadem
in negatione fuerat posita, affirmatione est interempta; affirmatio enim uim
negationis interimit. Hic quoque eodem modo syllogismi necessitas continetur,
nam, si posito cum non sit a, non esse b, sumatur esse b, dico quia consequens
est etiam a esse. Nam si potest, cum sit b, non esse a, frustra est prima
propositio, quae, cum a non sit, b non esse pronuntiat; fiet igitur rursus ut
idem b sit ac non sit. Ex assumptione namque erit b; ita enim
dicitur: Atqui est b si uero hoc posito possit non esse a, rursus b
non erit, quia prima propositio ait: Si non sit a, non est b quod
est impossibile. Quod si ea portio propositionis quae praecedens est auferatur,
nihil euenit necessarium. Age enim ita dicamus: Si non est a, non est
b assumamusque: Atqui est a non consequitur ut b uel esse uel
non esse necessario concludatur, ut in hoc syllogismo: Si non est animal,
non est homo; Atqui est animal; non necesse est uel esse hominem uel
non esse. Hi igitur quatuor syllogismi imperfecti /274/ dicuntur, idcirco
quoniam per se non habent apertam atque perspicuam consequentiae necessitatem,
eaque illis ex probatione conficitur. Ut igitur breuiter concludendum sit,
in hypotheticis simplicibus syllogismis connexas habentibus propositiones,
quoquo modo factis, si quidem prima pars propositionis assumitur, si ea
ponatur, fient quatuor syllogismi per se cogniti atque perfecti; si uero id
quod consequitur assumatur, nulla est syllogismo necessitas, nisi in tertio
tantum modo, qui non propter complexionis naturam sed propter terminorum
contrarietatem, in quibus solis dici potest, uidetur conclusionis necessitatem
tenere. Itaque si quid in assumptione ex his quae in propositione sunt
prolata ponatur, quatuor uel quinque fieri necesse est syllogismos perfectos:
quatuor, ubi prima pars propositionis, quintum uero, ubi secunda pars
propositionis ponendo assumitur, si non ad complexionis naturam sed ad terminos
aspiciamus. Si quid uero ex his quae in assumptione prima propositio enuntiat,
auferatur, si quidem consequens pars propositionis auferatur, fient imperfecti
et probatione indigentes quatuor syllogismi; si uero prior propositionis pars
auferatur, nulla erit necessitas syllogismi, nisi in tertio tantum modo, ubi
non facit necessitatem complexionis sed terminorum natura. Quocirca hi quoque
quatuor uel quinque sunt syllogismi: quatuor quidem, si secunda propositionis
pars fuerit interempta; quintus /276/ uero, si eum non complexionis natura sed
terminorum proprietate metiamur. Quocirca si ex duobus terminis propositio prima
consistat, octo sunt uel decem, nec amplius syllogismi. Ac de his quidem
conditionalibus syllogismis, quorum propositiones connexae sunt, et ex duabus
praedicatiuis simplicibus constant, sufficienter expeditum est. Nunc de his
syllogismis dicendum est, qui uel ex praedicatiua et hypothetica, uel ex
hypothetica praedicatiuaque nectuntur. Horum autem facile complexiones omnium
syllogismorum apparebunt, si prius earum numerus exponatur. Sunt igitur
priores quidem quae ex praedicatiua atque hypothetica connectuntur hae: Si
sit a, cum sit b, est c. Si est a, cum sit b, non est c. Si est a,
cum non sit b, est c. Si est a, cum non sit b, non est c. Si non est
a, cum sit b, est c. Si non est a, cum sit b, non est c. Si non est
a, cum non sit b, est c. Si non est a, cum non sit b, non est c. Ac
primum quae sit earum natura, uidetur esse tractandum. Neque enim quoquo modo
conditio ponatur, conditionalis propositio fiet sed si illa consequentia
propter positam euenit conditionem. Nam si quis ita dicat: Si homo est, cum sit
animal, animatum est non uidetur facere apposita conditio consequentiae
necessitatem; nam etiam si non sit homo, nihilominus tamen, cum sit animal,
animatum est. At si ita ponatur: Si homo /278/ est, cum sit animatum,
animal est uidetur consequentiae ratio in conditione consistere. Neque
enim necesse est, cum animatum sit, esse animal, nisi homo uel tale aliquid
fuerit, quod animatum esse proponitur; tunc enim quod animatum est, animal esse
necesse est, homo namque uel quodlibet aliud tale animal est. Per singulas
igitur propositiones eundum est, et spectanda est earum singularis natura hoc
modo. Prima propositio per quam enuntiatur si est a, cum sit b, esse c,
talis esse debet ut b quidem possit esse etiam praeter a, si tamen a fuerit, b
non esse non possit; rursus idem b terminus possit esse etiam cum non est c,
nec sit necesse ut b posito sit etiam c sed tunc tantum necesse sit esse c,
quando b terminus a terminum sequitur, ut si sit a homo, b animatum, c animal.
Animatum enim et praeter hominem et praeter animal esse potest; si uero sit
homo, animatum esse necesse est, et cum animatum hominis essentiam consequatur,
consequitur ut idipsum animatum sit animal. Item secundam propositionem,
quae ait si est a, cum sit b, non esse c, huiusmodi esse oportebit ut b quidem
praeter a esse possit sed cum fuerit a, necesse sit esse etiam b; at uero c
tale sit ut simul quidem cum a esse non possit, cum b uero esse possit sed tunc
tantum cum b esse non possit, quando b terminus a terminum sequitur, ut si sit
a homo, b animatum, c insensibile. Namque animatum praeter hominem esse potest;
at si homo sit, ut sit animatum necesse est; insensibile uero potest esse
animatum sed tunc /280/ insensibile et animatum non conueniunt, cum idcirco est
animatum quia homo esse praedictus est. Tertia uero propositio a quidem
terminum debet habere, qui numquam simul esse possit cum b termino; c uero
terminum talem esse oportebit, ut possit quidem non esse, si non fuerit b sed
tunc tantum necesse sit, si b terminus non sit, esse c terminum, si idcirco non
est b quaniam terminus a esse praedictus est, ut si sit a homo, b inanimatum, c
sensibile. Nam si est homo, non est inanimatum, sensibile uero potest simul non
esse cum inanimato; possunt enim esse quaedam quae nec inanimata sint, nec
sensibilia, ut arbores. Idem tamen sensibile necesse est esse, cum non sit
inanimatum, si idcirco inanimatum non est quia homo esse praedictus est. Rursus
quarta propositio huius debet esse proprietatis, ut b quidem terminus nullo
modo esse possit, si fuerit a, at uero c possit esse, si non fuerit b; sed tunc
tantum c, cum non fuerit b, non esse necesse sit, si b terminus non sit quia
prius a terminus esse positus est, ut si sit a homo, b inanimatum, c
insensibile. Inanimatum enim non erit si fuerit homo; insensibile uero potest
esse et non esse, si non sit inanimatum; tunc tamen insensibile non esse ne cesse
est, cum inanimatum non sit, cum idcirco inanimatum non est quia homo esse
praedictus est. Quinta quoque propositio tales habere terminos debet, ut a
quidem si non sit, necesse sit esse b, si b terminus sit, c et esse possit et
possit non esse: tunc tantum c esse necesse sit, cum fuerit b, cum idcirco est
b quia a terminus esse negatus est, ut si sit a quidem animatum, b uero
insensibile, c inuitale. Igitur si non sit animatum, statim consequitur ut sit
insensibile; inuitale autem potest esse, si sit insensibile, ut lapis, potest
uero non esse inuitale, si sit insensibile, ut sunt arbores; sed tunc tantum,
posito insensibili, consequitur ut inuitale esse necesse sit, cum idcirco est
insensibile quia non est animatum. Sexta uero propositio tales terminos
habere desiderat, ut b quidem esse necesse sit, si non fuerit a, at uero c
terminus, si sit b, uel esse uel non esse possit; tunc tamen c non esse necesse
sit, cum sit b, quando idcirco est b quia a terminus non esse propositus est,
ueluti si sit a animatum, b insensibile, c uitale. Nam necesse est esse
insensibile, si non fuerit animatum; cum uero sit insensibile, fieri quidem
potest ut non uiuat, ueluti lapis, fieri autem potest ut uiuat, ueluti arbor;
tunc tamen necesse est non uiuere, cum sit insensibile, quando idcirco est insensibile
quia animatum non esse propositum est. Septimus modus talibus terminis
debet esse contextus, ut b quidem sine a esse non possit, c autem si non sit, b
et esse et non esse possit; tunc tamen necesse sit c terminum esse, si non sit
b, cum idcirco b non esse propositum est quoniam a fuerit ante denegatum. Sit
enim a quidem animatum, b uero sensibile, c inuitale; sensibile igitur esse non
potest nisi fuerit animatum; si igitur non sit animatum, non erit sensibile, si
uero non sit sensibile, potest esse inuitale, uelut in lapidibus, idem potest
non esse, uelut in arboribus; tunc tamen sensibili denegato inuitale necesse
est esse, cum idcirco non est sensibile quia prius animatum non esse propositum
est. Octaua propositio his terminis connectenda est, ut b terminus esse
non possit si non fuerit a, cum uero non sit b, terminus c et esse et non esse
possit sed tunc necesse sit c terminum non esse, cum non fuerit b, cum idcirco
non est b quia a terminus prius esse negatus est, ut si sit a quidem animatum,
b uero sensibile, c uitale. Sensibile igitur esse non potest nisi fuerit
animatum; idem tamen sensibile si non sit, et non esse uitale potest, ut
lapides, et esse uitale, ut arbores; tunc tamen necesse est uitale non esse, si
non sit sensibile, cum idcirco sensibile non est quia prius animatum esse
negatum est. Ex his igitur constat c terminum, quoquo modo fuerit b, in
conditionalibus propositionibus, quae in tota enuntiatione post praedicatiuas
locantur, posse tam loco afFirmationis quam negationis assumi, ex quibus
assumptionibus fiunt complexiones uariae syllogismorum. His igitur ita
expeditis, de omnibus in commune praecipiendum uidetur. Nam cum sint octo
propositiones quae ex praedicatiua hypotheticaque nectuntur, quae superius
ascriptae sunt, earum quatuor ita faciunt consequentiam, si a terminus sit;
quatuor uero ita conditionem proponunt, si a terminus non sit. Fiunt uero
ex his syllogismi hoc modo. Ex prima propositione: Si est a, cum sit b, est
c; Atqui est a; Cum igitur sit b, est c uel sic: Atqui cum
sit b, non est c; Non est igitur a (posse autem huiusmodi esse
assumptionem ex superius descripta propositionum natura cognoscitur). Ex
secunda propositione: Si est a, cum sit b, non est c; Atqui est
a; Cum igitur sit b, non est c uel ita: Atqui cum si b, est
c; Non est igitur a. Ex tertia: Si est a, cum non sit b, est
c; Atqui est a; Cum igitur non sit b, est c uel
ita: Atqui cum non sit b, non est c; Non est igitur a. Ex
quarta: Si est a, cum non sit b, non est c; Atqui est a; Cum
igitur non sit b, non est c uel ita: Atqui cum non sit b, est
c; Non est igitur a. In his igitur quatuor propositionibus, in
quibus a terminus esse proponitur, si assumptum fuerit eundem a terminum esse,
c terminus uel esse uel non esse monstratur; idem uero si c terminus assumatur,
siquidem cum est non esse, uel cum non est esse assumatur, a terminus non esse
monstrabitur. Ex quinta etiam propositione ita syllogismi fiunt: Si
non est a, cum sit b, est c; Atqui non est a; Cum igitur sit b, est
c uel ita: Atqui est a; Cum igitur sit b, non est c uel
ita: Atqui cum sit b, non est c; Est igitur a uel sic: Atqui
cum sit b, est c; Non est igitur a. Quod idcirco euenit ut huiusmodi
propositio quatuor colligat syllogismos, quia in his tantum si non sit aliquid
esse aliud proponi potest, in quibus contraria medietatibus carent; in his enim
uel interempto altero alterum ponitur, uel posito altero alterum necesse est
perimatur. Ex sexta: Si non est a, cum sit b, non est c; Atqui
non est a; Cum igitur sit b, non est c uel ita: Atqui cum sit b, est
c; Est igitur a. Ex septima: Si non est a, cum non sit b, est
c; Atqui non est a; Cum igitur non sit b, est c uel
ita: Atqui est a; Cum igitur non sit b, non est c uel
ita: Atqui cum non sit b, non est c; Est igitur a uel
ita: Atqui cum non sit b, est c; Non est igitur a. In hac
quoque complexione propter eandem causam quatuor collectiones hunt. Ex
octaua: Si non est a, cum non sit b, non est c; Atqui non est
a; Cum igitur non sit b, non est c uel ita: Atqui cum non sit
b, est c; Est igitur a. In his quoque quatuor propositionibus, si
quidem a non esse assumatur, c uel esse uel non esse concluditur; si uero c cum
est non esse, uel cum non est esse assumatur, a terminus semper esse
concluditur, nisi in quinto et septimo tantum modis, ubi cum c esse assumatur,
a non esse monstratur. Omnium uero communis est ratio, praeter quintum ac
septimum modum, ut si a terminus ita assumatur, quomodo in prima enuntiatione
propositus est, conditio quae sequitur in conclusione firmetur. Si uero
conditio quae sequitur contrario modo atque in enuntiatione proposita est
assumatur, categorica propositio, quae prima est, interimetur. In septimo autem
uel quinto modo, quaque ratione sumptum sit alterum, in utrisque partibus
faciet conclusionem. Itaque fiunt sedecim uel uiginti potius syllogismi: octo
quidem, si a terminus, ut est propositus, assumatur, octo uero, si c terminus
conuerso modo atque in propositione est positus assumatur, quatuor uero ex
quinto et septimo modis utrobique facientibus conclusionem. Reliquis uero
complexionibus nulla est consequentia necessitatis. Ut autem plenior fieret
intellectus ipsas propositiones cum suis terminis positas annotaui, ut secundum
praedictos assumptionum modos non ratione solum demonstratio fieret, uerum
etiam per exempla currentibus doctrina clarior elucesceret. Si est a homo,
cum sit b animatum, est c animal. Si est a homo, cum sit b animatum, non
est c insensibile. Si est a homo, cum non sit b inanimatum, est c
sensibile. Si est a homo, cum non sit b inanimatum, non est c
insensibile. Si non est a animatum, cum sit b insensibile, est c inuitale. Si
non est a animatum, cum sit b insensibile, non est c uitale. Si non est a
animatum, cum non sit b sensibile, est c inuitale. Si non est a animatum,
cum non sit b sensibile, non est c uitale. Expeditis igitur his
syllogismis qui ex talibus propositionibus fiunt, quae ex prima praedicatiua
secunda hypothetica copulantur, nunc ad eos transitum faciamus qui ex prima
conditionali secunda uero praedicatiua nectuntur, quamm omnium numerus
proponendus est, ut de quibus loquimur lector agnoscat. Si cum sit a, est b,
est c. Si cum sit a, est b, non est c. Si cum sit a, non est b, est
c. Si cum sit a, non est b, non est c. Si cum non sit a, est b, est
c. Si cum non sit a, est b, non est c. Si cum non sit a, non est b,
est c. Si cum non sit a, non est b, non est c.Prima igitur propositio
tales habere terminos debet, ut a quidem possit esse praeter c ac b; sed tunc,
si a fuerit, c esse necesse sit, cum a terminum b terminus subsequatur, ut si
sit a quidem animatum, b homo, c animal. Animatum namque praeter animal et
praeter hominem esse potest; tunc uero id quod animatum est etiam animal esse
necesse est, si id quod est animatum, homo est. Secunda propositio talibus
terminis contexenda est, ut a quidem praeter b atque c, et cum eisdem esse
possit; tunc tamen necesse sit non esse c, si a posito b sequatur, ut si a sit
animatum, b homo, c equus. Animatum quippe et ut homo uel equus sit aut
non sit fieri potest; tunc uero necesse est id quod animatum est non esse
equum, si id ipsum quod animatum est, homo fuerit. Tertia propositio his
terminis copulatur, ut a quidem cum b et c uel esse uel non esse possit, tunc
tamen necesse sit simul esse cum c, si, posito a termino, b terminus abnuatur,
ut si sit a animatum, b animal, c insensibile. Nam quod animatum est, uel
animal uel non animal, uel insensibile uel non insensibile esse potest sed tunc
necesse est id quod animatum est esse insensibile si, animato posito, animal
abnuatur. Quartae propositionis hi termini sunt, ut a quidem cum b atque
c esse et non esse possit, tunc uero ab eo modis omnibus separetur, si, posito
a termino, b terminus abnuatur, ut si sit a quidem animatum, b animal, c homo.
Nam quod animatum est uel animal esse uel non esse, itemque homo esse uel non
esse potest; tunc tamen necesse est ut, cum sit animatum, non sit homo, cum
posito esse animato animal denegatur. Quinta uero propositio his terminis
conectatur, ut si non sit a, possit et esse et non esse b atque c; tunc tamen
cum non sit a, terminum c esse necesse sit si, posito non esse a, esse b terminum
consequatur, ut si sit a quidem inuitale, b homo, c animal. Nam si non sit
inuitale, tunc possunt homo atque animal esse uel non esse; at necesse est esse
animal, negato inuitali, si, cum inuitale negabitur, esse hominem subsequatur.
Sextam uero propositionem talia debent membra coniungere, ut, si non sit a
terminus, b atque c uel esse uel non esse possint; tunc uero, denegato a
termino, c non esse necesse sit, cum negationem a termini b termini affirmatio
comitabitur, ut si sit a inuitale, b homo, c equus. Nam quod non est inuitale,
potest esse homo uel equus uel non esse sed necesse est non esse equum,
inuitali denegato, si negationem inuitalis hominis positio subsequatur. Septimae
propositionis hos esse terminos oportebit, ut, si non sit a terminus, b atque c
et esse et non esse possint; /296/ sed tunc necesse sit esse c terminum, si
negationem a termini b termini negatio subsequatur, ut si sit a animal, b
animatum, c inuitale. Animal quidem si non sit, animatum et inuitale esse uel
non esse potest; tunc uero necesse est, si animal non sit, esse inuitale,
quando, si animal non sit, non erit animatum. Octaua propositio est cum,
negato a termino, possunt et esse et non esse b atque c termini; sed tunc
necesse est, si a terminus abnuatur, non esse c terminum, cum negationem a
termini negatio b termini subsequetur, ut si sit a inuitale, b animal, c
homo. Si igitur non sit inuitale, potest esse uel non esse animal uel
homo, tunc uero si non sit inuitale necesse est hominem non esse, cum animal
non fuerit. His igitur ita expeditis, illud in commune dicendum est, quod
superiores quatuor propositiones ita faciunt conditionem, si fuerit a,
posteriores uero si non fuerit, ex quibus omnibus syllogismi tali ratione
nascuntur. Ex prima propositione: Si cum sit a, est b, est c; Atqui
cum sit a, est b; Est igitur c uel ita: Atqui non est
c; Cum igitur sit a, non est b. Posse uero tales fieri conclusiones,
ex superius descriptarum propositionum natura cognoscimus: poterat enim a
terminus esse uel non esse cum b. Item ex secunda: Si cum sit a, est b,
non est c; Atqui cum sit a, est b; Non est igitur c uel
ita: Atqui est c; Cum igitur sit a, non est b. Ex tertia uero
utrobique assumptis terminis collectiones fiunt, ut: Si cum est a, non est
b, est c; Atqui cum est a, non est b; Est igitur c uel
ita: Atqui cum sit a, est b; Non est igitur c uel ita: Atqui non
est c; Cum igitur sit a, est b uel sic: Atqui est c; Cum
igitur sit a, non est b. Quae idcirco facta est utrobique collectio,
quoniam in his terminis hae propositiones poterant poni, in quibus immediata
contraria reperiebantur; in illis enim alterius positio alterum perimebat, et
alterius interemptio ponebat alterum. Ex quarta: Si cum sit a, non
est b, non est c; Atqui cum sit a, non est b; Non est igitur c
uel ita: Atqui est c; Cum igitur sit a, est b. Ex quinta:Si cum
non sit a, est b, est c; Atqui cum non sit a, est b; Est igitur
c uel ita: Atqui non est c; Cum igitur non sit a, non est
b. Ex sexta: Si cum non sit a, est b, non est c; Atqui cum non
sit a, est b; Non est igitur c uel ita: Atqui est c; Cum
igitur non sit a, non est b. Ex septima utrobique colligitur hoc
modo: Si cum non sit a, non est b, est c; Atqui cum non sit a, non
est b; Est igitur c uel ita: Atqui cum non sit a, est b;
Non est igitur c uel sic: Atqui non est c; Cum igitur non sit
a, est b uel ita: Atqui est c; Cum igitur non sit a, non est
b. Hic quoque propter eandem causam in alterutra assumptione syllogismus
fiet; non esse aliquid cum alind non sit in immediatis tantum contrariis dicebatur. Ex
octaua: Si cum non sit a, non est b, non est c; Atqui cum non sit a,
non est b; Non est igitur c uel ita: Atqui est c; Cum
igitur non sit a, est b. In omnibus igitur superius descriptis
syllogismis, haec ratio est, ut, si b terminus assumatur, ita ut in
propositione est positus, ita c terminum concludat, ut in eadem propositione
fuerit collocatus. At si c terminus contrario modo assumatur quam in
propositione fuerit positus, contrario modo b terminus in conclusione
monstrabitur, praeter tertium et septimum modum, in quibus etiamsi b terminus
contrario modo atque in propositione est positus assumatur, c terminum
contrario modo atque positus est colligit, uel si c terminus ita ut in
propositione est positus assumatur, simili modo b terminum concludit, ut in
eadem propositione fuerat collocatus. Quare sedecim quidem uel uiginti fiunt
syllogismi: assumptis namque primis hypotheticis propositionibus, octo; octo
uero si secundae praedicatiuae assumantur; quatuor autem his adinuguntur ex
tertio et septimo modo utrobique colligentibus, ut omnes etiam in his
propositionum complexionibus fiant sedecim uel uiginti syllogismi. Quoquo
autem modo aliter assumptiones uerteris, nihil euenit necessarium. Ut autem
omnis propositionum ac syllogismorum ratio colliquescat, exempla subiecimus,
quibus facilius id quod superius docuimus declaretur. o Si cum sit a
animatum, est b homo, est c animal. o Si cum est a animatum, est b
homo, non est c equus. o Si cum sit a animatum, non est b animal,
est c insensibile. o Si cum sit a animatum, non est b animal, non est c
homo. o Si cum non sit tale, est b homo, est c animal. o
Si cum non sit a inuitale, est b homo, non est c equus. o Si cum non sit
a animal, non est b animatum, est c inuitale. o Si cum non sit a
inuitale, non est b animal, non est c homo. Ac de his quidem syllogismis
qui talibus propositionibus conectuntur, quae ex hypothetica praedicatiuaque
consistunt, sufficienter est dictum. Nunc de his dicendum est syllogismis,
quorum propositiones ita tribus terminis continentur, ut mediae sint earum quae
ex hypothetica categoricaque texuntur, et earum quae ex duabus hypotheticis
connectuntur, quas idcirco hoc loco proponimus, quia, ut superiores, ita haec
quoque tribus terminis continentur, et a similibus ad similia facilior
transitus fiet. Harum uero fiunt multiplices syllogismi, quorum nullus
poterit esse perfectus, cum nec per se perspicui sint, et ut his fides debeat
accomodari adiumento extrinsecus positae probationis indigeant; est autem
probatio talium syllogismorum alio constitutus ordine syllogismus. Fiunt uero,
ut dictum est, tum per primam, tum per secundam, tum uero per tertiam figuram.
Sunt autem primae figurae propositiones hae: Si est a, est b; et si est b,
est c. Si est a, est b; et si est b, non est c. Si est a, non est b;
et si non est b, est c. Si est a, non est b; et si non est b, non est
c. Si non est a, est b; et si est b, est c. Si non est a, est b; et
si est b, non est c. Si non est a, non est b; et si non est b, est c. Si
non est a, non est b; et si non est b, non est c. Ergo ratio colligentiae
talis est, ut si constituat et confirmet assumptio quod enuntiatio prima
pronuntiat, sexdecim necesse est fieri complexiones, ex quibus octo tantum
seruant consequentiae necessitatem, reliquae uero octo nihil habere idoneum
uidentur ad fidem. Rursus id quod propositio prima constituit euertat
assumptio: sic quoque sexdecim necesse est fieri complexiones, quarum octo
firma necessitas tenet, octo uero reliquas infida saepius uarietas mutat. Fiunt
uero hi syllogismi, tum in prima figura, tum in secunda, tum uero in tertia.
Omnes igitur trium figurarum modos, a prima ordientes, ut nihil subterfugiat
explicemus. Est enim primae figurae primus modus a prima ueniens
propositione, cum ita proponimus: Si est a, est b; Si est b, necesse
est esse c. Tunc enim si est a, etiam c esse necesse est, cuius haec
demonstratio est: nam si est a, consequitur ut sit b (id est enim quod proponit
prima conditio, si sit a, esse b); at si b fuerit est c, id est enim quod
propositionis pars secunda pronuntiat, si sit b, consequi necessario ut sit
c. Quibus ita concessis, euenit ut, cum sit a, etiam c esse necesse sit;
imperfectum uero hunc dicimus syllogismum, quia testimonio probationis
indiguit; probatio uero ea fuit per syllogismum demonstratio. Ita namque
firmauimus talis consequentiae necessitatem: cum enim ita proponeretur: Si
est a, est b; Et si est b, necesse est ut sit c; poneretque assumptio id
quod affirmatio constituerat, esse a, eamque assumptionem talis sequi conclusio
diceretur, quod necessario esset c, neque id esset ipsius syllogismi natura et
proprietate perspicuum, addita est probatio per syllogismum hoc modo: Si
est a, est b; At si est b, est c; Si igitur est a, necesse est ut sit
c. Et in reliquis quidem eandem rationem exspectari oportere manifestum
est. Et haec quidem complexio ea est, quae id quod primo in propositione
positum fuerat assumit atque constituit; quod si id ponendo quis quod
sequebatur assumat, nulla est necessitas syllogismi, ueluti cum dicimus: Si est
a, est b; Et si est b, necesse est esse c; Atqui est c; non necesse
est esse b uel non esse; sed cum non sit necesse esse b uel non esse, non erit
necesse a esse uel non esse. Idem quoque tale firmabit exemplum: Si est
homo, animal est; Et si est animal, erit corpus animatum; Atqui est corpus
animatum; non necesse erit esse animal, quocirca ne hominem quidem. Secundus
uero modus est hic primae figurae, cum ita proponimus: Si est a, est
b; Et si est b, necesse est non esse c; At uero est a; Non est
igitur c. Huius demonstratio talis est. Nam Si est a, est b id
enim prima conditio monstrabat, quae est, si sit a esse b; cum uero sit b,
necesse est non esse c: id enim consequentia praeferebat in qua pronuntiabatur,
si esset b consequi ex necessitate ut non esset etiam c; si igitur sit a, non
erit c. Quod si id quod ultimum propositio constituit ponat assumpio, id
est non esse c nullus est syllogismus. Nam si de aliqua re ita
proponatur: Si homo sit, est animal; Et si est animal, non est
lapis; At non est lapis; non necesse erit aut esse aut non esse
animal, eodem modo nec hominem. Potest enim, si lapis non sit, esse lignum uel
caetera quae neque animalia sunt, nec inter homines numerantur. Tertius
uero modus est primae figurae, cum id assumptio constituit quod propositio
prima ponebat, cuius ex tertia propositione principium est cum ita
proponimus: Si est a, non est b; Et si non est b, necesse est esse
c; hic enim rursus, si a terminus assumatur ita ut in prima est
enuntiatione propositus, ita dicetur: Atqui est a; Est igitur
c. Probatio uero superioribus similis. Nam quia est a, non est b, et quia
non est b, est c; quia igitur est a, est c. Quod si c terminus assumatur, nihil
necessarium fiet, ut si ita proponamus: Si homo est, non est
insensibile; Si non est insensibile, animal est; Est autem
animal; non est necesse esse hominem. Quartus uero modus est qui ex
quarta propositione principium capit, qui tali propositione formatur: Si
sit a, non est b; Si non est b, non est etiam c; hic enim si est a,
necesse est c non esse. Demonstratio uero eadem quae in prioribus modis. Quod
si c assumatur, nulla erit necessitas complexionis, hoc modo. Age enim
proponatur: Si est homo, lapis non est; Si lapis non est, non est
inanimatum; Atqui non est inanimatum; non necesse est esse
hominem. Quintus modus est ex quinta enuntiatione descendens, cuius prima
talis est propositio: Si non est a, est b; Si est b, etiam c esse
necesse est; Atqui non est a; c igitur necesse est esse. Hic
quoque prius dicta conditio facit consequentiam necessitatis; at si id quod est
c assumatur, nulla necessitas euenit. Sit enim propositio: Si non est
irrationabile rationabile est; Et si rationabile est, animal est;
et assumamus: Sed est animal; non necesse erit uel esse uel non esse
irrationabile. Sextus modus est ita propositus, quem sexta propositio
facit: Si non sit a, est b; Et si est b, non est c; Atqui non
est a; Non est igitur c. Similis uero superioribus demonstratio. At
si c assumatur, eodem modo nullus est syllogismus; nam si sit
propositio: Si animatum non est, inanimatum est; Et si inanimatum
est, sensibile non est; si assumatur: Atqui non est sensibile;
non necesse erit uel esse uel non esse animatum. Septimus modus est, qui
ex septima propositione est: Si a non est, b non est; Et si b non
est, necesse est esse c; Atqui non est a; Necesse est igitur esse
c. Quod si c assumatur, nihil fit necessarium: nam si proponamus: Si
animatum non est, animal non esse; Et si animal non sit, insensibile
esse; assumamusque: At est insensibile; non necesse est uel
esse uel non esse animatum. Octauus uero modus est qui ita proponitur: Si
non est a, non est b; Et si non est b, necesse est non esse c; Atqui
non est a; Non est igitur c. Quod si c assumatur, nec in complexione nec
in terminis erit ulla necessitas. Age enim ita proponamus: Si non est
animatum, non est animal; Et si non est animal, necesse est non esse
sensibile; Atqui non est sensibile; non necesse erit non esse
animatum, ut arbores, herbas, et quidquid uitali tantum anima, non etiam
sensibili, uegetatur. In prima igitur figura ex tribus terminis fiunt
hypotheticae sexdecim complexiones, ita ut id quod positum est in propositione,
idem in assumptione quoque ponatur: octo quidem, si a terminus in propositione
ponatur; octo uero, si c. Quod si a terminus ponendo assumatur, erunt octo
necessarii syllogismi; si uero c terminus ponendo assumatur, quinque equidem
complexiones, id est quae primo secundo tertio quarto atque octauo respondent
modo, nullius necessitatis esse deprehenduntur; tres uero complexiones, quae
quinto sexto septimoque modo accomodantur, per complexionis quidem naturam
nullam necessitatis constantiam seruant; per terminorum uero proprietatem
necessarium colligunt syllogismum, ut sint omnes octo uel undecim
syllogismi. Eodem quoque modo syllogismorum complexionumque ordo
constabit, si id in assumptione quod in propositione positum fuerat,
auferatur. Fient quippe sexdecim complexiones, quarum octo quidem, ubi id
quod sequitur aufertur, integra necessitate perdurant, octo uero, in quibus id
quod praecedit aufertur, necessitatem non eadem ratione conseruant. Sed
hae quidem complexiones quae primo secundo ac tertio, quarto atque octauo modo
accomodantur, nihil colligunt nec per terminorum nec per complexionis
proprietatem; tres uero, id est quintus, sextus et septimus, nihil quidem
colligunt secundum complexionis naturam, uidentur uero colligere secundum
terminorum proprietatem, ut hinc quoque octo uel undecim sint syllogismi. Horum
uero omnium subdantur exempla. Primus igitur modus hic est: Si est a, est
b; Et si est b, etiam c esse necesse est; At non est c; Igitur a
non est. Quod si assumamus: At non est a; nihil euenit
necessarium. Sit enim propositio haec: Si est homo, animal est; Et si
animal est, animatum esse necesse est; Atqui non est homo; necesse
non erit ut non sit animatum. Secundus modus est: Si est a, est
b; Et si est b, non esse c necesse est; Atqui est c; Igitur a
non erit. Quod si assumamus ita: Atqui non est a; non necesse
erit esse c uel non esse. Nam si sit propositio talis: Si est homo, animal
est; Et si animal est, lapis non est; si assumamus: Atqui non
est homo; non necesse erit lapidem uel esse uel non esse. Tertius
modus: Si est a, non est b; Et si non est b, necesse est esse c; Atqui
non est c; Necesse est igitur non esse a. Quod si a terminum tollat
assumptio, nihil euenit necessarium: age enim sit propositio: Si homo est,
non est inanimatus; Et si inanimatus non est, animatum esse necesse
est; Atqui non est homo; non necesse est uel esse uel non esse
animatum. Quartus: Si est a, non est b; Et si non est b, necesse est
non esse c; At est c; Igitur a non erit. Quod si assumamus non
esse a, nulla complexionis necessitas inuenitur: nam si sit propositio: Si
homo est, non est irrationabile; Si irrationabile non est, inanimatum eum non
esse necesse est; Atqui non est homo; non necesse est eum uel esse
inanimatum uel non esse. Quintus: Si a non est, b est; Et si b
est, c esse necesse est; Atqui non est c; Igitur a esse necesse
est. Quod si a terminus assumatur, non fiet syllogismus: sit enim
propositio: Si irrationabile non est, rationabile est; Et si
rationabile est, animal est; Atqui irrationabile est; non necesse
erit esse uel non esse animal. Sextus: Si non est a, est b; Et si est
b, necesse est non esse c; Atqui est c; Igitur a esse necesse
est. Quod si a terminum sumam, nulla necessitas inuenitur: sit enim
propositio talis: Si animatum non sit, inanimatum est; Et si
inanimatum est, sensibile non est; Atqui animatum est; non erit
necesse uel esse uel non esse sensibile. Septimus: Si a non sit, b non
est; Et si b non est, c esse necesse est; Atqui c non
est; Igitur a esse necesse est. Quod si a terminum sumpserimus,
complexio nullam faciet necessitatem: sit enim proposititio talis: Si non
est animal, non est rationabile; Si rationabile non est, irrationabile
est; et si assumamus: Atqui animal est; non necesse est uel
esse irrationabile uel non esse. Octauus modus est qui hac propositione
formatur: Si a non est, nec b est; Et si b non est, c non esse
necesse est; Atqui est c; Igitur a esse necesse est. Quod si a
terminum sumpserimus, non fiet ulla necessitas: sit enim propositio: Si
non est animal, non est homo; Et si non est homo, necesse est non esse
risibile; Atqui est animal; non necesse erit uel esse uel non esse
risibile. Ac de prima quidem figura satis dictum est, sequenti uero uolumine de
secunda tractabitur. Conditionalium propositionum, quae tribus terminis
constant, secunda figura est, quotiens cum aliquid dicitur uel esse uel non
esse, consequitur ut duo quaedam uel esse uel non esse dicantur. Variantur
autem in ipsis propositionibus uel etiam in conclusionibus secundum
assumptionis ordinem multis modis; quod ut facilius innotescat, prius cunctae
propositiones ordine digerantur. In quibus illud est praedicendum, quod saepe
aequimodae propositiones ponuntur, saepe uero non; aequimodis quidem nullus est
syllogismus. Aequimoda enim propositio est si ita dicamus: Si a est, b
est; Et si a est, c non est; inaequimoda uero secundae figurae
propositio est in his syllogismis hypotheticis quorum enuntiationes tribus
terminis componuntur, ueluti cum ita proponimus: Si est a, est b; Si
autem non est a, est c. Huius propositionis tale intellegatur
exemplum: Si animal est, animatum est; Si animal non est, insensibile
est; hic igitur animal, quod est a, non est uno modo utrisque propositum
sed ad b quidem afiirmatiue, ad c autem negatiue coniungitur, et id uocatur non
aequimode praedicari. Quod si in utrisque a esse uel non esse poneretur,
aequimoda praedicatio diceretur. Disponantur igitur (ut dictum est) omnes non
aequimodae propositiones hoc modo: o Si est a, est b; si non est a, est
c. o Si est a, est b; si non est a, non est c. o Si est a, non est b;
si non est a, est c. o Si est a, non est b; si non est a, non est c.
Nunc igitur a quidem esse propositum est cum b, non esse uero cum c; rursus a
non esse ponamus cum b, esse uero cum c: o Si non est a, est b; si est a,
est c. o Si non est a, est b; si est a, non est c. o Si non est a,
non est b; si est a, est c. o Si non est a, non est b; si est a, non est
c. Si igitur non sit aequimoda praedicatio, assumpto quidem b fiunt
sexdecim complexiones, quarum tantum octo sunt syllogismi; rursus, si assumatur
c, sic quoque sexdecim complexiones fiunt sed in octo tantum syllogismorum
deprehenditur firma necessitas. Sit igitur secundae figurae primus modus hic,
ex prima ueniens propositione: Si est a, est b; Si autem non est a,
est c. Dico quoniam: Si non est b, est c quoniam enim si est a
est b, secundum ordinem consequentiae si non est b, non erit a; atqui si non
esset a, esset c, si igitur non sit b, erit c. Quod si idem b esse ponatur,
nihil euenit necessarium: age enim sit b, non necesse est esse uel non esse a.
Nihil igitur necessarium sequitur, ut sit uel non sit c; ut si sit a animal, b
animatum, c insensibile: nam si est animal, est animatum; si uero non est
animal, insensibile est; atqui si sit animatum, non necesse est esse animal,
uel non esse, non igitur necesse est esse insensibile uel non esse. Quod
si c terminus assumatur, siquidem non esse ponatur, erit necessario b; si uero
esse, nullus est syllogismus. Nam si non est c, est a, at si est a, est b, si
igitur non est c, est b; quod si est c, non necesse est esse a, aut fortasse
necesse sit non esse. Haec enim propositio, id est: Si non est a, est
c in talibus tantum euenit, in quibus alterum eorum esse necesse sit;
quod si est c, non erit a, si non est a, nihil ad b, ueluti si est insensibile,
non erit animal, at si non sit animal, nihil animatum uel esse uel non esse necesse
erit. Ex secunda rursus propositione fit syllogismus cum ita
proponimus: Si est a, est b; Si non est a, non est c; dico
quia: Si non est b, non est c propositum quippe est: Si est a,
est b. Ordo uero consequentiae est, si non est b, non esse a, quod si non
est a, non est c, si igitur non est b, non est c. Quod si fuerit b, non necesse
est esse c; sit enim a animal, b animatum, c rationabile, et
proponatur: Si animal est, animatum est; Si animal non est,
rationabile non est; Atqui est animatum; non necesse est esse
animal, quo fit ut ne rationabile quidem. Quod si c terminum dicat
assumptio, si quidem c terminus affirmatus fuerit, erit b; quod si idem c
terminus abnuatur, nullus est syllogismus. Nam quoniam si est a, erit b, si non
est a, non erit c, si est c, erit a; at cum est a, est b, si est igitur c, erit
b; quod si non sit c, nihil sit necessarium, nam in hac propositione quae
dicit: Si animal est, animatum est; Si animal non est, /326/
rationabile non est; assumamus: Atqui non est rationabile; non
necesse erit esse uel non esse animal, quocirca ne animatum quidem. Item
ex tertia propositione talis est syllogismus: Si est a, non est b; Si
non est a, est c; dico quia: Si est b, est c; nam quoniam ita
propositum est: Si est a, non esse b necesse est consequi ut, si sit
b, non sit a; at si non sit a, erit c; si igitur sit b, erit c; quod si non sit
b, nihil est necessarium. Si enim sit a animal, b inanimatum, c insensibile, in
hac propositione quae dicit: Si est animal, non est inanimatum; Si non est
animal, est insensibile; si assumamus non esse inanimatum, non necesse
erit esse animal uel non esse, quare ne insensibile quidem. Si uero a c termino
fiat assumptio, si quidem non sit c, non erit b; si uero sit, nulla erit necessitas
conclusionis. Nam quoniam ita propositum est, ut si sit a, non sit b, si
uero non sit a, sit c, ea est consequentia, ut si non sit c, sit a (in his enim
tantum terminis dici potest, qui medietate priuati sunt); at si sit a, non est
b, si igitur non sit c, non erit b. Quod si sit c, nullus est syllogismus; nam
in hac propositione quae dicit: Si est animal, non est inanimatum; Si
uero non est animal, insensibile est; assumat aliquis esse insensibile,
sequitur quidem ut non sit animal, sed non consequitur ut uel sit uel non sit
inanimatum. Ex quarta propositione est syllogismus ita: Si est a non est
b; Si non est a, non est c; dico quoniam: Si est b, non est
c; nam quoniam ita propositum est: Si est a, non est b ea
rerum consequentia est, ut si sit b, non sit a. Atqui cum non sit a, positum
fuerat non esse c; si igitur sit b, non est c. Quod si b non esse assumatur,
nullus est syllogismus; age enim sit a quidem animal, b inanimatum, c
rationabile, et sit haec propositio: Si est animal, non est
inanimatum; Si non est animal, non est rationabile; assumamus igitur
non esse inanimatum, non necesse erit esse animal, quocirca nec rationabile. Rursus
si c terminus assumatur, si quidem esse ponatur, necesse erit non esse b; at si
non est c, nullus est syllogismus. Nam quoniam propositum est: Si a sit,
non esse b; Si a non sit, non esse c; necesse est ut, cum sit c, sit
etiam a, at si sit a, non sit b; si igitur sit c, non erit b. Quod si c non
esse ponatur, nullus est syllogismus, ueluti in hac propositione: Si est animal
non est inanimatum; Si non est animal, non est rationabile. Si quis
igitur assumat non esse rationabile, non necesse erit esse animal, quocirca ne
inanimatum quidem uel esse uel non esse. Atque in his quidem quatuor
propositionibus ita a terminus positus est, ut ad b quidem esse diceretur, ad c
uero non esse; quod si ordo mPombaur, rursus quatuor erunt alii syllogismi, si
b terminus assumatur, quatuor etiam alii, si c; ex utraque autem parte
quaternae complexiones erunt, quae nullos faciant syllogismos. Sit enim quinta
propositio: Si non est a, est b; Si est a, est c; dico quia: Si
non est b, erit c. Assumatur enim: Atqui non est b erit igitur
a (hic enim consequentiae ratus ordo constabat); sed cum est a, est c, si igitur
non est b, erit c. Quod si b esse ponatur, nihil sit necessarium; si enim
est b, non erit a, quod si a non est, nihil ad c, quocirca nullus est
syllogismus. Non esse autem a, si b sit, ea propositio monstrat per quam
dicimus: Si a non est, est b haec enim immediatis tantum contrariis
conuenit. Age enim sit a quidem animal, b uero insensibile, c animatum, et
proponatur: Si animal non est, insensibile est; Si animal est,
animatum est; et ponatur esse insensibile, non necesse est esse uel non
esse animal, quocirca ne animatum quidem esse uel non esse necesse est. Quod si
c terminus assumatur, si quidem negatiue, faciet syllogismum, affirmatiue uero,
nullo modo. Nam si non est c, non est a; quod si non est a, est b, si igitur c
non est b est; quod si sit c, non necesse est esse uel non esse a, quo fit ut
ne b quidem esse aut non esse necesse sit. Nam si est animatum, non necesse est
esse uel non esse animal, cum uero animal non sit, non necesse est esse uel non
esse insensibile. Propositio uero eadem quae superius. Rursus ex sexta
propositione fit syllogismus hoc modo: Si non est a, est b; Si est a,
non est c; dico quia: Si non est b, non erit c; si enim non est b,
est a, at si est a, non est c; si igitur non est b, non erit c. Quod si b
terminum ponat assumptio, nulla est necessitas conclusionis; si enim est b, non
est a. Id enim ex superioribus manifestum est. At si non est a, nihil ad c;
tunc enim c non erat, si esset a. Exemplum uero hoc est, ut si sit a animal, b
insensibile, c inanimatum. Si igitur sit propositio talis: Si non est
animal, est insensibile; Si est animal, non est inanimatum; Atqui est
insensibile; non est igitur animal sed non consequitur ut sit uel non sit
inanimatum. Quod si c terminum sumpseris, si quidem affirmes, facies
syllogismum; nam si est c, non erit a, quod si a non sit, erit b, si igitur c
fuerit, erit b. At si negaueris, nihil est necessarium. Si enim assumas: Atqui
non est c non necesse erit esse uel non esse a, quocirca ne b quidem; nam
si inanimatum negaueris, non necesse est esse uel non esse animal, quocirca ne
insensibile quidem esse uel non esse. Ex septima propositione conclusio est cum
ita proponimus: Si non est a, non est b; Si est a, est c dico
quia: Si est b, erit c nam quoniam ita propositum est, si non esset
a, non esse b, si sit b erit a. Atqui si sit a, erit c; si igitur sit b, erit
c.Quod si b terminum neget assumptio, nulla est in conclusione necessitas. Nam
si non sit b, nihil erit necessarium esse uel non esse a, quocirca ne c quidem,
uelut in his terminis. Si enim sit a animatum, b animal, c uiuere, si sic
enuntiemus: Si non est animatum, non est animal; Si est animatum uiuit;
si igitur assumamus: Atqui non est animal; non necesse est esse uel
non esse animatum, quocirca nec uiuere. Quod si assumamus c terminum, si quidem
negemus, erit syllogismi perfecta necessitas; si uero affirmemus, nulla
conclusio est. Nam si non est c, non erit a, si non est a, non erit b, si
igitur non sit c, non est b. Quod si affirmetur, nihil est necessarium;
siue enim necesse est esse, siue non necesse est esse a, nihil ad b, ut in
superioribus terminis poterit ostendi: si enim uiuit, et si necesse est esse
animatum, non necesse est tantum esse animal; quod si non est necesse esse
animatum, non necesse est esse uel non esse animal; ut uero necesse sit non
esse animatum, fieri non potest. Ex octaua enuntiatione conclusio est, cum ita
proponitur: Si non est a, non est b; Si est a, non est c; dico
quoniam: Si est b, non est c nam si est b, est a, quod si est a, non
est c, si igitur est b, non erit c. Quod si b terminum neget assumptio,
nihil est necessarium: Si enim non sit b, non necesse erit a uel esse uel non
esse, quo fit ut ne c quidem, uelut in his terminis, si sit a animatum, b
animal, c inanimatum. Si igitur proponamus: Si non est animatum, non est
animal; Si est animatum, non est inanimatum; et assumamus: Sed
non est animal non necesse est uel esse uel non esse animatum, quocirca
ne inanimatum quidem. At si c terminus assumatur, si quidem cum affirmatione ponatur,
erit necessitas syllogismi: nam si est c, non est a, quod si non est a, non est
b, si igitur est c, non est b; at si c terminum neget assumptio, nihil est
necessarium: nam si non est c, non necesse erit esse uel non esse a, quo fit ut
ne b quidem. Nam si non est inanimatum, fortasse quidem necesse sit esse
animatum sed non necesse est esse animal. Inuenientur autem termini ut non sit
necesse esse a, ueluti si c ponamus nigrum, a album; negato enim nigro non
consequitur ut affirmetur album. Et secundae quidem figurae inaequimodas
complexiones omnes (ut arbitror) explicuimus; si uero aequimodae sint, nullus
omnino fit syllogismus. Aequimodae uero fiunt hoc modo: quotiescumque enim a
terminus ad b et ad c simul uel esse uel non esse ponitur, quoquomodo b atque c
termini uarientur, harum igitur quae aequimodae complexiones esse dicuntur,
nulla est collectibilis. Sunt autem omnes aequimodae complexiones
hae: o Si est a est b, si est a est c. o Si est a est b, si est a non
est c. o Si est a non est b, si est a est c. o Si est a non est b, si est
a non est c. o Si non est a est b, si non est a est c. o Si non est a
est b, si non est a non est c. o Si non est a non est b, si non est a est
c. Si non est a non est b, si non est a non est c. Quarum imbecillam
conclusionem atque omni carentem necessitate ex assumptionibus quoquo modo
factis inueniemus, nec non secundum superius descriptos modos etiam terminos
facillime reperire poterimus, per quos demonstratur nullam in talibus
complexionibus inueniri posse constantiam. Ac de secunda quidem figura, quanti
sint quotque modis fiant syllogismi diligenter ostendimus. Fiunt autem, si
inaequimodae quidem complexiones fuerint, b termino assumpto, syllogismi octo, totidemque
si c terminus assumatur. Sunt igitur secundae figurae sedecim syllogismi,
totidem uero, b atque c termino non ita ut oportet assumptis, complexiones
fiunt, quibus nihil admodum colligatur. Nunc igitur de tertia figura
dicendum est, in qua quidem totidem complexiones fiunt et totidem syllogismi
sed ita ut non aequimodae propositiones ponantur; quod si aequimodae fuerint,
nullus omnino (ut in secunda figura dictum est) fiet syllogismus. Exponamus
igitur omnes figurae tertiae inaequimodas propositiones: o Si est b est a,
si est c non est a. o Si es b est a, si non est c non est a. o Si non
est b est a, si est c non est a. o Si non est b est a, si non est c non
est a. Et nunc quidem a cum b esse, cum c uero non esse propositum est;
rursus uero a quidem cum b non esse, cum c uero esse proponatur: o Si est
b non est a, si est c est a. o Si est b non est a, si non est c est
a. o Si non est b non est a, si est c est a. o Si non est b non est a,
si non est c est a. Tertiae igitur figurae primus modus huiusmodi est: Si
est b, est a; Si est c, non est a; qui quidem diuersus est a secundae
figurae primo modo. Illic enim si a esset uel non esset, b et c esse
dicebantur. Nunc uero si b uel c fuerint, a esse uel non esse proponitur.
Aequimodae autem propositiones non sunt, quae in alia parte esse, in alia non esse
constituunt, uelut in superius comprehensa: nam si b est, a est, si autem c
est, a non est. Quibus ita positis, dico quoniam Si est b, c non esse
necesse est; si enim est b, est a, quod si est a, non est c, si igitur
est b, non est c. Quod si b terminus abnuatur, nullus est syllogismus: si enim
b non sit, non necesse erit esse uel non esse a, nec c igitur necesse erit esse
uel non esse, uelut in hoc exemplo. Si sit b animal, a animatum, c
mortuum, et proponatur: Si animal est, animatum est; Si mortuum est,
animatum non est; Atqui non est animal; non necesse est esse uel non
esse animatum. Quae enim non sunt animalia, possunt esse animata, ut arbores;
possunt esse non animata ut lapides. Quocirca, si animal non fuerit, ne mortuum
quidem esse uel non esse necesse est. Plura enim non sunt animalia, quae mortua
non sint, ut lapides; ea enim mortua dicuntur quae aliquando uixerunt. Ab
assumptione uero c termini affirmatio faciet syllogismum. Nam si c est, b non
erit, si enim c est, non est a: at si non sit a, non erit b, si igitur c est, b
non erit. Negatio uero nihil explicat necessitatis; nam si non est c, non
necesse est esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem. Nam si non sit
mortuum, non necesse est esse animatum uel non esse: quaedam enim quae non sunt
mortua, animata sunt, ut arbores, quaedam uero, cum mortua non sint, non sunt
animata, ut lapides, quo fit ut ne animal quidem esse uel non esse necesse sit,
si mortuum destruatur. Ex secunda uero propositione hic modus est
colligendus: Si est b, est a; Si non est c, non est a; dico
quia: Si est b, erit c. Nam si est b, est a, quod si est a, est c -- ita
enim conuertitur talis propositio --; si igitur est b, est c. Quod si b
terminus negetur, nulla est necessitas syllogismi: nam si non est b, non
necesse est esse uel non esse a, quocirca ne ad c quidem ulla necessitas
perueniet, ut in terminis patet. Nam si sit b animal, a animatum, c corporeum,
et proponatur: Si est animal, est animatum; Si non est corporeum, non
est animatum; et assumatur: Atqui non est animal; non necesse
est esse uel non esse corporeum -- c uero terminus si negetur, erit necessitas
syllogismi: nam si non est c, non est a, quod si non est a, non est b (ita enim
conuerti potest), si igitur non est c, non erit b; si affirmetur c, nulla est
necessitas, nam si est corporeum, non necesse est animatum esse uel non esse,
quocirca nec animal quidem esse uel non esse necesse est. Tertia
propositio talem recipit conclusionem: Si non est b, est a; Si est c,
non est a; dico quia: Si non est b, non erit c. Si enim non
sit b, est a; quod si sit a, non erit c (ita enim poterat conuerti ea pars
propositionis, quae, si esset c terminus, a terminum non esse dicebat); fit
igitur ut si non sit b, non sit c. Quod si affirmetur esse b terminum, nulla
est necessitas conclusionis; nam si sit b, necesse est quidem non esse a, sed
non necesse est esse c, ut in his terminis, si sit b animatum, a inanimatum, c
animal. Si quis igitur sic proponat: Si non est animatum, inanimatum
est; Si est animal, non est inanimatum; si igitur ponamus esse
animatum, sequitur quidem ut non sit inanimatum sed non necesse est ut sit animal. C
uero terminus si affirmetur, fiet necessaria conclusio hoc modo. Nam si est c,
non est a, si non est a, est b (id enim sequebatur eam propositionem quae, si
non esset b terminus, a terminum esse dicebat); si igitur sit c, est b. Quod si
idem c terminus abnuatur, nullus est syllogismus: nam si non sit c, non necesse
est esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem. Nam si non est animal, non
necesse est esse uel non esse inanimatum, quocirca ne animatum quidem. Ex
quarta propositione talis est syllogismus: Si non est b, est a; Si
non est c, non est a; dico quia: Si non est b, est c. Nam si
non est b, est a, si uero a fuerit, necesse est esse c -- id enim consequitur
eam propositionis partem quae ait: Si non est c, non est a -- si
igitur non sit b, est c. At si b terminus affirmetur, nullus est syllogismus.
Sequitur namque ut non sit a sed non sequitur ut sit uel non sit c, uelut in
his terminis: nam si sit b quidem insensibile, a animal, c animatum, et proponatur:
Si sit insensibile, non est animal; sed non necesse est esse uel non esse
animatum. C uero terminus si negetur, fiet protinus syllogismus. Nam si
non est c, non est a, si non est a, erit b -- id enim consequitur eam
propositionis partem quae dicit: Si non est b est a -- si igitur non
sit c, erit b. Quod si sit c, non est necesse esse uel non esse a, quo fit ut
ne b quidem. Nam si est animatum, non necesse est esse animal uel non esse, quo
fit ut ne insensibile quidem esse uel non esse necesse sit. Et hactenus quidem
quatuor modos ita disposuimus, ut ad b terminum, quoquo se modo haberet, a
terminus esse poneretur, ad c uero non esse. Nunc ita statuamus ut a terminus
ad b terminum non esse dicatur, ad c uero esse, ordine scilicet immutato.
Omnes uero non esse aequimodas propositiones illud ostendit quod a quidem si
affirmatiue est ad b, ad c negatiue proponitur, aut si negatiue ad b,
affirmatiuam ad c retinet enuntiationem. Quinta igitur propositio talem facit
syllogismum, cum talis est propositio: Si est b, non est a; Si est c,
est a; dico quia: Si est b, non est c. Nam si est b, non est
a, si uero non sit a, non est c (id enim talem propositionem consequebatur,
quae, si esset c terminus, a quoque esse dicebat); si est igitur b, non est c.
At si negetur b, nullus est syllogismus: si enim /348/ non sit b, non necesse
est esse a, quo fit ut ne ad c quidem necessitas ulla perueniat. Et in
terminis idem patet: nam si sit b quidem mortuum, a animatum, c animal, et sit
ita propositio: Si est mortuum, non est animatum; Si animal est,
animatum est; et assumamus non esse mortuum, non necesse est esse uel non
esse animatum. Nam et quae adhuc animata sunt, et quae numquam fuerunt, non
sunt mortua, quocirca non sequitur ut sit uel non sit animal; quod enim mortuum
non est, potest et esse animal, ut canis uiuens, et non esse, ut lapis. At si c
terminus affirmetur, erit perfecta conclusio non esse b; nam si sit c, est a,
si uero sit a, non erit b (id enim consequitur superius positum propositionis
modum); si igitur sit c, non erit b. At si negetur c, neque ad a neque ad
b necessitas ulla perducitur, uelut in his terminis: nam si non est animal,
neque animatum, neque mortuum uel esse uel non esse necesse est. Sextae
propositionis haec conclusio est: Si est b, non est a; Si non est c,
est a; dico quia: Si est b, erit c. Nam si est b, non est a,
si non sit a, erit c (talis enim in hac parte propositionis est consequentia);
si igitur sit b, erit c. Quod si b terminus abnuatur, nihil necessarium fiet:
nam si non sit b, nec a nec c terminos uel ad esse uel ad non esse sequitur
ulla necessitas, ut in terminis patet. Nam si sit b mortuum, a animatum, c
inanimatum, si non sit mortuum, non necesse est esse uel non esse animatum,
quocirca ne inanimatum quidem. At si c terminus assumatur, si quidem in
negatione sit positus, fiet rata conclusio non esse b terminum: nam quoniam non
est c, est a, at si sit a, non est b, si igitur non sit c, non erit b. Quod si
affirmetur c terminus, nihil est necessarium; neque enim si sit c, quamuis a
non esse necesse sit, ad b terminum necessitas ulla perueniet, ut etiam in
terminis patet: nam si sit inanimatum, necesse est non esse animatum sed non
necesse est esse mortuum. Septimae propositionis talis est syllogismus:
enuntietur enim: Si non est b, non est a; Si est c, est a;
dico quia: Si non est b, non est c si enim non sit b, non erit a,
quod si a non fuerit, non erit c (id enim sequebatur eam propositionem qua
dicebatur, si esset c terminus, a quoque consequi ut esset); si igitur non sit
b non erit c. Quod si affirmetur b, nihil est necessarium; neque enim si
sit b, uel a uel c aut esse aut non esse necesse est, ut in terminis patet: nam
si sit b animatum, a animal, c sensibile, et sit propositio: Si animatum
non est, non est animal; Si sensibile est, animal est; si assumatur
esse animatum, neque animal necesse est esse, neque sensibile. At si per c
terminum fiat assumptio, si quidem affirmabitur, erit firma conclusio; si
negetur, nullus est syllogismus: nam si est c, est a, si sit a, erit b (id enim
consequebatur eam propositionem quae ait: si non sit b, non esse a); si igitur
sit c, erit b. At si idem c terminus abnuatur, nihil est necessarium; nam si
non sit c, neque a neque b terminum necessitas ulla constringit, uelut si non
sit sensibile, non sit forsitan animal sed non necesse est esse animatum;
reperientur uero termini quibus ne a quidem non esse necesse sit. Octauus
modus est in quo ita proponitur: Si non est b, non est a; Si non est
c, est a; dico quia: Si non est b, est c. Si enim non sit b,
non erit a, quod si non sit a, erit c -- id enim consequebatur eam partem propositionis
quae dicebat: Si non est c, est a -- si igitur non sit b, erit c.
Quod si b terminus affirmetur, nihil est necessarium; nam si sit b, neque esse
neque non esse necesse est a terminum, quo fit ne c quidem. Id uero tali liquet
exemplo, si sit b animatum, a animal, c insensibile, et proponatur: Si non
sit animatum, non est animal; Si non sit insensibile, est animal. Si
igitur in assumptione affirmemus b terminum, ac dicamus: Atqui est
animatum; non necesse est esse uel non esse animal uel insensibile,
quocirca nullus est syllogismus. At si c terminus abnuatur, fiet protinus
syllogismus: nam si non est c, est a, si uero est a, erit b, si igitur non sit
c, erit b. Quod si c terminus affirmetur, nihil est necessarium; nam et si a
terminum non esse necesse est, quantum ad b terminum nihil necessarium cadit.
Id uero tali demonstratur exemplo: Si sit insensibile, non est
animal; quod si animal non est, non necesse est esse uel non esse
animatum. In non aequimodis igitur propositionibus, siue b siue c terminus
assumatur, octo necesse est ex utraque parte fieri syllogismos; reliquae uero ex
utraque parte octonae complexiones necessitate priuatae sunt. At si sint
aequimodae, nullus omnino est syllogismus. Aequimodae uero dicuntur quotiens a
terminus ad utrosque uel esse uel non esse proponitur; omnes autem aequimodae
propositiones sunt huiusmodi: o Si est b, est a, si est c, est a. o Si est
b, est a, si non est c, est a. o Si non est b, est a, si est c, est
a. o Si non est b, est a, si non est c, est a. o Si est b, non est a, si
est c, non est a.o Si est b, non est a, si non est c, non est a. o Si non
est b, non est a, si est c, non est a. o Si non est b, non est a, si non
est c, non est a. In quibus et per consequentiam propositionum superius
designatam, et per exempla currentes, possumus lucide et constanter agnoscere
nullam omnino in syllogismis fieri necessitatem. Quocirca, cum tribus terminis
texitur propositio, ex prima quidem figura fiunt syllogismi sedecim, ex secunda
syllogismi sedecim, ex tertia etiam totidem colliguntur, omnes ex tribus terminis
syllogismi quodraginta octo. Restat nunc ut de his syllogismis dicamus qui
duabus hypotheticis continentur, quorum quidem similis consequentiae modus est,
ut in his propositionibus quae ex duabus categoricis ac simplicibus
efficiebantur. In omnibus enim si quidem uelimus astruere, primam totius
propositionis assumemus partem, si uero in conclusione aliquid destruendum est,
secunda negabitur. Siue autem prima denegetur, siue posterior affirmetur, nulla
fit omnino necessitas, nisi in quinta, septima, tertia decima et quinta decima
propositione, in quibus non complexionis natura sed terminorum proprietas
consequentiam facit, sicut in his syllogismis fieri docuimus qui in his
propositionibus constant, quae duabus simplicibus continentur. Horum autem omnium
qui ex duabus hypotheticis constant propositiones apposui, quarum differentias
cum lector agnouerit, ad earum exempla necesse est reuertatur, quae ex
simplicibus et categoricis iunctae sunt. Sunt autem omnes propositionum
differentiae, quae ex duabus hypotheticis copulantur, huius modi: o Si cum
est a, est b, cum sit c, est d. o Si cum est a, est b, cum sit c, non est
d. o Si cum est a, est b, cum non sit c, est d. o Si cum est a, est b,
cum non sit c, non est d. o Si cum sit a, non est b, cum sit c, est
d. o Si cum sit a, non est b, cum sit c, non est d. o Si cum sit a,
non est b, cum non sit c, est d. o Si cum sit a, non est b, cum non sit c,
non est d. o Si cum non sit a, est b, cum sit c, est d. o Si cum non
sit a, est b, cum sit c, non est d. o Si cum non sit a, est b, cum non
sit c, est d. o Si cum non sit a, est b, cum non sit c, non est d. o
Si cum non sit a, non est b, cum sit c, est d. o Si cum non sit a, non est
b, cum sit c, non est d. o Si cum non sit a, non est b, cum non sit c, est
d. o Si cum non sit a, non est b, cum non sit c, non est d. In his
quoque propositionibus illud inspiciendum est quod, cum sedecim sint, octo
quidem ita uariantur, ut tamen in omnibus a terminus esse ponatur, octo uero
ita, ut idem a terminus non esse dicatur. Non uero quoquo modo positae fuerint
habebunt uim conditionalium propositionum ex duabus hypotheticis constantium;
nam si quis sic dicat: Si cum homo est, animal est; Cum sit animatum,
corpus est; non fecerit eam propositionem quae ex duabus conditionalibus
constet. Neque enim idcirco quod animatum est corpus est, quia qui homo est
animal est, nec conditio sequitur conditionem; sed si eas separes, per seque
pronunties, utraque habet in terminorum consequentia necessitatem: nam et qui
homo est animal est, et quod animatum est corpus est, et per se istae
propositiones uerae sunt nec conditione iunguntur. Ut igitur singularum
natura clarescat, de unaquaque est disserendum. Prima igitur propositio talis
esse debet, ut si sit a positum, b terminus non continuo subsequatur, itemque,
si c ponatur, non necesse sit d terminum consequi sed, posito quidem a termino,
c terminum, posito uero b, terminum d esse necesse sit. Tunc enim eueniet ut
si, posito a, fuerit b, necesse sit c posito subsequi d, ut si sint termini a homo,
b medicus, c animatum, d artifex. Posito enim homine non necesse est ut medicus
sit, et cum sit animatum, non necesse est ut sit artifex; at si homo sit,
necesse est ut sit animatum, et si medicus sit, necesse est ut artifex sit. Hoc
itaque posito, eueniet ut si, cum homo sit, medicus est, cum sit animatum, sit
artifex. Secunda propositio ita esse debet, ut a atque b, itemque c atque
d praeter se esse possint sed a praeter c esse non possit, b autem atque d
simul esse non possint. Tunc enim eueniet ut si, posito a termino, b fuerit
consecutum, posito c non esse d necesse sit, ut si sit a homo, b niger, c
animatum, d albus: homo namque praeter nigrum, et animatum praeter album uel
esse uel non esse potest; homo uero praeter animatum, nigrum autem cum albo
esse non potest, euenitque ut si cum sit homo, niger sit, cum sit animatus non
sit albus. Item tertiae propositionis tales terminos esse oportebit, ut a
praeter b esse possit, c uero uel cum a uel cum d simul esse non possit. Quocirca
euenit ut, si a posito fuerit b, negato c termino d esse necesse sit, ut si sit
a quidem animatum, b medicus, c inanimatum, d artifex: animatum enim praeter
medicum esse potest, inanimatum uero neque cum animato neque cum artifice iungi
potest; itaque si cum animatum est, medicus est, cum inanimatum non sit artifex
est. Quarta propositio his terminis contexenda est, ut a quidem cum b termino,
c autem cum d uel esse uel non esse possit, neque uero a cum c, neque b cum d
ullo modo esse possibile sit. Tunc enim euenit ut, si a posito, b subsequatur,
c negato negetur etiam d, ut si sit a homo, b niger, c inanimatum, d album:
homo quidem praeter nigrum, inanimatum uero praeter album esse et non esse
potest; neque tamen homo cum inanimato, neque nigrum cum albo esse possibile
est. Si tamen, cum homo sit, niger est, sequitur ut, cum non sit
inanimatum, non sit album. Quintae propositionis haec membra sunt, ut a praeter
b, et c praeter d esse uel non esse possit sed a praeter c esse non possit, b
atque d numquam simul esse possint, ita ut si alterum non sit, alterum esse
necesse sit. Tunc enim eueniet ut si a posito b negetur, c posito d sequatur,
ut si sit a quidem homo, b aeger, c animatum, d sanus. Homo quidem praeter
aegritudinem, animatum uero praeter sanitatem et esse et non esse potest; sed
si homo sit, animatum esse necesse est; itaque fiet ut si, cum homo sit, non
sit aeger, cum sit animatus sanus sit. Sexta propositio hos terminos habere
desiderat, ut a praeter b, et c praeter d, et esse et non esse possit; idem
uero a praeter c, et d praeter b esse non possit. Tunc enim eueniet ut si a
posito non est b, posito c non sit d, ut si sit a homo, b artifex, c animatum,
d medicus. Homo quidem praeter artificium, animatum uero praeter medicinam et
esse et non esse potest; neque uero homo praeter animatum, neque medicus
praeter artificium esse potest. Quo fit ut si cum homo est, artifex non est,
cum sit animatum, non sit medicus. Septimae propositionis hi termini
sunt, ut a quidem praeter b esse et non esse possit, c autem neque cum d neque
cum a esse possit, b etiam cum c simul esse et non esse non possit; ita namque
eueniet ut si, posito a esse, b denegetur, negato c termino d sequatur, ut si a
quidem sit animatum, b sanum, c inanimatum, d aegrum. Animatum quidem praeter
sanitatem et esse et non esse potest, inanimatum uero neque cum animato neque
cum aegro conuenire potest; quo fit ut, si cum animatum est, sanum est, cum non
sit inanimatum aegrum sit. Item octaua propositio his terminis copulanda
est, ut a quidem praeter b terminum et esse et non esse possit, c autem cum d
non esse possit, /364/ sed a cum c et d praeter b esse non possit. Hoc enim
pacto eueniet ut, si a posito b denegetur, denegato c termino d terminus non
sit, ut si sit a animatum, b artifex, c inanimatum, d medicus. Animatum enim
praeter artificium et esse et non esse potest, inanimatum uero neque cum
animato neque cum medico conuenit, medicus uero praeter artificium esse non
potest; unde euenit ut, si cum animatum est, non sit artifex, cum non sit inanimatum
non sit medicus. Nona propositio fiet si a quidem atque b simul esse non
possint, c uero possit esse praeter d, cum a uero esse non possit. Tunc enim
eueniet ut, si a denegato, b esse consequitur, c posito d sequatur, ut si sit a
quidem inanimatum, b medicus, c animatum, d artifex. Inanimatum quippe medicus
esse non potest, animatum uero potest non esse artifex; inanimatum uero atque
animatum simul esse non possunt, quo fit ut si quod non est inanimatum, medicus
sit, cum sit animatum sit artifex. Decimam propositionem tales termini
copulabunt, ut a quidem praeter b, at uero c praeter d esse possit sed a cum c,
et b cum d esse non possit. Ita enim proueniet ut, si negato a esse, b
consequatur, posito c termino d non esse necesse sit, ut si sit a inanimatum, b
nigrum,c animatum, d album.Inanimatum quippe praeter nigrum, et animatum
praeter album esse et non esse possunt; sed inanimatum cum animato, et nigrum
cum albo simul esse non possunt. Sed si negatum fuerit inanimatum et consecutum
fuerit nigrum, posito animato album esse negabitur. Item undecima propositio ea
sit, ut neque a cum b, neque c cum d simul esse pcssit, a uero sine c et b sine
d esse non possit. Ita enim si cum a sit negatum, b sequitur, cum c negabitur,
d esse necesse est, ut si sit a inanimatum, b medicus, c inuitale, d artifex.
Inanimatum quidem medicus esse non potest, quocirca ne inuitale quidem artifex;
sed quod inanimatum est non potest non esse inuitale, itemque qui medicus est
non potest non esse artifex. Si igitur inanimatum negetur et medicum esse
consequatur, cum negabitur inuitale artifex esse consequitur. Duodecima
propositio est quam talibus terminis constare oportebit, ut a quidem praeter b,
at uero c praeter d uel esse uel non esse possit, a uero sine c, et b cum d,
esse non possint. Ita enim cadet ut si, a negato, b sequitur, c negato d etiam
denegetur, ut si fuerit a inanimatum, b album, c inuitale, d nigrum. Inanimatum
quidem praeter album, inuitale autem praeter nigrum uel esse uel non esse
potest; si tamen inanimatum non sit, et sit album, cum inuitale non sit non
erit nigrum. Tertia decima propositio his terminis connectenda est, ut a
quidem prneter b, at uero c praeter d esse possit, a uero atque c, et b atque d
ita simul esse non possint, ut si alterum eorum non fuerit, alterum esse
necesse sit. Ita namque fiet si cum a negatum sit, b negetur, cum c affirmatum
sit d affirmetur, ut si sit a irrationabile, b aegrum, c rationabile, d sanum.
Irrationabile /368/ namque praeter aegrum, et rationabile praeter sanitatem
esse potest, irrationabile uero atque rationabile, et aegrum atque sanum simul
esse non possunt; si tamen alterum eorum non fuerit, alterum esse necesse est.
Itaque fit ut si irrationabili denegato aegrum denegetur, rationabili posito
sanum ponatur. Quarta decima propositio his texenda membris est, ut a
quidem praeter b, et c praeter d esse possint sed a atque c simul esse non
possint, ita ut cum alterum non fuerit alterum esse necesse sit, d uero praeter
b esse non possit. Fit igitur ut, si cum sit a denegatum, b denegetur, cum sit
c non sit d, ut si sit a inanimatum, b artifex, c animatum, d medicus.
Inanimatum quidem praeter artificem, animatum uero praeter medicum esse potest;
inanimatum uero cum animato non conuenit, et medicus ab artifice nullo modo
separatur; fit igitur ut si, cum non est inanimatum, non sit artifex, cum sit
animatum non sit medicus. Quinta decima propositio hos terminos habere
debet, ut a quidem cum c, at uero b cum d esse non possit, b uero atque d talia
sint, ut altero eorum negato, alterum eorum esse necesse sit. Ita namque fiet
ut si, cum sit a denegatum, b negetur, cum negabitur c aflirmetur d, ut si sit
a quidem irrationabile, b sanum, c inanimatum, d aegrum. Irrationabile quidem
si non sit, non est inanimatum; sanum etiam atque aegrum simul esse non
possunt, et qui sanum negauerit aegrum necesse est affirmet, itemque e diuerso;
est igitur ut, si negato irrationabili negetur sanum, negato inanimato aegrum
ponatur. Sexta decima propositio est quae his terminis constat, ut a
quidem praeter c, at uero d praeter b esse non possit, a uero cum b et c cum d
esse nullo modo queant. Euenit igitur ut si, a quidem negato, negetur b,
denegato c terminus d abnuatur, ut si sit a inanimatum, b artifex, c inuitale,
d medicus. Inanimatum igitur praeter inuitale et medicus praeter artificem esse
non potest, inanimatum uero cum artifice et inuitale cum medico esse non
poterit: si igitur negato inanimato negetur artifex, negato inuitali negatur
medicus. Atque haec quidem ratio propositionum, quarum superius exempla
descripsimus, idcirco intellegatur assumpta ut earum natura claresceret, non
quo aliter inter se termini esse non possint. Nam, ut superius dictum est, non
sufficit quolibet modo iungere terminos, ut fiant hypotheticae propositiones ex
duabus conditionalibus coniugatae; neque enim si quis dicat: Si cum homo
est, animal est, cum dies est, lucet talem fecerit propositionem quae ex
duabus conditionalibus constet, idcirco quia prior conditio non est secundae
causa conditionis. Hoc igitur superius positarum propositionum ratio
demonstrat, quemadmodum fit ut conditionem conditio consequatur. Quae cum ita sint
de earum dicendum est syllogismis. Fit igitur ex prima propositione syllogismus
hoc modo: Si cum est a, est b, cum sit c, est d; Atqui cum sit a, est
b; Cum igitur sit c, erit d. Vel ita: Atqui cum sit c, non est
d; Cum igitur sit a, non est b. Posse uero hanc esse assumptionem superius
descripta propositionum natura demonstrat. Item ex secunda propositione: Si
cum est a, est b, cum sit c, non est d; Atqui cum sit a, est b; Cum
igitur sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum
igitur sit a, non est b. Ex tertia: Si cum sit a, est b, cum non sit
c, est d; Atqui cum sit a est b; Cum igitur non sit c, est d.
Vel ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur sit a, non est b.
Item ex quarta: Si cum sit a, est b, cum non sit c, non est d; Sed
cum sit a, est b;Cum igitur non sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum
non sit c, est d; Cum igitur sit a, non est b. Ex quinta
propositione hunt quatuor collectiones: ita namque termini proponuntur, ut
utrobique fiat rata conclusio hoc modo: Si cum est a, non est b, cum sit
c, est d; Atqui cum sit a, non est b; Cum igitur sit c, est d.
Vel ita: Atqui cum sit a, est b; Cum igitur sit c, non est d
Vel ita: Atqui cum sit c, non est d; Cum igitur sit a, est
b. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur sit a, non est
b. Ex sexta: Si cum est a, non est b, cum sit c non est d. Atqui
cum sit a, non est b; Cum igitur sit c, non est d. Vel
ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur sit a, est b. Ex septima
item fiunt quatuor syllogismi hoc modo: Si cum est a, non est b, cum non
sit c, est d; Atqui cum est a, non est b; Cum igitur non sit c, est
d. Vel ita: Atqui cum sit a, est b; Cum igitur non sit c, non est
d. Vel ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur sit a,
est b. Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur sit a,
non est b. Ex octaua propositione: Si cum est a, non est b, cum non
sit c, non est d. Atqui cum sit a,
non est b; Cum igitur non sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum
non sit c, est d; Cum igitur sit a, est b. Hactenus quidem ex his
propositionibus quae a esse proponebant, atque ita caeteros terminos affirmando
negandoque uariabant, ostendimus qui fierent syllogismi. Nunc ex his
propositionibus quinam syllogismi fiant dicendum est, quae ita caeteros
terminos uariant, ut a non esse proponant. Ex nona enim propositione ita fit
syllogismus: Si cum non est a, est b, cum sit c, est d; Atqui cum
non sit a, est b; Cum igitur sit c, est d. Vel ita: Atqui cum
sit c, non est d; Cum igitur non sit a, non est b. Item ex
decima: Si cum non est a, est b, cum sit c, non est d; Atqui cum non
est a, est b; Cum igitur sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum
sit c, est d; Cum igitur non sit a, non est b. Ex undecima: Si
cum non est a, est b, cum non sit c, est d. Atqui cum non est a, est
b; Cum igitur non sit c, est d. Vel ita: Atqui cum non sit c,
non est d; Cum igitur non sit a, non est b. Ex duodecima: Si
cum non est a, est b, cum non sit c, non est d; Atqui cum non sit a, est
b; Cum igitur non sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum non sit
c, est d; Cum igitur non sit a, non est b. Item ex tertia decima,
quae quatuor colligit syllogismos hoc modo: Si cum non est a, non est b,
cum sit c, est d; Atqui cum non sit a, non est b; Cum igitur sit c,
est d. Vel ita: Atqui cum non sit a, est b; Cum igitur sit c,
non est d. Vel ita: Atqui cum sit c, non est d; Cum igitur non
sit a, est b. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur non
sit a, non est b. Item ex quarta decima: Si cum non est a, non est b,
cum sit c, non est d; Atqui cum non est a, non est b; Cum igitur sit
c, non est d. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur non
sit a, est b. Quinta decima rursus quatuor colligit syllogismos, hoc
modo: Si cum non est a, non est b, cum non sit c, est d; Atqui cum
non sit a, non est b; Cum igitur non sit c, est d. Vel ita: Atqui
cum non est a, est b; Cum igitur non sit c, non est d. Vel
ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur non sit a, est
b. Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur non sit a,
non est b. Ex sexta decima propositione: Si cum non est a, non est b,
cum non sit c, non est d; Atqui cum non sit a, non est b; Cum igitur
non sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum
igitur non sit a, est b. Ex quibus omnibus quodraginta conclusiones fiunt:
sedecim quidem assumpta prima conditione, ita ut in prima propositione est
posita; sedecim uero assumpta secunda conditione, contrario modo atque in
propositione est collocata; octo uero ex quinta, septima, tertia decima et
quinta decima propositionibus fiunt, assumptis primis quidem conditionibus contrario
modo atque in propositione proferebantur, secundis uero conditionibus eodem
modo assumptis, ut in propositione fuerant collocatae. Ut igitur omnium
propositionum conclusionumque ratio clarescat, omnes huiusmodi enuntiationes
cum propositis apposuimus exemplis. o Si cum est a homo, est b medicus,
cum sit c animatum, est d artifex. o Si cum est a homo, est b niger, cum
sit c animatum, non est d albus. o Si cum est a animatum, est b
medicus, cum non sit c inanimatum, est d artifex. o Si cum est a homo,
est b niger, cum non sit c inanimatum, non est d albus. o Si cum est
a homo, non est b aeger, cum sit c animatum, est d sanus. o Si cum
est a homo, non est b artifex, cum sit c animatum, non est d
medicus. o Si cum est a animatum, non est b sanum, cum non sit c inanimatum, est
d aegrum. o Si cum est a animatum, non est b artifex, cum non sit c inanimatum,
non est d medicus. o Si cum non est a inanimatum, est b medicus, cum sit c
animatum, est d artifex. o Si cum non est a inanimatum, est b niger, cum
sit c animatum, non est d albus. o Si cum non est a inanimatum, est b
medicus, cum non sit c inuitale, est d artifex. o Si cum non est a
inanimatum, est b albus, cum non sit c inuitale, non est d nigrum. o
Si cum non est a irrationale, non est b aegrum, cum sit c rationale, est d sanum. o Si cum non est
a inanimatum, non est b artifex, cum sit c animatum, non est d medicus. o
Si cum non est a irrationale, non est b sanum, cum non sit inanimatum,
est d aegrum. o Si cum non est a inanimatum, non est b artifex, cum non
sit c inuitale, non est d medicus. Ac de his quidem qui per
connexionem fiunt haec dicta sunt. Hi uero qui in disiunctione sunt positi
illis uidentur adiuncti, eorumque modos formasque suscipiunt, quos superius in
connexione positos ex his propositionibus fieri diximus quae duabus simplicibus
iungerentur. Si igitur in disiunctione propositarum propositionum ad eas
similitudinem demonstrauerim quae in connexione positae ex simplicibus
copulatae sunt, quot modi qualesque conclusiones sunt in unaquaque illarum quae
per connexionem fiunt propositionum, tot etiam in his esse necesse est quae per
disionctionem pronuntiatae eamdem uim connexioni habere monstrantur. Quatuor
ergo superius differentias per connexionem enuntiatarum propositionum esse
diximus, si ex simplicibus propositionibus copularentur, hoc modo: Si est
a, est b. Si non est a, non est b. Si est a, non est b. Si non est a, est
b. Per disiunctionem quoque propositiones quatuor diderentias tenent hoc
modo: Aut a est aut b est Aut a non est aut b non est Aut a est
aut b non est. Aut a non est aut b est. Quarum quidem ea quae prima est
et proponit aut a esse aut b, in his tantum dici potest in quibus alterum eorum
esse necesse est, uelut in contrariis medietate carentibus, similisque est ei
propositioni quae dicit: Si a non est, b est. Quae enim
proponit: Aut a est aut b est id intellegit, neque simul utraque
esse posse, et, si unum non fuerit, consequi ut sit alterum. Itaque si non sit
a, erit b; sed haec una est earum propositionum quas in his quae per
connexionem fiunt superius numerauimus. Quicumque igitur syllogismi in ea
propositione fiunt, quae est: Si a non est, b est hi etiam in ea
faciendi sunt quae per disiunctionem proponitur, cum dicimus: Aut a est aut b
est. Fiunt autem in superiore quatuor modis: quamlibet enim partem
propositionis assumpseris, siue praecedentem, siue etiam consequentem, siue
negatiuo modo, siue affirmatiuo, faciet sullogismum. Nam si haec propositio
sit: Si non est a, est b siue non sit a, erit b; siue sit a, non
erit b; siue non sit b, erit a; siue sit b, non erit a. In propositione
quoque disiunctiua idem est. Nam cum dicitur: Aut a est aut b est
siquidem a fuerit, b non erit; quod si a non fuerit, erit b, et si b non sit,
erit a: si b fuerit, non erit a. Id quoque tali declaratur exemplo. Nam si sit
propositio: Aut aeger est aut sanus quidquid horum in assumptione
assumptum fuerit, uel negatum, altera pars uel affirmabitur, uel negabitur hoc
modo: nam si sanus est, non est aeger; si non est sanus, aeger est; si aeger
est, non est sanus; si non est aeger, sanus est. Item ea propositio
disiunctiua quae proponit: Aut non est a aut non est b fit quidem de
his quae quolibet modo simul esse non possunt, etiamsi non alterum eorum
necesse sit esse, similisque est ei propositioni connexae per quam ita
proponatur: Si est a, non est b. Quae enim sic enuntiat: Aut
non est a aut non est b id nimirum sentit, quod si a sit, b esse non
possit. Id ita probabitur. Cum enim proponitur hoc modo: Aut non est a aut
non est b tum si assumatur esse a, non erit b. Quocirca ei propositioni
connexae similis est quae ita enuntiat: Si sit a non esse b. In hac
uero propositione duae tantum complexiones syllogismos creabant: nam si esset
a, non erat b, et si esset b non erat a. Siue autem non esset a, non necesse
erat esse uel non esse b; siue non esset b, non necesse erat esse uel non esse
a. Quocirca et in disiunctiua propositione totidem syllogismos esse
necesse est, totidem uero incollectibiles complexiones; nam cum ita
proponitur: Aut non est a aut non est b ita dicitur: Si sit a,
non erit b et si sit b, non erit a. Siue autem non sit a, non necesse
erit esse uel non esse b; siue non sit b, non necesse erit esse uel non esse a,
ueluti in his apparet exemplis. Si enim quis dicat: Aut non est album
aut non est nigrum si igitur assumat: Atqui est album non erit
nigrum; uel rursus: Atqui est nigrum non erit album. Siue autem
album non esse assumpserit, non necesse erit esse uel non esse nigrum; siue
nigrum non esse assumpserit, ut sit uel non sit album nullam faciet
necessitatem. Item ea propositio per quam ita proponitur: Aut est a aut
non est b dicitur quidem de sibimet adhaerentibus, proponiturque in his
propositionibus quae ad minora de maioribus tendunt, similisque est ei
propositioni connexae quae enuntiat: Si non est a, non est b. Nam qui
dicit: Aut est a aut non est b si assumat: Atqui non est
a modis omnibus non erit b; si igitur non sit a, non erit b. Id enim haec
disiunctio praemittebat. In hac uero siquidem a negaretur, uel confirmaretur b,
habet aliquis syllogismus; siue autem a affirmaretur, siue b negaretur, nulla
erat in conclusione necessitas. Idem prouenit in disiunctis: nam cum
proponitur: Aut est a aut non est b siquidem non sit a, non erit b;
si uero sit b, erit a: quod si sit a, uel non sit b, nihil est
necessarium. Id uero in his terminis approbatur, si quis ita
proponat: Aut animal est aut non est homo si igitur animal non sit,
non est homo; si homo sit, animal est; siue autem animal sit, non necesse est
esse hominem, siue homo non sit, animal non necesse est interire. Ea uero
propositio quae dicit: Aut non est a aut est b in his quae
sibi adhaerent proponi potest, et a minoribus ad maiora contendit sed est
similis ei propositioni connexae quae dicit: si est a, est b. Nam
cum ita quis enuntiat, siquidem assumat esse a, statim consequitur ut sit b;
sed in hac propositione, siquidem affirmaretur esse a, sequebatur ut esset
b. Quod si negaretur b, sequebatur ut non esset a; siue autem negaretur a,
siue affirmaretur b, nihil necessarium uidebatur accidere. Et in ea igitur
propositione disiuncta quae dicit: Aut non est a aut est b siquidem
fuerit a, erit b; si non fuerit b, non erit a: siue autem non sit a, siue sit
b, nulla est necessitas syllogismi, ut in hoc declaratur exemplo: Aut non
est homo aut animal est. Si igitur assumamus: Atqui est homo
erit animal; si negemus esse animal, non erit homo; si autem hominem negemus,
uel animal affirmemus, nihil necessarium cadit. Quocirca ex his quae superius
dicta sunt declaratur quot disiunctarum propositionum syllogismi sint, uel
quibus ab his quae connexae sunt differentiis segregentur. Quae enim connexae
sunt quandam in eo quod est esse uel non esse consequentiam monstrant; quae
uero secundum disiunctionem proponuntur ita sunt, ut sibimet consentire non
possint. Inuenias quoque per connexionem propositiones, quae id intellegi
uelint, ut a se nequeant separari, ut cum ita proponimus: Si est a, est
b. Id nimirum haec propositio intellegit, quod si esse in disiunctione
sunt ita proponitur, ut simul esse uideantur. Cum enim dicimus: Aut a est
aut b est aut easdem propositiones quolibet modo alio uariamus, id et
coniunctio quae disiunctiua ponitur sentit simul eas esse non posse. Et cum
late earum pateat differentia, idcirco nunc de eisdem pauca subiunximus,
quoniam totidem syllogismos fieri dicebamus in his propositionibus quae per
disiunctionem fierent, quot etiam fuerant /390/ in connexis; et quoniam de
omnibus qui quoquo modo fieri possunt hypotheticis syllogismis sufficienter
dictum est, hic operis longitudinem terminemus. Quam magnos studiosis
afferat fructus scientia dividendi quamque apud peripateticam disciplinam
semper haec fuerit in honore notitia, docet et Andronici, diligentissimi senis
de divisione liber editus[;]et hic idem a Plotino gravissimo philosopho comprobatus
et in libri Platonis, qui Sophistes inscribitur commentariis a Porphyrio
repetitus, et ab eodem per hanc introductionis laudata in Categorias utilitas.
Dicit enim necessarium fore generis, speciei, differentiae, proprii,
accidentisque peritiam, tum propter alia multa tum propter utilitatem quae est
maxima partiendi. Quare, quoniam maximus usus est facillimaque doctrina, ego id
quoque sicut pleraque omnia Romanis auribus tradens, introductionis modo
habitaque in eandem rem et competenti subtilique tractatione et moderata
brevitate perscripsi, ut nec anxietas decisae orationis et non perfectae
sententiae legentium ƿ mentibus ingeratur; nec pPomba supervacuam loquacitatem
harum rerum inexperiens, rudis, insolensque novi audientium mentes habere
aequum, nec ullus livor id quod et arduum natura est et ignotum nostris, nobis
autem magno et labore et legentium utilitate digestum, obliquis morsibus
obtrectationis obfuscet, denique potius viam studiis, nunc ignoscendo nunc
etiam comprobando, quam frena bonis artibus stringant, dum quicquid novum est
imprudenti obstinatione repudiant. Quis enim non videat plurimum ad bonarum
artium valere defectum si apud mentes hominum numquam sit desperatio
displicendi? Sed haec hactenus. Nunc divisionis ipsius nomen dividendum est et
secundum unumquodque divisionis vocabulum uniuscuiusque propositi proprietas
partesque tractandae sunt, divisio namque multis modis dicitur. Est enim
divisio generis in species, est rursus divisio cum totum in proprias
distribuitur partes, est alia cum vox multa significans in significationes
proprias recipit sectionem. Praeter has autem tres est alia divisio quae
secundum accidens fieri dicitur. Huius triplex modus est: unus cum subiectum in
accidentia separamus, alius cum accidens in subiecta dividimus, tertius cum
accidens in accidentia secamus (hoc ita fit si utraque eidem subiecto inesse
videantur). Sed harum omnium exempla subdenda sunt quatenus totius huius ratio divisionis
eluceat. Genus dividimus in species cum dicimus "animalium alia sunt
rationabilia, alia irrationabilia; rationabilium alia mortalia, alia
immortalia" vel cum dicimus "coloris alia quidem sunt alba, alia
nigra, alia media". Oportet autem omnem generis in species divisionem aut
in duas fieri partes aut in plures, sed neque infinitae species esse possunt
generis nec minus duabus. Hoc autem cur eveniat posterius demonstrandum est. Totum
in partes divididur quotiens in ea ex quibus est compositum unumquodque
resolvimus, ut cum dico domus aliud esse tectum, aliud parietes, aliud
fundamenta, et hominem anima coniungi et corpore, cumque hominis dicimus partes
esse Catonem, Virgilium, Ciceronem et singulos qui, cum particulares sint, vim
tamen totius hominis iungunt atque componunt; neque enim homo genus, nec
singuli homines species, sed partes quibus totus homo coniungitur. Vocis autem
in significationes proprias divisio fit quotiens una vox multa significans
aperitur et eius pluralitas significationis ostenditur, ut cum dico
"canis" quod est nomen et hunc quadrupedem latrantemque designat et
caelestum qui ad Orionis pedem morbidum micat; est quoque alius, marinus canis,
qui in immoderatam corporis magnitudinem crescens caeruleus appellatur. Sed
huius divisionis duplex modus est, aut enim unum nomen multa significat aut
oratio iam verbis nominibusque composita. Et nomen quidem multa significat ut
id quod supra proposui, oratio vero multa designat ut est: Aio te, Aeacida,
Romanos vincere posse. Et nominis quidem per significationes proprias divisio
aequivocationis partitio nuncupatur, orationis vero in significationes proprias
distributio ambiguitatis discretio est, quam Graeci amphiboliam dicunt, ita ut
nomen multa significans aequivocum, oratio vero multa designans amphibola atque
ambigua praedicetur. Eorum autem quae secundum accidens dividuntur subiecti in
accidentia divisio est ut cum dicimus "omnium hominum alii sunt nigri,
alii candidi, alii medii coloris", haec enim accidentia sunt hominibus,
non hominum species, et homo his subiectum, non horum genus est. Accidentis
vero in subiecta sectio evenit ut est "omnium quae expetuntur alia in
anima, alia in corporibus sita sunt", animae namque atque corpori id quod
expetitur accidens, non genus, est, et boni quod in anima et corpore situm est
non sunt haec species sed subiecta. Accidentis vero in accidentia divisio est
ut "omnium candidorum alia sunt dura", ut margarita, "alia
liquentia", ut lac, liquor namque et albedo atque durities haec sunt
accidentia, sed album in dura et liquida separatum est. Cum ergo sic dicimus,
accidens in alia accidentia separamus. Sed huiusmodi divisio vicissim semper in
alterutra permutatur, possumus enim dicere "eorum quae dura sunt alia sunt
nigra, alia alba" et rursus "eorum quae liquida alia sunt alba, alia
nigra"; sed haec rursus conversa dividimus: "eorum quae sunt nigra
alia sunt dura, alia liquentia". Differt autem huiusmodi divisio omnibus
quae supra sunt dictae, nam neque significationem partiri possumus in voces,
cum vox in significationes proprias discernatur, nec partes in totum
dividuntur, quamvis totum separetur in partes, nec species secatur in genera,
licet genus in species dividatur. Quod vero superius dictum est, hanc
divisionem ita fieri si utraque eidem contingerent inesse subiecto, si
attentius perspicitur liquet, nam cum dicimus eorum quae dura sunt alia esse
alba, alia nigra, ut est lapis atque hebenum, manifestum est hebeno utraque
inesse, et duritiem scilicet et nigredinem. In caeteris quoque id diligens
lector inveniet. Quibus autem summa operatio veritatis inquiritur, his prius
intelligendum est quae sit horum omnium simul proprietas quibusque inter se
singillatim differentiis segregentur. Omnis enim vocis et generis totiusque
divisio secundum se divisio nuncupatur, reliquae vero tres in accidentis
distributione ponuntur. Secundum se autem divisionis huiusmodi differentia est.
Differt enim divisio generis a vocis divisione quod vox quidem in proprias
semper significationes separatur, ƿ genus non in significationes sed in quadam
a se quodammodo creatione disiungitur, et genus semper speciei propriae totum
est et universalius in natura, aequivocatio vero universalior quidem
significata re dicitur, tantum voce non etiam totum est in natura. Illo quoque
a vocis distributione dividitur, quod nihil habent commune praeter solum nomen
quae sub ea voce sunt, quae vero sub genere collocantur et nomen generis et
definitionem suscipiunt. Amplius quoque non eadem apud omnes vocis est
distributio: quod apud nos dicitur canis cum eius multae significationes in
lingua Romana sint simpliciter fortasse praedicatur in barbara, cum ea quae
apud nos uno nomine nuncupantur illi pluribus fortasse significent. Generis
vero apud omnes eadem divisio distributioque permanet, unde fit ut vocis quidem
divisio ad positionem consuetudinemque pertineat, generis ad naturam, nam quod
apud omnes idem est natura est, consuetudinis vero est quod apud aliquos
permutatur. Et hae quidem sunt differentiae generis distributionis et vocis. Generis
quoque sectio totius distributione seiungitur quod totius divisio secundum
quantitatem fit, partes enim totam substantiam coniungentes actu aut ratione
animi et cogitatione separantur, generis vero distributio qualitate perficitur.
Nam cum hominem sub animali locavero tunc qualitate divisio facta est, quale
namque animal est homo idcirco quoniam quadam qualitate formatur, unde quale
sit animal homo interrogatus aut "rationale" respondebit aut certe
"mortale". Amplius {quoque} genus omne naturaliter prius est propriis
speciebus, totum autem partibus propriis posterius; partes sunt quae totum
iungunt, compositi sui perfectionem alias natura tantum, alias ratione quoque
temporis antecedunt, unde fit ut genus in posteriora, totum vero in priora
solvamus. Hinc quoque illud vere dicitur: si genus interimatur statim species
deperire, si species ƿ interempta sit non peremptum genus in natura consistere.
Contra evenit in toto, nam si pars totius perit totum non erit, cuius pars una
sit interempta; sin totum pereat partes permanent distributae, ut si de integra
domo quis abstulerit tectum, totum quod ante fuit intercipit, sed pereunte toto
parietes et fundamenta constabunt. Amplius quoque genus speciebus materia est,
nam sicut aes accepta forma transit in statuam ita genus accepta differentia
transit in speciem; totius vero partium multitudo materia est, forma vero
earundem partium compositio. Nam sicut species ex genere constat et
differentia, ita totum constat ex partibus, unde fit ut totum ab unaquaque
parte sua partium ipsarum compositione differat, species vero a genere
differentiae coniunctione. Amplius quoque species idem semper quod genus est,
ut homo idem est quod animal et virtus idem est quod habitus, partes vero non
semper idem quod totum, neque enim manus idem est quod homo nec idem paries
quod domus. Et in his quidem quae dissimiles partes habent hoc clarum est, sed
non eodem modo in his quae similes, ut in aeris virgula cuius partes, quia sunt
continuae quia eiusdem sunt aeris, videntur idem esse quod totum est, sed falso;
fortasse enim idem sint partes huiusmodi substantia, non etiam quantitate. Restat
autem vocis et totius distributionis differentias dare. Differunt autem quod
totum quidem constat partibus, vox vero non constat ex his quae significat; et
fit totius quidem divisio in partes, vocis autem fit non in partes sed in eas
res quas vox ipsa significat, unde fit ut sublata parte una totum pereat,
sublata una re quam vox significat multa designans vox illa permaneat. Nunc
ergo quoniam secundum se divisionis differentiae dictae sunt generis
distributio pertractetur. Primum quid genus sit definiendum est: genus est quod
de pluribus specie differentibus in eo quod ƿ quid sit praedicatur, species
vero est quam sub genere collocamus, differentia qua aliud ab alio distare
proponimus. Et est quidem genus quod interroganti quid quaeque res sit convenit
responderi, differentia quae ad qualis percontationem rectissime respondetur;
nam cum quis interrogatur "Quid est homo?" recte "Animal",
"Qualis est homo?" convenienter "Rationabilis",
respondetur. Dividitur autem genus alias in species, alias in differentias si
species quibus genus oportet dividi nominibus carent, ut cum dico
"animalium alia rationabilia sunt, alia irrationabilia" rationabile
et irrationabile differentiae sunt. Sed quoniam speciei huius quae est animal
rationabile nomen unum non est, idcirco pro specie differentiam ponimus eamque
superiori generi copulamus, omnis enim differentia in genus proprium veniens
speciem facit, unde fit ut materia quaedam genus sit, forma differentia, cum
autem propriis nominibus species appellantur, non in differentias generis fit
recta divisio. Unde est ut ex pluribus terminis definitio colligatur. Si enim
omnes species suis nominibus appellarentur ex duobus solis terminis omnis
fieret definitio; ut cum dico "Quid est homo?" quid mihi necesse
esset dicere "Animal rationale mortale" si animal rationale esset
nomine proprio nuncupatum, quod cum reliqua differentia, id est mortali,
iunctum definitionem hominis verissima ratione et integra conclusione
perficeret? Nunc autem ad definitiones integras specierum divisio necessaria
est et forte in eodem divisionis definitionisque ratio versetur, nam
divisionibus iunctis una componitur definitio. Sed quoniam alia sunt aequivoca,
alia univoca, et quae sunt univoca ipsa in generum suscipimus sectiones, quae
vero sunt aequivoca in his divisio sola significationis est, videndum prius est
quid sit univocum quid aequivocum ne, cum ista fefellerint, aequivocum nomen
quasi in species ita in significativas ƿ resolvamus. Unde fit ut rursus ad
divisionem necessaria sit definitio, quid enim sit aequivocum quid univocum
definitione colligimus. Sunt autem differentiae aliae per se, aliae vero per
accidens, et harum aliae sunt consequentes, aliae statim relinquentes. Statim
relinquentes sunt huiusmodi, dormire vel sedere vel stare vel vigilare,
consequentes vero ut capilli crispi (si non amissi sint) et glauci oculi (si
non sint quadam extrinsecus debilitate turbati). Sed haec ad generis divisionem
sumenda non sunt, neque enim ad definitionem sunt commoda; omne enim quicquid
ad divisionem generis aptum est idem ad definitiones rectissime congregamus,
illa vero quae per se sunt sola ad divisionem generis apta sunt, haec autem
informant perficiuntque uniuscuiusque substantiam, ut hominis rationabilitas et
mortalitas. Sed has quemadmodum probare possimus utrum ex eo sint genere statim
relinquentium an consequentium an in substantia permanentium hoc modo mihi
videndum est, neque enim sufficit scire quas in divisione sumamus nisi illud
quoque sit cognitum, quemadmodum easdem ipsas quae sumendae et quae reiciendae
sunt rectissime cognoscamus. Videndum ergo primum est utrum proposita
differentia omni possit et semper inesse subiecto; quod si ipsa vel actu vel ratione
seiungitur, haec a divisione generis separanda est. Si enim saepe et actu et
ratione seiungitur, ex eorum est genere quae statim relinquunt, ut sedere
quidem frequentius separatur et actu ipso a subiecto dividitur. Quae vero
ratione sola a subiecto dividuntur ea sunt consequentium differentiarum, ut
glaucis oculis esse a subiecto ratione seiungimus, ut cum dico "Est animal
luminibus glaucis, ut quilibet homo", quod si hic non esset huiusmodi non
eum ƿ res aliqua esse hominem prohiberet. Aliud rursus est quod ratione
separari non possit, quod si separatum sit species interimatur, ut cum dicimus
inesse homini ut solus numerare possit vel geometriam discere. Quod si haec
possibilitas ab homine seiungatur, homo ipse non permanet; sed haec non statim
earum sunt quae in substantia insunt, nam non idcirco homo est quoniam haec
facere potest, sed quoniam rationalis est atque mortalis. Hae igitur
differentiae propter quas species consistit ipsae et in definitione speciei et
in generis eius divisione quod continet speciem collocantur. Et universaliter
dicendum est, quaecumque differentiae huiusmodi sunt ut non modo praeter eas
species esse non possit sed propter eas solas sit, hae vel in divisione generis
vel in speciei definitione sumendae sunt. Quoniam vero quaedam sunt quae
differunt quae contra se in divisionibus poni non debent, ut in animali
rationale et bipes (nullus enim dicit "Animalium alia sunt rationabilia,
alia duos pedes habentia" idcirco quod rationale et bipes, licet differant,
nulla a se oppositione disiunguntur), constat quaecumque a se aliqua
oppositione differunt eas solas differentias sub genere positas genus ipsum
posse disiungere. Sunt autem oppositiones quatuor: aut ut contraria, ut bonum
malo, aut ut habitus et privatio, ut visus et caecitas, quamquam sint et
quaedam res in quibus discernere difficultas sit utrum in contrariis an in
privatione vel habitu ea oporteat collocari, ut sunt motus quies, sanitas
aegritudo, vigilatio somnus, lux tenebrae -- sed haec alias, nunc autem de
reliquis oppositionibus dicendum est. Tertia oppositio est quae est secundum
affirmationem et negationem, ut: “Socrates vivit”, “Socrates non vivit.” Quarta
secundum relationem, ut pater filius, dominus servus. Secundum quas igitur
harum quattuor oppositionum ƿ divisio generis sit rectissima ratione
monstrandum est, manifestum est enim et oppositiones esse quattuor et species
et genera per opposita separari. Nunc ergo dicendum est secundum quam
oppositionem harum quattuor vel quemadmodum species a genere disiungi conveniat.
Et prima quidem sit contradictionis oppositio, voco autem contradictionis
oppositionem quae affirmatione et negatione proponitur. In hac igitur negatio
per se nullam speciem facit, nam cum dico "homo" vel
"equus", et aliquid huiusmodi, species sunt, quicquid autem quis in
negatione protulerit speciem non declarat, non esse enim hominem non est
species. Omnis enim species esse constituit, negatio vero quicquid proponit ab
eo quod est esse disiungit, ut cum dico "homo" quasi si sit quiddam
locutus sum, cum vero "non homo" substantiam hominis negatione
destruxi. Sic igitur per se caret divisio generis in species negatione. Necesse
est autem saepe speciem negatione componere cum ea quam simplici nomine speciem
volumus assignare nullo vocabulo nuncupatur, ut cum dico "Imparium
numerorum alii primi", ut tres, quinque, vel septem, "alii non
primi", ut novem, et rursus "Figurarum aliae sunt rectilineae, aliae
non rectilineae" et "Colorum alii sunt albi, alii nigri, alii nec
albi nec nigri". Ergo quando nomen unum speciebus positum non est, eas
negatione proferre necesse est. Hoc igitur cogit interdum necessitas, non
natura. In eodem quoque quotiens negatione facimus sectionem prius aut
affirmatio aut simplex dicendum est nomen, ut est "Numerorum alii sunt
primi, alii non primi", nam si prius negatio dicta sit, tardior fit rei
quam proponimus intellectus. Nam cum primum dicis esse aliquos numeros primos,
cum quales sint primi exemplo vel definitione docueris, quales non sint primi
mox auditor intelliget. Sin vero e contrario feceris, aut neutra subito aut
tardius utraque cognoscet, divisio vero quae propter apertissimam generis
naturam reperta est debet potius ad intelligibiliora deducere. Amplius quoque
prior affirmatio est, posterior negatio, quod autem primum ƿ est in divisione
quoque oportet primitus ordinari. Necesse est quoque semper finita infinitis
esse priora, ut aequale inaequali, virtutem vitiis, certum incerto, stabile
fixumque mutabili. Sed omnia quae aut definita parte orationis aut affirmatione
proferuntur plus finita sunt quam aut nomen cum particula negativa aut tota
negatio, quare finito potius quam infinito est facienda divisio. Sed si cui per
haec quaedam paratur anxietas aut obscuriora sunt fortasse quam ipse desiderat,
nihil ad me cognitionem facilem pollicentem, neque enim rudibus haec totius
artis sed imbutis et ulteriore paene loco progressis legenda et discenda
proponimus. Qui vero huius operis ordo sit cum De ordine Peripateticae
disciplinae mihi dicendum esset diligenter exposui. Haec quidem dicta sunt de
oppositione quam affirmatio negatioque constituit, illa vero quae secundum
habitum privationemque fit ipsa quoque superiori videtur esse consimilis. Negat
enim quodammodo privatio habitum, sed differt quod semper quidem potest esse
negatio, privatio vero non semper, sed tunc quando habitum habere possibile est
(hoc vero nos iam Praedicamenta docuerunt). Quare forma quaedam intelligitur
esse privatio, non enim tantum privat sed etiam circa se ipsam privatum quemque
disponit. Neque enim solum oculum caecitas privat lumine sed ipsa quoque
secundum se privatum luce disponit, caecus enim dicitur ad privationem
quodammodo quasi dispositus et affectus (hoc quoque Aristoteles testatur, in
Physicis). Unde fit ut privationis differentia ad generum divisionem frequenter
utamur. Sed hic quoque eodem modo sicut in contradictione faciendum est, prius
enim ponendus est habitus, qui est affirmationi consimilis, post privatio, quae
negationi. Aliquotiens tamen privationes quaedam habitus vocabulo proferuntur,
ut "orbus", "caecus", "uiduus", aliquotiens cum
particula privationis, ut cum dicimus "finitum" et
"infinitum", "aequum" et "inaequale", sed in his
"aequum" et "finitum" in divisione prima ponenda sunt,
privationes secundae. Ac de oppositione quidem privationis et habitus haec
dicta sufficiant. Contrariorum vero oppositio dubitatur fortasse an secundum ƿ
privationem et habitum esse videatur, ut album et nigrum, an album quidem
privatio nigri sit, nigrum vero albi -- sed haec alias, nunc autem ita
tractandum est tamquam si sit aliud oppositionis genus, sicut est in
Praedicamentis ab ipso quoque Aristotele dispositum. In contrariis autem
generum multa divisio est, fere enim cunctas differentias in contraria ducimus,
sed quoniam contraria sunt alia medio carentia, alia mediata, ita quoque
divisio facienda est, ut "Colorum alia sunt alba, alia nigra, alia
neutra". Fieret autem omnis definitio omnisque divisio duobus terminis
praedicatis nisi, ut supra iam dictum est, indigentia (quae saepe existit) in
nomine prohiberet. Quo autem modo utraeque duobus terminis fierent erit
manifestum hoc modo. Cum enim dico "Animalium alia sunt rationabilia, alia
irrationabilia" animal rationale ad hominis definitionem contendit, sed
quoniam animalis rationalis unum nomen non est ponamus ei nomen a litteram:
"rursus a litterae", quod est animal rationale, "alia sunt
mortalia, alia immortalia". Volentes igitur definitionem hominis reddere
dicemus: “Homo est a littera mortalis” nam si hominis definitio est animal
rationale mortale, animal vero rationale per a litteram significatur, idem
sentit "a mortale" tanquam si diceretur "animal rationale
mortale", a enim, ut dictum est, animal rationale significat. Sic ergo a
littera et mortali, duobus terminis, facta definitio est; quod si reperirentur
in omnibus quoque nomina, duobus semper terminis tota definitio constitueretur.
Divisio vero nominibus positis quoniam semper in duos terminos secatur
manifestum est si quis generi et differentiae cum deest nomen imponat, ut cum
dicimus: "Figurarum quae sunt trilaterae aliae sunt aequilaterae, aliae
duo latera habentes aequa, aliae totae inaequales". Trina igitur ista
divisio si sic proferretur fieret duplex: "Figurarum quae trilaterae ƿ
sunt aliae sunt aequales, aliae inaequales; inaequalium aliae sunt duo latera
tantum aequa habentes, aliae tria inaequalia", id est omnia; et cum
dicimus "Rerum omnium alia sunt bona, alia mala, alia indifferentia",
quae nec bona scilicet nec mala, si ita diceretur gemina divisio proveniret:
"Rerum omnium alia sunt differentia, alia indifferentia; differentium alia
sunt bona, alia mala". Ita ergo divisio omnis in gemina secaretur si
speciebus et differentiis vocabula non deessent. Quartam vero oppositionem
diximus quae est secundum ad aliquid, ut pater filius, dominus servus, duplex
medium, sensibile sensus. Haec igitur nullam habent substantialem differentiam
qua a se discrepent, immo potius habent huiusmodi cognationem qua ad se inuicem
referantur ac sine se esse non possint. Non est ergo generis in relativas
partes facienda divisio, sed tota huiusmodi sectio a genere separanda est,
neque enim hominis species est servus aut dominus nec numeri medium aut duplum.
Cum igitur quattuor sint differentiae, affirmationis et negationis si non
necesse est semper tamen relationis reicienda divisio est, privationis et
habitus et contrariorum sumendae. Maxime autem contrarietas in differentiis
ponenda est nec non etiam privatio, idcirco quoniam contra habitum quiddam
contrarium videtur apponere, ut est finitum et intinitum; quanquam enim sit
privatio, infinitum tamen contrarii imaginatione formatur, est quaedam namque,
ut dictum est, forma. Dignum vero inquisitu est utrum in species an in
differentias recte genera dividantur, definitio namque divisionis est generis
in species proximas distributio. Oportet igitur secundum naturam divisionis et
secundum definitionem in proprias species semper fieri generis disgregationem
(sed hoc interdum fieri nequit propter eam quam supra reddidimus causam, multis
enim speciebus non sunt nomina) atque ideo, quoniam quaedam sunt prima genera,
quaedam ultima, quaedam media: primum quidem ut substantia, ultimum ut animal,
medium ƿ ut corpus, corpus namque animalis genus est, substantia corporis, sed
neque super substantiam quicquam inveniri potest quod generis loco valeat
collocari neque sub animali, homo namque species, non genus, est. Quare
antiquior videbitur speciei divisio si non sit indigentia nominum, quod si his
omnibus non abundamus, prima genera usque ad ultima convenit in differentias
separare. Hoc autem fit hoc modo, ut primum genus in suas differentias
disgregemus non in posteriores, et posterius rursus in suas sed non in
posteriores. Neque enim eaedem sunt differentiae corporis quae animalis, si
quis enim dicat "Substantiae aliud est corporale, aliud incorporale"
recte divisionem fecerit, hae namque differentiae propriae substantiae sunt; si
quis vero sic, "Substantiarum alia sunt animata, alia inanimata", hic
non recte substantiae differentias disgregavit, corporis namque differentiae
sunt, non substantiae, id est secundi generis non primi. Quare manifestum est
secundum proprias differentias, non secundum posterioris generis, priorum generum
divisionem esse faciendam. Quotiens autem genus aut in differentias aut in
species solvitur, post divisionem factam mox definitiones aut exempla subdenda
sunt, sed si quis definitionibus non abundet satis est exempla subicere, ut cum
dicimus "Corporum alia sunt animata" subiciamus "ut homines vel
ferae; alia inanimata, ut lapides". Oportet autem divisionem quoque, sicut
terminum neque diminutam esse, neque superfluam, nam neque plures species quam
sub genere sunt oportet apponi nec pauciores, ut in se ipsa divisio sicut
terminus convertatur. Convertitur enim terminus sic: "Virtus est mentis
habitus optimus", rursus "Habitus mentis optimus virtus est".
Sic etiam divisio: "Omne genus aliquid eorum erit quae sunt species",
rursus "quaelibet species proprium genus est". Fit autem generis
eiusdem multipliciter divisio, ut omnium corporum et quaecumque alicuius sunt
magnitudinis. Sicut enim circulum in semicirculos et in eos quos Graeci
*tomeas* vocant (nos divisiones possumus dicere) distribuimus, et tetragonum
alias ducto per angulum ƿ diametro in triangula, alias in parallelogrammata,
alias in tetragona separamus, ita quoque genus, ut cum dicimus "Numerorum
alii sunt pares, alii impares" et rursus "alii primi, alii non
primi", et "Triangulorum alia sunt aequilatera, alia duo sola latera
aequa habentia, alia totis inaequalia lateribus" et rursus
"Triangulorum alia sunt rectiangula, alia acutos habentia tres angulos,
alia obtusum". Sic igitur generis unius fit divisio multiplex. Illud autem
scire perutile est, quoniam genus una quodammodo multarum specierum similitudo
est quae earum omnium substantialem convenientiam monstret, atque ideo
collectivum plurimarum specierum genus est, disiunctivae vero unius generis
species. Quae quoniam differentiis informantur, ut dictum est, idcirco sub uno
genere minus duabus speciebus esse non possunt, omnis enim differentia in
discrepantium pluralitate constat. Sed de divisione generis et speciei perplura
dicta sunt. Hanc igitur insistentibus viam promptior per divisionem generis ad
speciei definitionem facultas aperitur, oportet autem non solum quas ad
definitionem sumamus differentias addiscere, sed ipsius quoque definitionis
artem diligentissima cognitione complecti. Et illud quidem, an ulla possit
definitio demonstrari et quemadmodum per demonstrationem valeat inveniri, et
quaecumque de ea subtilius in postremis Analyticis ab Aristotele tractata sunt,
praetermittam, solam tantum exsequar regulam definiendi. Rerum enim aliae sunt
superiores, aliae inferiores, aliae mediae. Superiores quidem definitio nulla
complectitur idcirco quod earum superiora genera inveniri non possunt; porro
autem inferiores, quae sunt individua, specificis differentiis carent, quocirca
ipsae quoque a definitione seclusae sunt; mediae igitur quae et habent genera
et de aliis vel ƿ de generibus vel de speciebus vel individuis praedicantur sub
definitionem cadere possunt. Data igitur huiusmodi specie quae et genus habeat
et de posteriori praedicetur, primo eius sumo genus et illius generis
diffferentias divido; et adiungo differentiam generi, et video num illa
differentia iuncta cum genere aequalis possit esse cum ea specie quam
circumscribendam definitione suscepi. Quod si minor fuerit species, illam
differentiam rursus quam dudum cum genere posueramus quasi genus ponimus eamque
in alias suas differentias separamus, et rursus has duas differentias superiori
generi coniungimus, et, si aequavit speciem, definitio speciei esse dicetur,
sin minus, secundam differentiam rursus in alia separamus. Quas omnes
coniungimus cum genere et rursus speculamur si omnes differentiae cum genere
illi aequales sunt speciei quae definitur. Et postremo totiens differentias
differentiis distribuimus usque dum omnes iunctae generi speciem aequali
definitione describant. Huius autem rei clariorem facient exempla notitiam hoc
modo. Sit nobis propositum quod definire velimus "nomen". Vocabulum
ergo nominis de pluribus nominibus praedicatur et est quodammodo species sub se
continens individua. Definio ergo nomen sic. Sumo eius genus quod est vox et
divido: "Vocum aliae sunt significativae, aliae vero minime". Vox
autem non significativa nihil ad nomen, etenim nomen significat; sumo ergo
differentiam quae est significativa et iungo cum genere, id est cum voce, et
facio "uox significativa" et tunc respicio utrum genus hoc et differentia
nomini sint aequalia. Sed nondum aequalia sunt, potest enim et vox
significativa esse et nomen non esse, sunt enim quaedam voces quae dolorem
designant, aliae quae animi passiones naturaliter quae nomina non sunt, ut
interiectiones. Rursus ipsam vocum significantiam in alias differentias divido:
"Vocum significativarum aliae sunt secundum positionem, aliae ƿ sunt
naturaliter", et vox quidem significans naturaliter nihil ad nomen, vox
vero significans positione hominum nomini congruit. Quocirca duas has
differentias significativam et secundum positionem, iungo cum voce, id est cum
genere, et dico: "Nomen est vox significativa secundum placitum". Sed
rursus mihi non aequatur ad nomen, sunt namque et verba voces significativae et
secundum positionem; non igitur solius nominis definitio est. Distribuo iterum
differentiam quae est secundum positionem et dico "Secundum positionem
vocum significativarum aliae sunt cum tempore, aliae sine tempore", et
differentia quidem cum tempore nomini non iungitur idcirco quod verborum est
consignificare tempora, nominum vero minime; restat ergo ut congruat illa
differentia quae est sine tempore. Iungo igitur has tres differentias generi et
dico: "Nomen est vox significativa ad placitum sine tempore". Sed
rursus mihi non plena conclusio definitionis occurrit, potest enim vox et
significativa et secundum positionem et sine tempore esse et nomen non esse
unum sed nomina iuncta, quae est oratio, ut: “Socrates cum Platone et
discipulis”, sed quamquam imperfecta quidem haec sit oratio, tamen est oratio.
Quocirca ultima differentia quae est sine tempore aliis item differentiis
dividenda est, et dicemus: "Vocum significativarum secundum positionem
sine tempore aliae sunt quarum pars extra aliquid significat", hoc
pertinet ad orationem, "aliae quarum pars extra nihil significat",
hoc pertinet ad nomen, nominis enim pars nihil extra designat. Fit ergo
definitio sic: "Nomen est vox significativa secundum placitum sine
tempore, cuius nulla pars extra significativa est separata". Videsne
igitur quam recta definitio constituta sit? Nam quod dixi "uocem" a
caeteris sonis nomen disiunxi, quod "significativam" apposui nomen a
non significativis vocibus separavi, quod "secundum placitum" et
"sine tempore" a naturaliter significantibus vocibus et a verbis
proprietas nominis distributa est, quod eius partes extra nihil significare
proposui ab oratione distinxi, cuius partes aliquid separatae extra
significant. Unde fit ut quodcumque nomen fuerit illa definitione claudatur et
ubicumque haec ratio definitionis aptabitur illud nomen esse non dubitem. Illud
quoque dicendum est, quod genus in divisione totum est, in definitione pars, et
sic est definitio quasi quaedam partes totum coniungant, sic est divisio quasi
totum solvatur in partes, et est similis divisio generis totius divisioni,
definitio totius compositioni. Namque in divisione generis animal totum est
hominis, intra se enim complectitur hominem, in definitione vero pars est,
specie namque genus cum aliis differentiis iunctum componit, ut cum dico
"Animalium alia sunt rationabilia, alia irrationabilia" et rursus
"Rationabilium alia sunt mortalia, alia immortalia", animal
rationalis totum est et rursus rationale mortalis, et haec tria hominis. Si
vero in definitione dicam: “Homo est animal rationale mortale”tria haec unum
hominem iungunt, quocirca pars ipsius et genus et differentia reperitur. Sic
igitur in divisione genus totum est, species pars, eodem quoque modo
differentiae totum, partes in quas illae dividuntur. In definitione vero et
genus et differentiae partes sunt, definita vero species totum. Sed haec
hactenus. Nunc de ea divisione dicemus quae est totius in partes, haec enim
erat secunda divisio post generis divisionem. Quod enim dicimus totum
multipliciter significamus: totum namque est quod continuum est, ut corpus vel
linea vel aliquid huiusmodi; dicimus quoque totum quod continuum non est, ut
totum gregem vel totum populum vel totum exercitum; dicimus quoque totum quod
universale est, ut hominem vel equum, hi enim toti sunt suarum partium, id est
hominum vel equorum, unde et particularem unumquemque hominem dicimus; dicitur
quoque totum quod ex quibusdam virtutibus constat, ut animae alia potentia est
sapiendi, alia sentiendi, alia uegetandi. Tot igitur modis cum totum dicatur,
facienda totius divisio est - primo quidem, si continuum fuerit, in eas partes
ex quibus ipsum ƿ totum constare perspicitur, aliter enim divisio non fit.
Hominis enim corpus in partes suas divideres, in caput, manus, thoracem, pedes,
et si quo alio modo secundum proprias partes fit recta divisio. Quorum autem
multiplex est compositio multiplex etiam divisio, ut animal separatur quidem in
partes eas quae sibi similes habent partes, in carnes, et ossa, rursus in eas
quae sibi similes non habent partes, in manus, in pedes, eodem quoque modo et
navis et domus. Librum quoque in versus atque hos in sermones, hos autem in
syllabas, syllabas in litteras solvimus, ita fit ut litterae et syllabae et
nomina et versus partes quaedam totius libri esse videantur, alio tamen modo
acceptae non partes totius sed partes partium sint. Oportet autem non omnia
speculari quasi actu dividantur sed quasi animo et ratione, ut vinum aquae
mixtum dividimus in vina aquae mixta, hoc actu, dividimus etiam in vinum et
aquam ex quibus mixtum est, hoc ratione, haec enim iam mixta separari non
possunt. Fit autem totius divisio et in materiam atque formam, aliter enim
constat statua ex partibus suis, aliter ex materia atque forma, id est ex aere
et specie. Similiter etiam illa tota dividenda sunt quae continua non sunt
eodem quoque modo et ea quae sunt universalia, ut "Hominum alii sunt in
Europa, alii in Asia, alii in Africa". Eius quoque totius quod ex
virtutibus constat hoc modo facienda est divisio: "Animae alia pars est in
virgultis, alia in animalibus" et rursus "eius quae est in animalibus
alia rationalis, alia sensibilis est" et rursus haec aliis sub
divisionibus dissipantur. Sed non est anima horum genus sed totum, partes enim
hae animae sunt, sed non ut in quantitate, sed ut in aliqua potestate atque
virtute, ex his enim potentiis substantia animae iungitur. Unde fit ut quiddam
simile habeat huiusmodi divisio et generis et totius divisioni, nam quod
quaelibet eius pars fuerit animae praedicatio eam sequitur, ad generis
divisionem refertur, cuius ubicumque fuerit species ipsum mox consequitur
genus; quod autem non omnis anima omnibus partibus iungitur sed alia aliis, hoc
ad totius naturam referri necesse est. Restat igitur ut de vocis in
significantias divisione tractemus. Fit autem vocis divisio tribus modis.
Dividitur enim in significationes ut aequivoca vel ambigua, plures enim res
significat unum nomen, ut "canis", plures rursus una oratio, ut cum
dico Graecos vicisse Troianos. Alio autem modo secundum modum, haec enim non
plura significant sed multis modis, ut cum dicimus "infinitum" unam
rem quidem significat cuius terminus inveniri non possit, sed hoc dicimus aut
secundum mensuram aut secundum multitudinem aut secundum speciem: secundum
mensuram, ut est infinitum esse mundum, magnitudine enim dicimus infinitum;
secundum multitudinem, ut est infinitam esse corporum divisionem, infinitam
namque divisionum multitudinem significamus; rursus secundum speciem, ut
infinitas dicimus figuras, infinitae enim sunt species figurarum. Dicimus etiam
infinitum aliquid secundum tempus, ut infinitum dicimus mundum, cuius terminus
secundum tempus inveniri non possit, eodem quoque modo infinitum dicimus Deum,
cuius supernae vitae terminus inveniri secundum tempus non possit. Sic igitur
haec vox non plura significat secundum se sed multimode de singulis praedicatur,
unum tamen ipsa significans. Alius vero modus secundum determinationem.
Quotiens enim sine determinatione dicitur vox ulla, facit intellectu
dubitationem, ut est "homo", haec enim vox multa significat, nulla
enim definitione conclusa audientis intelligentiam multis raptat fluctibus
erroribusque traducit. Quid enim quisque auditor intelligat ubi id quod dicens
loquitur nulla determinatione concluditur? Nisi enim quis ita definiat dicens:
“Omnis homo ambulat” aut certe: “Quidam homo ambulat” et hunc nomine, si ita
contingit, designet, intellectus audientis quod rationabiliter intelligat non
habet. Sunt etiam aliae determinationes, ut si quis dicat: “Det mihi!” quando
vel quid dare debeat nullus intelligit nisi intellectus et certa ƿ ratio
determinationis addatur, vel si quis dicat: “Ad me venite!”quo veniant vel
quando nisi determinatione non cognoscitur. Est autem omne quidem ambiguum
dubitabile, non tamen omne dubitabile ambiguum, haec enim quae dicta sunt
dubitabilia quidem sunt, non tamen ambigua. In ambiguis enim uterque auditor
rationabiliter se ipsum intellexisse arbitratur, ut cum quis dicit: “Audio
Graecos vicisse Troianos” unus potest intelligere quod Graeci Troianos
vicerint, alius quod Troiani Graecos, et uterque hoc dicentis ipsius sermonibus
rationabiliter intellegunt. Cum autem dico: “Da mihi!” quid dare debeat nullus
ex ipsis sermonibus rationabiliter auditor intelligit, quod enim ego non dixi
ille potius suspicabitur quam aliqua ratione id quod a me prolatum non est
perspicaciter videat. Tot igitur modis cum vocis divisio fiat, aut per
significantias aut per modum significationum aut per determinationem, in his
quae secundum significantiam dividuntur non solum dividendae sunt
significationes sed etiam diversas res esse quae significantur definitione
monstrandum est. Aristoteles enim hoc in Topicis diligenter praecepit, ut in
his quae dicuntur bona alia sunt bona, ut ea quae boni retinent qualitatem,
alia quae ipsa quidem nulla qualitale dicuntur sed quod bonam rem faciunt
idcirco bona dicuntur. Oportet autem maxime exercere hanc artem, ut ipse
Aristoteles ait, contra sophisticas importunitates, si enim nulla subiecta sit
res quam significat vox, designativa esse non dicitur, sin vero una res sit
quam significat vox, dicitur simplex, quod si plures, multiplex et multa
significans. Dividenda igitur haec sunt ne in aliquo syllogismo capiamur. Sin
vero amphibola oratio est, evenit ut aliquotiens utroque modo possibilia sint
quae significantur, ut id quod superius dixi; potuit ƿ enim fieri ut Graeci
vincerent Troianos et Troiani Gracos superarent. Sunt vero alia quae
impossibilia sunt, ut cum dico hominem comedere panem, significat quidem quod
homo panem comedat, rursus quod panis hominem, sed hoc impossibile est. Ergo
quotiens ad contentionem venitur dividenda et possibilia et impossibilia,
quotiens ad veritatem sola possibilia dicenda, impossibilia relinquenda sunt. Quoniam
ergo plures sunt species plura significantium vocum, dicendum est quod aliae in
particula multiplicitatem significationis habent, aliae in tota oratione, et
eorum quae in particula habent pars ipsa aequivoca dicitur, tota vero ipsa
oratio secundum aequivocationem multiplex, illa vero quae in oratione tota
significationis multiplicitatem retinet (ut supra iam dictum est) ambigua
nuncupatur. Dividitur autem significationes aequivocarum secundum
aequivocationem unius particulae orationum definitione, ut cum dico: “Homo
vivit”intelligitur et verus et pictus; dividitur autem hoc modo: “Animal
rationale mortale vivit” (quod verum est), “Animalis rationalis mortalis
simulatio vivit” (quod falsum est). Dividitur qualibet adiectione quae
terminet, vel generis vel casus vel alicuius articuli; ut cum dico: “Canna
Romanorum sanguine sorduit” et calamum demonstrat et fluuium, sed dividimus
sic: articulo quidem, ut dicamus: “Hic Canna Romanorum sanguine sorduit” vel
genere, ut: “Canna Romanorum sanguine plenus fuit”uel casu vel numero, in illo
enim singularis tantum est, in illo pluralis, et de aliis quidem eodem modo. Sunt
autem alia secundum accentum, alia secundum orthographiam, et secundum accentum
quidem ut "pone" et "pone", secundum orthographiam ut
"quaeror" et "queror" ab inquisitione et ƿ querela; et haec
rursus vel secundum ipsam orthographiam dividuntur vel secundum actionem et
passionem, quod "quaeror" ab inquisitione passivum est, "queror"
autem a querela agentis est. Ambiguarum vero orationum facienda est divisio,
aut per adiectionem aut per diminutionem aut per divisionem aut per aliquam
transmutationem, ut cum dicitur: “Audio Troianos vicisse Graecos”ita dicamus:
“Audio quod Graeci vicerint Troianos” haec enim ambiguitas quolibet eorum modo
solvitur. Non tamen ita dividenda est omnis vocum significatio tamquam generis:
in genere omnes species enumerantur, in ambiguitate vero tantae sufficiunt
quantae ad eum sermonem possint esse utiles quem alterutra nectit oratio. Ac de
vocis quidem significatione sufficienter dictum est, est autem et de generis
totiusque divisione propositum atque expeditum. Quare de omnibus secundum se
partitionibus diligentissime pertractatum est. Nunc de his divisionibus dicemus
quae per accidens fiunt. Harum autem commune praeceptum est, quicquid ipsorum
dividitur in opposita disgregari, ut si subiectum in accidentia dividimus non
dicamus "Corporum alia sunt alba, alia dulcia", quae opposita non
sunt, sed "Corporum alia sunt alba, alia nigra, alia neutra", eodem
quoque modo in aliis secundum accidens divisionibus dividendum est. Atque illud
maxime perspiciendum, ne quid ultra dicatur aut minus, sicut fit in generis
divisione. Non enim oportet relinqui aliquod accidens ex eadem oppositione quod
subiecto illi inest quod non in divisione dicatur, neque vero addi aliquid quod
subiecto inesse non possit. Posterior quidem Peripateticae secta prudentiae
differentias divisionum diligentissima ratione perspexit et per se divisionem
ab ea quae est secundum accidens ipsasque inter se disiunxit atque distribuit,
ƿ antiquiores autem indifferenter et accidente pro genere et accidentibus pro
speciebus aut differentiis utebantur, unde nobis peropportuna utilitas visa est
et communiones harum divisionum prodere et eas propriis differentiis
disgregare. Et de divisione quidem omni quantum introductionis brevitas
patiebatur diligenter expressimus. Exhortatione tua, Patrici rhetorum
peritissime, quae honestati praesentis propositi et futurae aetatis utilitati
coniuncta est, nihil antiquius existimaui. Cui muneri libentius acquieui, non
quod ad instruendum te, commentarios in M. Tullii Topica laborare me credidi
(ridiculus quippe forem si Mineruam, ut aiunt, litterae docere uellem) sed ut
ex disciplinarum liberalium sumptum penu, nostrae apud te semper pignus
amicitias permaneret. Quod enim munus ex animo diligentibus iocundius inueniri
potest, quam quod ipsius animi partes format et instruit? Nam caetera fere
caduca, imbecilla, labantia, et si ad fortunae uicem spectes, pene semper
aliena sunt. At uero opulentiam litterarum, nec praesens imminuit aetas,
earumque auctoritatem ipsa etiam cunctae conficiens, auget potius et confirmat
uetustas. Accipe igitur opus, non efficientiae securitate sed amicitiae
praesumptione susceptum, apud quam nescio quonam pacto garrire non dedecet,
simul quia praelato a nobis munere cum tuorum aliquid operum postulauero,
iniurius fueris, si negabis. Sed cum in M. Tullii Topica Marius
Victorinus rhetor plurimae in disserendi arte notitiae commenta conscripserit,
non me oportuisset melioribus forsitan attemptata contingere nisi esset aliquid
quo se noster quoque labor exercere atque parere potuisset. Quatuor enim uoluminibus
Victorinus in Topica conscriptis, eorum primo declarandis tantum libri
principiis occupatur. Addit etiam et si qua in eodem uolumine praedicenda
fuissent perpendit, ut ab exordio uoluminis Topicorum quod est: MAIORES
NOS RES SCRIBERE INGRESSOS, C. TREBATI... usque ad eum locum qui
est: SED IAM TEMPUS EST AD ID QUOD INSTITUIMUS ACCEDERE. primi
uoluminis Victorini expositio terminetur. Secundo uolumine de iudicandi,
atque inueniendi dialecticae partibus, et de loco atque argumenti definitione pertractat,
ut ab eo loco Topicorum qui est: CUM OMNIS RATIO DILIGENS DISSERENDI DUAS
HABEAT PARTIS, UNAM INVENIENDI ALTERAM IUDICANDI... usque ad eum locum
qui est: ITAQUE LICET DEFINIRE LOCUM ESSE ARGUMENTI SEDEM. ARGUMENTUM
AUTEM RATIONEM, QUAE REI DUBIAE FACIAT FIDEM. secundi libri explanatio
subsistat. Tertius uero atque quartus discretionem locorum inter se
eorumque exempla multiformiter persequuntur. Ita ut tertius quidem Tulliana
sibi de iure proponat exempla. Quartus uero eosdem locos per alias rursus
similitudines monstret ex Virgilio et Terentio poetis, oratoribus Cicerone et
Catone, ut quod praeceptis ostenditur, exemplis multipliciter collucescat,
neque ab eo loco qui est in Topicis sed ex his locis in quibus argumenta
inclusa sunt, expositio progressa eum transcendit locum qui est: VALEAT
AEQUITAS, QUAE PARIBUS IN CAUSIS PARIA IURA DESIDERAT. Quanta uero pars
reliqua si Topicorum ipsius uoluminis magnitudo demonstrat, quam Victorinus,
neque attigit, neque attingere potuisset, ita est rebus minimis immoratus, nisi
opus multa librorum pluralitate distenderet. Nos uero et hanc ipsam
particulam, quam Victorinus attigit diligenter (ut possumus) aggrediamur, et
longius expositione progressi, cum Topicorum debemus fine consistere. Quare hinc
de tota operis propositione conueniens sumamus exordium. Sed antequam de
topicae facultatis ratione pertractem, proemium, quoad Trebatium M. Tullius
utitur, paucis absoluam. Ait enim: MAIORES NOS RES SCRIBERE
INGRESSOS, C. TREBATI, ET HIS LIBRIS, QUOS BREVI TEMPORE SATIS MULTOS EDIDIMUS,
DIGNIORES E CURSU IPSO REVOCAVIT VOLUNTAS TUA. CUM ENIM MECUM IN TUSCULANO
ESSES ET IN BIBLIOTHECA SEPARATIM UTERQUE NOSTRUM AD SUUM STUDIUM LIBELLOS QUOS
VELLET EVOLVERET, INCIDISTI IN ARISTOTELIS TOPICA QUAEDAM, QUAE SUNT AB ILLO
PLURIBUS LIBRIS EXPLICATA. QUA INSCRIPTIONE COMMOTUS CONTINUO A ME
LIBRORUM EORUM SENTENTIAM REQUISISTI. QUAM CUM TIBI EXPOSUISSEM,
DISCIPLINAM INUENIENDORUM ARGUMENTORUM, UT SINE ULLO ERRORE AD EA RATIONE ET
VIA PERVENIREMUS, AB ARISTOTELE INVENTAM ILLIS LIBRIS CONTINERI, VERECUNDE TU
QUIDEM UT OMNIA, SED TAMEN FACILE UT CERNEREM TE ARDERE STUDIO, MECUM UT TIBI
ILLA TRADEREM EGISTI. CUM AUTEM EGO TE NON TAM VITANDI LABORIS MEI CAUSA QUAM
QUIA TUA ID INTERESSE ARBITRARER, VEL UT EOS PER TE IPSE LEGERES VEL UT TOTAM
RATIONEM A DOCTISSIMO QUODAM RHETORE ACCIPERES, HORTATUS ESSEM, UTRUMQUE, UT EX
TE AUDIEBAM, ES EXPERTUS. [1.03] SED A LIBRIS TE OBSCURITAS REIECIT;
RHETOR AUTEM ILLE MAGNUS HAEC, UT OPINOR, ARISTOTELIA SE IGNORARE RESPONDIT.
QUOD QUIDEM MINIME SUM ADMIRATUS EUM PHILOSOPHUM RHETORI NON ESSE COGNITUM, QUI
AB IPSIS PHILOSOPHIS PRAETER ADMODUM PAUCOS IGNORETUR; QUIBUS EO MINUS
IGNOSCENDUM EST, QUOD NON MODO REBUS EIS QUAE AB ILLO DICTAE ET INVENTAE SUNT
ADLICI DEBUERUNT, SED DICENDI QUOQUE INCREDIBILI QUADAM CUM COPIA TUM ETIAM
SUAVITATE. NON POTUI IGITUR TIBI SAEPIUS HOC ROGANTI ET TAMEN VERENTI NE
MIHI GRAVIS ESSES -- FACILE ENIM ID CERNEBAM -- DEBERE DIUTIUS, NE IPSI IURIS
INTERPRETI FIERI [1042C] VIDERETUR INIURIA. ETENIM CUM TU MIHI MEISQUE MULTA
SAEPE SCRIPSISSES, VERITUS SUM NE, SI EGO GRAVARER, AUT INGRATUM ID AUT
SUPERBUM VIDERETUR. SED DUM FUIMUS UNA, TU OPTIMUS ES TESTIS QUAM FUERIM
OCCUPATUS. UT AUTEM A TE DISCESSI IN GRAECIAM PROFICISCENS, CUM OPERA MEA
NEC RES PUBLICA NEC AMICI UTERENTUR NEC HONESTE INTER ARMA VERSARI POSSEM, NE
SI TUTO QUIDEM MIHI ID LICERET, UT VENI VELIAM TUAQUE ET TUOS VIDI, ADMONITUS
HUIUS AERIS ALIENI NOLUI DEESSE NE TACITAE QUIDEM FLAGITATIONI TUAE. ITAQUE
HAEC, CUM MECUM LIBROS NON HABEREM, MEMORIA REPETITA IN IPSA NAVIGATIONE
CONSCRIPSI TIBIQUE EX ITINERE MISI, UT MEA DILIGENTIA MANDATORUM TUORUM TE
QUOQUE, ETSI ADMONITORE NON EGES, AD MEMORIAM NOSTRARUM RERUM EXCITAREM. SED
IAM TEMPUS EST AD ID QUOD INSTITUIMUS ACCEDERE. Omne proemium, quod ad
componendum intendit auditorem, ut in rhetoricis discitur, aut beneuolentiam
captat aut attentionem praeparat aut efficit docilitatem: his tribus partibus
sibi Cicero Trebatium format. Nam quod se a magnarum rerum inchoatione reuocatum
ad amici contulit uoluntatem, fauorem Trebatii uelut iudicis, beneuolentiae
partibus meretur. MAIORES autem RES sunt a quarum scriptione ad amici studium
uersus est, moralis philosophiae tractatus. Maior est enim morum ratio quam
peritia disserendi. Id autem tempus fuisse coniicimus, quo propter turbulenta
reipublicae tempora in otium se contulit, atque ad philosophiae
disciplinas. Sed quia nobis audientium mentes ueritatis quoque opinio
praesumpta conciliat, in eo etiam praeparandae beneuolentiae partibus utitur.
Quod in commemorandis ueraciter iis quae Trebatius nouerat, facit illis fidem
quae posterius euenire et Trebatio potuerunt esse ignota. Haec autem sunt, quod
in Tusculano ad suum studium uterque libros euoluerit. Quodque Trebatius casu
in Aristotelis Topica inciderit, et quod titulum operis admiratus, a M. Tullio
inscriptionis sententiam perquisierit. Illud etiam quod ei Cicero se exposuisse
commemorat, inueniendorum argumentorum illis libris scientiam contineri, ut
sine ullo errore ad argumentorum inuentionem uia quadam et recto filo atque
artificio ueniretur, quae res breuiter enuntiata, uelut intentionem operis
monstrat, et docilem perficit auditorem. In hoc namque uidetur esse
comprehensum quae sit intentio Topicorum, quoniam Cicero ait disciplinam esse
inueniendorum argumentorum, non ut inueniantur (id enim natura
suppeditat). Sed ut sine ullo labore; ac sine ulla confusione non
casu ad ea mens sed quadam uia et ratione perueniat, post hanc beneuolentiam
captationem, Trebatii laudem subiungit, cum eius uerecundiam in his commemorat
expetendis, quae si postulanti amico Cicero praestilisset et gloriae praemium
ferret et gratiae sed quod petenti Trebatio, ut ei Topica traderet minime
concessit. Id non proprii laboris fuga sed Trebatii potius causa factum esse
contendit, ut in eo quoque Trebatii ueluti tunc repulsi subiratus forsitan
animus, nunc non sit alienus. Intererat uero Trebatio ut uel per se ipse illa
legens exercitatior fieret, uel ei perfectius si qua dubitaret rhetor doctior
expediret. Utrumque uero a Trebatio se narrat audisse. Nam et expertum cum, ut
per se ipse legeret sed obscuritate reiectum, et illum rhetorem a quo Topicorum
explanationem petiisset, illa sese Aristotelica ignorare confessum. Quae
res, propter operis difficultatem, nec esse est auditorem reddat attentum. Ea
quippe non negligentes inspicimus, quae non facilis esse intelligentiae
suspicamur, in quo etiam Cicero minime se miratum esse commemorat, quod is
philosophus a rhetore nesciretur, qui multis etiam philosophis uideretur
incognitus. Quorum etiam iure culpat ignauiam, quod ad Aristotelicae
philosophiae disciplinam non inuentorum utilitas, non orationis nitor
illexerit. In quo etiam maioris perspicaciae crescit attentio, quia facile ad
studium mentes, aliorum segnities culpata conuerterit, quocumque uero attentio
fuerit, non poterit ab esse docilitas. In his etiam laus quaedam Trebatii
latenter inducitur. Magnum est enim philosophis in suo quasi munere cessantibus
hunc ne proprio quidem studio praepeditum, alienae scientiae secreta
rimari. Iam uero sequentia multo etiam clarius beneuolentiam petunt,
uelut hoc quod elegantissime dictum est, ueritum se esse ne, si modeste
postulantis uerecundiae pernegasset, ipsi quodammodo iuris interpreti fieri
uideretur iniuria, et quod praecedens Trebatii meritum percepti beneficii memor
exsequitur, id uero est quod uel ipsi uel iis quos ipse defenderit, plura
cauisset. Fuit igitur, ut ait, uerendum, ne, si restituere gratiam noluisset,
aut ingratum id aut superbum esse uideretur. Ingratum quidem, si magna Trebatii
merita quibus ipse usus fuerat, paruo aestimare uideretur, cum nullam ei
gratiam restituendam putaret, superbum uero, si sperneret. Ad idem
caetera reuertuntur, id est ad beneuolentiam. Quod eiusdem testimonio nititur
dum fuerit in urbe, se ne debitam redderet gratiam occupationum necessitate
constrictum. Quod ut uenerit Veliam, amicorum Trebatii conuentione commonitus,
ne tacitae quidem eius flagilationi deesse uoluisset, et quod licet librorum
copia nulla suppeteret, de memoriae tamen repetitae promptuariis in ipsa nauigatione
conscripserit, eique ex itinere miserit, ut beneficii cumulo parendi etiam
celeritas adderetur. Quae cum omnia benignum captare Trebatii uideantur
assensum, quaedam tamen breuitas Topicorum memoria repetita, attentionis nec
esse est animaduersione fungatur, ipsa namque memoriae repetitio breue monstrat
esse quod colligit. Quodque diligentiae sibi fuerint mandata Trebatii, et quod
ad excitandam sui memoriam quasi pignus amico aliquod atque monimentum
uoluisset exstare. Cui adiicit illud, et si admonitione non eges, ne offendat
animum amici sedulitate si quem commonendum credit, obliuionis uideatur
arguere. Haec omnia, ut dixi, beneuolentiae partibus plena sunt. Sed de
prooemio satis dictum est. Nunc ad sequentia transeamus, nec si quis haec apud
Victorinum latius tractata repererit, nos neglecti integritatis stringat
inuidia. Nam nec in singulis (ut ille facit) uerbis haerere uolumus, et ad
ampliora huius operis festinamus. CUM OMNIS RATIO DILIGENS DISSERENDI
DUAS HABEAT PARTIS, UNAM INVENIENDI ALTERAM IUDICANDI, UTRIUSQUE PRINCEPS, UT
MIHI QUIDEM VIDETUR, ARISTOTELES FUIT. STOICI AUTEM IN ALTERA ELABORAVERUNT;
IUDICANDI ENIM VIAS DILIGENTER PERSECUTI SUNT EA SCIENTIA QUAM *DIALEKTIKEN*
APPELLANT, INVENIENDI ARTEM QUAE *TOPIKE* DICITUR, QUAE ET AD USUM POTIOR ERAT
ET ORDINE NATURAE CERTE PRIOR, TOTAM RELIQUERUNT. NOS AUTEM, QUONIAM IN
UTRAQUE SUMMA UTILITAS EST ET UTRAMQUE, SI ERIT OTIUM, PERSEQUI COGITAMUS, AB
EA QUAE PRIOR EST ORDIEMUR. Cum philosophia maximis in rebus operam suam studiumque
consumat, cumque et in naturalibus inspectionem, speculationemque adhibeat, et
in moralibus actionem, et sic formare gestiat mores ut uera uitae ratio
persuaserit, euenire nec esse est, ut secundum id quod ratio tenendum,
omittendumue, faciendum quid, aut non faciendum esse decreuerit, uel iudicium
constituatur, ascensus uel exercendae uitae dirigatur intentio. Erit igitur
necessarium, uel in naturali speculatione, uel in moralium actionum
cogitatione, ut certa ratio, uel quod in rebus speculandum est, inueniat, uel
quod in actum uiuendi duci oporteat, ante perpendat. Haec autem ratio nisi uia
quadam processerit, saepe in multos nec esse est labatur errores. Quod ne
passim fieret, atque ut certis egulis tractatus insisteret, uisum est antiquae
philosophiae ducibus, ut ipsarum ratiocinationum, quibus aliquid inquirendum
esset, naturam penitus ante discuterent, ut his purgatis atque compositis, uel
in speculatione ueritatis, uel in exercendis uirtutibus uteremur. Haec
est igitur disciplina, quasi disserendi quaedam magistra, quam *logicen*
Peripatetici ueteres appellauerunt, hanc Cicero definiens, disserendi
diligentem rationem uocauit. Haec uario modo a plerisque tractata est, uarioque
etiam uocabulo nuncupata. Ut enim dictum est, a Peripateticis haec ratio
diligens disserendi logice uocatur, continens in se inueniendi iudicandique
peritiam. Stoici uero hanc eamdem rationem disserendi paulo angustius
tractauere, nihil enim de inuentione laborantes, in sola tantum iudicatione
consistunt, deque ea praecepta multipliciter dantes, dialecticam nuncupauerunt.
Plato etiam dialecticam uocat facultatem quae id quod unum est possit in plura
partiri, ueluti solet genus per proprias differentias usque ad ultimas species
separari, atque ea quae multa sunt, in unum generum ratione colligere. Hanc
igitur Plato dialecticam dicit; Aristoteles uero logicam uocat, quam (ut dictum
est) Cicero definiuit diligentem disserendi rationem. Et huius uno quidem
modo trina partitio est: omnis namque uis logicae disciplinae aut definit
aliquid, aut partitur, aut colligit. Colligendi autem facultas triplici
diuersitate tractatur: aut enim ueris ac necessariis argumentationibus
disputatio decurrit, et disciplina uel demonstratio nuncupatur; aut tantum
probabilibus, et dialectica dicitur; aut apertissime falsis, et sophistica, id
est, cauillatoria perhibetur. Logica igitur, quae est peritia disserendi, uel
de definitione, uel de partitione, uel de collectione, id est, uel de ueris ac
necessariis, uel de probabilibus, id est uerisimilibus, uel de sophisticis, id
est, cauillatoriis argumentationibus tractat, has enim collectionis partes esse
praediximus. Atque haec est una logicae partitio, in qua dialecticam
Aristoteles uocat facultatem per probabilia colligendi. Rursus eiusdem
logicae altera diuisio est, per quam diducitur tota diligens ratio disserendi
in duas partes, unam inueniendi, et alteram iudicandi. Id autem uidetur etiam
ipsa logices definitio monstrare, nam quia logica ratio disserendi est, non
potest ab inuentione esse separata. Cum enim nemo praeter inuentionem disserere
possiti disserendi ratio inuentionis est ratio. Rursus quoniam logice diligens
est ratio disserendi, ab ea iudicium non potest ab esse, ipsa enim diligentia
rationis in disserendo posita iudicium est. Neque enim potest quisquam
diligenter disserere, nisi quale sit iudicauerit id quod in disputationem
sumitur. Quod si ad disserendi ordinem diligentia rationis adhibetur, non est
dubium quin hoc iudicium ad inuentionum uarietatem sit accommodatum. His
igitur ita expeditis, uidendum est, hae diuisiones, quanam se cognatione
contingant. Inuentio quippe caeteris omnibus, ueluti materiae loco, supponitur,
hoc modo. Nisi enim inuentio fuerit, non potest esse uel definitio, uel
partitio, quoniam unumquodque generum uel differentiarum inuentione, uel
specierum collectione, aut diuidimus, aut etiam definimus. Iam uero si absit
inuentio, nequit esse collectio. Non erit igitur necessaria, nec uerisimilis,
nec sophistica argumentatio: haec enim tria inuentioni superueniunt, ut uel
necessarium, uel probabile, uel cauillatorium sit argumentum. Necessitas enim
uero, et probabilitas, et cauillatio formae quaedam sunt, quaedum inuentionibus
assistunt, necessaria uel probabilia uel cauillatoria faciunt argumenta. Eadem
quoque ratio partitiones definitionesque complectitur. Indiscreta namque
inuentionis potestas, cum definitiua, tum diuisibilis appellari potest, cum
definiendis partiendisue rebus adhibetur. Quae hoc modo ex inuentionis materia
et differentiarum supra positarum forma composita rursus iudicationi materiae
fiunt nam prior illa partitio, logice tribus partibus segregata, ita partes
explicat, ut habeat inuentionem materiam singularum, ipsa uero iudicationi
materiam praestat. Et enim cum definit aliquis, uel rei propositae diuisionem
facit, inuenit quidem diuisioni definitionique differentias accommodatas sed an
recte uel definiat, uel diuidat, iudicatione perpendit. Ita priores logicae
partes secundae diuisionis membra coniungunt, ut materiam quidem sui habeant
inuentionem, iudicationi uero fiant ipsae materia. Quod in reliqua etiam
colligendi parte contingit, nam et ea quae de probabilibus tractat, habet et
inueniendi suppositam materiam, quae uerisimilia reperit argumenta, et de
huiusmodi argumenta iudicatio perpendit. Est enim iudicium hoc ipsum
internoscendi, quod non necessaria inuentio est sed uerisimilitudinem tenet.
Illa quoque pars quae de necessariis argumentationibus aptatur, habet subiectam
materiam necessariae inuentionis, eiusque est iudicium, ut cum necessaria sunt
quae inuenit, necessaria quoque esse perpendat. Nec non cauillandi pars utraque
in se continet, quandoquidem et inueniri falsa possunt, et falsa esse
iudicatione discerni. Quo fit ut prior logices diuisio secundum etiam
continere uideatur: nam definitio, partitio atque collectio inuentionem
continent et iudicium, quia neque existere praeter inuentionem, neque agnosci
praeter iudicium possunt. Sed cum omnis inuentio iudicationi subiecta sit,
cumque prioris diuisionis partes sine utroque esse non possint, euenit ut prima
partitio inuentionem iudiciumque coniungat. Secunda uero haec diuisio, qua
Cicero etiam partitur logicam, segregat huiusmodi facultates, et inueniendi
materiam a iudicationis parte secernit. Iudicium uero, in colligendi
ratione proprias partes habet, nam omnis argumentatio, omnisque syllogismus
propositionibus struitur, omnemque compositum duo in se quaedam retinet, quae
speculanda esse uideantur. Et quidem continet unum quae illa sint, ex quibus id
quod compositum est intelligatur esse connexum, aliud uero quanam sit suarum
partium coniunctione compositum: ut in pariete siquidem lapides ipsos quibus
paries structus est inspicias, quasi materiam species: si uero ordinem
compositionemque iuncturae consideres, tanquam de formae ratione perpendas. Ita
in argumentationibus quas propositionibus compaginari atque coniungi supra
retulimus, gemina erit speculationis et iudicandi uia. Una quae propositionum
ipsarum naturam discernit ac iudicat utrum uerae ac necessariae sint, an
uerisimiles, an sophisticis applicentur, et haec quasi materiae speculatio est.
Altera uero iudicii pars est quae inter se propositionum iuncturas
compositionesque perpendit; haec quasi formam iudicat argumentorum. Quae
cum ita sint, hoc modo fit in continuum ducta partitio, ut ratio diligens
disserendi, unam habeat inueniendi partem, alteram uero iudicandi. Tum de
ipsa inuentione, tum de inuentionis collocatione, quae forma est
argumentationis. Atque ea quidem pars quae de inuentione docet, quaedam
inuentionibus instrumenta suppeditat, et uocatur topice: cur autem hoc nomine
nuncupata sit posterius dicam. Illa uero pars quae in indicando posita est,
quasdam discernendi regulas subministrat, et uocatur analytice; et si de
propositionum iunctura consideret, analytice prior; sin uero de ipsis
inuentionibus tractet, ea quidem pars ubi de discernendis necessariis
argumentis dicitur, analytice posterior nuncupatur; ea uero quae de falsis
atque cauillatoriis, id est de sophisticis, elenchi. De uerisimilium uero
argumentationum iudicio nihil uidetur esse tractatum, idcirco quoniam plana est
atque expedita ratio iudicandi de medietate, cum quis extrema cognouerit. Si
enim quis diiudicare necessaria sciat, idemque falsorum argumentorum possit
habere iudicium, uerisimilia, quae in medio collocata sunt, discernere non
laborat. Expeditum igitur est, ut arbitror, quid sit quod ait Cicero,
rationem diligentem disserendi duas habere partes, inueniendi unam, alteram
iudicandi. Illud etiam diligentius expositum est, quae sit ratio quam Stoici
dialecticen uocant. Ea est enim quae iudicandi peritiam tenet, et quam eodem
nomine Plato partiendi per differentias, atque ad genus reuocandi facultatem
uocat. Quamque eodem nomine Aristoteles, non totam disserendi artem, ut Stoici
sed eam tantum nuncupet quae de proposita quaestione uerisimilibus colligat
argumentis, atque ideo perfectius Aristoteles de logica tractauit, quoniam de
duobus, ultra quae nihil est, tertium disseruit, de inueniendo scilicet et
iudicando, cum Stoici, inuentione neglecta, iudicationis tantum instrumenta
tradiderint. Atque ideo iure eos increpat Tullius, quoniam id maxime
relinquere quod et natura prios et usu potius erat: natura quidem, quia fieri
non potest ut de inuentione iudicetur, nisi ipsa inuentio prius exstiterit. Ad
usum uero, quia longe utilius est nuda, et praeter artem prolata naturali
inuentione susceptum saepe negotium tueri, quam inueniente alio mutum ipsum
inermemque et tacitum uersare iudicium. Dat uero Tullius de utroque sententiam,
etait summam pariter utilitatem in utroque consistere, et se de utraque, si
otium fuerit, uelle disserere. Ab ea autem quae prior est, id est inuentione, quam
*topicen* appellari diximus, ordiendum putat. UT IGITUR EARUM RERUM QUAE
ABSCONDITAE SUNT DEMONSTRATO ET NOTATO LOCO FACILIS INUENTIO EST, SIC, CUM
PERUESTIGARE ARGUMENTUM ALIQUOD VOLUMUS, LOCOS NOSSE DEBEMUS; SIC ENIM
APPELLATAE AB ARISTOTELE SUNT EAE QUASI SEDES, E QUIBUS ARGUMENTA PROMUNTUR.
ITAQUE LICET DEFINIRE LOCUM ESSE ARGUMENTI SEDEM. ARGUMENTUM AUTEM RATIONEM,
QUAE REI DUBIAE FACIAT FIDEM. Post diuisionem logicae disciplinae, quam
diligentem disserendi rationem esse definiuit, de topice, quae inueniendi ars
esse praedicta est, expedire contendit. Ac primum quid sint loci, termino
definitionis includit, eiusque artis quae topice dicitur exempli quadam
claritate designat intentionem. Est enim topices intentio, argumentorum facilis
inuentio. Non igitur inuenire docet topice quod est naturalis ingenii sed
facilius inuenire: omnis quippe ars imitatur naturam, atque ab hac materia
suscepta, rationes ipsa uiamque conformat, ut cum facilius id quod ars quaeque
promittit, tum elegantius fiat, uelut parietem struere naturalis ingenii est
sed arte fit melius. Argumentum autem ratio est quae rei dubiae faciat
fidem. Multa enim sunt quae faciant idem sed quia rationes non sunt, ne
argumenta quidem esse possunt, ut uisus facit fidem his quae uidentur sed quia
ratio non est uisus, ne argumentum quidem esse potest. Differentiam uero unam
sumpsit, eam quae faciat fidem, omne enim argumentum facit fidem. Si igitur
iunxerimus genus ac differentiam, et id esse argumentum dicamus, quod rationem
quae faciat fidem, num tota argumenti natura monstrata sit? Minime. Quid si
eius rei, de qua nemo dubitat, aliqua ratione facere quis fidem uelit, num
idcirco illa, quod fidem faciat, uocabitur argumentum? Nullo modo:
argumentum namque est quod rem arguit, id est probat, nihil uero probari, nisi
dubium, potest. Nisi ergo sit res ambigua, et ad eam ratio fidem faciens
afferatur, argumentum esse non poterit. Addita igitur alia differentia quae est
rei dubiae, facta est integra definitio argumenti, ex genere et duabus
differentiis constans, genere quidem, ratione: una uero differentia, quod
faciat fidem; altera uero, quod rei dubiae est, ut sit tota definitio, id esse
argumentum quod sit ratio, rei dublae faciens fidem. Quae cum ita sint,
nec esse est ut ubi dubitatur aliquid, ibi sit quaestio. Quod si argumentum
praeter rem dubiam esse non poterit, nullo modo esse praeter quaestionem
potest. Quaestio uero est dubitabilis propositio. Propositio uero est ratio
uerum falsumue designans. Omnis igitur propositio siue constanter atque
pronuntiatiue proferatur, ut si quis dicat: Omnis homo animal est; siue ad
interrogationem dirigatur, ut si quis interroget: Putasne omnis homo animal
est? retinet proprium nomen, et propositio nuncupatur. At si eadem, uelut
dubitabilis proferatur, fit quaestio, ut si quisque erat an omnis homo animal
sit. Quot autem modis quaestio diuidatur, nunc explicandi locus non uidetur
accommodus sed in iis libris dicemus quos de topicis differentiis formare
molimur. Ad quaestionem igitur, id est ad dubitabilem propositionem, omnis
intentio dirigitur argumenti, non uero ut totam comprobet quaestionem sed ut
partem eius ratione confirmet; neque enim tota quaestio defenditur sed una eius
quaelibet pars argumentatione firmatur: nemo enim defendit caelum rotundum esse
et non esse; si enim ita quis defenderet, totam quaestionem uideretur probare.
Sed cum ita consideratur: Utrum rotundum sit caelum an non sit in
una tantum consistit quaestionis parte defensio, siue quae affirmat siue quae
negat. Omnis enim quaestio contradictionibus constat. Nam si qua res ab altero
affirmetur, negetar ab altero, totum hoc contradictio nuncupatur, ut si quis
dicat: Caelum rotundum est alter neget dicens: Caelum rotundum non
est. Caelum rotundum esse et non esse contradictio prohibetur.
Dubitabilis uero propositio, quam quaestionem esse praediximus, et
affirmationem in se continet et negationem, hoc enim ipso quo dubitabilis est,
contradictionem uidetur includere. Cum enim dubitat quis utrumque caelum
rotundum sit, siue adiungat an non sit, siue reticeat, ipsa dubitatio partem
secum alteram trahit. Si enim unam partem propositio tueatur, dubitabilis non
est, atque idcirco nec quaestio. Cum igitur omnis quaestio duas habeat
partes, affirmationis unam, alteram negationis, nec esse est ut sit semper ex
alterutra parte defensio, ut unus quidem affirmationis partem, negationis alter
defendat, et hic quidem ad astruendam affirmationem, ille uero ad destruendam,
quae potuerit argumenta perquirat. Nihil uero interest utrum quis affirmationem
ponat, an destruat negationem, aut negationem defendat, an oppugnet
affirmationem. Age enim, sit quaestio, utrum caelum rotundum sit. Si quis eam
sibi quaestionis partem assumpserit, quam esse defendit, ad eam constituendam
cuncta nec esse est sibi comparet argumenta, atque in hoc affirmationem quidem
ponit sed destruit negationem. Si quis uero neget id, ac dicat non esse caelum
rotundum, suscipit sibi partem alteram quaestionis quae fuerat reliqua, id est
negationem, in eaque consistit, et ad hanc approbandam, perquisitis nititur
argumentis; itaque qui negationem ponit, labefactat affirmationem. Quae
cum ita sint, demonstratum arbitror, non totam quaestionem sed eius aliquam
partem ad defensionem uenire. Sed quod quisque defendet, ad hoc quoque
argumenta perquirit. Ad partem igitur quaestionis astruendam destruendamue
argumenta sumuntur, atque haec quidem si quis minus intelligit, ne a nobis
obscure dicta esse causetur. Si enim quae in dialectica, uel a nobis dicta
Latina oratione, uel a Graecis scripta sunt, ignorabit, mirum est si quam
partem eorum quae dicimus aduertere ualeat, ne dum stupeamus quod non omnia
comprehendat. Sed quoniam dubitabilem propositionem quaestionem esse
praediximus, euenit ut quas partes habeat propositio, easdem etiam quaestio
retinere uideatur. Omnis autem simplex propositio duas habet partes in terminis
constitutas. Simplex uero propositio est huiusmodi: Omnis homo animal est
Terminos uero uoco simplices orationis partes quae continent propositionem, ut
animal et homo. Hi uero sunt praedicatus atque subiectus. Praedicatus est in
propositione maior terminus collocatus; subiectus uero minor. Maior uero
terminus de subiecto dicitur, minor autem de maiore nullo modo praedicatur, ut
animal quoniam maius est quam homo, de homine praedicatur: dicitur enim: Omnis
homo animal est Homo uero de animali non dicitur, nemo enim uere
dicit: Omne animal homo est Hac igitur ratione internoscere possumus
qui terminus in propositione maior, qui uero sit minor. Omnis autem quaestio,
ut dictum est, quoniam dubitabiles partes habet, et ad easdem comprobandas
argumenta sumuntur, necesse est ut quidquid in quaestionibus comprobatur, id
argumentorum ratione firmetur. Argumentum uero nisi sit oratione prolatum, et
propositionum contexione dispositum, fidem facere dubitationi non poterit. Ergo
illa per propositiones prolatio ac dispositio argumenti, argumentatio
nuncupatur, quae dicitur enthymema uel syllogismus, cuius definitionem in
Topicis differentiis apertius explanabimus. Omnis uero syllogismus uel
enthymema propositionibus constat; omne igitur argumentum syllogismo uel
enthymemate profertur. Enthymema uero est imperfectus syllogismus, cuius
aliquae partes, uel propter breuitatem, uel propter notitiam, praetermissae
sunt. Itaque haec quoque argumentatio a syllogismi genere non recedit.
Quoniam igitur syllogismus omnis propositionibus constat, propositiones uero
terminis, terminique inter se differunt, eo quod unus maior est, alter minor,
fieri non potest ut ex propositionibus conclusio nascatur, nisi per terminos
progressae propositiones extremos terminos alicuius tertii medietate
coniunxerint: id facillimo demonstratur exemplo. Sit enim quaestio: Utrum homo
substantia sit an minime. Sumo mihi quaestionis partem alteram comprobandam, ea
est, hominem esse substantiam; in hac igitur duo sunt termini, substantia atque
homo, quorum maior substantia, minor homo, quod ex eo quoque poterit ostendi,
quoniam posterius substantia in prolatione profertur, uel ut in hoc ipso quod
dicimus homo substantia est, prius hominem, posterius substantiam nominamus. Ut
igitur substantiam atque hominem iungam, nec esse est medium terminum reperiri,
qui utrosque copulet terminos, hic sit animal, fiatque una
propositio: Omnis homo animal est in hac igitur propositione animal
praedicatur, homo subiicitur. Rursus adiungo: Omne autem animal substantia
est in hac rursus animal supponitur, substantia praedicatur. Itaque
concludo, omnis igitur homo substantia est; ac per hoc homo quidem semper
subiectus est. Animal uero ad hominem quidem praedicatum est, ad substantiam
uero subiectum. Substantia uero ipsa semper praedicata persistit, unde fit ut
minor quidem sit homo, maior uero homine substantia, medius autem terminus
animal. Quoniam igitur extremi termini medii interpositione copulantur, eoque
modo quaestionis inter se membra conueniunt, adhibitaque probatione soluitur
dubitatio, nihil est aliad argumentum quam medietatis inuentio, haec enim uel
coniungere, si affirmatio defendatur, uel disiungere, si negatio uindicetur,
poterit extremos. Quae cum ita sint, duarum propositionum et tertiae
conclusionis, maior quidem propositio dicitur ea quae maiorem terminum
continet, id est in qua maior quidem praedicatur; medius uero supponitur, ut
"Omne animal substantia est"; minor uero propositio est quae medium
quidem terminum praedicat, subiicit autem minorem, ut "Omnis homo animal
est". Sed quoniam a maioribus nec esse est minora descendere, eius
conclusionis, quae ex duabus propositionibus nascitur, illa quasi effectrix et
propria propositio uidetur esse, quae prima est; haec [autem est, "Omnis
homo substantia est". Quod qui priores posterioresque nostros Analyticos,
quos ab Aristotele transtulimus, legit, minime dubitat. Sed etsi quis quae
illic scripta sunt nesciens, ad haec legenda proruperit, etiamsi rationem rerum
quas non intelligit minime comprehendit, ita tamen ut dictum est esse confidat,
seque in Aristotelis Analyticis uberius inuenturum esse, si legerit,
arbitretur. Natura igitur rerum fert ut ubi quid maius ac minus est, ibi
maximum quoque aliquid inesse necesse sit. Quo fit ut sint quaedam maximae
propositiones, quoniam minores maioresque esse monstrauimus, quarum natura ex
simplicium propositionum partitione sumenda est. Omnis enim simplex propositio
uel affirmatiua est, uel negatiua. Earumque aliae sunt uniuersales,
ut: Omnis homo iustus est. Nullus homo iustus est aliae
particulares, ut: Quidam homo iustus est aliae indefinitae, ut: Homo
iustus est. Homo iustus non est aliae singulares aliquid atque indiuiduum
continentes, ut: Cato iustus est Cato iustus non est
Harumque omnium aliae sunt dubitabiles, aliae indubitatae. Supremas igitur ac
maximas propositiones uocamus, quae et uniuersales sunt, et ita notae atque
manifestae, ut probatione non egeant, eaque potius quae in dubitatione sunt
probent. Nam quae indubitata sunt, ambiguorum demonstrationi solent esse
principia, qualis est, omnem numerum uel parem esse uel imparem, et aequalia
relinqui, si aequalibus aequalia detrahuntur; caeteraeque de quarum nota
ueritate non quaeritur. Maximas igitur, id est uniuersales ac notissimas
propositiones, ex quibus syllogismorum conclusio descendit, in Topicis ab
Aristotele conscriptis locos appellatos esse perspeximus; quod enim maximae
sunt, id est uniuersales propositiones, reliquas in se uelut loci corpora
complectuntur, quod uero notissimae atque manifestae sunt, fidem quaestionibus
praestant, eoque modo ambiguarum rerum continent probationes. Has autem
aliquoties quidem in ipsis syllogismis atque argumentationibus inhaerere
conspicimus, aliae uero in ipsis quidem argumentationibus minime continentur,
uim tamen argumentationibus subministrant:ut si uelimus ostendere regnum melius
esse quam consulatum, dicemus: Regnum cum sit bonum, diuturnius est quam
consulutus; omne uero quod est diuturnius bonum, melius est eo quod parui
est temporis: regnum igitur melius est consulatu. Hic igitur maxima
propositio atque uniuersalis et per se cognita, neque indigens probatione,
argumentationi inserta est. Ea uero est: Omnia quae diuturniora sunt bona,
meliora esse his quae sunt temporis breuitate constricta. At si
uelimus ostendere non esse inuidum qui sapiens sit, dicamus: Inuidus est
qui moeret aliena felicitate; non autem sapiens est quem felicitas aliena
contristat: non est igitur inuidus sapiens. Hic maxima propositio
argumentationi non uidetur inclusa sed extrinsecus posita, syllogismo tamen
uires ministrat. Haec uero est: Quorum diuersae sunt definitiones, diuersas
esse substantias necesse est. Quisquis igitur uel Aristotelis Graeca
uel nostra ab Aristotele translata prospexerit, has illic propositiones locos
inueniet nuncupari, quae sunt maximae atque uniuersales et uel per se
necessariae, uel per se probabiles ac notae. Sed quoniam has propositiones
plures ac pene innumerabiles esse nec esse est, restat adhuc quo amplius ratio
speculationis ascendat. Possumus enim, diligenti tractatu considerationis
adhibito, omnium maximarum atque uniuersalium propositionum differentias
perpendere, atque innumerabilem maximarum propositionum ac per se notarum
multitudinem in paucasatque uniuersales colligere differentias, ut et alias
dicamus in definitione consistere, alias in genere, atque alias alio modo quod
paulo post apertius demonstrabo. Omnes igitur maximae propositiones, quaecumque
sub definitionis uerbi gratia rationem cadunt, uno definitionis nomine
continebuntur. Et sicut illae reliquarum propositionum loci esse dicebantur,
quod eas intra suum ambitum continerent, ita ipsarum maximarum atque
uniuersalium propositionum, quas minorum propositionum locos esse praediximus,
illa differentiae, et si non uere, tamen quadam ueluti imagine loci esse
uidebuntur, in quas fuerint conuenienti ratione reductae. Sed istae
locorum, id est propositionum maximarum, differentiae, quas etiam ipsos locos
nominamus, possunt subiectarum propositionum etiam genera nuncupari. Nam
differentiae continentes etiam genera communiter possunt uideri, ut irrationale
cum a rationali uelut diuisibili differentia dissideat; tamen equi uel canis,
differentia specifica est, et ad eos locum generis tenet. Namque animal
irrationabile equi genus est. Ita etiam in maximis propositionibus. Nam quod
aliae sunt ex toto, aliae ex partibus, hae inter se comparatae differentiae
diuisibiles sunt, ad ipsas uero maximas propositiones differentiarum
continentiae uelut generis loco sunt. Nam propositionis ex tolo uenientis genus
est idipsum quod uocatur ex toto. Item propositiones a partibus ductae, quamuis
notae sint atque manifestae genus est, quod a partibus, et caeterae
differentiae earum propositionum quae cum sint maximae, tamen eisdem uidentur
includi, uelut quaedam genera sint. Quae uero sint hae differentiae paulo
posterius disseram. De his igitur nunc locis tractare Tullius instituit
qui maximas propositiones quas superius diximus, id est per se notas atque
uniuersales, continent atque includunt. Hae uero sunt maximarum differentiae
propositionum. De uniuersalium igitur enuntiationum per seque notarum
differentiis disserit, ut fit integer locus argumenti sedes. Nam si argumentum
omne per propositiones ad conclusionem usque perducitur, omnes uero reliquae
propositiones in prima maximaque propositione continentur, ipsaque prima ac
maxima propositio, tum pars est argumentationis, id est syllogismi, tum
extraposita argumentationi uires ministrat, ut utroque modo quoniam perficit
argumentum, pars argumentationis quaedam esse uideatur, non est dubium quin hae
differentiae, quae propositiones maximas continent, eaedem omnes etiam
contineant argumentationes, ut maximarum propositionum differentiae iure loci
argumentorum et quasi quaedam ultimae sedes esse uideantur. Nam ex his
quatuor significationibus appellationum duarum, argumentationis scilicet atque
argumenti, unam quamlibet esse nec esse est. Aut enim elocutio et contextio
ipsa propositionem cum maximis propositionibus, uel extra syllogismum positis,
uel in eodem inclusis, argumentatio uocatur. Argumentum uero mens et
sententia syllogismi, aut elocutio ratiocinationis cum maximis propositionibus
et sententia syllogismi argumentum esse dicetur, ut idem sit argumentum quod
argumentatio. Aut argumentatio quidem uocabitur tota contextio syllogismi cum
sententia sed argumentum maxime propositio, aut integer ratiocinationis ordo
praeter maximas propositiones argumentatio, sententia uero argumentationis
argumentum. Reliqua uero maxima propositio, locus. Sed cum haec ita sint,
siue quis ipsarum propositionum contextionem, et usque ad conclusionem
continuum ductum cum maxima propositione, uel extra posita, uel propositionibus
ratiocinationis inclusa, argumentationem uocare uelit, argumentum uero
sententiam mentemque ratiocinationis, nihilominus locos intelligimus maximarum
propositionum differentias; siue quis ratiocinationis totius uim atque
sententiam totam cum maxima propositione, uel intra, uel extra posita,
argumentum uocet, non est dubium quin totius ratiocinationis locus ille sit qui
est maximae propositionis differentia, continet enim maximam propositionem, in
qua propositiones caeterae continentur: siue argumentationem quidem totam
ratiocinationis contextionem uocari placeat, argumentum uero maximam
propositionem, recte rursus locus putabitur maxime propositionis differentia,
quae argumentum claudit et continet. Quod si argumentum quidem sensus ipse
totius ratiocinationis intelligatur, argumentatio uero integra ratiocinationis
prolatio, extra uero et ab utrisque diuersum ualens, uelut locus quidam maxima
propositio consideretur, sic quoque maximarum differentiae propositionum loci
esse uidebuntur. Nam cum differentia ipsa maximam propositionem contineat,
eiusque sit locus, maxima uero propositio argumentationi uel argumento uires
ministret, non est dubium quin ea toti argumento locus esse uideatur, quod
totum intra maximae propositionis ambitum claudit. Demonstratum igitur
est quae sint argumentorum sedes, id est, ubi argumenta clauduntur (hae sunt
autem maximarum propositionum differentiae), quae uocantur loci, quid etiam
argumentum, quoniam est rei dubiae faciens fidem, quae sit uero res dubia, id
est pars altera quaestionis, quid sit quaestio, id est dubitabilis propositio,
quid sit simplex propositio, id est enuntiatio, quae praedicato et subiecto
termino contineatur, uerum falsumue designans, quae omnia meminisse oportet.
Maximarum enim propositionum differentiae quas locos esse praediximus, ab his
dicuntur terminis qui prius in propositione sunt, posterius in quaestione
considerantur, praedicato scilicet atque subiecto. Ex his etiam quae
superius dicta sunt quid distent Topica Ciceronis atque Aristotelis apparuit.
Aristoteles namque de maximis propositionibus disserit, has enim locos
argumentorum esse posuit, ut nos quoque supra retulimus. Tullius uero locos non
maximas propositiones, sed earum continentes differentias uocat, ac de his
dicere contendit. SED EX HIS LOCIS IN QUIBUS ARGUMENTA INCLUSA SUNT, ALII
IN EO IPSO DE QUO AGITUR HAERENT, ALII ASSUMUNTUR EXTRINSECUS. IN IPSO TUM EX
TOTO, TUM EX PARTIBUS EIUS, TUM EX NOTA, TUM EX EIS REBUS QUAE QUODAMMODO
AFFECTAE SUNT AD ID DE QUO QUAERITUR. EXTRINSECUS AUTEM EA DUCUNTUR QUAE ABSUNT
LONGEQUE DISIUNCTA SUNT. Post definitionem loci atque argumenti facit
plenissimam diuisionem locorum. Ac primum quoniam omnis diuisio cuncta debet
amplecti, neque superfluum quidquam interponere, nec omittere quid sit
necessarium, id M. Tullius proposita diuisione patefacit dicens: EX HIS LOCIS
IN QUIBUS ARGUMENTA INCLUSA SUNT, ALIOS IN EO IPSO DE QUO AGITUR HAERERE, ALIOS
EXTRINSECUS ASSUMI. Nihil enim huic diuisioni posse uidetur addi uel minui,
quandoquidem breuiter cuncta complectitur. Argumentorum enim loci quicumque
sumuntur, aut in ipso de quo agitur haerent, aut minime. Id autem minime
extrinsecus positos esse designat, quod si inter id quod dicimus in ipso de quo
agitur haerere argumentorum locos, et non haerere nihil est medium. Inter
affirmationem enim atque negationem nulla est medietas. Cumque in ipso de quo
agitur non inhaerere locum argumenti, id sit extrinsecus assumi, dubium non est
quin nihil intersit medium inter ea argumenta quorum in hoc ipso haerent loci
de quo agitur, et ea quorum extrinsecus assumuntur, EXTRINSECUS AUTEM EA
DUCUNTUR QUAE ABSUNT LONGEQUE DISIUNCTA SUNT. Sed quid ipsum sit de quo
agitur facilior explanatio est, si eorum quae prius dicta sunt meminerimus. Nam
cum de quaestione loqueremur, eamdem diximus esse quaestionem quae esset
dubitabilis propositio. Sed quoniam propositio subiecto praedicatoque
constaret, quaestionem quoque diximus subiecta praedicatoque coniungi.
Praedicatum igitur uel subiectum est hoc ipsum de quo agitur. Nam cum de
alterutra quaestionis parte dubitetur, in hac ambiguitate quaeritur utrum
praedicatus terminus inesse subiecto uideatur, an minime. Nam cum omnis
quaestio in affirmationem negationemque diuidatur, si praedicatus subiecto
inest, fit ex eo uera affirmatio; si non inest, fit uera negatio. Sed in
quaestionibus disceptandis, alter affirmationem, alter negationem tuetur, id
est, alter praedicatum inesse subiecto, alter non inesse defendit. Quod uero ex
alterutra parte defenditur, hoc est ipsum de quo agitur. Ipsum igitur est
praedicatus terminus uel subiectus, de quibus agitur. Atque ut id exemplo
clarius fiat, sit quaestio, an Verres furtum fecerit. Hic Verres subiectum est,
furtum facere praedicatum; quod si furtum Verri coniungitur, idque
argumentationibus comprobatur, quaestionis affirmatio demonstrata est. Si
furtum a Verre seiungitur, quaestionis rursus negatio comprobatur. Ipsum itaque
de quo agitur nihil est, nisi uterlibet eorum terminus qui in quaestione
proponitur, siue praedicatus, siue etiam subiectus. Qui quidem termini
per se argumenta esse non possunt, neque uero per se argumenta praestare. Si
enim ipsi simplices ut sunt argumenta esse possunt, uel argumentorum praestare
materiam, nullam in quaestione relinquerent dubitationem; sed quoniam de ipsis
adhuc in quaestione dubitatur an eorum possit esse rata coniunctio, ipsi quidem
neque per se argumenta esse, neque per se argumenta praestare poterunt, ea uero
quae in ipsis insunt, uel extrinsecus posita sunt, argumentorum copiam
subministrant. Nam quod Victorinus quaerit, et explicat latius, ne
commemoratione quidem mihi dignum uidetur. Quaerit enim quaestio ipsa de quo
agitur an habeat locum, quod minime oportuit, ut dictum est. Locus de quo nunc
agimus non cuiuslibet rei locus est sed argumenti, argumentum uero rei dubire
faciens fidem, res uero dubia pars quaestionis. Quod si argumentum quaestio uel
pars quaestionis esse non potest, locus uero de quo agimus argumenti est locus,
non est dubium quin locus quaestionis esse non possit. Amplius, omnis
quaestio dubitabilis est, argumentum uero omne quaestionis purgat ambiguum. Non
est igitur idem argumentum quod quaestio sed loci, argumentorum sunt loci, non sunt
igitur quaestionis. Hoc igitur praemisso intelligamus ipsum de quo agitur quemlibet
terminum in quaestione propositum, siue praedicatum, siue subiectum, qui cum
per se res sint, ipsi quidem argumentum esse non possunt, habere autem in se
quaedam possunt, in quibus argumenta sint collocata, et quae sedes argumentorum
esse intelligantur. Quae quidem cum terminis his de quibus agitur inhaerere
uideantur, nondum tamen sunt argumenta sed quasi iam argumenta complectentes
loci, et uelut naturali sede condentes. Idem de his locis qui extrinsecus
assumuntur dicendum est, ipsi namque positi sunt exterius et quodammodo a
propositionum terminis ablegati, et res quaedam sunt sed intra se argumentorum
copiam claudunt. Atque, ut breui sententia colligam, ipsum de quo agitur
nihil est aliud nisi quilibet in quaestione terminus collocatus. Hi argumenta
esse non possunt, neque ab his trahi aliquod argumentum. Quo fit ut termini
ipsi qui in quaestione sunt positi, nec argumenta, nec loci sint sed tantum
res. Rursus ea quae in his haerent de quibus agitur, ipsa quidem res esse
manifestum est sed claudunt in se argumentorum copiam, ut cum ex his sumi
aliquod oporteat argumentum, locorum uice fungantur. Itaque si quis per se ea
speculetur, res sunt; si quis ab his aliquod argumentum quaerat educere, loci
fiunt. Et haec communiter quidem de principalibus ac maximis locis dicta sint.
Hi uero sunt qui in ipsis de quibus agitur haerent, uel qui assumuntur
extrinsecus. Ut igitur faciat plenam locorum diuisionem, quos simpliciter
ac maximos posuit locos, eosdem uelut in quasdam species resecat, dicens: IN
IPSO TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS EIUS, TUM EX NOTA, TUM EX HIS REBUS QUAE
QUODAMMODO AFFECTA SUNT AD ID DE QUO QUAERITUR. Et locorum quin in ipso sunt de
quae agitur constituti quatuor partium facta diuisiones. Hi quippe qui in ipso
de quo agitur haerent, uel ex toto eo de quo agitur termino, uel ex partium
eius enumeratione, uel ex nota, uel ex affectis intelliguntur existere. Id ita
esse breui ratione firmabitur. Nec esse est enim quemlibet eorum terminorum qui
in quaestione sunt collocati, et definitiones habere proprias, et partes, et
nomina, et ad res alias quadam relatione coniungi ac referri. Ergo locus qui
dicitur ex toto, id est, quoties argumentum ex alicuius definitione termini qui
est in quaestione tractatur, siue subiecti, siue praedicati. Ex partium
enumeratione, quoties ab eius termini partibus, qui in quaestione positus est,
ducitur argumentum. A nota, quoties ab eiusdem termini uocabulo nascitur
argumentum. Ab affectis uero, quoties ab his quae ad propositum terminum
relatione aliqua reducuntur argumentatio proficiscitur Quorum similitudines
omnium posterius explicabo, quando ea quae snper his rebus declarandis Cicero
posuit exempla tractauero. Nunc illud est considerandum, ait enim Tullius
ex his locis, in quibus argumenta inclusa sunt, alios in eo ipso de quo agitur
haerere, alios extrinsecus assumi, quod ita dictum uidetur, tanquam diuersi
sint loci qui in his de quibus agitur haerent, et ipsum illud de quo agitur.
Nihil enim in se ipso haerere potest, ac per hoc quod in aliquo haeret ab eo in
quo haeret diuersum est. Quod si loci sunt aliqui qui in his haereant de quibus
agitur, non est dubium quis hi loci ab his de quibus agitur sint diuersi.
Rursus cum dicit IN IPSO TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS EIUS, tanquam non de
diuersis loquatur, ita ait, in ipso locos esse tum ex toto, tum ex partibus,
tum ex nota, quasi uero aliud sit ipsum quam totum, aut aliud ipsum quam omnes
undique eius partes. Unaquaeque enim res idem est quod totum. Idem namque est
Roma quod tota ciuitas. Rursus idem est unaquaeque res quod eius singulae
parles in unum reductae; uelut idem est homo quod caput, thorax, uenter, ac
pedes, caeteraeque in unum partes coniunctae atque copulatae. Quomodo igitur
tanquam de diuersis primum locutus est, cum locos haerere in his terminis de
quibus agitur dixit, post autem uelut de eisdem loquitur, cum in ipso locos,
tum ex toto, tum ex partibus esse proponat? Nihil enim differt dicere IN IPSO
TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS quam si ita dixisset "in ipso tum ex
ipso". Nam si idem est ipsum quod totum ac partes, idem est dicere in ipso
haerere locum, ex toto, aut ex partibus, quod in ipso haerere locum, qui est ex
ipso, quod ne intelligi quidem pctegt, quemadmodum in ipso haerere possit, quod
ipsum est, cum nihil sibi haereat, ut superius expediui. Sed, quemadmodum
paulo ante exposui, unaquaeque res cum et definitionem habeat et partes, si pernoscamus
quae sit definitionis uis et quae partium, cunctus ambiguitatis nodus
absoluitur. Est enim definitio coactae in se atque complicatae rei explicatio,
uelut cum dicimus hominem esse animal rationale, mortale. Nam id quod breuiter
nomen, atque anguste designabat, id explicauit ac prolulit, et per
substantiales quodammodo partes definitio patefecit. Alium igitur nec esse est
esse intellectum rei, quae complicata est, in eo quod sibimet coacta atque in
unum redacta est, alium eiusdem rei explicatae atque dissertae, in eo quod
expedita atque diffusa est: nam et si idem rei definitio quod nomen significat,
illud tamen ipsum quod nomen anguste confuseque designat, apertius definitio
disserit ac patefacit. Recte igitur aliud quiddam est ipsum, aliud eius
definitio, etiam si unum idemque est utrisque subiectum. Ut enim dictum est,
ipsum singulum est, definitio ipsius singuli per partes distributio atque
enumeratio. (Partes autem nunc substantiales dico, non quae magnitudinem
iungunt sed quae proprietatem rationemque substantiae.) Sed quod in
definitione dictum est secundum eas partes quae substantiam iungunt, id in
partibus intelligendum est quae magnitudinem copulant, uelut domus quae
fundamento, parietibus tectoque coniungitur. Nam eum ea nihil sit aliud nisi
quod partibus copulatur, ipsa tamen una quaedam est, atque coniuncta, partitio
uero eius per quaedam membra distributio est, atque ideo licet unum sit, quod
ipsum est totum, et quot sunt partes undique confluentes, non tamen eumdem nec
esse est habere intellectum, cum ipsum integrum consideratur, ut cum in partes
ipsas quibus iunctum est distribuitur. Ex nota uero locus apertissime ab
eo termino diuersus est, qui in quaestione constitutus est. Quis enim dicat id
esse cuiuslibet rei uocabulum quod ipsa res est, quam designat? Ea uero
quae ad id de quo agitur affecta sunt, et si extra posita uidentur, terminum
tamen in quaestione propositum uelut e regione respiciunt, quae in multas
secari nec esse est partes. Omnis enim res, id quod est, unum est, multa uero
sibimet retinet adiuncta, quae hoc ab his quae omnino extrinsecus sunt differre
intelliguntur, quod ea quae affecta sunt, in relatione sunt posita, ut post et
ipsarum propositio, et exemplorum ratio monstrabit. Ea uero quae sunt
extrinsecus, in nulla relatione sunt constituta, atque ideo hac extrinsecus
solum. Illa uero affecta sunt nuncupata, habet enim aliquam quodammodo
cognationem ad id ad quod reducitur, id quod refertur ad aliquid. Sed
omnes fere bos locos quos nunc simplices atque indiuisos ponit, posteriore
tractatu diuidit, ut nunc quoque eos locos qui in ipso sunt, distribuit, cum
alios ex toto fieri proponit, alios ex partibus, alios ex nota, alios ex
affectis, affectaque ipsa suis partibus secat. Extrinsecus uero locum in
testimonio positum esse confirmat, testimonii uero uim in auctoritate
constituit, auctoritatem uero deducit in proprias partes sed hoc posteriore
tractatu liquebit. Nunc uero eos simplices atque indiuisos locos proponit, et
ueluti simplicibus subdit exempla. Restat autem nunc unum quod uidetur
esse quaerendum, an hi loci qui in locos alios diuiduntur, eorum quos intra se
continent locorum loci esse possint, ut eorum qui sunt ex toto, ex partibus, ex
nota, ex affectis, is unus quidam quasi locus sit, qui est in ipso. Nihil
quidem prorsus officeret locorum locos putare, fieri enim potest ut locus
amplior intra semet angustiores contineat locos, uelut id prouincia ciuitates,
sed nunc haec similitudo non conuenit. Locus enim est ex quo ducitur id in quo
argumentum est positum. Quod si loci locus esse posset, et is qui est in ipso
de quo agitur, eos qui sunt ex toto, uel ex partibus, uel ex nota, uel ex
affectis, uelut quidam locus includeret, non essent, ex toto, ex partibus, ex
nota, uel ex affectis loci sed argumenta quoniam in eo haererent loco, qui in
eo ipso de quo agitur termino esse praedictus est; non igitur locus esse
poterit loci sed uel ut genera in species. Ita nunc sit diuisio locorum,
nec hoc superius dictis uideatur esse contrarium, cum et maximas propositiones,
et earum differentias continentes communi nomine appelauimus locos. Nam maxime
propositiones, licet eo ipso quo maximae sint includant caeteras et uocentur
loci, tamen quia sunt notissimae possunt rebus dubiis argumenta. Iure igitur
earum differentiae loci nominantur, quod in locorum speciebus, aliter sese
habet, quae prorsus argumenta esse non possunt: nam in ipso locus uelut in
species quasdam diuiditur in eos qui sunt ex toto, ex partibus, ex nota, ex
affectis. Unusquisque [enim horum locorum primi loci integrum uidetur ferre
uocabulum, nam ut hominem animal dicimus, itemque equum atque bouuem animalia
nuncupamus, sic is locus qui ex toto est in ipso esse dicitur, itemque qui ex
partibus ac nota, atque ex affectis in ipso sunt. Sed ex his locis argumenta
quidem duci possibile est, ipsa uero argumenta ut sint, fieri nequit. SED
AD ID TOTUM DE QUO DISSERITUR TUM DEFINITIO ADHIBETUR, QUAE QUASI INVOLUTUM
EVOLVIT ID DE QUO QUAERITUR; EIUS ARGUMENTI TALIS EST FORMULA: IUS CIVILE EST
AEQUITAS CONSTITUTA EIS QUI EIUSDEM CIVITATIS SUNT AD RES SUAS OBTINENDAS; EIUS
AUTEM AEQUITATIS UTILIS COGNITIO EST; UTILIS ERGO EST IURIS CIVILIS
SCIENTIA. Post locorum bifariam diuisionem, in ipso scilicet de quo
agitur, et extrinsecus positorum, partitus est eum locum qui est in ipso in
quatuor membra, id est a toto, a partium enumeratione, a nota, ab affectis. Nunc
igitur anteaquam diuidat eum locum quem ab affectis esse proposuit, superiorum
trium quos in primo interim tractatu minime diuisurus est sed indiuiduos
relicturus, exempla supponit. Hi uero sunt a toto a partibus, a nota. Ac
de eo quidem loco qui est a toto ita disseruit ac disputauit. Tum inquit,
dicimus a toto locum argumenti quando totum illud quod in quaestione positum
est definitione complectimur, quae definitio rei dubiae de qua agitur facit
fidem. Sed definitio omnis, ut superius quoque dictum est, id quod nomine
inuolute designatur euoluit et explicat, atque ideo non terminus qui in definitione
ponitur sed quae in ipso sunt, possunt argumentis praestare materiam. Sunt
autem in unoquoque propriae definitiones. Definitio enim est oratio substantiam
uniuscuiusque significans; quod si ab unaquaque re propria substantiam non
recedit, ne definitio quidem recedit, est ergo definitio in ipso termino de quo
agitur, quae definitio totum terminum nec esse est comprehendat, neque enim
partem substantiae sed totius termini substantiam monstrat. Sed quoniam ex ea
definitione fides fit rei dubiae, trahitur ex definitione argumentum, quae
definitio in ipso termino est de quo agitur, et eius termini totum est. Itaque
argumentum quod a definitione ducitur, ab eo ducitur loco qui in ipso termino
est, qui in quaestione est collocatus. Sed quoniam multi loci sunt in ipso, hic
totus a toto est. Definitio enim totum terminum comprehendit, atque id quod
inuolute nomine significabitur, euoluit atque aperit. Eius argumenti talis
est formula. Ius ciuile est aequitas constituta his qui eiusdem ciuitatis sunt
ad res suas obtinendas, eius autem aequitatis utilis est cognitio, utilis est
ergo iuris ciuilis scientia. Est enim quaestio, an iuris ciuilis scientia sit
utilis, hic igitur ius ciuile supponitur, utilis scientia praedicatur.
Quaeritur ergo an id quod praedicatur, uere possit adhaerere subiecto.
Ipsum igitur ius ciuile non potero ad argumentum uocare, de eo enim quaestio
constituta est; respicio igitur quid ei sit insitum, uideo quoniam omnis
definitio ab eo non seiungitur, cuius est diifinitio, ne a iure ciuili quidem
propriam definitionem posse abiungi. Definitio igitur ius ciuile, ac dico:
"Ius ciuile est aequitas constituta his qui eiusdem ciuitatis sunt, ad res
suas obtinendas"; post hoc considero num haec definitio reliquo termino,
utili scientiae, possit esse coniuncta, id est an aequitas constituta his qui
eiusdem ciuitatis sunt, ad res suas obtinendas, utilis scientia sit, uideo esse
utilem scientiam dictae superius aequitatis. Concludo itaque, iuris igitur
ciuilis scientia utilis est. Hoc igitur argumentum est ex eo loco qui est
in ipso, hoc est in iure ciuili, qui terminus in quaestione est constitutus,
hic uocatur a definitione, quae definitio quaestionum totum est, argumentum est
a toto. Omnis autem locus a toto in ipso est. Nec nos ulla dubitatio perturbet,
quod ius ciuile et rursus scientia utilis quaedam sunt orationes quas inter
terminos collocamus. Non enim omnis termiuus simplici orationis parte profertur
sed aliquoties orationes integrae in terminis constituuntur. In hac igitur
argumentatione maxima ac per se nota propositio est ea per quam intelligimus
omnia quae definitioni alicuius coniunguntur, ipsa quoque illis quorum
definitio est, necessitate copulari. Sequitur enim cum definitio iuris ciuilis
utili scientiae possit adiungi, iuri quoque ciuili utilem scientiam posse
copulari; est igitur hoc argumentum tractum ab eo loco qui est in ipso. Omnis
enim definitio in eo termino est quem definit, eodem autem loco qui in ipso
est, et a toto. Omnis enim definitio totum monstrat atque aperit. Maxima propositio
haec. Quibus aliquorum definitio iungitur, eisdem necessario ea quae
definiuntur aptantur. TUM PARTIUM ENUMERATIO, QUAE TRACTATUR HOC MODO: SI
NEQUE CENSU NEC VINDICTA NEC TESTAMENTO LIBER FACTUS EST, NON EST LIBER;
NEQUE ULLA EST EARUM RERUM; NON EST IGITUR LIBER. Sit quaestio utrum
aliquis quem seruum esse constiterit, sit liber. Quoniam faciendi liberi tres
sunt partes. Una quidem ut censu liber fiat, censebantur enim antiquitus soli
ciues Romani. Si quis ergo consentiente uel iubente domino, nomen detulisset in
censum, ciuis Romanus fiebat et seruitutis uinculo soluebatur, atque hoc erat
censu fieri liberum, per consensum domini nomen in censum deferre, et effici
ciuem Romanum. Erat etiam pars altera adipiscendae libertatis, quae uindicta
uocabatur: uindicta uero est uirgula quaedam quam lictor manumittendi serui
capiti imponens, eumdem seruam in libertatem uindicabat, dicens quaedam uerba
solemnia, utque ideo illa uirgula uindicta uocabatur. Illa etiam pars faciendi
liberi est, si quis suprema uoluntate in testamenti serie seruum suum liberum
scripserit. Quae quoniam partes sunt liberi faciendi, siquis aliquem,
quem seruum fuisse constiterit, monstrare uelit non esse liberum factum, dicet,
si neque censu, neque uindicta, noque testamento, liber factus est, non est
liber. At nulla earum parte liber factus est, non est igitur liber. Si enim
omnes partes a qualibet illa re abiunxeris, totum necessario separasti. Nam cum
totum in suis partibus constet, si quid nulla cuiuslibet parte coniungatur, a
toto etiam segregatur. Partes autem duobus dicimus modis, uel species,
uel membra. Species est quae nomen totius integrum capit, uelut homo atque
equus animalis, utraque enim per se integro nomine animalia nuncupantur. Est
enim homo animal, et rursus equus animal. Item membra sunt quae cum totum
efficiant, coniuncta totius capiunt nomen, singula uero nullo modo, ut cum
fundamentum, parietes et tecta domus membra sint, simul omnia domus dicuntur,
fundamenta uero sola domus uocabulo minime nuncupantur, neque parietes, neque
tecta. In his igitur quae species sunt, quoniam nomen totius integrum
capiunt, uisi sigillatim omnes partes ab eo de quo dubitatur abiunxeris, non possis
totum ab esse monstrare. Dictum est enim unamquamque partem totius uocabulum
integrum capere. Ut quoniam faciendi liberi tres sunt species, census,
uindicta, testamentum, si quaslibet duas remoueris, una tamen permanserit,
liberum necessario confitebere. Siue enim censu tantum, siue uindicta, siue
testamento sit liber factus, liberum esse constat. Ergo in his nisi omnes
species remoueris, non potes destruere quod in quaestione propositum est. At si
affirmare uelis atque astruere, sufficit tantum unam quamlibet speciem
demonstrare, ut si uelis ostendere liberum, sat est, ut monstres, aut uindicta,
aut censu, testamentoue liberum factum; quod si destruere uelis, non sufficit
ostendere, aut censu, aut uindicta, aut testamento liberum non esse factum sed
nullo eorum modo ad libertatem uenisse. Itaque his partibus quae species sunt,
si destruere uelis, cunctis utendum est; si astruere, una sufficiet. At
uero hae partes quae sunt membra, contrario modo sunt: si destruere uelis, sat
erit unam seiungas; si astruere, cuncta ad esse necessario comprobabis. Nam si
uelis ostendere non esse domum, sufficit ut aut fundamenta non esse dicas, aut
parietes, aut tecta; nam si quid horum defuerit, domus non potest appellari. At
si uelis ostendere domum esse, nisi cuncta in unum coniunxeris, id quod
proponis astruere non ualebis. Omnes hi loci a partium enumeratione
ducuntur, quia in his partibus quae species sunt, cunctae partes enumerantur,
ut destruas; in his uero quae membra sunt cunctae partes enumerantur, ut astruas.
Quaestio est igitur in proposito Ciceronis exemplo argumentia partium
enumeratione deducti: An is quem seruum fuisse constitit, liber sit; is quem
seruum fuisse, subiectus est terminus, liber uero praedicatus; neutrum igitur
eorum terminum ad argumentum ducere poterimus. De quibus enim dubitatur, ipsi
fidem dubitationi facere non possunt. Video igitur qui in altero eorum sit.
Quoniam uero partes omnes in eo sunt cuius partes sunt, quoniamque libertas
data, habet proprias partes, sumo eas atque dinumero, et requiro an ulla earum
partium uideatur inesse subiecto sed nulla inest. Concludam igitur non esse
liberum. Unde manifestius demonstratur, non solum ab eo termino qui
subiectus est, argumenta sumi posse, uerum etiam ab eo qui est praedicatus. Nam
prius exemplum quo demonstrabat iuris ciuilis scientiam esse utilem, ius ciuile
quod subiectum erat definiuit, ductumque inde argumentum rei dubiae fecit
fidem. Hic uero libertatis partes enumerantur, qui est terminus
praedicatus. Est igitur, ut dictum est, quaestio an quem seruum esse
constiterit, liber sit. Terminus is quidem quem seruum esse constiterit,
subiectus est, praedicatus uero liber, in ipso, id est in praedicato, partes
sunt, quae enumerantur, a qua enumeratione dum trahitur argumentum, fit argumentum
in ipso, ex partium, enumeratione. Maxima propositio, cuius partium nihil rei
propositae copulatum est, ei ne totum quidem esse potest coniunctum. Hic
uidetur esse dubitandum num locus a toto atque a partibus idem sit, cum omnes partes totum faciant, si
coniungantur. Sed respondebitur, cum sit argumentum ab enumeratione
partium, totum diuiditur, non coniungitur, diuidendo enim argumentatio
procedit. Nam quisquis partem cuiuslibet sumpserit, eo ipso, quo partem sumpserit,
rem uidetur esse partitus. Qui uero rem diuidit, dissipat potius quam conficit
totum sed restare adhuc ambiguitas potest, nam definitio quoque inuolutam
nominis significationem explicat, per quamdam substantialium partium
enumerationem. Enumeratio uero partium quaedam ipsarum a se partium dissipatio
est. Sed aliud est eiusdem rei partes enumerare, aliud definitionis. Nam
rei partes ea re cuius partes sunt semper minores sunt, ut caput, uel thorax,
uel caetera membra toto homine; partes uero definitionis tota re qua definitur,
si substantiales sunt, probantur esse maiores, ut animal homine maius est.
Itemque rationale, mortale, eumdem hominem, uelut maiora continent, et sunt
singulae partes definitionis eiusdem quae est animal, rationale, mortale.
Partitio igitur sumit partes rei quam partitur minores semper. Quae uero sumit
definitio, uniuersalia sunt per se totaque et continentia definiri, quamuis
posita in definitione partes fiant, ut in his quae superius exempla proposui
facile intelligi potest. Unde manifestum est locum a toto, qui definitionis
est, et locum a partium enumeratione, esse diuersos. TUM NOTATIO, CUM EX
VERBI VI ARGUMENTUM ALIQUOD ELICITUR HOC MODO: CUM LEX ASSIDUO VINDICEM
ASSIDUUM ESSE IUBEAT, LOCUPLETEM IUBET LOCUPLETI; IS EST ENIM ASSIDUUS, UT AIT
L. AELIUS, APPELLATUS AB AERE DANDO. Tertius eorum qui in ipso sunt locus
a notatione est constitutus. Notatio uero est quaedam nominis interpretatio.
Nomen uero semper in ipso est. Ut enim definitio id quod in nomine inuolutum
est declarat, expedit atque diffundit, ita etiam nomen id quod a definitione
dicitur euolute, inuolute confuseque designat. Quad si definitio in ipso est,
nomen quoque in ipso esse de quo agitur, non potest dubitari. Ex notatione
autem locus uocatus est, quia nomen omnem rem notat atque significat.
Vindex est igitur qui alterius causam suscipit uindicandam, ueluti quos nunc
procuratores uocamus. LEX igitur Aeliasanctia ASSIDUO, VINDICEM ASSIDUUM ESSE
iubet. Quaeritur utrum cum LEX Aeliasanctia VINDICEM uelit ESSE ASSIDUO
ASSIDUUM, LOCUPLETEM uelit LOCUPLETI. Hic igitur subiectus quidem terminus est,
lex Aeliasanctia uindicem uolens assiduo assiduum, praedicatus uero locupletem
locupleti, ipsos igitur terminos non potero ad fidem quaestionis adducere. De
ipsis enim de quibus ambigitur, nulla effici fides potest. Quaero igitur quid
in ipsorum altero sit, ac uideo unum eorum terminum esse, legem Aeliamsanctiam,
quae assiduum assiduo uindicem esse decernat, id est subiectum, huius orationis
interpretor partem, quae est assiduus. Quid enim est assiduus aliud nisi assem
dans? assem uero dare nisi locuples non potest, assiduus igitur locuples est.
Cum igitur lex Aeliasanctia assiduo uindicem assiduum esse constituat,
locupletem iubet locupleti, assiduus quippe est locuples, a dando aere
nominatus. Argumentum igitur hoc tractum est ex eo loco qui est in ipso,
id est a nominis interpretatione, nomen enim in ipso illo est cuius nomen est,
cuius interpretatio notatio nuncupatur. Sed ab huius interpretatione factum est
argumentum. Igitur hoc argumentum ex eo loco est, qui est in ipso, id est a
nomine, et eorum qui in ipso sunt, a notatione, id est a nominis
interpretatione. Maxima propositio est, interpretationem nomina idem ualere
quod nomen. Sed paulo confusius a Cicerone dicta argumentatio maximum
praestat errorem. Ita enim dici oportuit, assiduus est qui assemdat, qui uero
assem dat, locuples est, assiduus igitur locuples est. Lex autem Aeliasanctia
assiduum assiduo esse uindicem iubet, locupletem igitur locupleti uindicem esse
praescripsit. Quod si ita dictum esset, apertior argumentatio fuisset. Nunc
uero ita dixit: CUM LEX Aeliasanctia ASSIDUO VINDICEM ASSIDUUM ESSE IUBEAT,
LOCUPLETEM IUBET LOCUPLETI et caetera. Subiunxit, ut ostenderetur locuples esse
assiduum; hoc autem tantumdem ualet, quod ait, legem Aeliamsanctiam assiduo
assiduum uindicem cum iuberet esse, locupletem locupleti esse praecepisse,
tanquam si diceret, qui assiduus est, locuples est. Nisi enim is qui assiduus
est locuples sit, non consequitur ut cum lex Aeliasanctia assiduum assiduo
uindicem esse iusserit, locupletem iusserit locupleti, et argumenti
conclusionem priorem posuit subiecit uero probationem. Conclusio namque est,
cum lex Aeliasanctia assiduum assiduo uindicem uelit esse, locupletem iubet
locupleti, atque hanc praemisit; probatio uero est rationis assiduum esse
locupletem ab aere dando nominatum, et hanc intulit conclusionem. Restat
is locus eorum qui in ipso sunt, qui ducitur ab affectis. Cuius expositionem,
quoniam uaria est multiplex quod diuisio, differamus, ac primi uoluminis
terminum, hucusque sistamus. In tam difficillimi operis cursu non sum
nescius, mi Patrici, quin labor hic noster quem te adhortante suscepimus, dum
iudicio multitudinis imperitae aut eleuatur, aut premitur, facile uariis
reprehensionibus mordeatur. Nam et illi quibus hoc totum disserendi displicet
genus, uelut superuacaneum studium, familiari prauis mentibus cauillatione
despiciunt, et qui maximum huius scientiae fructum putant, sua caeteros
segnitie mentientes, tanto nos operam pares esse non existimant, quorum quidem
priores si non inuidia laboris alieni aestimationem premunt, sed reprehensioni
iudicioque consentiunt, nullo modo ferendos esse puto. Multo quoque in me
libentius detorserim prauae opinionis inuidiam, ac nostris eos diffidere
uiribus facillime patiar, potius quam tantae disciplinae calcare rationem. Sed
proh diuinam atque humanam fidem, quae est haec hominum prauitas, quae tantae
est imprudentia caecitatis, ut pene sua sese ipsi confessione condemnent!
Nullus est enim qui sese uideri nolit peritissimum disserendi, quin etiam
obiectare ipsi aliquid, et resoluere obiecta conantur, etsi facile id factu esset,
cuncti ad scientiam logicae disciplinae uelut ad communia quaedam sapientiae
lucra concurrerent. Iam uero quid absurdius fingi potest, quam quod
probabilibus, ut ipsi existimant, argumentis inutile studium dialecticae
nituntur astruere? Quid enim conuenit disserendi artem disserendo peruertere,
ut cuius opinionem affectes, eiusdem despicias ueritatem? Sed ut cantor ille
discipulum sibi ac Musis canere iubebat, ita et ego quoque mihi ac tibi, non
Musae sed tanquam Musarum praesidi cecinerim, atque id quod multo labore
studioque collegi, non rhetorica tantum facultate, uerum etiam dialectica
subtilitate deponam. Quae uero sequuntur huiusmodi sunt: DUCUNTUR
ETIAM ARGUMENTA EX EIS REBUS QUAE QUODAM MODO AFFECTAE SUNT AD ID DE QUO
QUAERITUR. SED HOC GENUS IN PLURIS PARTIS DISTRIBUTUM EST. NAM ALIA CONIUGATA
APPELLAMUS, ALIA EX GENERE, ALIA EX FORMA, ALIA EX SIMILITUDINE, ALIA EX
DIFFERENTIA, ALIA EX CONTRARIO, ALIA EX ADIUNCTIS, ALIA EX ANTECEDENTIBUS, ALIA
EX CONSEQUENTIBUS, ALIA EX REPUGNANTIBUS, ALIA EX CAUSIS, ALIA EX EFFECTIS,
ALIA EX COMPARATIONE MAIORUM AUT PARIUM AUT MINORUM. Postquam locos eos
exquibus argumenta ducuntur gemina partitione distribuit, alios in ipso de quo
agitur haerere dicendo, alios extrinsecus assumi, cumque locum qui in ipso de
quo agitur haeret in quatuor species secuit, id est a toto, a partibus, a nota,
ab affectis, superioribus quidem tribus exempla subiecit, quae nos primo uolumine
quantum diligenter fieri potuit explicauimus. Restat is locus quem posuit
quartum, id est ab affectis, huius cum multae sunt species, integri atque
indiuisi proponere non potuit exemplum. Nam quorum facienda partitio est,
melius per singula membra dispositis aperiuntur exemplis. Hunc igitur locum
diuidit hoc modo: Locus qui ex affectis est, partim ex coniugatis, partim ex
genere, partim ex forma descendit, ex similitudine etiam, uel ex difterentia,
uel ex contrario, necnon etiam ex coniunctis, ex antecedentibus, et
consequentibus, et repugnantibus, ex causis etiam atque ex effectis causarum,
et comparatione maiorum, aut parium, uel minorum, quae omnia Tullius paulo post
conuenientibus rerum similitudinibus illustrat. Nunc illud nobis dicendum
est quae sit affectorum natura, et quid habeant proprietatis. Sunt enim affecta
quae quodammodo aliquid referri possunt, ad id ad quod referuntur. Omnia uero
quae se aliqua relatione respiciunt, aut amica inter se, aut dissidentia
conferuntur. Si amica, uel substantialiter, ut genus, forma, antecedentia,
consequentia, causa, effectus; uel in qualitate, ut coniugatum, simile,
coniunctum; uel in quantitate, ut paria. Quae uero sibi dissidentia
conferuntur, partim a se differentia sunt tantum, partim aduersa; sed aduersa,
partim in qualitate, ut contraria uel repugnantia, partim in quantitate, ut
maius ac minus. Quae cum ita sint, manifestum est, et amica sibi cognationis
relatione coniungi, et dissidentia hoc ipso quo sibi aduersa sint, ad se
inuicem comparari. Nam quae amica sunt, amicis amica sunt, et dissidentia a
dissidentibus dissident. Ita igitur et genus formae genus est, et forma generis
forma, et antecedentia consequentium, et consequentia, antecedentium, et causa
effectuum causa, et effectus causarum effectus, et coniugata coniugatis
coniugata sunt, et simile simili simile, et coniunctum coniuncto coniunctum, et
paria paribus paria, et differentia differentibus differentia, et maiora
minoribus maiora, et minora maioribus minora sunt, et contraria contrariis contraria,
et repugnantia repugnantibus repugnuntia sunt. Affecta igitur sunt quae cum a
se inuicem diuersa sint, ad se inuicem tamen referuntur. Sed quo ordine
Tullius superius descripsit locos, nos definitiones omnibus apponemus.
Eorum igitur quae ad se inuicem affecta dicuntur, in M. Tullii disputatione
prima sunt coniugata: coniugata uoco quaecumque ab uno nomine uaria prolatione
flectuntur, ut a iustitia iustus, iustum, iuste. Haec inter se cum ipsa
iustitia, unde eorum uocabulum fluxit, coniugata dicuntur. Genus uero est quod
de multis specie differentibus in eo quod quid est praedicatur, uelut animal
dicitur de homine atque equo, quae specie differunt, et in eo quod quid sit
praedicatur. Interrogantibus enim nobis quid sit homo uel equus, respondetur
animal. Quod genus licet nec esse sit ab eo esse diuersum cuius genus est,
cognatum tamen est ei, quia ad id substantiae relatione coniungitur.
Species etiam est, de qua genus superius praedicatur, quam Cicero formam
uocauit, uelut homo animalis. Similitudo est unitas qualitatis. Nam duo
quae sibi similia sunt, eamdem nec esse est habere qualitatem, et quoniam ipsum
sibi simile esse non potest, aliud nec esse est simile consideretur. Sed aliud
esse non poterit, nisi fuerit in aliqua parte diuersum. Ergo similia, a se in
alia quidem re diuersa sunt, in alia uero congruunt. In ea uero re quae
secundum qualitatem congruunt, in ea esse similia intelliguntur, quae ad se similitudinis
illius copulatione referuntur. Differentia est quae unumquodque differt
ab alio, ut homo ab equo rationabililatis differentia discrepat. Haec igitur
praedicatione quidem propriae naturae ad ea refertur quorum est differentia, ut
rationabilitas ad hominem; dissimilitudinis uero ratione ad ea a quibus
discrepat id cuius est differentia, ut rationabilitas ad bouem. Contraria
uero sunt quae in eodem posita genere longissime a se discrepant, ut album
atque nigrum, quae licet in uno qualitatis genere ponantur, a se tamen quam
longissime recedunt, ea quoque ad se referri nullus ignorat. Aliud est enim
quod sunt, aliud quod contraria sunt. Quod enim nigrum est, quale est. Quod
uero contrarium est, ab albo plurimum discrepans est. Coniuncta uero sunt
quae unicuique rei finitimam naturam tenent, uelut timori pallor adiunctus est.
Haec talia sunt ut saepius quidem adiunctis sibi cohaerescant, neque tamen ex
necessitate his quibus uicina sunt, ad esse cogantur. Nam saepe timori pallor
assistit, non tamen semper, ueluti cum dissimulatione premitur metus, atque
ideo ueri similia ex adiunctis argumenta nascuntur. Nam quaecumque coniuncta
sunt ex his quibus adhaerent, indicio esse solent. Sed de his in posteriore
disputatione diligentius disseram. Antecedentia uero sunt quibus positis
aliud nec esse est consequatur, ut quia bellum est, esse inimicitias necesse
est. Haec ordinis necessitatem tenent. Consequentia enim ab antecedentibus
separari nequeunt, consequens uero est quidquid id quod antecedit insequitur, ut
inimicitiae bellum consequuntur. Nam si bellum est, inimicitias esse nec esse
est, habetque locus hic illud notabile et spectandum, quod saepe quae
naturaliter priora sunt, tamen ipsa sunt consequentia. Saepe quae naturaliter
antecedunt, et in propositione priora sunt; namque inimicitiae prius existere
quam bella solent. Sed non possumus proponere inimicitias, ut bellum sequatur.
Non enim possumus uere dicere, si inimicitiae sunt, bellum est sed praeponimus
bellum, et inimicitiae quae natura priores sunt, subsequuntur, ita, si bellum
est, inimicitiae sunt. Nunc igitur inimicitiae quae naturaliter bellum
praecedunt, hae eadem bella in propositione comitantur; at si dicam: Si
superbus est, odiosus est superbia et naturaliter et in propositione
odium praecedit; prius enim superbia consueuit existere, post uero atque ex
eadem superbia ueniens odium sequi. Nec interest utrum naturaliter quaelibet
antecedat res aliquando, an uero consequetur, dum id in propositione adnotemus,
eam esse rem antecedentem, quae siue naturaliter prior sit, siue posterior,
alteram tamen rem secum necessario trahat. Repugnantia uero intelliguntur
quoties id quod alicui contrariorum naturaliter iunctum est, reliquo contrario
comparatur, ut quoniam amicitia ealque inimicitiae contraria sunt. Inimicitias
uero consequitur nocendi uoluntas, amicitia et nocendi uolentas, repugnantia
sunt, haec quoque ad se contrarietatis similitudine referuntur. Causa est
qua praecedente aliquid efficitur, ut causa diei est solis ortus.
Effectum est quod praecedens causa perficit, ut dies quem solis ortus
emittit. Maiorum uero comparatio est quoties ei quod minus est, id quod
maius est comparatur, ut si nemo innocens pelli in exsilium debet, multo magis
ne Tullius quidem, qui non innocens solum, uerum etiam patriae fait liberator;
plus est enim patriae esse liberatorem quam innocentem. Parium uero quoties
inter se paria comparantur, ut si hic ciuis innocens pelli in exsilium non
debet, quia innocens est, nec ille quidem qui est innocens carere patria iuste
potest. Minorum uero quoties minora maioribus conferuntur, ut si Ciceronem
liberatorem patriae praemio nemo dignum putauit, nemo eum pPomba praemio dignum
qui cum tantum innocens fuerit, nulla in rempublicam contulit merita.
Haec itaque omnia cognata sibi esse, et ad se referri inuicem, et se uelut e
regione conspicere nullus ignorat. Nam ut de coniugatis primum loquamur, et
iustitia ad id quod iustum est, uel id quod iuste fieri potest, spectat, et cum
qui iustus est perficit. Caetera quoque habent ad se non modo uocabuli
cognationem, uerum etiam cuiusdam naturae congruentiam, ita tamen ut a se
diuersa sint. Neque idem est iustitia, quod iustus. Omne enim quidquid ab
aliquo inflectitur, ab eo a quo inflectitur est diuersum, eidemque cognatum, a
quo etiam probatur inflexum. Genus etiam cognatum esse rei cuius genus est, id
est speciei, quam Cicero formam uocauit, dubium non est. Genus enim speciei
genus est, et species generis species: itaque ad se inuicem referuntur, licet
idem genus ac species non sint. Illud sane uidendum est, quoniam quas nos
species nuncupamus, eas Cicero formas uocat. Cui quidem, dum quod dicit
intelligam, conMilani libenter quibus uoluerit uti nominibus, mihi uero non
idem concedi potest. Nam qui explanationis lucem professus est, in his uerbis
debet quae sunt in usu posita uersari. Id autem quod supponitur generi ut
species, quam forma potius nuncupetur, usus obtinuit. Iam uero simile nisi
simili simile esse non potest, et quod differt nisi a dissimili differre non
potest. Contraria etiam contrariis intelliguntur esse contraria, coniuncta
etiam coniunctis adhaerescunt. Et quae sunt antecedentia, aliquid quod potest
consequi antecedunt. Id etiam quod est consequens illud quod antecessit
insequitur. Omne etiam repugnans repugnanti sibimet intelligitur inimicum.
Causa etiam effectus sui causa est. Quod enim quaeuis causa efficit, eius rei
quam efficit causa est; effectus quoque causae alicuius effectus est.
Comparatio uero maiorum minora respicit, minorum uero maiora, parium
paria. Atque in omnibus ea natura esse deprehenditur, ut cum per se res
quaedam sint diuersae ab his adquae referuntur, affecta tamen esse dum
comparantur, appareant; diuersa uero esse ab his quae referantur, illa res
approbat, quoniam nihil ad se ipsum referri potest. Quae cum ita sint, iure
affecta sunt nuncupata. Quae omnia eius loci qui ex affectis ducitur,
species uel formae sunt, ipso etiam testante Cicerone, qui ait: SED HOC GENUS
IN PLURES PARTES DISTRIBUTUM EST. Cum enim genus dixit, quas scindit a genere
species esse signauit. Praeterea omnia haec et nomen generis suscipiunt et
definitionem. Affecta enim sunt ad aliquid, quae ad id ad quod affecta sunt,
referri queunt; coniugata uero et genus, et forma, et caetera, ad ea semper ad
quae sunt affecta, referuntur. Sed, ut in superioribus locis dictum est, qui in
ipso de quo agitur haerebant, id est ex toto, ex partibus, ex nota, ut ex toto
eo intelligatur termino qui fuisset in quaestione propositus, itemque ex eius
partibus atque ex eius nota. Eodem modo etiam in iis qua affecta sunt dicemus
ad eum terminum affecta considerari, qui subiecti uel praedicati loco positus
continet quaestionem. Superest nunc illud dicere, cur quae affecta sunt
in ipso, de quo agitur esse dicantur. Etenim in ipso de quo agitur termino,
quatuor locos esse significauit Cicero, id est ex toto, ex partibus, ex nota,
ex affectis. Quorum tria quidem superiora manifestum est in eo haerere de quo
agitur termino. Definitio enim cuiuslibet rei quod totum est, in illo ipso est
quod definit. Parte, etiam in ipso illo sunt, quod collectione coniungunt. Nota
etiam in illo est quod appellatione significat; affecta uero extrinsecus posita
uidentur, quippe quae referuntur ad id ad quod affecta sunt, ad id de quo
agitur quae non referuntur, nisi extrinsecus posita intelligerentur. Cur igitur
ea etiam quae affecta sunt, ad id de quo agitur, inter nos numerauit locos, qui
ipsi de quo quaeritur termino cohaerent, dicendum est. Quoniam id quod
adhaerere dicitur, non idem est ei cui adhaerere praedicatur. Quae cum
diuersa sint, cognatione tamen quaedam intelliguntur esse coniuncta, ueluti non
idem est definitio quod ipsa res qum definitione describitur. Si enim definitio
clarius efficit id quod definit, nihil uero ipsum e esse clarius quam est
efficere potest, manifestum est id quod definitur a definitione esse diuersum.
Sed idcirco haerere definitionem in eo quod definitur dicimus, quia est ei
cognata atque coniuncta, quippe quae dum eius proprietatem significet, ab eius
substantia non recedit. Partes etiam ac notae diuersa sunt ab eo quod uel
copulant, uel designant. Sed quia illae propositum terminum iungunt, illae
significant, habentes aliquam cum proposito termino cognationem, in ipso de quo
agitur haerere perhibentur. Ita etiam in affectis, licet extrinsecus sint,
neque enim idem sunt quod ea sunt ad quae intelliguntur affecta, necessario
tamen, quia aliquam cognationem cum his habere considerantur, in ipsis haerere
dicuntur ad quae ad effecta sunt. Qui uero eorum naturalis ordo sit, uel
quae differentia, uel sit alia, locorum partitio, licet in Topicis Differentiis
opportunius expediendum sit, tamen cum exempla Ciceronis quae in his
explicandis attulit exposuero, subiungam. CONIUGATA DICUNTUR QUAE SUNT EX
VERBIS GENERIS EIUSDEM. EIUSDEM AUTEM GENERIS VERBA SUNT QUAE ORTA AB UNO VARIE
COMMUTANTUR, UT SAPIENS SAPIENTER SAPIENTIA. HAEC VERBORUM CONIUGATIO *SYZUGIA*
DICITUR, EX QUA HUIUSMODI EST ARGUMENTUM: SI COMPASCUUS AGER EST, IUS EST
COMPASCERE. Definitio coniugutorum a Cicerone prolata talis est.
Coniugata dicuntur quae sunt ex uerbis generis eiusdem, id est quae ab uno
uerbo uariis inflectuntur modis. Ex eodem quippe genere uerba sunt, iustitia,
iustus, iuste, iustum, et quaecumque alia in diuersas possunt uocabulorum
species inflecti. Quaecumque enim ab uno quolibet orta uarie commutantur, haec
a Graecis quidem *syzygia* dicuntur, apud Latinos uero coniugata: nam quod
Graeci *syzygia* dicunt, nos coniugationem appellamus. Haec autem sunt, ut
sapiens, sapienter, sapientia, et quaecumque in uarias partes orationis,
uariasque inflexiones, ab uno quodam ducta cernuntur. Ex coniugatis
igitur argumenti nascentis hoc exemplum est: sit enim dubitabile an in aliquo
agro mihi atque uicino simul pascere liceat pecus, id est an ius sit
compascere: subiectum igitur est ager, compascere uero praedicatum. Faciemus
itaque argumentum hoc modo: Hic de quo quaeritur ager compascuus est, in
compascuo autem licet compascere, in hoc igitur agro licet compascere. Hic
igitur compascendi iuris argumentum ex compascuo sumptum est, ex coniugato
uidelicet. Compascere enim et compascuum coniugata sunt. Sumptum uero est
argumentum, ius esse compascere, quoniam sit ager compascuus sed coniugatum est
compascuum ei quod compascere. A coniugatis igitur sumptum est argumentum, quod
coniugatum in ipso est de quo agitur, id est in compascendo; omnia enim ex
eodem fluunt, et sui sunt continentia atque se respicientia. Factum est igitur
argumentum ex eo quod est in ipso, ab affectis, id est a coniugatis. Maxima
uero propositio est: Coniugatorum in eo quod coniugata sunt, unam atque
eamdem essu naturam uel sic: Cui conuenit aliquid, huic etiam
coniugatum eius posse sociari. A GENERE SIC DUCITUR: QUONIAM ARGENTUM OMNE
MULIERI LEGATUM EST, NON POTEST EA PECUNIA QUAE NUMERATA DOMI RELICTA EST NON
ESSE LEGATA; FORMA ENIM A GENERE, QUOAD SUUM NOMEN RETINET, NUMQUAM SEIUNGITUR,
NUMERATA AUTEM PECUNIA NOMEN ARGENTI RETINET; LEGATA IGITUR VIDETUR. Genus est
quod de qualibet specie in eo quod quid est praedicatur. In eo quod quid est
praedicari dicitur, quod de qualibet specie interrogantibus quid sit,
rcsponderi conuenit, et eius de qua respondetur speciei substantiam monstrat.
Semper uero genus propria specie maius est, eamque intra ambitum suae
praedicationis includit. Quo fit ut, quamuis in alia quoque dispartiri genus
possit, speciem tamen suam nullo modo derelinquat, uelut animal quidem
praedicatur de homine, et hominis substantiam monstrat; interrogantibus enim
modis quid est homo, animal respondetur. Idem tamen deduci in alia potest,
uelut in equum atque bouem, quae animalia nuncupantur. Sed ita deducitur in
diuersa, ut unamquamque earum specierum quas continet, non relinquat. Ubicumque
enim fuerit homo, necesse est ut sit animal, homo enim animal est. Idemque de
boue ac de caeteris. Ergo liquido demonstratum est nomen generis a specie nullo
modo separari. Quod si aliquando generis uocabulum uniuersaliter enuntietur,
nec esse est omnes species designari, ut si quis dicat omne animal, et hominem
designabit et houem, et caeteras omnes species sub animalis nomine
collocatas. Quae cum ita sint, quidam testamento mulieri argentum omne
legauerat. Quaeritur an ei etiam numerata pecunia sit legata: numerata igitur
pecunia in hac quaestione subiectum est, legata uero praedicatum. Considero
igitur in alterutro eorum quidnam insit, ut ex eo quod in ipso est aliquod argumentum
requiram. Video subiectum terminum, qui est numerata pecunia, habere argentum
genus, quod affectum est, scilicet ad speciem suam ad quam refertur. Quae enim
ad se inuicem referuntur, affecta sunt; ergo quoniam argentum omne legatum est,
et genus speciem propriam non relinquit, nec esse est ut numerata quoque
pecunia sit legata. Nam cum omne nomen generis legatum sit, nihil de speciebus
uidetur exceptum, uelut si quis dicat, omne animal uiuere, non ut arbitror
tantum hominem uel bouem, uel equum, uel sigillatim caetera, uel unum, uel
plura uiuere dicit, ut tamen aliqua cum sint animalia, uitae munere carere
contendat sed omne prorsus quidquid fuerit animal, uiuere proponit. Cum igitur
omne genus, id est omne argentum legatum sit, nulla species excipitar. At
numerata pecunia argentum est, fit igitur ut numerata quoque pecunia legati
uocabulo possit includi. Est igitur quaestio quidem, ut dictum est, an
numerata pecunia legata sit; argumentum ab eo quod in ipso est, id est a genere
quod inest propriae speciei, id est ab affectis, quod est ita ut ad id
referatur; hoc autem est argentum, ab affectis, id est a genere. Praedicatur
enim ut genus argentum de numerata pecunia. Interrogantibus enim nobis quid sit
numerata pecunia iure respondemus, argentum. Maxima propositio est: Cui
conuenit omne genus, eidem unamquamque speciem conuenire. Quam Marcus
quoque Tullius diuersis quidem uerbis sed eadem significatione proposuit
dicens: FORMA ENIM A GENERE QUOAD SUUM [1070C] NOMEN RETINET, NUNQUAM
SEIUNGITUR. NUMERATA AUTEM PECUNIA NOMEN ARGENTI RETINET; LEGATA IGITUR
VIDETUR. A FORMA GENERIS, QUAM INTERDUM, QUO PLANIUS ACCIPIATUR, PARTEM
LICET NOMINARE HOC MODO: SI ITA FABIAE PECUNIA LEGATA EST A VIRO, SI EI VIRO
MATERFAMILIAS ESSET; SI EA IN MANUM NON CONVENERAT, NIHIL DEBETUR. GENUS ENIM
EST UXOR; EIUS DUAE FORMAE: UNA MATRUMFAMILIAS, EAE SUNT, QUAE IN MANUM
CONUENERUNT; ALTERA EARUM, QUAE TANTUM MODO UXORES HABENTUR. QUA IN PARTE CUM
FUERIT FABIA, LEGATUM EI NON VIDETUR. Species est, quae propriis
differentiis intormata sub praedicatione generis collocatur. Differentiae uero
propriae a caeteris eam speciebus separant atque seiungunt, uelut homo cum sit animalis
species, differentiis informatur rationabililatis atque mortalitatis, et
seiungitur ab his animalibus quae aeterna sunt, uelut sol a Platonicis
creditur, et ab iis animalibus quae sunt rationis expertia. Cum igitur omnes
species inter se propriis differentiis distent, nec esse est quod de altera
specie dicitur, id in alium non posse transferri, uelut quod de homine dicitur
specialiter, idem de equo alque boue non possit intelligi. Ducitur autem a
specie quoties genus ipsum ueluti in quamdam contrahitur portionem. Velut si
quis dicat illud animal sibi adduci debere, quod sit rationale et mortale, non
utique de equo, uel boue, aut de caeteris, nisi tantum de homine dictum esse
intelligitur. Ut igitur generaliter dictum genus omnes species claudit, cum
quis dicit omne animal, sic quodlibet animal designatum speciem facit.
Quae cum ita sint, a forma generis, id est a specie generis tale fit,
argumentum, quam formam generis Cicero partem saepe nominat, quo id quod
dicitur planius fiat. Notius enim nomen partis est quam formae; quo autem
distet forma a partibus, et nos strictim superius diximus, et paulo post a
Ciceroue ipso latius explicabitur. Nunc de proposito uideamus exemplo. Uxoris
species sunt duae, una matrumfamilias, altera usu; sed communi generis nomine
uxores uocantur. Fit uero id saepe, ut species iisdem nominibus
nuncupentur, quibus et genera; mater uero familias esse non poterat, nisi quae
conuenisset in manum; haec autem certa erat species nuptiarum. Tribus enim
modis uxor habebatur, usu, farreatione, coemptione; sed confarreatio solis
pontificibus conueniebat. Quae autem in manum per coemptionem conuenerant, hae
matresfamilias uocabantur. Quae uero usu uel farreatione, minime. Coemptio uero
certis solemnitatibus peragebatur, et sese in coemendo inuicem interrogabant,
uir ita, an mulier sibi materfamilias esse uellet. Illa respondebat uelle. Item
mulier interrogabat an uir sibi paterfamilias esse uellet, ille respondebat
uelle. Itaque mulier, uiri conueniebat in manum, et uocabantur hae nuptiae per
coemptionem, et erat mulier materfamilias uiro, loco filiae. Quam solemnitatem
in suis Institutis Ulpianus exponit. Quidam igitur extremo iudicio omne
Fabiae uxori legauit argentum, si quidem Fabia ei non tantum uxor, uerum etiam
certa species uxoris, id est materfamilias esset, quaeritur an uxori Fabiae
legatum sit argentum. Uxor Fabia, subiectum est; legatum argentum, praedicatum.
Quaero igitur quodnam ex his argumentum sumere possim, quae in quaestione sunt
posita, ac uideo uxori duas inesse formas, quarum una tantum uxor est, altera
materfamilias, quae in manum conuentione perficitur. Quod si Fabia in manum non
conuenit, nec materfamilias fuit, id est, non fuit ea species uxoris, cui
argentum omne legatum est. Quocirca quoniam id quod de alia specie dicitur, in
aliam dici non conuenit, cumque Fabia praeter eam speciem sit, quae in manum
conuenerit, id est quae materfamilias sit, et uir matrifamilias legauerit
argentum, non uidetur Fabiae esse legatum. Quaestio igitur, ut dictum
est, an uxori Fabiae omne argumentum legatum sit: subiectum, uxor Fabia;
praedicatum uero, legatum argentum. Argumentum ab eo quod est in ipso de quo
quaeritur, id est ab eo quod est in uxore de qua quaeritur. Est autem in uxore
de qua quaeritur species uxoris, ea scilicet quae in manum non conuenit quae ad
eam affecta est. Omnis enim species ad suum genus refertur, id est forma;
factum est igitur argumentum ab eo quod est in ipso, ab affectis, a forma
generis. Maxima propositio est: Quod de una specie dicitur, id in alteram non
conuenire. A SIMILITUDINE HOC MODO: SI AEDES EAE CORRUERUNT VITIUMUE
FACIUNT QUARUM USUS FRUCTUS LEGATUS EST, HAERES RESTITUERE NON DEBET NEC
REFICERE, NON MAGIS QUAM SERVUM RESTITUERE, SI IS CUIUS USUS FRUCTUS LEGATUS
ESSET DEPERISSET. Similia dicuntur, quae eiusdem sunt qualitatis ex quibus
hoc modo sumitur argumentum: Quidam testamento aedium usumfructum legauit, id
est concessit aedes, ut his alius dum uiueret uteretur; hae coeperunt uel
uitium facere, id est ruinam minari, uel etiam corruerunt. Petit igitur ab
haerede is cui aedium ususfructus legatus est, ut earum sibi aedium quae a
testatore legata sunt damna compenset, et aedes quae uitium fecerunt uel
corruerunt restituat. Quaeritur an earum aedium quarum ususfructus legatus sit,
uitium uel ruinam haeres restituere cogatur. Hic igitur subiecta quidem oratio
est, ueluti quidam terminus, aedium quarum ususfructus legatus sit, ruinam uel
uitium. Praedicata uero oratio, loco termini constituta, ab haerede
restitutio. Sumo igitur a simili argumentum, hoc modo: Quoniam si quis
serui usumfructum legauerit, isque seruus aliquo modo deperierit, non cogitur
restituere haeres seruum, ne nunc quidem cogetur haeres restituere aedes, quae
in usumfructum legatae, ruinam uitiumue iecerunt. Similes est enim serui
ususfructus legatio aedium ususfructus legationi. Simile est etiam seruum in
usumfructum legatum si deperierit, ab haerede non restitui, et aedium in
usumfructum legatarum uitium ruinamue ab haerede non refici. Est igitur
quaestio quidem an aedium in usum fructum legatarum uitium uel ruinam haeres
restituere cogatur. Terminus uero subiectus quidem, aedium in usumfructum
legatarum. uitium uel ruinam, praedicatus autem ab haerede restitutio. Argumentum
uero ab eo quod in ipso est, id est ab eo quod inest, uel ruinae, uel uitio
aedium in usumfructum legatarum. Id autem est affectum, id est similitudo.
Omnis enim similitudo ei inesse perpenditur quod est simile, simililudo uero
est serui ususfructus legati pereuntis, quem restituere haeres non cogitur.
Maxima uero propositio: Similibus rebus eadem conuenire. A
DIFFERENTIA: NON, SI UXORI VIR LEGAVIT ARGENTUM OMNE QUOD SUUM ESSET, IDCIRCO
QUAE IN NOMINIBUS FUERUNT LEGATA SUNT. MULTUM ENIM DIFFERT IN ARCANE POSITUM
SIT ARGENTUM AN IN TABULIS DEBEATUR. In rebus plurimum differentibus quod de
altera earum dicitur non uidetur in alteram conuenire. Id cum ita sit,
quidam argentum suum omne legauit uxori. Illa pecuniam quoque quae in nominibus
debebatur, suam esse dicebat, quod omnis pecunia nomine uocaretur argenti.
Quaeritur an id quoque argentum quod in nominibus debebatur, legatum sit. Hic
igitur subiectus est terminus, argentum quod in nominibus debebatur, legatum
uero praedicatur. A differentia igitur faciemus argumentationem hoc modo: Idem
de plurimum differentibus rebus intelligi non potest. Plurimum uero
differt argentum in arca ne sit positum, an in nominibus debeatur. Nam quae
posita in arca pecunia est iuris est nostri, in nominibus uero debita non est
nostra; nam quod mutuum datur, ex meo fit accipientis, atque ideo non cogitur
eamdem ipsam pecuniam debitor restituere creditori sed aliam tantam. In arca
uero posita pecunia, et in nominibus debita, non sunt argenti uel pecuniae
species sed differentiae; nam argenti species signatum acnon signatum esse
dictae sunt. Qualitas uero pecuniae in possessione positae uel non positae sed
non modis omnibus alienae, in his differentlis constat, ut alia sit in arca
posita, reliqua in nominibus debeatur; atque hoc idcirco dictum est ne quis non
a differentiis sed a specie argumentationem ductam putaret. Qualitas enim
substantialis non speciebus sed differentiis annumeratur. Cum igitur suum
omne quod fuerit argentum uir uxori legauerit, cumque manifestum sit id ad eam
pertinere quod fuerit suum legantis, id est quod in arca fuerit conditum, non
potest idem intelligi de eo quod in nominibus debebatur, quoniam, sicut dictum
est, id quod in nominibus debetur ab eo quod in arca positum est plurimum
differet. Facta est igitur argumentatio ab eo quod inerat, de quo quaerebatur.
Quaerebatur uero de argento in nominibus debito. In hoc uero inerat propria
differentia, qua ab alio differebat argento, eo scilicet quod in arca positum
fuerit. Id uero est affectum, id est differentia. Maxima uero propositio, de
rebus plurimum differentibus, idem intelligi non posse. EX CONTRARIO AUTEM
SIC: NON DEBET EA MULIER CUI VIR BONORUM SUORUM USUM FRUCTUM LEGAVIT CELLIS
VINARIIS ET OLEARIIS PLENIS RELICTIS, PUTARE ID AD SE PERTINERE. USUS ENIM, NON
ABUSUS, LEGATUS EST. EA SUNT INTER SE CONTRARIA. Quod de aliqua re dicitur, id
in eius contrarium non potest conuenire. Idem enim de duobus contrariis
intelligi nullo modo potest. Quidam igitur supremae uoluntatis arbitrio uxori
bonorum suorum usumfructum legauit, mulier cellas uinarias oleasque plenas ad
usumfructum proprium deuocabat. Quaeritur an penus quoque ususfructus legatus
sit; penus igitur ususfructus est subiectum, legatus praedicatum. A contrario
igitur sumitur argumentum hoc modo: Utimur his quae nobis utentibus permanent,
his uero abutimur quae nobis utentibus pereunt; ergo, cum permanere ac perire
contraria sint, usus quoque et abusus contraria nec esse est iudicentur. Quod
si caetera quidem utendo permanent, cellae autem uinariae atque oleariae utendo
consumuntur, aliarum quidem rerum ususfructus esse potest; penus uero non
potest usus esse sed potius abusus. Ergo cum uir uxori usumfructum bonorum
suorum legauerit, non potuit legare contrarium, quod est abusus; est uero
abusus uini atque olei, uinum igitur atque oleum ad usumfructum mulieris non
potest pertinere. Argumentum ab eo quod in ipso est de quo agitur, id est
ab ususfructus legatione, atque ab affecto, id est contrario; contraria uero in
contrariis non ita sant, tanquam definitio in eo quo definitur sed tanquam
relatio. Omnis enim relatio in relatiuis, omniaque contraria non id quod sunt,
id est qualitates sed hoc ipsum quod contraria sunt, in contrariis esse dicuntur,
quia non secundum qualitatem propriam sed secundum distantiam plurimam sibi
inuicem conferuntur. Maxima propositio est, quod alicui conuenit, id eius
contrario non conuenire. [4.18] AB ADIUNCTIS: SI EA MULIER TESTAMENTUM
FECIT QUAE SE CAPITE NUMQUAM DEMINUIT, NON VIDETUR EX EDICTO PRAETORIS SECUNDUM
EAS TABULAS POSSESSIO DARI. ADIUNGITUR ENIM, UT SECUNDUM SERVORUM, SECUNDUM
EXSULUM, SECUNDUM PUERORUM TABULAS POSSESSIO VIDEATUR EX EDICTO DARI.
Adiuncta sunt, quae proximum ac finitimum locum tenent, ut si unum eorum
quolibet exstiterit modo, [1074B] alterum quoque uel exstitisse, uel exstare,
uel exstaturum esse uideatur: haec enim sibi quasi uicina sunt. Quae uero in
existendo sibi sunt proxima, haec uel antecedere rem uolunt, ut amor saepe concubitum,
uel simul esse, ut pallor et timor, uel euenire posterius, ut post iracundiam
caedes. Eaque est adiunctorum natura, ut separari quidem possint, tamen sese
inuicem monstrent. Nam neque qui amauit, necessario potitus est, et saepe qui
potitus est, non amauit. Nec qui pallet, necessario timet, et saepe non timens
pallet. Nec ex necessitate iratus occidit, et occidit saepe aliquis non iratus.
Sed tamen si de singulis inquiratur, eum concubuisse qui amauit, et pallere qui
timet, et occidisse qui fuerit iratus, uerisimile est, non quod ita neo esse
sit sed quia ex uicinis uicina colligimus. Nam quod ad exemplum attinet huius
argumenti, haec similitudo est. Capitis diminutio est prioris status
permutatio. Id multis fieri modis solet, uel maxima, uel media, uel minima.
Maxima est, cum et libertas et ciuitas amittitur, ut deportatio. Media uero, in
quo ciuitas amittitur, retinetur libertas, ut in Latinas colonias
transmigratio. Minima, cum nec ciuitas nec libertas amittitur sed status
prioris qualitatis imminuitur, uel adoptatio, aut quibuslibet aliis modis prior
status, relenta ciuitate, potuerit immutari. Mulieres uero antiquo iure
tutela perpetua continebat. Recedebant uero a tutoris potest ate quae in manum
uiri conuenissent, itaque febateis prioris, status permutatio, et erat capite
diminuta, quae uiri conuenisset in manum. Quaedam igitur quae se nunquam capite
diminuisset, id est quae in manum uiri minime conuenisset, sine tutoris
auctoritate testamentum fecit. Quaeritur an secundum eius tabulas ex edicto
praetoris debeat dari possessio. Hic subiectus quidem terminus, mulieris
nunquam capite diminutae tabulae, praedicatus uero possessionis
concessio. Sumitur ergo ab adiunctis argumentum, hoc modo. Nam si
secundum mulieris; tabulas nunquam capite diminutae possessio detur, nihil
causae est cur non secundum puerulorum quoque et seruorum tabulas ex edicto
praetoris possessio permittatur. Quid enim officere potest, ne secundum
mulieris nunquam capite diminutae tabulas possessio deferatur? Id scilicet quod
ea quae testamentum confecerat, sui non fuit iuris, quod idem et de pueris et
de seruis dici potest. Illorum enim aetas, illorum conditio, in alterius sita
est potestate. Adiungitur ergo: Si secundum mulieris, quae in suo iure
non esset, tabulas, possessio detur, secundum puerulorum quoque et seruorum
tabulas possessionem dari, qui sui iuris minime sint, quoniam quidem illi sub
tutoris, illi sunt sub domini potestate. Proxima namque est rei de qua
quaeritur, quod eius est consequens, et postea existens, ut secundum seruorum
puerorumque tabulas honorum possessio detur, si illud quod est in quaestione
conceditur. Quaeritur enim an secundum mulieris tabulas nunquam capite
diminutae possessio detur. Quam rem consequitur ut, si id fiat, secundum
seruorum quoque puerorumque tabulas deferatur, quod quia fieri non oportet, ne
rei quidem praecedentis existere debebit exemplum. Nec tamen necessaria
est consecutio sed uicina. Nam fieri potest ut id recipiatur solum secundum
mulieris tabulas possessionem dari, non uero id ut secundum tabulas seruorum
uel puerorum possessio concedatur. Sed proximum est ut qui nunc hoc recepit,
posterius illud admittat. Est igitur argumentum ab adiunctis, id est ab eo quod
in ipso haeret de quo quaeritur. Est autem quaestio de mulieris nunquam
diminutae tabulis, ab affectis scilicet ab abiunctis. Maxima propositio: Ex
adiunctis adiuncta perpendi. AB ANTECEDENTIBUS AUTEM ET CONSEQUENTIBUS ET
REPUGNANTIBUS HOC MODO; AB ANTECEDENTIBUS: SI VIRI CULPA FACTUM EST DIVORTIUM,
ETSI MULIER NUNTIUM REMISIT, TAMEN PRO LIBERIS MANERE NIHIL OPORTET.
Antecedentia sunt, quibus positis, aliud necessario consequatur, licet illud
quod antecedit, minus sit atque posterius. Minus quidem, ut si homo est, animal
est; homo enim minus est animali, et tamen posito homine, consequitur ut animal
sit. Posterius uero, ut si peperit, cum uiro concubuit; posterius enim est
peperisse quam cum uiro concubuisse. Aliquoties uero et quod aequale, et quod
simul, et quod prius est ponitur ul antecedens. Aequale quidem, ut: Si
homo est, risibilis est. Simul uero, ut: Si terra obiecta
est, luna deficit. Et haec sibi conuertuntur, ut consequentia fiant
antecedentia, ut si risibilis est, homo est, et si iura defecerit, terrae adsit
obiectio. Antecedens uero prius est, ut si arrogans est, odiosus est. Prius
enim est arrogans, posterius odiosus. Illud tamen in omnibus manet, positis
antecedentibus necessario consequentia trahi. Exempli uero talis est
explanatio: Ciuitatis Romanae, iure, liberi retinentur in patrum arbitrio, usque
dum tertia emancipatione soluantur; ergo si quando diuortium intercessisset
culpa mulieris, parte quadam dotis pro liberorum numero multabatur. De qua re
Paulus, Institutionum libri secundi titulo de Dotibus, ita disseruit: Si
diuortium est matrimonii, et hoc sine culpa mulieris factum est, dos integra
repetetur; quod si culpa mulieris factum est diuortium, in singulos liberos
sexta pars dotis a marito retinetur, usque ad mediam partem dumtaxat dotis.
Quare quoniam quod ex dote conquiritur liberorum est, qui liberi in patris
potestate sunt, id apud uirum nec esse est permanere. Facto igitur
diuortio, contenditur an dotis pars pro liberis apud uirum debeat permanere.
Hic subiectum quidem est, factum diuortium a muliere nuntiatum; praedicatum
uero, apud uirum sextae partis dotis post diuortium permansio. Quaestio an post
diuortium factum, muliere nuntium remittente, sextam dotis partem apud uirum
manere oporteat. Quaero igitur, si ab antecedentibus argumentum faciendum est,
quid antecedat, quid consequatur. At si uiri culpa factum est diuortium, uideo,
mulierem dotis parte non posse multari, etiam si prima repudii nuntium misit.
Quod enim antecessit, ut uiri culpa fieret diuortium, id non permittit ut dotis
pars mulieri pereat, quamuis prima repudii nuntium mittat. Non enim quia prius
libellum repudii nuntiauit dotis parte multanda est sed absoluendi potius
damno, quod non sua factum est, sed uiri culpa diuortium. Igitur antecedens est
uiri culpa factum diuortium, consequeus uero dotis partem non retineri. Nam si
hoc est, illud est. Argumentationem uero faciam hoc modo: Si uiri culpa
factum est diuortium, etiamsi mulier repudii nuntium misit, nullo modo tamen
dotis parte multabitur. Sed uiri culpa diuortium factum est. Non igitur iure
mulier dotis parte multabitur. Quod si non multabitur dotis parte, nihil
in uiri domo liberorum causa, dotis nomine relinquetur sed non multabitur dotis
parte; nihil igitur apud uirum dotis relinquetur pro liberis. Utriusque uero
conclusio syllogismi haec est: Si igitur uiri culpa factum est diuortium, pro
liberis manere nihil oportet. Argumentum, ab eo quod in ipso est de quo agitur:
uersatur quippe intentio de dotis parte, eiusque apud uirum, post diuortium
quod prima nuntiauerit, retentione; hoc uero antecessit, uiri culpa, quod quia praecedens
est, affectum est, omne enim quid praecedit, ad id quod sequitur uec esse est
ut referatur. Maxima propositio est: Ubi est antecedens, ibi erit et
consequens at in hac quaestione est antecedens, id est uiri culpa factum
diuortium; ibi igitur consequeus erit, sextas non retineri. Cur autem ita
superius argumeutum conclusionibus intexuerim, cum de his M. Tullio latius
exsequente, tractauero, euidentius apparebit. A CONSEQUENTIBUS: SI MULIER,
CUM FUISSET NUPTA CUM EO QUICUM CONUBIUM NON ESSET, NUNTIUM REMISIT; QUONIAM
QUI NATI SUNT PATREM NON SEQUUNTUR, PRO LIBERIS MANERE NIHIL OPORTET.
Consequentia sunt quae cum fuerint antecedentia posita, consequuntur,
ueluti si dicamus: Si homo est, animal est animal est consequens.
Sed in proposito exemplo non satis apparet a consequentibus argumentum sed ab
antecedentibus potius, quod paulo post liquebit. Filii non iure suscepti
in patrum non erant potestate sed matres potius sequebantur. Non autem omnibus
erat connubium cum Romanis, nec erant nuptiae iure contractas, quas aut non
inter ciuem romanum ciuem que romanam inibantur, aut cui princeps populusue
ciuitatem uel connubium non permisisset, eo scilicet modo ut in potest atem
parentum liberi redigereutur. Illud quoque uidendum, quod ex impari matrimonio
suscepti, non patrem sed matrem sequuntur. Ergo quasdam Romana uel cum
Latino, uel cum peregrino, uel cum seruo, cum quo connubii ius non erat,
nuptias fecit, dotem contulit, factoque inter eos diuortio, contenditur an
nuptae mulieris cum eo cum quo connubii ius non erat, apud uirum dotis pars
post diuortium debeat permanere. Hic subiectum quidem est, nupta mulier cum quo
connubium non erat, praedicatum uero dotis partis apud uirum post diuortium
retentionis iure permansio. Sumitur ergo a consequentibus argumentum hoc modo.
Nam quia nuptias fecit cum eo cum quo connubii ius nullum est, id consequitur
ut liberi patrem non sequantur. Si autem liberi patrem non sequuntur, ne in
patris quidem sunt potestate, at si in patris potestate non sunt, matrique
applicantur, apud uirum dotis pars non poterit permanere. Hic igitur antecedens
est, cum quo connubii ius non erat, nuptiae; consequens uero, nihil pro liberis
dotis nomine manere oportere. Concludatur argumentatio: Quoniam, non permisso
connubio, liberi qui procreantur patrem non sequuntur, ne dotis quidem pars
apud patrem pro liberis manere debet, quandoquidem non patrem filii sed matrem
sequuntur. Probatum est igitur pro liberis manere nihil oportere, ex hoc
quod cum eo mulier nuptias fecit cum quo connubii ius non erat; hoc uero erat
antecedens. Non ergo a consequenti sed ab antecedenti potius factum
deprehenditur argumentum. Quod si per quod nihil dotis nomine manere oporteret,
probaretur eam nuptias cum eo fecisse qui cum connubii ius non esset, recte a
consequentibus argumentum factum esse diceretur. Fieret uero a consequentibus
argumentum, si ita poneretur: si quid ex dote pro liberis manere oporteret,
probatur, quia patrem liberis equuntur, cum eo nupta esse mulier, cum quo
connuhii ius erat. Assumo quod est consequens: Sed mulier cum eo nupta non est
cum quo connubii ius erat. Concludo antecedens: Nihil igitur dotis pro liberis
manere oportebit quia patrem liberi non sequuntur. Argumentum, ab eo quod in
ipso est de quo quaeritur. Quaeritur enim de his nuptiis, quarum nullum fuerit
iure connubium. Ex affectis: omne enim consequens ad id quod praecedit refertur.
Maxima propositio est: Ubi consequens non est, ibi ne antecedens quidem
esse potest. Ac de his erit alius uberius disserendi locus. A
REPUGNANTIBUS: SI PATERFAMILIAS UXORI ANCILLARUM USUM FRUCTUM LEGAVIT A FILIO
NEQUE A SECUNDO HAEREDE LEGAVIT, MORTUO FILIO MULIER USUM FRUCTUM NON AMITTET.
QUOD ENIM SEMEL TESTAMENTO ALICUI DATUM EST, ID AB EO INUITO CUI DATUM EST
AUFERRI NON POTEST. REPUGNAT ENIM RECTE ACCIPERE ET INVITUM REDDERE.
Secundus haeres dicitur qui haeredi instituto substituitar, ueluti si quis filium
instituat haeredem, scribatque, si is filius intra pubertatem decesserit,
nepotem uel quemlibet alium haeredem esse oportere; nepos igitur uel quilibet
alius, secundus haeres dicitur. Repugnantia sunt quae (ut dictum est)
contraria sequuntur, si ipsis contrariis comparentur. Quidam igitur
haeredem testamento scripsit filium, ei quo secundum substituit haeredem,
uxorique suae ancillarum usum fructum legauit a filio, dixitque ut uxori filius
eius usumfructum ancillarum permitteret, neque illud adiecit, ut etiam secundus
haeres eumdem usumfructum mulieri concederet. Successit filius, ac mulieri
ancillarum contulit usumfructum. Illo mortuo intra pubertatem, agit secundus
haeres, et usumfructum ancillarum mulieri extorquere conatur, dicens
usumfructum ei a filio legatum, a seuero minime. Quaeritur utrum ea mulier
legatum quod testamento acceperat inuita possit amittere. Hic igitur subiectum
est legatum quod testamenti iure recte accepit. Praedicatum uero, inuitam posse
amittere. Sumo igitur argumentum a repugnantibus. Repugnans uero est, si id
quod contrario cousequens est alteri contrario comparetur, uelut in hoc ipso
quod tractamus exemplo, recte accipere, et non recte accipere, contraria sunt
sed non recte accipere comitatur inuitum reddere. Iure enim inuitus reddit,
quod non recte accepit. Repugnat igitur inuitum reddere ei quod est reate
accipere. Faciemus igitur argumentum sic: Qui testamento accepit, recte
accepit; quod autem recte accipitur, inuito eo qui semel recte accepit, auferri
non potest; at mulier testamento usumfructum ancillarum accepit; id igitur ei
inuitae non poterit auferri. Argumentum, ab eo quod in ipso est de quo agitur,
id est de eo quod rectae acceptum est. In ipso uero est uelut affectum
contrarietatis modo, ut superius dictum est. Est autem argumentum a repugnanti.
Maxima propositio: Repugnantia conuenire non posse. AB EFFICIENTIBUS REBUS
HOC MODO: OMNIBUS EST IUS PARIETEM DIRECTUM AD PARIETEM COMMUNEM ADIUNGERE VEL
SOLIDUM VEL FORNICATUM. SED QUI IN PARIETE COMMUNI DEMOLIENDO DAMNI INFECTI
PROMISERIT, NON DEBEBIT PRAESTARE, QUOD FORNIX VITI FECERIT. NON ENIM EIUS VITIO
QUI DEMOLITUS EST DAMNUM FACTUM EST, SED EIUS OPERIS VITIO QUOD ITA AEDIFICATUM
EST, UT SUSPENDI NON POSSET. Causarum quidem multa sunt genera qua Cicero paulo
posterius diuidit. Sed nunc de efficientium causarum disserit argumento.
Efficiens uero causa est qua praecedente aliquod effectum est, non tempore sed
proprietate naturae, uelut in hoc quod nunc declaramus exemplo. Damni
infecti promissio est quoties quis promittit, si quod damnum eius opera
contigerit, sua restitutione esse pensandum. Ius autem est parieti
communi parietem alium uel fornicatum, id est arcum habentem, uel directum
continuumque coniungere. Quidam igitur ad parietem communem alium extrinsecus
parietem iunxit, deditque satis damni infecti. Communis autem paries fornicatus
fuit, id est, arcum habens uel signinam fabricam sustinens; adiungente igitur
eo qui satis dederat, et ut adiungeret de moliente partem parietis, quo
iunctura cohaeresceret, uitium communis paries fecit; quaeritur an damni
infecti promissio cogat eum qui promiserit damnum restituere. Subiectus
terminus damni infecti, promissio; praedicatus uero uitii, restitutio.
Sumimus igitur argumentum a causis hoc modo. Si enim is qui damni
promisitinfecti restitutionem eius uitii causa fuit, restituere debet uitium
quod eius accidit culpa; quod si ea natura parietis fuit ut suspendi
sustinerique non posset (fornicati enim parietis non ea natura est ut suspendi
queat), parietis potius forma quam demolientis culpa uitium fecisse uidebitur,
atque ita non cogitur restaurare uitium qui se damni infecti promissione
obstrinxerit. Fiet igitur argumentatio hoc modo: Si penes parietis formam
constituit ut eo adungente [1079B] parietem qui damni infecti promiserat,
uitium fieret, id uitium, qui promisit, praestare non cogitur. Fuit autem causa
paries ut uitium fieret, qui ea fuit natura ut suspendi sustinerique non
posset. Non igitur quod fornix uitium fecerit, praestare debet quidamni
promisit infecti. Argumentum ab eo quod in ipso est de quo agitur, id est in
uitii restitutione, ex effecto, id est ex causa. Causa enim uitii form. a est
parietis, non culpa coniungentis parietem. Itaque factum est ut fornix uitium
faceret, quae causa uitii, cum absit ab eo qui parietem iunxit, abest etiam
eiusdem uitii restitutio. Maxima propositio: Unamquamque rem ex causis spectari
oportere. AB EFFECTIS REBUS HOC MODO: CUM MULIER VIRO IN MANUM
CONVENIT, OMNIA QUAE MULIERIS FUERUNT VIRI FIUNT DOTIS NOMINE. Effecta
sunt quae aliquibus efficiuntur causis, non tempore praecedentibus sed natura,
uelut si quaerat, uxore defuncta quae in manum uiri conuenit, an eius bona ad
uirum pertineant. In qua quaestione, bona uxoris defunctae quae in manum uiri
conuenerit, subiectum est, ad uirum autem pertinere, praedicatum. Quaero igitur
argumentum ab effecto, dispicioque quid perfecerit ipsa in manum conuentio,
atque ex eo argumentum trabo; id autem est, omnis uiri dotis nomine fieri,
quaecumque mulieris fuere. Ipsa igitur in manus uiri conuentio, omnia quae
mulieris fuere, uiri fecit dotis nomine, non praecedens tempore sed statim
propria ui naturae. Nam ut in manum quaecumque conuenerit, mox eius bona dotis nominee
uirum sequuntur. Facio igitur argumentum sic: Si mulier quae
defuncta est in manum conuenit, in manum uero conuenientis mulieris bona
uiri fiunt dotis nomine, haec quoque bona de quibus agitur, uiri
sunt. Argumentum ex eo quod in ipso est, de quo agitur, continetur.
Agitur enim de bonis eius quae in manum conuenerit, scilicet ab effectis, id
est a causae effectis. Effectum namque est, in manum conuentione omniaquae mulieris
sunt uiri fieri sed a causa quanquam hic quoque non ab effectis dotis nomine,
tactum argumentum esse monstretur. Ostensum est enim fieri uiri dotis
nomine, quidquid mulieris fuerit, ex eo quod mulier in manum conuenerit. Sed
haec causa est ut quae mulieris erant, uiri fiant dotis nomine. Sed dicat quis,
ex eo quod ea quae mulieris fuerant, uiri fiunt dotis nomine, id est approbare
quod defunctae bona ad uirum debeant pertinere. Sed quae mulieris sunt, ea uiri
fieri dotis nomine, et bona ad uirum pertinere, uel idem est, uel neutrum
alteri causa est; uel si quis dicat eam esse causam, ut bona mulieris uiro
debeant cedere, quod per in manus conuentionem uiri facta sunt, dotis nomine, a
causa rursus, ac non ab effectis factum esse argumentum putabit, id est a dote;
ab effectis uero non oportet aliud nisi causam probari. Esset uero ex
effectis argumentum, ut ex eo causa probaretur hoc modo: Si quaestio esset an
mulier in manum uiri conuenisset, et indubitatum haberetur, omnia quae fuissent
mulieris, uiri facta dotis nomine, diceretur [1080B] ita: Si omnia quae fuere
mulieris, uiri facta sunt dotis nomine, mulier in manum uiri conuenit; sed
omnia quae fuere mulieris, uiri facta sunt dotis nomine, mulier igitur in manum
uiri conuenit. Maxima propositio: Causas ab effectis suis non
separari. EX COMPARATIONE AUTEM OMNIA VALENT QUAE SUNT HUIUSMODI: QUOD
IN RE MAIORE VALET VALEAT IN RE MINORE, UT SI IN URBE FINES NON
REGUNTUR, NEC AQUA IN URBE ARCEATUR. ITEM CONTRA: QUOD IN MINORE VALET,
VALEAT IN MAIORE. LICET IDEM EXEMPLUM CONUERTERE. ITEM: QUOD IN RE PARI
VALET, VALEAT IN HAC QUAE PAR EST; UT: QUONIAM USUS AUCTORITAS FUNDI
BIENNIUM EST, SIT ETIAM AEDIUM. AT IN LEGE AEDES NON APPELLANTUR ET SUNT
CAETERARUM RERUM OMNIUM QUARUM ANNUUS EST USUS. VALEAT AEQUITAS, QUAE
PARIBUS IN CAUSIS PARIA IURA DESIDERAT. A comparatione locus qui dicitur,
tripartito scinditur; aut enim a comparatione maiorum, aut a comparatione
minorum, aut a comparatione parium nascitur. A comparatione igitur maiorum est,
quoties maiore minoribus comparantur, hoc modo, ut quod in re maiore ualet,
ualeat in minore. Sit enim quaestio an in urbe aquam liceat arceri. In
hac igitur subiectus est terminus, in urbe aqua, praedicatus uero, ius arcendi.
Regi fines dicuntur quoties unusquisque ager propriis finibus terminatur. Arcet
uero aquam qui eam per sua spatia meare non patitur. Faciamus igitur argumentum
sic. Quoniam plus est regi fines, minus uero arceri aquam, si in ciuitate fines
non reguntur, quod maius est, ne id quidem quod minus est, fiet, ut aqua in
ciuitate arceatur. Hic igitur sumptum est argumentum ab eo quod in ipso haeret
de quo quaeritur. Quaeritur uero de arcendae aquae iure, ab atlecto scilicet,
id est a maiori, quod refertur ad id quod minus est. Notandum uero quod Tullius
maximam propositionem argumentationi inclusit hoc modo: Quod in re maiori
ualet, ualeat in minori et deinceps ea nixus, argumentationem expediuit,
ut mani testius appareat id quod in primo uolumine commemoratum est, has
maximas propositiones; aliquoties quidem argumentationibus includi, ut in
praesenti monstratur exemplo, alias uero uires argumentationibus dare, ut in
superioribus exemplis locorum. Quod si idem conuertamus exemplum,
dicemus: Quod in re minori ualet, ualeat etiam in maiori. At in urbe aqua
arcetur, regantur igitur fines. Hic tamen quaestio permutatur hoc modo:
Quaeritur enim an in urbe fines oporteat regi. Sed a minore sumitur argumentum,
id est ab arcenda aqua, ut sit hic quoque argumentum ab eo quod in ipso est, id
est ab eo quod est in regendis finibus, ab affecto scilicet, id est a minori.
Id enim quod minus est affectum est, illud namque respicit ad id quod
comparatur. Hic quoque maxima propositio a Tullio posita est, eaque est: Quod
enim in re minori ualet, ualet etiam in maiori. A paribus uero fit
similiter comparatio. Nec esse est enim ut ualeat aequitas, quae paribus in
rebus paria iura desiderat. Plurimarum igitur rerum usucapio annua est,
ut si quis eis anno continuo fuerit usus, eas firma iuris auctoritate
possideat, uelut rem mobilem. Fundi uero usucapio, biennii temporis spatio
continetur, de aedibus in lege nihil ascriptum est. Quaeritur ergo, usus aedium
unone anno, an biennio capiatur. Faciemus a paribus argumentationem, et quoniam
immobilium aequa possessio est, aedes uero immobiles sunt, ut biennio fundus
usucapiatur, ita etiam oportet aedes usucapere biennio possidentem. Aequitas
enim paribus in rebus paria iura desiderat. Quae etiam maxima propositio
a Tullio clarissime posita est sed exemplum restrictius positum est, nec
promptissime ad intelligendum. Ita namque ait: UT QUONIAM USUS AUCTORITAS FUNDI
PER BIENNIUM EST, SIT ETIAM AEDIUM. Hic igitur aedium usus auctoritatem biennio
fieri sentit sed adiungit: AT IN LEGE AEDES NON APPELLANTUR, ET SUNT CAETERARUM
OMNIUM QUARUM ANNUUS EST USUS. Hic rursus aedes in his uidetur ponere quae
annuo usucapiuntur, et concludit nihil definiens, nisi VALEAT AEQUITAS, QUAE
PARIBUS IN CAUSIS PARIA IURA DESIDERAT. Sed uidetur ita dictum, quoniam
immobiles sunt aedes ut fundus, biennio uero fundus usucapitur, aedes quoque
biennio usucapiantur, et sibi ipse rursus opponit sed in lege duodecim
tabularum, de aedibus nihil ascriptum est, et inter eas relictae sunt res,
taciturnitate legis, quarum est usus annuus. Nam cum de fundo praescriberet lex
biennii usucapionem, tacuit aedes, et iis potius hac taciturnitate eas iunxit
quarum annuus est usus. Sed soluit obiectionem ita: sed AEQUITAS PARIBUS IN
rebus PARIA IURA DESIDERAT. Itaque quoniam aeque fundus atque aedes immobiles
sunt, aeque biennio usucapientur. Factum est igitur hic quoque argumentum
ab eo quod in ipso est de quo quaeritur, id est ab affecto, id est pari. Nam
cum agatur de aedium possessione, argumentum sumptum est ab usucapione fundorum.
Expeditis igitur his locis qui in ipso de quo agitur inhaerebant, nunc iam loci
eius quem dixit esse extrinsecus, ponit exemplum. Hic uero est qui sumitur ab
auctoritate iudicii locus ualde probabilis, etiamsi non maximae necessitatis.
Quae enim necessaria sunt, haec ex propria considerautur natura. Quae uero
probabilia sunt, plurimorum iudicium exspectant. Ea namque sunt probabilia,
quae uidentur uel omnibus, uel pluribus, uel maxime famosis atque praecipuis,
uel secundum unamquamque artem scientiamque eruditis, ut quod medico in
medicina, geometrae in geometria, caeterisque in propria studiorum facultate
ueritatis. De quo extrinsecus loco sic loquitur: QUAE AUTEM ASSUMUNTUR
EXTRINSECUS, EA MAXIME EX AUCTORITATE DUCUNTUR. ITAQUE GRAECI TALIS
ARGUMENTATIONES *ATECHNOUS* UOCANT, ID EST ARTIS EXPERTIS. Alia quippe
argumenta sunt, quae ipse elicit orator, atque ipse quodam modo ex designatis
locis sibi comparat, et propria facultate conquirit. Alia qua extrinsecus
posita non ipse inuenit sed praesentibus utitur et paratis, ueluti testimonia,
tabulae, fama, caeteraque de quibus M. Tullius latius tractaturus est. Non enim
sibi ipse testimonia parat orator sed paratis utitur, nec ipse, iudicium facit
sed iam posito ac spontaneo rumore ueniente utitur ad causam. Atque
idcirco hos locos Graeci *atechnous* uocant, id est inartificiales, atque, ut
Tullius dixit, artis expertes. Quae enim non proprio oratoris artificio
comparantur sed se extrinsecus uenientia subministrant, haec iure artis
expertia sunt appellata. Huius exemplum est: UT SI ITA RESPONDEAS: QUONIAM
P. SCAEVOLA ID SOLUM ESSE AMBITUS AEDIUM DIXERIT, QUOD PARIETIS COMMUNIS
TEGENDI CAUSA TECTUM PROICERETUR, EX QUO TECTO IN EIUS AEDIS QUI PROTEXISSET
AQUA DEFLUERET, ID TIBI IUS VIDERI. Solum ambitus aedium est, quantum
soli AEDIUM AMBITUS claudii. SCAEVOLA igitur dixit id esse AMBITUS AEDIUM
SOLUM, quod tecti diffusione tegeretur. Manifestum est enim tecta latius fundi,
nec parietibus adaequari, ut stillicidium longus cadat. Quae cum ita
sint, quidam parietem communem tegere nitebatur, quaeritur an sit aliquod ius
tegendi. Respondeas tu, inquit, Trebati, id ius esse angendi parietis communis,
ut in eius qui tegit non aliud quodlibet tectum stillicidii aqua fundatur,
alias non esse iuris ut tegat quis parietem, stillicidio in uicini tecta
defluente. Haec enim stillicidii seruitus noua, nisi consentiente uicino, nihil
iuris habet. Sed si huic responso opponatur, ne sic quidem ut tegat esse
iuris, quandoquidem aedium solum tantum est, quantum cuiusque parietes
claudunt, qui uero legit, tectum longius mittit, tu inquit, responsum tuum
Scaeuolae auctoritate firmabis, dicens Scaeuolam respondisse hoc ESSE SOLUM
AMBITUS AEDIUM, quantum tectum proiiceretur, non quantum parietes ambirent. Ius
est igitur proiicere tectum, qui intra ambitum adhuc suarum aedium tegit sed
ita ut in suum tectum aqua defluat, nec uicino noua noceat seruitute. In
qua quaestione neque a subiectoneque a praedicato termino ductum est
argumentum, quod in his locis considerari moris est, qui in ipsis haerent de
quibus agitur terminis, ut in omnibus exemplis est diligentissime declaratum.
Sed quia sumitur argumentum extrinsecus, dubitationi iudicium cuiuslibet
opponitur, ut nunc Scaeuolae, cuius auctoritate responsum est, atque ideo ex
loco qui uocatur extrinsecus sumptum dicitur argumentum. HIS IGITUR LOCIS
QUI SUNT EXPOSITI AD OMNE ARGUMENTUM REPERIENDUM TAMQUAM ELEMENTIS QUIBUSDAM
SIGNIFICATIO ET DEMONSTRATIO [AD REPERIENDUM] DATUR. UTRUM IGITUR HACTENUS
SATIS EST? TIBI QUIDEM TAM ACUTO ET TAM OCCUPATO PUTO. SED QUONIAM AVIDUM
HOMINEM AD HAS DISCENDI EPULAS RECEPI, SIC ACCIPIAM, UT RELIQUIARUM SIT POTIUS
ALIQUID QUAM TE HINC PATIAR NON SATIATUM DISCEDERE. Omne elementum
principium est eius rei cuius elementum esse perpenditur. Nam eius quod
ex elementis fit, ipsa elementa nec esse est loco esse principii; ergo quoniam
hi loci superius designati argumentorum quasi quaedam principia sunt (ipsi enim
sunt qui continent argumenta; omne autem quod continet, eius quod continetur
principium est), idcirco ait Cicero ueluti quaedam elementa argumentorum uideri
locos hos quos superius posuit Cautissimeque adiecit, quasi quaedam elementa;
non enim integre elementa sed quasi in similitudine elementorum sunt hi loci
qui in argumentis eificiendis sumuntur. Idcirco quoniam argumentorum quaedam
uidentur esse principia, alioqui elementum omne, minima pars eius est cuius
elementum est, et id quod ex elementis efficitur, partes inuicem coniungit, ut
litterae orationem. At uero locus, non pars argumenti sed totum est. Est enim
significatio quaedam, et demonstratio ad reperiendum argumentum data, ut si
locum respexeris, noueris ubi conditur, unde duci debeat argumentum. Sed
reliqua ad Trebatium expeditissime dicta sunt, blanditurque ei etiam breuia
posse sufficere acuminis praerogatiua, praesertim cum sit iuris occupatione
districtus, et tempus legendi plura non habeat. Sed quoniam, ut inquit,
auidissimum studii AD HAS doctrinarum EPULAS recepit, non uult degustatum sed
satiatum relinquere, ut non desit aliquid sed de pleno etiam relinquatur,
factaque esta conuiuando translatio iucundissima. Declaratis igitur locis
omnibus, eorumque exemplis diligenter expositis, pauca quaedam de locorum ui
atque ordine disputabo, quibus plenissima disputatione expeditis, ad ea quae
restant explananda transgrediar. Sed id tertio iam uolumine faciendum est,
quoniam secundus liber habet proprium modum. Antequam latiorem M. Tullii
diuisionem de enumeratis superius locis aggrediar, pauca, ut sum pollicitus, de
ui atque ordine locorum mihi uidentur esse tractanda, ut eorum natura
diligentius cognita, facilior se argumentorum copia subministret. Primum igitur
quoniam loci omnes diuisi sunt in eos qui in ipso haerent de quo quaeritur, et
in eos qui extrinsecus assumerentur, uidendum est qui nam sint hi loci qui in
ipso haerent de quo quaeritur, et quid ab ipsis rebus differunt in quibus
haerere dicuntur, atque illud quidem planissime expeditum est, ipsos dici
terminos illos qui in quaestione uersantur, horum esse alterum praedicatum,
alterum uero subiectum, superior expeditio patefecit. Ab eo igitur
termino de quo agitur, quid differt locus a toto? Quandoquidem idem est ipsum
esse quod totum, neque enim est aliud esse quemlibet terminum in quaestione
propositum, quam totum esse terminum eumdem qui in quaestione est constitutus;
de paribus quoque idem dicimus. Nam si omnes partes efficiunt id cuius partes
sunt, terminumque in quaestione propositum suae partes efficiunt, non est
dubium quin partes quoque omnes conuenientes idem esse quod ipsum est, in
quaestione propositum rectissime intelligantur. Notatio uero, eodem modo illud
ipsum est quod in quaestione proponitur. Rem enim unamquamque omne uocabulum
designat in quaestione ac denotat. Fit igitur ut totum, partes ac nota, idem
quod est ipsum de quo quaeritur esse uideantur. In tanta igitur similitudine
rerum danda est differentia. Neque enim, ut dictum est, si locus haeret in eo
ipso de quo quaeritur, atque ab ipso de quo quaeritur capi non potest,
argumentum fieri potest, tu locus idem esse possit quod ipsum est de quo
quaeritur. Sed haec differentia ipsum est quod confuse ac singulariter intelligitur,
ut homo, in eo inest totum suum, quod est definitio ipsius; igitur totum, ab eo
quod ipsum est, intelligentia separatur, quod illud quidem singulariter
intelligitur, hoc uero sub generis ac differentiarum enumeratione monstratur.
Diuidit enim definitio atque dispertit, totumque patefacit quod in re ipsa
singulariter intelligebatur; de partibus quoque eadem ratio est. Si enim ad
membrorum multitudinem, uel specierum omnium enumerationem, singularis termini
referas intellectum, statim ipsius ac partium differentias comprehendas. Nota
etiam ab eo cuius nota est facile distat, quia illud uox et significatio est,
illud res significationi supposita, eorum uero quae affecta sunt non sunt
dubiae differentiae ab his quorum affecta esse monstrantur. Quis enim idem
dicat esse coniugatum, quod est id cui coniugatum est? Quis idem dicat esse
iuste, quod iustitia? Quis genus idem quod forma? quis contraria? quis similia?
Quandoquidem neque contrarium, sibi ipsi contrarium esse potest, nec simile,
sibi ipsi simile; nec genus, sibimetipsi genus; et de cateris eadem ratio
est. Nunc illud dicendum est, propter quod ista praemisimus; quandocumque
enim ab illis tribus locis qui primi propositi sunt, argumenta sumuntur, id est
a toto, a paribus, a nota, fit ut ipse quidem terminus ad cuius fidem quaeritur
argumentum, intra quamlibet earum rerum contineatur, quae cum ad argumentum
ductae fuerint, loci esse monstrantur. Velut cum fit argumentum a toto, ipse
quidem terminus cui fides affertur, intra totum comprehenditur; totum uero
ipsum quod est definitio, res est siquidem orationem, rem uocari placet. At si
ex ea sumitur argumentum, fit locus itaque ipsum quidem de quo agitur, intra
totum clauditur, a quo toto cum fit argumentum, fit ipsum totum, locus; quod
totum, quoniam claudit terminum qui in quaestione uersatur eidem termino
uidetur inhaerere. Quo fit, ut locus quoque qui a toto est, eidem inhaereat
termino, de quo in quaestione dubitatur. Partium quoque enumeratio eumdem terminum
claudit, quem partium collectione coniungit. Ipsaque partium enumeratio res
quaedam est, ei oratio rebus annumeranda est. Sed si ab ea ducitur argumentum,
fit locus. Sed quoniam partium multitudo in eodem termino est, quem conuentus
partium iungit, nec esse est eum quoque locum qui est a coniunctione partium
ipsi illi termino de quo quaeritur inhaerere. Nota etiam rem designat, et
significatione aliquo modo comprehendit, a qua si ducitur argumentum, fit
locus, et quoniam nomen omne si uidetur ad esse, cuius intelligentiam signat,
locus quoque qui est a notatione, in ipso haeret de quo uersatur
intentio. At in affectis quae in tredecim partes diuisa sunt, non idem
est. Nam quoniam respicientia quodammodo terminum sunt, et quasi extrinsecus constituta,
non uidentur eodem modo coniuncta esse cum termino quo coniuncti sunt hi loci,
qui a toto, a partium enumeratione, a nota esse praedicti sunt; sed tamen id
quod affectum est, ad aliquid dicitur. Id uero aliquid iunctum est illi semper
quod ad eius ducitur relationem, ac sine eo esse nunquam potest, quia cum ipso
nascitur, et quodammodo altero dicto intelligitur alterum. Nam si id de quo
quaeritur, eiusque affecta perpendas, ea quae perhibentur affecta, extra id de
quo ambigitur, posita esse consideres, nihil enim eorum quae sunt ad aliquid,
ex se ipso esse potest sed est semper ex altero: ut enim in praedicamentis
ostenditur, omnia quae ad aliquid dicuntur, opposita sunt, non tamen ita
disiuncta sunt ut omnino sint distributa sed quoniam relatiua praedicatione
iunguntur, nec esse est aliquo modo in ipso sint ad quod uidentur affecta. Omne
quippe affectum, ex eo ad quod affectum est suscipit formam, et sine eo esse
non potest, et dicto altero, alterius se statim subiicit intellectus, ut cum
dixero dimidium, duplum intelligitur, et cum patrem nominauero, filius ad
intelligentiam uenit. Et omnia quaecumque ad aliquid sunt, ex sese pendent, nec
a se inuicem deseruntur. Igitur omne affectum, et ad ipsum respicit ad quod
refertur, et in ipso est. Ad ipsum quidem respicit, quoniam ad affectum suum
uelut ad aliquid relatiue more praedicationis refertur; in ipso uero est, quod
ea est affectorum natura ut alterum existat ab altero, seque ipsa possideant,
quandoquidem et id quod uffectum uocatur, eius est termini ad quem consideratur
affectum, et terminus in quaestione propositus affe. cto suo intelligitur esse
connexus. Quae cum ita sint, cum argumentum sumitur a coniugatis, quoniam
id quod coniugatum est, affectum est ad id quod ei ex altera parte est
coniugatum, id quidem de qua quaeritur in altrinsecus posito coniugato haeret.
Is uero locus unde argumentum trahitur, ab altero ducitur coniugato, ueluti si
compascuus ager est, ius est compascere. Igitur compascere atque compascuum
coniugata sunt; sed quaerebatur an ius esset compascere, tractum uero est
argumentum a compascuo; itaque terminus quidem de quo fuit quaestio, in altero
coniugato positus deprehenditur, id est in compascendo; locus uero unde
argumentum tractum est, in altero est, id est in compascuo. Item quoties
a genere ducitur argumentum, id de quo quaeritur in forma, haerere nec esse
est, ut cum ostenditur legata esse numerata pecunia, quoniam fuerit argentum
omne legatum. Quaeritur enim de numerata pecunia, quae est species argenti, et
argumentum tractum est ab argento, id est a genere. Itaque ipsum de quo
quaerebatur, in forma fuit, id est in specie. Argumentum uero tractum est ab
affecto, id est a genere. Quod si a forma generis argumentum fiat, conuerso
modo est, id quidem quod quaeritur in genere esse monstratur, ipsum uero unde
sumptum est argumentum, in forma esse perpenditur. Nam cum quaeratur an legatum
sit uxori argentum, ostenditur non esse legatum, quia non fuerit uxori tantum:
legatum sed matrifamilias uxori. Uxor uero genus est matrifamilias uxoris.
Quaeritur igitur de uxore, id est de genere. Argumentum factum est a
matrefamilias, in est a forma. Quoties uero a similitudine trahitur
argumentum, quoniam id quod simile est, non sibi sed alteri simile esse
perpenditur, res siquidem de quo quaeritur, in uno eorum quae sunt similia,
posita est; at uero locus, in altero est, uelut cum quaeritur an haeres
restituere uitium ruinamue cogatur aedium in usumfructam relictarum. In hoc
igitur quaestio est, locus uero a simililudine, quia non oportet haeredem aedes
restituere, sicut nec mancipium, si id aliqua ratione depereat. Cum igitur
similis sit aedium ususfructus atque mancipii, quod quaeritur, in aedium
usufructu positum est, locus uero, in usufructu mancipii. In differentia
quoque idem est: eorum namque quae differunt in altero positum est id quod
quaeritur, in altero uero illud a quo id quod est ambiguum comprobatur, ut cum
quaeritur an id quoque argentum quod in nominibus debeatur legatum sit. Hic
igitur illud est quod dubitatur. In eo uero quod ab hoc differt, locus est a
quo ostenditur minime legatum esse argentum quod in nominibus debeatur, quia
multum differt in arca ne sit positum, an in nominibus scriptam. A
contrario quoque idem est, ut in eo quod quaeritur an ususfructus penus legatus
sit. In usufructu igitur quaestio est sed probatur minime esse legatus, quia
non potest esse usus earum rerum quae utendo pereunt sed potius abusus; in
abusu igitur locus est, scilicet in altero contrariorum, cum fuerit in usu
quaestio. Ab adiunctis etiam locus in eodem modo ab eo quod quaeritur
segregatus est, ut in uno adiuncto quaestio, in altero uero sit locus. Nam cum
quaeratur an secundum mulieris tabulas nunquam capite diminutae possessio
detur, in hoc quaestio est an detur, at in eius adiuncto, locus. Ostenditur
enim minime dari debere possessionem, quia sit proximum ut secundum puerorum
quoque atque seruorum tabulas bonorum possessio concedatur. Ab
antecedentibus uero ita est locus, ut quaestio sit in consequentibus. Nam cum
quaeritur an aliquid dotis nomine pro liberis manere oporteat sumitur
argumentum nullomodo manere oportere ex antecedentibus, quod uiri culpa factum
est diuortium; locus itaque in antecedenti, quaestio uero in consequenti.
Consecutum est uiri culpa factum esse diuortium, nihil apud patrem pro liberis
permanere, cum uiri culpa praecesserit. A consequentibus uero si sit
argumentum, res quae dubia est in antecedentibus esse deprehenditur, uelut cum
quaeritur an diuortio tacto, cum eo nupta esset mulier qui cum connubii ius non
esset, dotis nomine aliquid pro liberis manere oporteat. Fit argumentum sic: Si
quid ex dote pro liberis manere oporteret, quia patrem liberi sequerentur, cum
eo nupta esset mulier, qui cum connubii ius esset, hic antecedens est, si quid
de dote pro liberis manere oporteret, et in eo quaestio an aliquid manere
oporteat. Consequens uero, cum eo mulier nupta, qui cum connubii ius esset, a
quo sumitur argumentum, id est a consequenti. Nam cum manifestum sit, non cum
eo nupta esse cum quo connubii ius erat, ostenditur quod miuime patrem liberi
sequantur, atque idcirco nihil pro liberis manere oportere. Hic igitur res
quidem quae dubitatur in antecedenti est, in eo scilicet an ex dote pro liberis
manere aliquid oporteat, argumentum uero in eo loco qui est in consequentibus,
id est in muliere quae nupta est cum eo cum quo nulla erant iura
connubii. A repugnantibus etiam quoties argumenta sumuntur, res quidem
dubia in altero repugnanti, in aduerso uero locus est argumenti, ut cum
quaeritur an possit inuita mulier reddere legatum, quod recte testamento semel
accepit. Locus a repugnanti, minime posse inuitam reddere quod recte accepit.
Quaestio igitur est in eo quod intelligitur inuitam reddere, argumentum uero in
altero repugnanti, id est in eo quod intelligitur recte accipere. Pugnat enim
inuitam reddere et recte accipere, sed quaestio in uno eorum est, locus in
altero. Quoties uero a causis efficientibus ducitur argumentum,
quaestionem in effectis esse nec esse est, ut exemplo quo quaeritur an qui
satis dederit damni infecti, uitium parietis praestare cogatur. In hoc igitur,
id est uitio parietis, quaestio est sed de causa trahitur argumentum. Dicitur
enim non oportere praestare, quoniam natura parietis causa fuerit uitii, non is
qui de praestando uitio satis dedisset. Effectum ergo causae, uitium parietis
fuit. Itaque quaestio quidem in effecto, locus uero esse consideratur ex causa.
At si ab effectis aliquid approbetur, locus in effecto, quaestio in causa est
constituta, ueluti cum quaeritur an mulier quaedam cuius bona uiri facta sint,
dotis nomine in uiri manum conuenerit. Quoniam ergo in manum ex conuentione
perficitur, ut bona mulieris post eius mortem uir adipiscatur, argumentum
ducitur ab effectis. Efficitur enim per in manum conuentionem, ut quaecumque
sunt mulieris, uiri fiant dotis nomine; ergo cum ea quae mulieris fuere, uir
nomine dotis adipiscatur, mulierem in manum uiri nec esse est conuenire.
Quaestio itaque est de muliere, an in manum uiri conuenerit. Argumentum uero ab
effectu causae, id est in manum conuentionis. Hoc uero est quod ea quae fuere
mulieris, uir nomine dotis acquirit, quo fit ut quod quaeritur, in causa, locus
uero sit in effectis. A comparatione uero maiorum si fuerit argumentum,
quaestio erit in minoribus, ut si quaeratur an in urbe aqua debeat arceri,
defendaturque minime debere, neque enim fines reguntur; ita in aqua arcenda,
quod minus est, quaestio est, locus uero in finibus regendis, quod maius est.
Contrariae uero, si a minore argumentum ducatur, erit id quod dubilatur in re
maiori, ut si dubitetur an fines in ciuitate regantur, respondeamus minime,
quoniam ne aqua quidem arcetur. Ita id quod dubitatur, in re maiore consistit,
illud uero unde argumentum sumitur, in minori. Et in comparatione parium
similis ratio est: in uno enim eorum quae sunt paria, quaestio consistit, in
altero locus intelligitur argumenti, ueluti cum quaeritur an aedium usus
biennio capiatur, id approbamus, quoniam fundorunm quoque. Cum ergo paria sint
fundus atque aedes, quaestio quidem de aedibus est, argumentum uero ducitura
fundo. Ac de ui quidem locorum, quoque a se non quaestiones et loci
argumentorum separentur, haec dicta sint. Nunc eorum ordinem breuissime
commemorabo. Ex hoc itaque oritur omne iudicium, qui locus prior, qui sit
posterior, existimandus, si eos terminos consideremus qui proposita quaestione
uersantur. Quaecumque enim his terminis propinquiora sunt, haec rectissime
priora numerantur. Posteriora uero quantum a propositis longissime quaeque rec
esserint. Id autem tali ratione clarescet. Primum namque, locorum est
diuisa pluralitas in eos qui in ipso sunt de quo agitur, et in eos qui
assumuntur extrinsecus, in quo praepositos esse intelligimus eos locos qui in
ipso sunt, his locis qui trahuntur extrinsecus. Hic uero locus qui in ipso est,
in primas quatuor distribuitur partes, quarum prima est definitio, qui locus a
toto est nuncupatus. Idcirco autem primus a toto locus ponitur, quoniam nihil
est alicui tam proximum, quam propria definitio. Consequitur enumeratio
partium, quia post definitionem proximum locum partes tenere debent, quae totum
id cuius partes dicuntur esse, coniungunt. His apponitur nota, quae quasi
conuerso modo definitio est. Nam sicut definition explicat quod implicite nota
designat, ita nota inuoluit et confuse indicat quod patefacit atque expedit
definitio. Nota uero tertia ideo est, quia definitio substantiam tenet; partium
enumeratio ea dinumerat quae totum compositum iungunt, nota uero nihil efficit
sed tantum designat. Post haec quae in ipsis terminis principaliter
haerent, illa quae sunt affecta numerantur, quae iam non ipsis insunt terminis
sed eosdem uelut exterius posita consequuntur, atque idcirco solum in ipsis
esse dicuntur, quoniam sine his esse non possunt. Quorum prima sunt
coniugata. Nihil enim inter affecta sic proximum est, quam id quod et re et
nomine participat, nisi quod parua nominis inflexione seiungitur. Nam id quod
iustum est, et iustitia participat, et inflexo iustitiae nomine nuncupatur, et
in caeteris quidem coniugatis idem est. Post haec annumeratum est genus.
Genus uero est quod cuiuslibet uniuersaliter substantiam monstrat, et quod
multorum specie diuersorum, substantialis est similitudo. Quod a propositis
terminis longius quam coniugata seiungitur, quia tametsi substantiam monstrat,
tamen ne inflexo quidem uocabulo cum termini nomine copulatur sed longe lateque
diuerso. Huic adiuncta est species (quam formam Tullius appellauit), quia nihil
est tam proximum generi quam species. Species uero est substantialis
indiuiduorum similitudo, et quod sub genere ponitur. Post hanc,
similitudo est constituta. Etenim post illud idem quod in substantiis
intelligitur illud idem recte ponitur quod in qualitate esse perpenditur. Paulatim
uero res incipit a similitudine recedere, nec statim ad contrarium uenit sed
prius a differentia locum statuit. Nam remota similitudine nihil aliud occurrit
prius, nisi differentia. Post hanc, a contrario locum ducit, id est a
maxima differentia. Rursus ad amica sibi affecta conuertitur. Sed non eo
modo amica quo sunt similia, adiuncta enim proponit, quae non sunt integrae
similitudinis sed inter se iudicii, et ueluti cuius iam rerum sibi cohaerentium
propinquitatis. Post adiuncta uero antecedentia Tullius posuit. Post id enim
quod aliquo modo iunctum est, aliquid nec esse est aut antecedens aut
consequens intelligatur. Prius itaque antecedens, post consequens collocatum
est. Post haec repugantia dixit, ut quodammodo duplex ordo contrarietatum
ac similitudinum nasceretur. Prius enim proposuit a simili, a differentia, a contrario,
atque hic uniuersus ordo est similium et contrariorum. Rursus ab adiunctis, ab
antecedentibus, a consequentibus, a repugnantibus. Hic rursus secundus ordo
similium et contrariorum esse deprehenditur. Sed primus ualde euidentior quam
secundus; plus est enim simile esse quam adiunctum, plus est differre quam
antecedere uel consequi, plus etiam est contrarium quam repugnans. Et in suo
quaeque ordine plenam retinent formam, uelut quia similitudo propinquitatem
quamdam tenere debet: propinquius est enim id quod est simile ei cui simile
esse consideratur, quam id quod ad. iunctum est ei cui naturali
uicinitate coniungitur. Rursus quoniam differentia similitudinis auctor est, dissimilius
est id quod ab aliquo differt, quam id quod consequitur uel antecedit. Rursus
quoniam contrarium longissime ab eo qui contrarium est oportet abscedere,
longius abscedit contrarium quam repugnans. Post haec quid aliud restare
poterat quam effectorum causas quaerere? aut post effectorum causas quid aliud
quam ipsarum causarum perquirere effectus? Praeterea a comparatione loci,
postremum ordinem tenent, quia siue similitudinem, siue dissimilitudinem in
sola obtinent quantitate. Ac de locorum ordine satis dictum est. Illud
praeterea considerandum puto, num hi quoque argumentorum loci qui in ipso
haerent de quo quaeritur, inter affecta iure numerentur. Quandoquidem quae
affecta sunt, idcirco esse dicuntur affecta, quia sunt ad aliquid, et propositi
termini relatione nectuntur. Nam et definitio alicuius est definitio, et totum
partium totum est, et nota significati nota est. Sed inspicienda natura est
singulorum, et uidendum num similiter haec ad aliquid referantur ut caetera.
Nam definitio rem quam definit quodammodo explicat atque conformat. Item partes
rem cuius partes sunt propria coniunctione perticiunt. Nota uero, eius
intellectum conmmuniter tenet, et cum haec caetera quae uocantur affecta non
faciant, iure haec non inter affecta ponuntur sed in eo ipso quod ueluti
conficiunt atque conformant, inesse dicuntur. Sed quoniam de ui atque ordine
locorum sufficienter dictum est, nunc ad sequentia transeamus. Praeter
omnia enim quae superius dicta sunt, [1090B] illud animaduertendum maxime est,
quia non si quid in argumentis fuerit sumptum, illud eurum argumentorum locus
dicendus est, nisi non solum insit argumentis, uerum etiam ab eo argumenta
nascantur. Id quod dico, planiore liquebit exemplo. Si quod enim fuerit
argumentum in quo sumatur genus uel species, non statim illud argumentum ex
genere uel specie tractum esse dicitur, nisi ei argumento uires generis uel
speciei qualitas subministret. Age enim, sit quaestio an idem sit animali esse
quod uiuere, et fiat argumentatio sic: non idem est animali esse quod uiuere,
quia ne inanimato quidem idem est esse quod mori, piurima quippe sunt
inanimata, neque moriuntur. Nam quae nunquam uixere, ne mori quidem posse
manifestum est. Hoc igitur inanimatum genus est lapidum, ac fusilium
metallorum, et sumptum est in argumentum sed non ex genere factum est
argumentum, licet in eodem genus uideatur inclusum sed potius a contrario. Nam
contrarium est uitae quidem mors, animalium inanimatum; sed mori non sequitur
inanimatum, igitur ne animal quidem uiuere. Non ergo ex genere locus iste
ducendus est sed potius ex contrario, quamuis genus huiusmodi contineat
argumcntum; tunc enim locus esset a genere, si ab animalis uel a uiuendi genere
argumenti ratio traheretur, uelut si ita fieret argumentum: animali esse,
substantiae est esse; ipsum uero uiuere substantia non est sed in substantiam
uenit. Non est igitur idem uiuere quod animali esse. A substantia igitur
tractum est argumentum, a genere uidelicet animalis. Hoc igitur argumentum, et
genus continet, et ex genere ductum est; in priore uero, etsi genus continet, a
contrario tamen ductum esse perpenditur. Illud enim semper speculandum est, non
quid in argumento sit sed ex quo ducitur argumentum. Et in caeteris
quidem eadem ratio tenenda est, neque est enim in singulis immorandum. Siquis
enim diligentiam decursae superius expositionis exercuit, facile in reliquis
colliget, quod uno declaratur exemplo: QUANDO ERGO UNUSQUISQUE EORUM
LOCORUM QUOS EXPOSUI SUA QUAEDAM HABET MEMBRA, EA QUAM SUBTILISSIME
PERSEQUAMUR, ET PRIMUM DE IPSA DEFINITIONE DICATUR. DEFINITIO EST ORATIO, QUAE
ID QUOD DEFINITUR EXPLICAT QUID SIT. Propositis igitur breuiter argumentorum
locis eosdem subtilius atque enodatius statuit per suas partes et conuenientia
membra partiri. Ita enim locorum omnium diligentius natura
considerabitur, si non confuse solum, uerum etiam distributim, et in suarum
partium proprietate noscantur. Dat uero hoc multam inueniendorum copiam
argumentorum: ut enim de definitione dicamus, si cunctas aliquis definitionum
partes agnouerit, ex omnibus sibi poterit argumenta conquirere, eritque in
inueniendis copiosior argumentis eo qui quot sint definitionis species ignorat.
Ex tot enim definitionum partibus argumenta producet, quantas quis definitionum
partes esse cognouerit. Is uero habebit plurimam talium locorum facultatem,
quem definitionum diuersitas non latebit. Ob hoc igitur M. Tullius, quos
confuse atque indigeste posuit locos, nunc eosdem diligentiore ratione
partitur. Ac primum illud propensiore consideratione tractandum est,
quod, ut dictum est, etiam loci ipsi res quaedam sunt sed tunc esse
intelliguntur loci, cum ab his trahitur argumentum. Ergo nunc Cicero non
principaliter locos sed res ipsas diuidit, quae ad argumentum ductae, speciem
sumunt locorum. Definitio namque, et pars, et nota, res quaedam sunt sed cum ab
his argumentum ducitur, loci fiunt. Cum igitur M. Tullius res ipsas ita ut sunt
naturaliter partiatur, simul cum rebus diuidit locos. Si enim res una est a qua
duci poterit argumentum, unus est etiam locus; at si illa diuiditur, quot
partes eius rei fuerint, tot erunt etiam loci generis eiusdem de quo argumenta
nascuntur. Quae cum ita sint, cumque prius omnium locus a toto sit, id
est a definitione; prius quid sit definitio definitione declarat, ut patefacta
rei natura, species eius uel membra conuenienti ordine partiatur. Detinitio,
inquit, est oratio quae id quod definitur explicat quid sit, sicut definitio
est hominis, animal rationale mortale. Dictum uero cautissime explicat. Nam
quod nomen confuse denuntiat, id definitio per quaedam substantialia membra
diffundit. Quod enim confuse nomine hominis declaratur, id aperit atque
explicat definitio, dicens hominem esse animal rationale et mortale. Nam nisi
ita dixisset, potuerat esse oommunis definitio generi quoque, uelut hoc modo:
definitio est quae designat quid est id quod definit. Sed genus quoque designat
quid est id de quo praedicatur sed non explicat quid sit. Sola enim definitio
explicat quid sit quod oratione perficitur; genus uero et caetera quae singulis
plerumque nominibus proferuntur, minime. Explicat autem definitio id quod
definitur, non quoquo modo, id est non in eo quod quale uel quantum est, non in
quolibet aliorum praedicamenlorum sed quid sit, id est eius quod definit,
substantiam monstrat. Ea uero definitio substantiam digerit, qua ex genere
differentiisque consistit; haec namque uniuscuiuslibet substantiam significant,
sicut in his dictum est, ubi de genere, specie, differentia, proprio,
accidentique tractatum est. Ergo omnis definitio explicat quid sit id quod
definitur. Aristoteles uero eodem pene modo definitionem determinat, dicens:
Definitio est oratio quidem esse significans. Hanc M. Tullius partitur
hoc modo: DEFINITIONUM AUTEM DUO GENERA PRIMA: UNUM EARUM RERUM QUAE SUNT,
ALTERUM EARUM QUAE INTELLEGUNTUR. ESSE EA DICO QUAE CERNI TANGIQUE
POSSUNT, UT FUNDUM AEDES, PARIETEM STILLICIDIUM, MANCIPIUM PECUDEM,
SUPELLECTILEM PENUS ET CAETERA; QUO EX GENERE QUAEDAM INTERDUM VOBIS DEFINIENDA
SUNT. NON ESSE RURSUS EA DICO QUAE TANGI DEMONSTRATIVE NON POSSUNT, CERNI TAMEN
ANIMO ATQUE INTELLEGI POSSUNT, UT SI USUS CAPIONEM, SI TUTELAM, SI GENTEM, SI
AGNATIONEM DEFINIAS, QUARUM RERUM NULLUM SUBEST [QUASI] CORPUS, EST TAMEN
QUAEDAM CONFORMATIO INSIGNITA ET IMPRESSA INTELLEGENTIA, QUAM NOTIONEM
VOCO. EA SAEPE IN ARGUMENTANDO DEFINITIONE EXPLICANDA EST. Omnem
definitionem manifestum est ad aliquid dici, ulicuius est enim semper
definitio. Quae uero ad aliquid dicuntur, quamdam proprietatem ex his sumant
nec esse est, ad quae referuntur. Quo fit ut ex his rebus quas determinat
definitio, in ipsas definitiones quaedam proprietas transferatur; sed quia quod
ad aliquid refertur, id non potest esse idem ei ad quod dicitur, propriam
quoque ipsum quod refertur ad aliud formam nec esse est possidere. Eoque fit,
ut in definitionibus, et sua insit forma, et ea quam ab his accipiunt, quae
definiunt consideretur. Quod M. Tullius uidens, primum diuidit definitiones
secundum ea quae definiuntur. Quarum genera duo esse proponit, unum earum
rerum quae sunt, alterum earum quae intelliguntur. Has igitur definitionum
differentias ex his uidetur sumpsisse quae in definitione monstrantur. Omnia
enim qua definiuntur aut corporalia sunt, aut incorporalia. Res enim omnes in
haec primitus diuiduntur. Ea uero quae corporalia sunt, esse dicit; ea quae
sunt incorporalia, non esse, non quod omnino ea quae incorporalia sunt non
sint, alioqui nec definitionem susciperent. Nam si definitio est qua explicatur
id quod definitur quid sit, eius rei, qua omnino non est, nec quid sit,
explicatio ulla esse potest. Sed quia humanum genus sensibus degit, id maxime
esse arbitratur, quod sensuum conprehensioni subiicitur. Quis enim sibi non
magis lapidem scire uideatur, aut hominem quam iustitiam, uel haereditatem, uel
quidquid aliud non sensibus [sed intelligentia comprehendit? Unde fit ut
propter euidentiam cognitionis ea magis esse uideantur quae subiecta sunt
sensibus, ea minime quae intelligentiae ratione capiuntur. Sed id
sciendum est, M. Tullium ad hominum protulisse opinionem, non ad ueritatem. Nam
ut inter optime philosophantes constitit, illa maxime sunt quae longe a sensibus
segregata sunt, illa minus, quae opiniones sensibus subministrant. Unde etiam
idem Cicero in Timeo Platonis ait: Quid est quod semper sit, nec ullum habeat
ortum, et quod gignatur, nec unquam sit? Quorum alterum, intelligentiae ratione
comprehenditur, alterum affert opinionem sensui rationis expers. Hic igitur id
quod semper sit, rationi adiecit, id uero quod nunquam sit, sensibus
coniunxit. Sed, ut dictum est, corporea esse, et incorporea non esse, non
ad ueritatem sed a communem quorumlibet hominum opinionem locutio est. Ponit
igitur exempla earum quidem rerum quae sunt, formas quasdam corporalium rerum,
ut fundum, aedes, parietes, stillicidium, atque id genus, quae corporalia esse
hac ratione ostendit, quoniam cerni tangique possunt; earum uero rerum qua non
sunt, exempla posuit, usucapionem, tutelam, gentem, caeteraque quae sunt
incorporea; quae ex hoc incorporea esse monstrauit, quod ait, EA TANGI
DEMONSTRATIVE non posse sed intelligentia atque ANIMO comprehendi. Cur uero ea
non esse dixerit, supposuit rationem dicens, nullum quasi corpus earum rerum
esse, nec molem aliquam quae feriat sensum. Quod enim corpus esse potest usucapionis?
Nam ipsa quae usucapiuntur, corporea sunt, ipsa uero usucapio corporea non
est. Ipsa enim per utendi consuetudinem possidendi firmitudo, quodnam
corpus habere potest? Item, quod quis tutela regit, corporale est, homo namque
est. Ipsa uero cura tutela, atque ipsum ius alium tuendi, nihil omnino corporis
habere potest. Homines quoque qui in eadem gentilitate sunt, corporei sunt.
Ipsa uero gentilitas, id est communis nominis liberorum societas, ut Scipionum,
Valeriorum et Brutorum, certe incorporea est; sed quaedam eorum rerum
incorporalis animi conceptio est, atque intelligentia, quam notionem uocauit.
Ipsa enim imaginatio usucapionis uel tutelae atque intellectus incorporalis rei
notio dicitur, quam Graeci *ennoia* uocant. Diuisit igitur definitionem in
has duas partes, scilicet secundum subiecti diilerentias, ut alias quidem esse
diceret definitiones earum rerum quae sunt, id est corporalium, alias ueroearum
quae non sunt, id est incorporalium. Hinc quaeri potest, quod etiam
superius breuiter commemoraui, quonam modo definito non inter affecta
numeretur, cuni ornnis definitio ad aliquid esse uideatur? Idcirco enim affecta
esse dicta sunt similitudo, contrarium, et caetera, quoniam semper ad aliquid
referuntur. Quod si etiam definitio refertur ad aliquid, nec est absolutae ac
propriae considerationis, ea quoque inter affecta ponenda est. Sed
occurritur, quoniam ea quae affecta sunt tanquam umbrae quaedam corpus, ita
extra posita non possunt id relinquere ad quod probantur affecta, et aut omnino
substantiam eorum ad quae affecta sunt, non significant ut contrarium, simile
et caetera. Aut si quando designant, una quaedam pars intelligitur esse
substantiae, uelut genus, species, differentia. Non enim genus tota substantia
est speciei, quando, quidem non solum genus speciem format sed differentiae
quoque; nec differentiae totam substantiae continent formam, quandoquidem non
sola differentia speciem perficit sed etiam genus. Ipsa uero species quaedam
generis pars est, at uero definitio, etsi ad aliquid est, tamen totam
substantiam monstrat, atque exsequatur ei rei quam definit, et substantiam
perficit, ut neque extraposita sit, sicut similitudo et contraria, neque pars
eius substantiae sit quam definitione determinat sed potius ipsa substantia. Ac
de hac quidem re satis dictum est. Idem uero de partibus dici potest. Nam
coniunctae partes totum id efficiunt cuius partes sunt. Nota quoque tutum
significat id quod designat, utque omnia coaequantur, et definitum definitioni,
et partes toti, et nota rei quam significatione declarat si non sit aequiuoca,
uel si res quae designatur non sit multiuoca. Sane illud dubitari recte
potest, cur cum dixisset duo genera esse definitionum, non ipsas definitiones
partitus est sed quae definiuntur, id est corporale atque incorporale. Quod
idcirco dictum uidetur, quia definitio cum sit ad aliquid, ut dictum est,
quamdam capit ex his, quorum; substantiam determinat, qualitatem. ATQUE
ETIAM DEFINITIONES ALIAE SUNT PARTITIONUM ALIAE DIUISIONUM; PARTITIONUM, CUM
RES EA QUAE PROPOSITA EST QUASI IN MEMBRA DISCERPITUR, UT SI QUIS IUS CIVILE
DICAT ID ESSE QUOD IN LEGIBUS, SENATUS CONSULTIS, REBUS IUDICATIS, IURIS
PERITORUM AUCTORITATE, EDICTIS MAGISTRATUUM, MORE, AEQUITATE CONSISTAT.
DIVISIONUM AUTEM DEFINITIO FORMAS OMNIS COMPLECTITUR QUAE SUB EO GENERE SUNT
QUOD DEFINITUR HOC MODO: AB ALIENATIO EST EIUS REI QUAE MANCIPI EST AUT
TRADITIO ALTERI NEXU AUT IN IURE CESSIO INTER QUOS EA IURE CIVILI FIERI
POSSUNT. Quoniam definitio ita exsubiecta re quam definit, proprietatem
capit, ut tamen formam propriam non relinquat, idcirco post eas differentias
definitionum, quae ab his rebus tractae sunt quae definiebantur, nunc a propria
forma definitionum differentias tradit. Propria uero forma uniuscuiusque
compositi in suis partibus constat itaque ex partibus definitionum tales differentias
docet, quod aliae definitiones per diuisionem, aliae per partitionem fiunt.
Definitur enim res quamlibet dum aut eius species omnes enumerantur aut partes.
Partes uero a specie quo differant, paulo posterius dicam. Hinc exponenda
arbitror Ciceronis exempla; dat enim partitionis exemplum hoc: Sit enim
propositum definire quid sit ius ciuile, dicemus ita: ius ciuile est quod in
legibus, senatus consultis, rebus iudicatis, iuris peritorum auctoritate,
edictis magistratuum, more, aequitate consistit. Lex igitur est quam populus
centuriatis comitiis ciuerit. Senatus consulta sunt quae fuerint senatus
auctoritate decreta. Res iudicatae sunt quae inter eos qui super aliqua re
ambigunt, sententia iudicum fuerint constitutae, quarum exemplo caeterae quoque
iudicantur. Iurisperitorum auctoritas est eorum qui ex duodecim tabulis, uel ex
edictis magistratuum, ius ciuile interpretati sunt, probatae ciuium iudiciis,
creditaeque sententiae. Edicta nmagistratuum sunt quae praetores urbani uel
peregrini, uel aediles curules iura dixere. Mos est quod in ciuitatem solium
est fieri. Aequitas est quod naturalis ratio persuasit. Haec igitur omnia unam
formam iuris efficiunt, tanquam partes, uelut hominem, caput, brachia, thorax,
uenter, crura atque pedes. Partitio est enim ut ipse ait, quae unamquamque rem
propositam, quasi in membra discerpit. Alteram uero partem definitionis,
quae per diuisionem sit specierum, tali monstrat exemplo. Definit enim quid sit
abalienatio eius rei quae mancipi est, dicens: ABALIENATIO EST EIUS REI QUAE
MANCIPI EST, AUT TRADITIO ALTERA NEXU, AUT CESSIO IN IURE, INTER QUOS EA IURE
CIVILI FIERI POSSUNT. Nam iure ciuili fieri aliquid non inter alios, nisi inter
ciues Romanos fieri potest, quorum est etiam ius ciuile, quod duodecim tabulis
continetur. Omnes uero res quae abalienari possunt, id est quae a nostro ad
alterius transire dominium possunt, aut mancipi sunt, aut non mancipi. Mancipi
res ueteres appellabant, quae ita abalienabantur, ut ea ab alienatio per
quamdam nexus fieret solemnitatem. Nexus uero est quadam iuris solemnitas, quae
fiebat eo modo quo in Institutionibus Caius exponit. Eiusdem autem Caii libro
primo institutionem de nexu faciendo, haec uerba sunt: Est autem
mancipatio, ut supra quoque indicauimus, imaginaria quaedam uenditio, quod
ipsum ius proprium Romanorum est ciuium, eaque res ita agitur, adhibitis
non minus quam quinque testibus Romanis ciuibus puberibus, et praeterea
alio eiusdem conditionis qui libram aeneam teneat, qui appellatur
libripens. Is qui mancipium accipit, aes tenens, ita dicit: Hunc ergo
hominem ex iure Quiritium meum esse aio, isque mihi emptus est hoc aere
aeneaque libra. Deinde aere percutit libram, indeque aes dat ei a quo
mancipium accipit, quasi pretii loco. Quaecumque igitur res, lege
duodecim tabularum, aliter nisi per hanc solemnitatem abalienari non poterat.
Sui iuris autem caeterae res nec mancipi uocabantur, eaedem uero etiam in iure
cedebantur. Cessio uero tali fiebat modo ut secundo commentario idem Caius
exposuit. In iure autem cessio fit hoc modo: apud magistratum
populi Romani, uel apud praetorem, uel apud praesidem prouinciae, is cui
res in iure ceditur rem tenens ita uindicat: Hunc ego hominem ex iure
Quiritium meum esse aio. Deinde postquam hic uindicauerit, praetor
interrogat eum qui cedit an contrauindicet; quo negante, aut tacente, tunc
ei qui uindicauerit, eam rem addicit, idque legis actio uocabatur.
Res igitur quae mancipi sunt, aut nexu, ut dictum est, abalienabantur, aut in
iure cessione. Has autem solemnitates quasdam esse iuris, ex superioribus
Caii uerbis ostenditur. At si res ea quae mancipi est nulla solemnitate
interposita tradatur, abalienari non poterit, nisi ab eo cui traditur,
usucapiatur. Quae cum ita sint, recte definita est secundum diuisionem
abalienatio rei mancipi, scilicet quae aut nexus traditione, aut in iure
cessione perficitur. Nam pura traditione, abalienatio rei mancipi non
explicatur. Species uero has esse, non partes, hinc intelligitur, quia si quis
nexu abalienet rem mancipi, id quod suum fuit, in alterius potestatem pleno
iure transtulit. Quid si etiam in iure cedat, plenum abalienationis ius erat.
Ubi autem plenum nomen eius, quod diuidunt, partes suscipiunt, illud genus, et
has species esse paululum quoquo dialectica cognitione imbutus
intelligit. Quae cum ita sint, diuisit Cicero definitionem in duas
partes, unam quae partium enumeratione fieret, alteram quae per partium
diuisionem, utraque uero definitio partes enumerat. Sed hoc interest, quia haec
quidem species, illa uero membra partitur. Hic suboritur quaestio ualde
difficilis. Nam si definitio est etiam partitio, mirum uideri potest quemadmodum
alter sit a definitione locus, alter a partium enumeratione. Quae res maximam
confusionem praestat. Nam cum superius in locorum enumeratione alter a
definitione locus, alter sit a partium enumeratione propositus, cumque nunc
enumerationem partium, uel diuisionem, definitionis species esse confirmet, non
est dubium quin cum idem sit partium enumeratio quod definitio (idem namque est
species quod genus), idem sit locus a definitione, qui est a partium
enumeratione. Cuius quaestionis ualde difficilis, facilior absolutio est,
si definitionum ipsarum formas ac distantias colligamus. Multis namque modis
fieri definitio potest. Inter quos unus est uerus atque integer definitionis
modus qui etiam substantialis dicitur; reliqui per abusionem definitiones uocantur.
De quibus omnibus paulo posterius integram faciam diuisionem. Nunc in commune
sic disseram: nam quia omnis definitio explicat quid sit id quod definitur.
Explicatio autem fit duobus modis: uno quidem cum pro re minime cognita planius
aliquid affertur; alio uero cum fit quaedam partium enumeratio. Ac de priore
quidem modo, posterius. Nunc uero de enumeratione partium ita dicendum est,
quod omnis definitio, quae per partium enumerationem fit, quasi quaedam partitio
recte intelligitur. Dictum est, id quod in nomine confuse significaretur, in
definitione quae fit enumeratione paritum, aperiri atque explicari. Quod fieri
non potest nisi per quarumdam partium nuncupationem; nihil enim dum explicatur
oratione, totum simul dici potest. Quae cum ita sint, cumque omnis huiusmodi
definitio quaedam sit partium distributio, quatuor his modis fieri potest. Aut
enim substantiales partes explicantur, aut proprietatis partes dicuntur, aut
quasi totius membra enumerantur, aut tanquam species diuiduntur. Substantiales
partes explicantur, cum ex genere ac differentiis definitio constituitur. Genus
enim quod singulariter praedicatur, speciei totum est. Id genus sumptum in definitione,
pars quaedam fit. Non enim solum speciem complet, nisi adiiciantur etiam
differentiae, in quibus eadem ratio quae in genere est. Nam cum ipsae
singulariter dictae totam speciem claudant, in definitione sumptae, partes
speciei sunt, quia non solum speciem quidem esse designant sed etiam genus.
Huius exemplum est: Homo est animal rationale mortale. Cum ergo tota
definitio homini coaequetur, totiusque definitionis partes sint, tum anima, tum
rationale, tum mortale, ipsius hominis partes esse uidentur singula, quae
eiusdem definitionis partes sunt. Haec igitur proprio nomine definitio nuncupatur.
Item est illa definitio, quando in unum accidentia colliguntur, atque unum
aliquid ex his efficitur, et est ueluti quaedam partium enumeratio, non in
substantia sed in quadam accidentium collectione posita; huius
exemplum: Animal est quod moueri propria uoluntate possit. Animali
namque et motus est accidens, et uoluntas, et possibilitas sed haec iuncta
perficiunt animal, non substantialiter constituentia sed per quaedam accidentia
designantia quod animalis quasi quaedam partes sunt, et haec descriptio
nuncupatur. At si non accidentia rei sed quasi membra quaedam dicamus, ex
quibus componitur atque coniungitur, atque inde definitionem facere tentemus,
hoc modo dicimus: Domus est quae fundamento parietibus tectoque
consistit hic membra quaedam sumpta sunt ad definitionem, quibus res tota
coniungitur, et haec uocatur per enumerationem partium definitio. At si
quis ita definiat ut non in definitione ponat membra sed species, a diuisione
specierum definitio nuncupatur: uelut si quis hoc modo pronuntiet: Animal
est substantia quae uel sensu tantum uel sensu et ratione nitatur.
Haec igitur quatuor a se differre manifestum est. In ea namque definitione quae
per substantiales partes efficitur, singulae partes maiores esse uidentur, et
substantialiter uniuersaliores ab ea requam definiunt, ut animal maius est ab
homine. Mortale etiam atque rationale, singula hominis transgrediuntur naturam,
quae in unum conuenientia, eidem quo sigillalatim maiora sunt coaequantur.
Accidentia uero quae in definitione ponuntur, omnino a substantia ratione
disiuncta sunt. In ea uero definitione quae ex partium enumeratione perficitur,
talia sunt quae enumerantur, ut singula totius deflniti nomen capere non
possint, atque idcirco eodem minora sunt, ut fundamenta non possint domus uocabulo
nuncupari: fundamenta enim domo minora sunt, itemque caeterae partes. At uero
in ea definitione quae per diuisionem fit, singulae quidem partes tota ea re
quae definitur minores sunt, totum tamen definitae rei nomen suscipiunt. Ut
rationale nomen capit animalis, eodem modo irrationale. Quibus ita
discretis, quotiescumque ab ea definitione quae per substantiales partes
efficitur, uel ab ea quae per accidentium enumerationem colligitur,
argumentatio fit, a definitione, id est a toto tractum dicitur argumentum. Quoties
uero ab ea definitione quae uel per membrorum enumerationem, uel per specierum
diuisionem perficitur, argumentatio fit, ab enumeratione partium argumentum
ductum esse perhibetur. Sed Tullius quia iam partitionem definitionis ingressus
est, etiam hanc interposuit, quae non ad definitionem sed ad enumerationis
partium locum pertinebat. Huius uero rei argumentum est, quia cum post, de
eisdem locis latius tractans, de enumeratione partium loqueretur, nullam aliam
enumerationem partium posuit, nisi eam quam nunc definitionis speciem
dixit. Nec tamen est arbitrandum omnem partitionem definitionis locum
posse obtinere, ut si quis sic dicat, fundamenta, parietes et tectum domus est,
id non est nec esse. Potest namque esse porticus publicis usibus destinata,
potest item aliud quodlibet, ut theatrum quod propter ampliores sonitus
exhibendos tegi solet. Sed id nunc intelligere nos oportet, posse per
partitionem aliquid saepe definiri, cum partium illa collectio unam rem tantum
possit efficere, ut si nihil esset aliud quod fundamenta, parietes atque tectum
posset habere, nisi domus, iure definitio facta esse uideretur, domum esse quam
fun damenta, parietes tectumque perficiunt. SUNT ETIAM ALIA GENERA
DEFINITIONUM, SED AD HUIUS LIBRI INSTITUTUM ILLA NIHIL PERTINENT; TANTUM EST
DICENDUM QUI SIT DEFINITIONIS MODUS. Hunc locum Victorinus unius
uoluminis serie aggressus exponere et omnes definitionum differentias enumerare,
multas interserit, quae definitiones esse pene ab omnibus reclamantur. Inter
definitiones enim penitet nomina, quod specialiter Aristoteli in omni
doctrinarum genere peritissimo non uidetur; pernegatque in Topicis nomine fieri
definitionem, ueluti si quis dicat: Quid est conticescere? et
respondeatur: Tacere! hae nullo modo definitiones habendae sunt.
Quod etiam ex ipsius M. Tullii definitione approbari potest, per quam definitio
quid esset ostendit; dixit enim esse definitionem orationem quae id quod
definitur explicat quid sit. Sed cum nomen non sit oratio, manifestum est
nomine definitionem non posse constitui, cum praesertim ne omnia quidem qua
oratione promuntur atque aliquid ostendunt, proprio definitionis nomine
designentur, ueluti descriptiones, omnisque alia oratio quae non ex
substantialibus partibus sed ex quolibet alio modo coniunctis efficitur.
Quod ne ipse quidem Victorinus ignorat. Sed uidetur id definitionis loco ipse
sibi Victorinus ad disserendi sumpsisse propositum, quod quoquo modo rem
subiectam posset ostendere. Idcirco enim nomen quoque in definitionum numerum
recepit, quoniam saepe notiore uocabulo fit clarius quod ignotiore antea
prolatum latebat. Idcirco etiam nos superius diximus explicationem fieri duobus
modis: uno quidem cum pro re minime cognita planius aliquid afferatur; alio
uero cum fit per quamdam partium enumerationem: ut ea quidem explicatio in qua
notius aliquid affertur, nominis sit; ea uero quae fit per partium
enumerationem orationis, quanquam etiam in ipsis orationibus semper planius
aliquid atleratur quo notius fiat illud de quo disseritur. Ut igitur nihil
expositio nostra praetermittat, et definitionis proprietas appareat, itaque
omnia in notitiam deducantur, ut nec uera definitio nesciatur, et quae non sit
proprie uere quo definitio sub scientiam cadat, talis definitionum differentia
facienda est. Definitionum enim aliae proprie definitiones sunt, aliae abusiuo
nuncupantur modo. Ac propriae quidem definitiones sunt quae ex genere
differentiisque consistunt, uelut haec: Homo est animal rationale
mortale hic enim animal genus est; rationale uero et mortale
differentiae. Earum uero definitionum quae non proprie sed abutendo
definitiones uocantur, aliae sunt quae singulis nominibus denotantur, aliae
uero quas explicat ac depromit oratio. Atque illarum quidem definitionum
quae tantum nomine designantur, aliae sunt quae *kata lexin*, id est ad uerbum
fiunt, cum pro nomine redditur nomen, uelut si dicat aliquis: Quid est
conticere? et respondeatur: Tacere! uel: Quid est
haurit? Percutit! Aliae uero, quae exempli gratia ponuntur, ut cum
uolumus designare quid est substantia, exempli gratia dicimus: Ut
homo haec uocatur Graece *typos* quae idcirco, ut dictum est, inter
definitiones ponitur, quoniam id quolibet modo aliquid designat eius quod
designatur, et si non proprie, tamen aliquo modo uidetur esse definitio.
Earum uero definitionum quae in oratione consistunt, neque tamen sunt propriae,
multae sunt diuersitates. Quarum est omnium nomen communis descriptio. Harum aliae
fiunt partitione, aliae diuisione, de quibus superius, ut dictum est. Aliae
uero substantiales quidem differentias sumunt sed genus non adiiciunt, atque
haec quidem a Victorino *ennoematike* dicitur, quasi quamdam communem continens
notionem, ueluti si quis dicat: Homo est quod rationali conceptione uiget
mortalitatique subiectum est. Hic igitur genus positum non est sed
differentiae substantiales. Aliae uero sunt quae pluribus quidem
qualitatibus designantur accidentibus tamen ita ut singulae qualitates, etiamsi
non coniungantur, possint tamen quod demonstratur efficere, ut: Homo est
ubi pietas est, ubi aequitas, et rursus ubi malitia et uersutia esse
possunt nam et si caetera nullus adiungat, sufficit ad ostendendum hominem dicere: ubi
pietas inesse potest, uel ubi iustitia, uel caetera haec uocatur
*poiotes*. Aliae uero sunt quae pluribus in unum accidentibus coniunctis
efficiuntur, ut siquis luxuriosum definire uelit, dicens: Luxuriosus est
qui pluribus et non necessariis sumptibus in delicias affluit, et in
libidinem fertur effusior omnia enim coniuncta luxuriosum uidentur
efficere, singula uero minime: haec uocatur *hypographike*. Aliae quoque
fiunt eo modo, ut ad signandam, differentiam proponantur in his rebus quae in
discreto fine coniunctae sunt, ut si dubitet quis, Nero imperatorne an tyrannus
fuerit, dicit eum tyrannum fuisse, quoniam crudelis fueritatque intemperans.
Haec enim adiuncta differentia tyrannum ab imperatore seiungit. Aut etiam si de
eodem tyranno atque rege dubitetur quid uterque sit, iuncta differentia
utrosque designat, ut si temperantia quidem regi uel pietas, tyranno uero et
intemperantia et crudelitas conuenire dicatur: haec uocatur *kata
diaphoran*. Alia quae per translationem dicitur, ut: Adolescentia
est flos aetatis. Illa quoque definitio esse diciturquae fit ex
priuatione contrarii, ut: Bonum est quod malum non est. Illa
quoque Victorinus definitionem ponit, quae tantum propriis nominibus aptari
potest, quae etiam *hypotyposis* appellatur, ut: Aenas est Veneris et
Anchisae filius. Praeter has etiam illa est quae fit per indigentiam
pleni, ut quadrans est cui dodrans deest ut sit as. Ponit etiam
Victorinus inter differentias definitionum illam quoque quae per quamdam laudem
fieri potest, ut: Lex est mens, et animus, et consilium, et sententia
ciuitatis. Quod maxime ratione caret. Non enim laudis modus illi
faciet differentiam. Illa enim consideranda sunt quae in definitione ponuntur,
non quo animo constituta sunt. Quod si recipienda fuit laudandi uoluntas inter
differentias definitionum, cur non uituperandi quoque uoluntas aliam
differentiam definitionis efficiat? Sed hoc apertissime inconueniens et
ueritati uidetur esse contrarium. Fiunt etiam definitiones per
proportionum, ut si quis dicat: Homo est minor mundus. Sicut etiam
mundus ratione regitur, ita quoque quoniam homo multis partibus iunctus, habet
tamen in omnibus rationem ducem, minor mundus dici potest. Fiunt etiam
definitiones a relationibus, cum dicitur: Quid est pater?
respondetur: Cui est filius. Causa quoque solet efficere
definitionem, ut cum dicimus: Quid est dies? respondetur: Sol
super terram causam enim, id est solem, pro re ipsa cuius causa est
interposuimus, atqueita diem definitionem monstrauimus. Hae sunt
definitionum differentiae quas in eo libro quem de definitionibus Victorinus
edidit, annumerauit, quas M. Tullius praetermittit eo nomine, quod eas minime
necessarias existimauerit. Nos uero ne quid perfectio deesset operi, etiam quae
sunt a Cicerone praetermissa subiecimus. SIC IGITUR VETERES PRAECIPIUNT: CUM
SUMPSERIS EA QUAE SINT EI REI QUAM DEFINIRE VELIS CUM ALIIS COMMUNIA, USQUE EO
PERSEQUI, DUM PROPRIUM EFFICIATUR, QUOD NULLAM IN ALIAM REM TRANSFERRI POSSIT.
UT HAEC: HEREDITAS EST PECUNIA. COMMUNE ADHUC; MULTA ENIM GENERA PECUNIAE. ADDE
QUOD SEQUITUR: QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERVENIT. NONDUM EST DEFINITIO;
MULTIS ENIM MODIS SINE HEREDITATE TENERI PECUNIAE MORTUORUM POSSUNT. UNUM ADDE
VERBUM: IURE; IAM A COMMUNITATE RES DISIUNCTA VIDEBITUR, UT SIT EXPLICATA
DEFINITIO SIC: HEREDITAS EST PECUNIA QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERUENIT
IURE. NONDUM EST SATIS; ADDE: NEC EA AUT LEGATA TESTAMENTO AUT POSSESSIONE
RETENTA; CONFECTUM EST. ITEMQUE [UT ILLUD]: GENTILES SUNT INTER SE QUI EODEM
NOMINE SUNT. NON EST SATIS: QUI AB INGENUIS ORIUNDI SUNT, NE ID QUIDEM SATIS
EST, QUORUM MAIORUM NEMO SERVITUTEM SERVIVIT. ABEST ETIAM NUNC: QUI CAPITE NON
SUNT DEMINUTI. HOC FORTASSE SATIS EST. NIHIL [1100D] ENIM VIDEO SCAEVOLAM
PONTIFICEM AD HANC DEFINITIONEM ADDIDISSE. ATQUE HAEC RATIO VALET IN UTROQUE
GENERE DEFINITIONUM, SIVE ID QUOD EST, SIVE ID QUOD INTELLEGITUR DEFINIENDUM
EST. Definitionis ratione proposita diuisaque per singulas partes tum
materiae, tum etiam formae; materiae quidem, cum definitionum esse dixit, uel
earum rerum quae corporeae essent, uel earum quae incorporeae; formae uero cum
aut partitionibus aut diuisionibus definitiones fieri docuit; praetermissisque
caeteris quaecumque ad propositum opus minime pertinerent, nunc quod
utilissimum est, maximeque totam definitionem intelligentiam significare
potest, exsequitur. Id autem est: Qui sit in omnibus, quaecumque
quomodolibet fiunt, definitionis modus. Est autem una atque omnibus communis
definiendi ratio, ut ex communitatibus inter semet iunctis atque compositis in
unam proprietatem rei definitio colligatur. Omnia enim quae communia atque
uniuersalia sunt, si quid eis fuerit adiectum, determinatione minuuntur, et ad
particularitatem redeunt, atque eo ambitu quo concludebant cuncta, cohibentur,
ueluti cum generi adiicitur differentia, et fit species. Nam cum genus per se
proprio ambitu multas species contineat, ei si propriam adiicias differentiam,
minuitur, et in quamdam quodammodo particularitatem redit, ueluti cum dicimus
animal, hoc nomen multa concludit. At si ei rationale adiiciae, faciasque
animal rationale, minus erit a simplici. Minus namque est animal rationale a
simpliciter animali.Ita additio differentiae quod maius fuit in
particularitatem quamdam redegit atque cohibuit. Quoties igitur aliqua
res definienda est, sumitur id quod ei cum pluribus aliis commune est, huic
adiiciuntur differentiae, statimque nec esse est minuatur id quod pluribus
fuerat antecommune, et si hac differentiae additione in tantum modum
decreuerit, ut rei quae definitur fiat aequalis, aiias differentiaa colligere
atque aptare non nec esse erit sed id ipsum quod ita decreuit, ut aequale sit
ei quod definitur, definitionem esse nec esse est. At si adhuc amplius sit ab
ea re quae definitur, quaeramus nec esse est aliam differentiam, qua adiuncta
numerus quidem crescat, uis autem communitatum differentiarum additione
decrescat, atque id hactenus faciendum, quatenus, ut dictum est, ea quae ad
definitionem sumuntur ei quod definiendum est adaequentur. Ut igitur id
non ratione solum, uerum conuenienti quoque clarius fiat exemplo, sumatur res
notissima ad definitionem, id sit homo. Huius igitur ita quaerimus
definitionem: sumimus quod ei cum pluribus aliis commune est, id est animal.
Dicimus igitur hominem esse animal, nondum est definitio, primum quia, ut
dictum est, solo nomine definitio reddi non potest; dehinc quia animal maius
est homine. Ut igitur minuatur animal et homini coaequetur, addimus
differentiam, qua adiuncta, rerum quidem numerus crescit, uis autem rei atque
amplitudo minuitur. Addo igitur rationale, efficioque animal rationale. Minus
est igitur animal rationale quam proprie animal. Dico autem hominem esse animal
rationale. Sed id nondum coaequatur ad hominem, possunt enim esse animalia
rationabilia, sicut Platoni quoque de astris placet, quae homines non sunt.
Addo igitur rursus alium differentiam, si quoquo modo iterum definitio
contrahatur, ut fiat homini quod definitur aequale; adiungo igitur mortale, ac
dico hominem esse animal rationale mortale, id aequatur ad hominem. Nam et qui
homo est, animal rationale mortale est. Dico igitur hominis hanc esse
definitionem quae ex pluribus communibus iunctis unum tamen quiddam homini
proprium atque aequale conficit. Atque in caeteris definitionibus eadem ratio
est. Ut definitiones fiant collectis communitatibus, in unumque
copulatis, cum necesse sit illa copulatione quae communia sunt contrahi atque
in minorem cohiberi modum, eique quod definitur ex communitatibus iunctis
aliquid proprium atque aequale componitur. Hoc est igitur quod ait Cicero, hunc
esse definitionis modum, cum sumpseris ea quae sint ei rei quam definire uelis
cum aliis communia, usque eo persequi, ut proprium efficiatur, quod in nullam
aliam rem transferri possit, ut his uerbis et hac sententia breuiter
significare uideatur hanc esse definitionem quae, ex substantialibus
communitatibus iuncta atque in minorem modum redacta, fit ei rei quae definitur
aequalis. Exempla uero quae ponit huiusmodi suut, unum definiendae
haereditatis, alterum gentilitatis. Haereditatis quidem hoc modo: HAEREDITAS
EST PECUNIA. Commune hoc et multis aliis conueniens quae haereditates non sunt,
ut donationibus, ut furtis, uel quibuslibet aliis pecuniariis rebus quae minime
sunt haereditates. Huic igitur pecuniae addendum aliquid fuit, id est: QUAE
MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERVENIT. Haereditas enim pecunia est ad quempiam
alicuius morte perueniens. Sed ne id quidem plenum haereditatis explicat
intellectum. Commune namque est. Et pecuniae mortuorum pluribus teneri modis
possunt, uelut si bello quis uictus est ac spoliatus. Addendum igitur est
aliquid: IURE, ut sit, HAEREDITAS EST PECUNIA QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM
IURE PERVENIT. Haereditates enim iure capiuntur. Videatur forsitan hoc loco
definitionem posse consistere sed minime; quid enim? si legata pecunia est,
haereditas quidem dici non potest, capta tamen morte alicuius iure pecunia est.
Nam si testamenta iure fiunt, pecunia etiam iure legatur, adiiciendum est
aliquid, id scilicet quo ab haereditatibus legata separentur, ut dicamus,
haereditatem esse pecuniam morte alicuius ad quempiam peruenientem iure, quae
legata non sit. Num satis est definitioni? Minime. Quid enim si meum quidem
dominium sit fundi, uel alicuius pecuniariae rei, alterius uero ususfructus.
Nam morte eius cui ususfructus competit, ad me res illa reuertitur, quae in meo
dominio proprietatis possessione iure tenebatur? neque tamen haereditas esse
potest, adiiciendum igitur est, minime possessione esse relentam, id est, ut
proprietatis possessione id quod ex morte alicuius iure non legatam peruenit
non retineatur. Hoc autem modo possessione retineri potest, si sit nostra
proprietas, et eius qui decesserit ususfructus. Coniuncta igitur omnia in
unum facient haereditatis definitionem hoc modo: Haereditas est pecunia
quae morte alicuius ad quempiam peruenit iure, non legata, neque
possessione retenta. Haec definitio est aequalis haereditati. Nam ut
haereditas pecunia est morte alicuius ad quempiam perueniens iure, neque
legata, neque possessione retenta, ita quaecumque pecunia alicuius morte ad
aliquem iure peruenerit, neque legata sit, neque retenta, hanc haereditatem esse
nec esse est. Sed cum M. Tullius ad eum usque locum definiendo uenisset, ut
diceret haereditatem esse pecuniam quae morte alicuius ad quempiam peruenisset,
iure ait: iam a communitate res disiuncta uidebitur, ut sit explicata definitio
sic: Haereditas est pecunia quae morte alicuius ad quempiam iure peruenit.
Idque ita dictum est, quasi iam plena facta sit definitio. Quid enim est aliud
explicatam esse definitionem, et a communitate disiunctam, nisi perfectam, et
cui desit nihil? Sed rursus quasi non sit explicata definitio, nec a
communitate disiunctam, adiicit: NONDUM EST SATIS: ADDE: NEC EA AUT LEGATA
TESTAMENTO AUT POSSESSIONE RETENTA. Cuius adiectionis haec ratio est, fecit
enim definitionem aliis adiunctis, aliis separatis. Itaque id quod definiebat,
uel his quae adiunxit, uel his quae separauit, a caeterorum omnium communitate
segregauit. Haereditatem enim dixit esse pecuniam, huic addidit, morte alicuius
ad aliquem peruenientem. Separauitque eam ab iis pecuniis, quae non morte
alicuius ad aliquem sed contractu uiuentium peruenirent, addidit IURE, ut ab
his pecuniis separaret quae per uim morte alterius ad quempiam peruenirent. His
igitur duobus, MORTE atque IURE, ea pecunia effecta est, quae a caeteris ita
separetur, ut tamen per legitimum acquireadi modum, non inter utrosque uiuos
sed inter unum uiuum atque alterum mortuum fieret. Haec igitur una separatio ac
caeteris facta est, atque ideo ait explicatam esse definitionem et a
communitate disiunctam. Sed quoniam in ea ipsa pecunia quae morte et iure
ad aliquem peruenit inerant quaedam quae haeredites non essent, harum
separatione plena effecta est haereditatis definitio. Nam cum diceret
haereditatem pecuniam esse, itemque quae morte alicuius ad aliquem peruenisset,
itemque et quae iure, haec omnia efficientia substantiam haereditatis apposita
sunt. Sed quoniam erant in hac collectione quaedam ad quae huius collectionis
intellectus transferri posset, nec tamen essent haereditates, ueluti legatum
aut possessionis retentio, his substractis reliqua fuit haereditas, de qua
intelligi possit pecunia alicuius morte ad quempiam iure perueniens. Non
igitur legatum, aut possessionis retentio substantiam haereditatis efficiunt,
quippe quae impedirent ad eius substantiam demonstrandam, nisi remouerentur. At
uero nec negatio quidem cuiusquam substantiam perficit sed tantum quid non sit
ostendit. Quod si legatum et possessionis retentio haereditatis substantiam non
modo non complent, uerum etiam impediunt atque corrumpunt, nisi fuerint
disiuncta atque seposita; cumque harum negatio nihil ex haereditatis substantia
monstret sed tantum quid non sit ostendat; relinquitur pars superior, id est
pecunia morte alicuius ad quempiam iure perueniens, quae substantiam
haereditaiis ostendat, ea quae sit explicata definitio a caeterisque disiuncta.
Sed quoniam rursus, ut dictum est, quaedam sunt ad quae deriuari huius
definitionis intelligentia possit, idcirco ad discretionem integram designandam
reliqua pars additur. Itaque quoniam ista demonstrant haereditatem, efficiuntque
substantiam iure dictum est, IAM A COMMUNITATE RES DISIUNCTA VIDETUR, UT SIT
EXPLICATA DEFINITIO: HAEREDITAS EST PECUNIA QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM
PERVENIT IURE. Sed quoniam rursus hic intellectus ad plura intra se posita
poterat conuenire, non immerito additum est: NON EST SATIS et caetera, quae
legatum et possessionis retentionem ab haereditatis definitione seiungunt: ac
de priore quidem haereditatis exemplo haec dicta sint. Ad huius uero
similitudinem etiam secundum tractat exemplum, quod de definitione gentilitatis
est positum. Gentiles enim sunt qui eodem nomine inter se sunt, ut Scipiones,
Bruti et caeteri. Quid si serui sunt? num ulla gentilitas serorum esse potest?
Minime. Adiiciendum igitur: Qui ab ingenuis oriundi sunt. Quid si libertinorum
nepotes ciuium, Romanorum eodem nomine nuncupentur? num gentilitas ulla est? Ne
id quidem, quoniam ab antiquitate ingenuorum gentilitas ducitur; addatur
igitur: Quorum maiorum nemo seruitutem seruiuit. Quid si per adoptionem in
alterius familiam transeat? tunc etiamsi eius gentis ad quam migrauit nomine
nuncupetur, licet ab ingenuis et ab iis ortus parentibus sit qui nunquam
seruitutem seruierint, tamen quoniam in familia gentis suae non manet, ne in
gentilitate quidem manere potest; addendum igitur est: Neque capite sunt
diminuti. Hoc fortasse, inquit, satis est secundum Scaeuola, pontificis
definitionem, nihil enim ulterius adiecit, ut sit definitio gentilium haec:
Gentiles sunt, qui inter se eadem sunt nomine, ab ingenuis oriundi, quorum
maiorum nemo seruitutem seruiuit, et ubi gentilitatem nulla capitis diminutio
destruxit. Haec quoque definitio facta est ex pluribus communitatibus in unum
confluentibus atque unam proprietatem eius rei quae definiebatur, id est
gentilitatis, facientibus. Hic igitur definitionis modus in utroque
genere rerum ualet, siue quae sunt, siue quae non sunt, id est siue
corporalium, siue incorporalium; nam, ut superius ostensum est, id esse Cicero
dicit quod corporale sit, id non esse quod est incorporale. Ac postremo omnium definitionum
modus hic est, ut ex pluribus communitatibus aliqua proprietas fiat. Sed
distant a se definitiones, quod hae que proprie definitiones uocantur ex his
communitalibus coniunguntur quae substantiales sunt. Hae uero quae non uerae
sed abutendo definitions dicuntur, ex accidentibus communitatibus
congregantur. PARTITIONUM [AUTEM] ET DIVISIONUM GENUS QUALE ESSET
OSTENDIMUS, SED QUID INTER SE DIFFERANT PLANIUS DICENDUM EST. IN PARTITIONE
QUASI MEMBRA SUNT, UT CORPORIS CAPUT UMERI MANUS LATERA CRURA PEDES ET CAETERA. IN
DIVISIONE FORMAE, QUAS GRAECI *EIDE* VOCANT, NOSTRI, SI QUI HAEC FORTE
TRACTANT, SPECIES APPELLANT, NON PESSIME ID QUIDEM SED INUTILITER AD MUTANDOS
CASUS IN DICENDO. NOLIM ENIM, NE SI LATINE QUIDEM DICI POSSIT, SPECIERUM ET
SPECIEBUS DICERE; ET SAEPE HIS CASIBUS UTENDUM EST; AT FORMIS ET FORMARUM
VELIM. CUM AUTEM UTROQUE VERBO IDEM SIGNIFICETUR, COMMODITATEM IN DICENDO NON
ARBITROR NEGLEGENDAM. GENUS ET FORMAM DEFINIUNT HOC MODO: GENUS EST NOTIO
AD PLURIS DIFFERENTIAS PERTINENS; FORMA EST NOTIO CUIUS DIFFERENTIA AD CAPUT
GENERIS ET QUASI FONTEM REFERRI POTEST. NOTIONEM APPELLO QUOD GRAECI TUM
*ENNOION* TUM *PROLEPSIN*. EA EST INSITA ET ANIMO PRAECEPTA CUIUSQUE COGNITIO
ENODATIONIS INDIGENS. FORMAE SUNT IGITU] EAE IN QUAS GENUS SINE ULLIUS
PRAETERMISSIONE DIUIDITUR; UT SI QUIS IUS IN LEGEM MOREM AEQUITATEM DIVIDAT.
FORMAS QUI PUTAT IDEM ESSE QUOD PARTIS, CONFUNDIT ARTEM ET SIMILITUDINE QUADAM
CONTURBATUS NON SATIS ACUTE QUAE SUNT SECERNENDA DISTINGUIT. SAEPE ETIAM
DEFINIUNT ET ORATORES ET POETAE PER TRANSLATIONEM VERBI EX SIMILITUDINE CUM
ALIQUA SUAUITATE. SED EGO A VESTRIS EXEMPLIS NISI NECESSARIO NON REMILANI.
SOLEBAT IGITUR AQUILIUS COLLEGA ET FAMILIARIS MEUS, CUM DE LITORIBUS AGERETUR,
QUAE OMNIA PUBLICA ESSE VULTIS, QUAERENTIBUS EIS QUOS AD ID PERTINEBAT, QUID
ESSET LITUS, ITA DEFINIRE, QUA FLUCTUS ELUDERET; HOC EST, QUASI QUI
ADULESCENTIAM FLOREM AETATIS, SENECTUTEM OCCASUM VITAE VELDT DEFINIRE;
TRANSLATIONE ENIM UTENS DISCEDEBAT A UERBIS PROPRIIS RERUM AC SUIS. QUOD
AD DEFINITIONES ATTINET, HACTENUS; RELIQUA VIDEAMUS. Quoniam definitionum
formas in partitiouem diuisionemque, distribuit nequaquam rerum auditor
similitudine turbaretur, diuisionis ao partitionis differentias prodit, ac
primum aliud partes, aliud species esse demonstrat. Species enim saepe partes,
partes uero nunquam species appellantur. Differant uero haec a se, quoniam
partes totius membra coniungunt, species uero genus diuidit atque dispertit. Nam,
ut superius quoque dictum est, partes eius quod copulant non suscipiunt nomen
totius. Neque enim fundamenta uel tectum domus esse dici possunt, nam nisi
omnia quae quid efficiunt iuncta sint, totius uocabulum singula non habebunt;
at uero species etiam singulae generis suscipiunt nomen, ut homo animalis. Quo
fit, ut in his illa quoque differentia possit agnosci, quod partes quidem,
totius partes, species uero non totius, scilicet uniuersalis rei, id est
generis, species esse dicuntur. Differt uero totum a genere, quod genus quidem
uniuersale est totum uero minime, quod probatur hoc modo. Si enim id quod totum
dicitur, ut domus, uniuersale esset, partes quoque eius totius susciperent
nomen; at non suscipiunt, ut saepe monstratum est; quod igitur totum est, uniuersale
non est. Genus uero uniuersale esse manifestum est, quoniam eius nomen deductae
ab eo formae suscipiunt. Item alia differentia. Genus semper speciebus
suis prius est, totum uero suis partibus posterius inuenitur. Nisi enim partes
fuerint, totum non potest coniungi. Quo fit ut si genus pereat, species quoque
perimantur; si species intereat, maneat genus quod in partibus totoque
contrarium est. Nam si pars quaelibet una pereat, totum nec esse est interire;
si uero totum, quod partes iunxerant, dissipetur, partes maneant distributae:
ueluti si domus tecta et parietes, et fundamenta a semetipsis extrinsecus
posita intelligantur, domus quidem non erit quia coniunctio destructa est,
partes tamen manebunt. Propriis igitur nominibus M. Tullius partes quidem
ueluti totius membra appellat, species uero formas. Idcirco, quoniam non satis
ei apta uidetur inflexio casum ab eo nomine quod est species. Et licet plures,
inquit, usurpauerint hoc nomen, tamen quoniam dura est huius nominis per casus
inflexio, cum dicitur speciei, specierum, speciebus, idcirco commoditatem in
dicendo, ut ipse ait, non arbitratus est negligendum, ut formas uocaret in
cuius nominis casibus nulla sentitur asperitas. Et quoniam forma praeter
genus esse non potest (nihil enim praeter suum potest esse principium),
utrorumque apposuit definitiones, dicens genus esse notioncm ad plures
differentias pertinentem. Notio uero intellectus est quidam et simplex mentis
conceptio, quae ad res plures pertineat a se inuicem differentes. Id uero genus
esse manifestum est, quod apertissimo liquet exemplo. Animalis quippe
intellectus ad plures differentias pertinet, ad rationale scilicet atque
irrationale, ad mortale etiam atque immortale, ad ambulabile, reptibile,
uolatile, natabile, et est eorum omnium quae sub his differentiis sita sunt,
genus. Idem uero significat haec definitio quod etiam uetus, haec est
huiusmodi: Genus est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid est
praedicatur, uelut animal, genus ad plures res specie differentes, id est ad
hominem atque equum, in eo quod quid est praedicatur. Nam interrogantibus quid
est homo uel equus, animal dicitur. Item formae definitionem talem dedit.
Forma est notio cuius differentia ad caput generis, quasi fontem, referri
potest, et recte. Nam si formae a genere deducuntur, species necesse est
referantur ad genus. Si igitur principium quoddam et fons formae genus est, nec
esse est ut intellectus formae ad primordium suum, id est notionem generis,
reuertatur. Intellectus enim hominis refertur ad animal, itemque equi et caeterorum.
Notionem uero appellat quod Graeci *ennoian* dicunt, huius haec est definitio:
Notio est insita et ante percepta cuiusque formae cognitio enodationis
indigens. Haec uero definitio hinc tracta est quod Plato ideas quasdam esse
ponebat, id est species incorporeas substantiasque constantes, et per se ab
aliis naturae ratione separatas, ut hoc ipsum homo quibus participantes
caeterae res homines uel animalia fierent. At uero Aristoteles nullas putat
extra esse substantias sed intellectam similitudinen. plurimorum inter se
differentium substantialem genus putat esse, uel speciem. Nam cum homo atque
equus differant rationabilitate atque irrationabilitate, horum intellecta
similitudo efficit genus. Nam similitudo equi et hominis substantialis in ea
est, quod uterque substant; a est, uterque animatus, uterque sensibilis, quae
iuncta efficiunt animal, est animal namque substantia animata sensibilis.
Igitur hominis atque equi similitudo est animal, quod est genus. Rursus cum
Plato atque Cicero numero accidentibusque distarent, horum similitudo, quae est
humanitas intellecta atque animo formata, species est. Ergo communitas quaedam
et plurimorum inter se differentium similitudo notio est, cuius notionis aliud
genus est, aliud forma. Sed quoniam similium intelligentia est omnis
notio, in rebus uero similibus necessaria est differentiarum discretio, idcirco
indiget adhuc notio quadam enodatione ac diuisione, uelut ipse intellectus
animalis sibi ipse non sufficit. Nam mox animus ad aliquod animal, id est uel
hominem uel equum, deducitur inquirendum, et hominis notio uel ad Tullium, uel
ad Platonem, uel ad quemlibet singularium personarum refertur. Quae cum ita
sint, quoties genus diuiditur in formas, nullam praetermitti oportebit. Est
enim uitium uel maximum, si qua diuidentem forma praeterrat, ueluti si quis ius
diuidere uelit, in legem, morem atque aequitatem nec esse est partiatur. Nam et
lex, et mos, et aequitas, et singula, et in commune, iuris uocabulo subiecta
sunt. Culpat uero illorum inscitiam qui idem species uel formas putant esse
quod partes, conturbarique eos inscitia dicit, quod res a se plurimum
differentes imperite atque improuide distinguere ac segregare non curant.
Sed quoniam de definitione loquebatur, addit aliam speciem definitionis, quam
nos superius enumerauimus, quae per translationem non proprietatis ueritatisque
sed splendoris atque ornatus ratione perficitur, quod poetarum atque oratorum
esse autumat, quibus luculenta oratio curae est. Huius definitionis exemplum a
iure ciuili Tullius petit, atque se non aliter ab exemplis notioribus Trebatio
recessurum quam si necessitae cogat. Per translationem uero definitio est,
ueluti cum Aquilius, littus definire uolens, dicebat littus esse quo fluctus
eluderet. Hoc eludere ab iis translatum est qui agitatione aliqua, causa lusus,
mouentur. Itemque adolescentia est flos aetatis, id ab arboribus ductum est,
quarum fructus flores praecedunt. Et senectus, uitae occasus, id a die ductum
est, qui desinit esse cum sol occiderit: quae translationes a proprietate
discedunt, et quadum similitudine subiecta signant. Est enim translatio quoties
habentis rei nomen, propter alterius rei similitudinem, a re simili nomen
imponitur, ut motus habet proprium nomen, item lusus suo uocabulo nuncupatur.
Sed qui dicit, qua fluctus eluderet, a similitudine agitationis ad fluctuum
motum uocabulum transfert. Ac de definitionibus quidem disputationem
terminans, ad partitiones transitum facit. Sed nunc tertio uolumini satis est
reliqua in posterum differamus. Explicare non possum, mi Patrici, quantas
saepe in difficillimi operis cursu uires afferat amicitiae contemplatio, cum et
iis studiosius componamus, quos reposito penitus amore diligimus, et placare
cupientibus multa sese rerum copia subministret. Huc accedit quod ut quaeque in
mentem uenerint iniudicata atque etiam incastigata promuntur, quandoquidem apud
cari pectoris secretum nihil est periculi proferre quod sentias. Est igitur
mihi, cum tuam beneuolentiam specto, pronum omne atque, ut ita dicam,
uoluptarium, quod in tuae praescriptum iucunditatis impenditur. Sed cum memet
ipse perpendo, uereor ne imparato muneri par esse non possim, et deficientis
culpa in adhortantis cedat iniuriam. Quo fit ut tibi etiam atque etiam
prouidendum sit, ne, tuis ipse moribus emendatus, nostri alicuius erroris
sarcinam feras. Nosti oblatrantis morsus inuidiae, nosti quam facillime in
difficillimis causis liuor iudicium ferat. Quaeso igitur extremam nostro operi
manum communis negotii studiosus imponas, abundantia reseces, hiantia suppleas,
errata reprehendas, sis postremo nostri laboris tuaeque adhortationis assertor,
cum praesertim me securum peractum reddat officium, te amici pudor dignus
possit conuenire, si displicet. Sed haec alias, nunc operis suscepti tramitem
persequamur. Quoniam locorum in ipsis de quibus quaeritur terminis
inhaerentium, alii sunt a toto, alii a partibus, alii a nota, alii ex affectis,
de eo quidem loco qui a toto est, et in definitione est constitutus,
sufficienter disseruit superiore tractatu. Nunc uero de partium enumeratione
dicere instituit, rectam ordinis uiam scilicet insistens, ut non solum exemplo
qualis esset partium enumeratio perdoceret, uerum ratione quoque ostenderet
quomodo partium enumeratione in argumentationibus esset
utendum. PARTITIONE TUM SIC UTENDUM EST, NULLAM UT PARTEM RELINQUAS; UT,
SI PARTIRI VELIS TUTELAS, INSCIENTER FACIAS, SI ULLAM PRAETERMITTAS. AT SI
STIPULATIONUM AUT IUDICIORUM FORMULAS PARTIARE, NON EST VITIOSUM IN RE INFINITA
PRAETERMITTERE ALIQUID. QUOD IDEM IN DIUISIONE VITIOSUM EST. FORMARUM ENIM
CERTUS EST NUMERUS QUAE CUIQUE GENERI SUBICIANTUR; PARTIUM DISTRIBUTIO SAEPE
EST INFINITIOR, TAMQUAM RIUORUM A FONTE DIDUCTIO. [8.34] ITAQUE IN
ORATORIIS ARTIBUS QUAESTIONIS GENERE PROPOSITO, [1108D] QUOT EIUS FORMAE SINT,
SUBIUNGITUR ABSOLUTE. AT CUM DE ORNAMENTIS UERBORUM SENTENTIARUMUE PRAECIPITUR,
QUAE VOCANT *SCHEMATA*, NON FIT IDEM. RES EST ENIM INFINITIOR; UT EX HOC QUOQUE
INTELLEGATUR QUID VELIMUS INTER PARTITIONEM ET DIUISIONEM INTERESSE. QUAMQUAM
ENIM UOCABULA PROPE IDEM VALERE VIDEBANTUR, TAMEN QUIA RES DIFFEREBANT, NOMINA
RERUM DISTARE VOLUERUNT. Sensus huiusmodi est. Rerum quae partibus
coniunguntur, aliae quidem paucas sed facile intelligibiles comprehensibilesque
partes habent, aliae uero plures intellectuque difficiles. In his igitur
partibus quae sunt paucae ac facile sub intelligentiam cadunt, uel maximum
uitium est, si partiendo aliquid relinquatur. In his uero quarum, ut ipse ait,
infinitior numerus est et confusior perspectio, minus uitio sum est, si qua
diuidentem pars in enumeratione praetereat. Fit autem hoc non solum per
eas res quae aliquibus partibus constant, uerum etiam saepe per partes ipsas
quas in distributione partimur, ut si hominis corpus uelimus intellectu ac
ratione per propria membra disiungere, faciemus ita, caput, humeros, manus,
thoracem, uentrem, suras atque pedes. Et quoniam maiores partes sumpsimus ad
diuidendum, idcirco nihil pretermissum esse uidetur; at si minutissimas
particulas persequamur, tum oculi quoque, et labia, et nares, atque aures,
earumque partes persequendae sunt, idque in toto corpore faciendum est,
eodemque modo difficilior erit partitio, cum sit partium numerus infinitior.
Saepe etiam, ut dictum est, res ipsae his partibus iunctae sunt, quarum non sit
facilis inspectio, ut si quis stipulationem et iudiciorum formulas partiatur,
uel etiam si figuras loquendi, quae *schemata* Graeci uocant, diuidi nec esse
sit. Hic igitur si quid praetermissum sit, non erit uitium partientis, quia
partium natura multiplex sa pius obtendit errorem. At si quis genus
diuidat, perniciosum est aliquam praeterire formam, quoniam formarum finita
quantitas est. Nam quia semper in contrarium diuiduntur, aut duae sunt semper
species generis, aut tres, et tunc tres, cum ea tertia, quae sumitur, ex
contrariorum permistione perficitur, utsi colorem diuidamus, dicendum est ita.
Coloris aliud est album, aliud nigrum, aliud medium. Idque medium ex albi
coloris ac nigri commistione coniunctum est, quamuis in quamlibet aliam coloris
speciem transferatur, seu purpurei, seu rubri, seu uiridis. Itaque si tale est
quod diuidis, talesque sunt partes quas ad diuisionem sumis, quas non
difficulter intelligentia comprehendas, uitium erit, si quid omiseris, uelut si
tutelas partiaris. Tutela quippe quatuor fere modis est, aut enim per
consanguinitatis gradum est, aut patronatus iure defertur, aut testamento
patris tutor eligitur, aut urbani praetoris iurisdictione formatur, et sunt
forsitan plures sed nunc istae sufficiunt. Hic igitur et paucae partes, et
facile comprehensibiles. At si stipulationum formulas et iudiciorum
comprehendere uelis, quoniam multae in his partes sunt, non erit uitiosum si
quid omiseris. In promptu uero est exemplum partium, quod de tutelis est
dictum, magis enim ut genus in formas, quam ut totum in partes, tutela diuisa
est. Nam siue per consanguinitatem sittutor, siue patronatus iure, siue
caeteris modis, integrum tutelae ius habet, quod in singulis partibus non solet
euenire, ut totius integrum capiant nomen. Sed ut conueniens uideatur exemplum,
requirendae sunt tales tutelarum partes quae iunctae tutelas efficere possint,
non quae singulae tutelae nomine designentur, quod nescio an quisquam
iurisperitiae professor tales tutelae partes ediderit. Merobaudes uero rhetor
ita intelligendum putauit, ut id quod ait, PARTITIONE SIC UTENDUM EST, ut
nullam partem praetermittas, de diuisione dixerit, id est de una parte
propositae partitionis. Nam et diuisio et per membra distributio, partitio
nuncupatur; in diuisione enim uitiosum est aliquid praetermittere, in partitione
membrorum minime. Ita exemplum de tutelis, ei partitioni accommodatum dedit,
quae est diuisionis. At si diuisionem facias, id est formarum a genere
partitionem, summum est uitium aliquid praetermittere, quoniam cum sit finitus
formarum numerus, si quid omissum sit, inscitia praeteritur: ut si oratorias
quaestiones in formas diuidere uelimus, dicemus omnem rhetoricam quaestionem,
aut de facto esse, aut de qualitate facti, aut de nomine. At si locutionum
figuras sententiarumque distribuam, non erit, ut dictum est, uitium, transire
aliquid, quandoquidem sententiarum inter se atque locutionum figuree et
multiplices, et uaria ratione diuersa. Hic quoque figurarum partes non ita
uidentur accipi posse, quemadmodum totius sed ut species generis; unaquaeque
enim figurarum quae infinitae sunt, uelut figura, generalis species est, quod
possumus intelligere ex his uerbis rhetorum, ubi de elocutione tractatur.
Nullae namque sunt figurarum partes quae figuras iungant, ita ut singulae
figurae nomen uniuersalis figurae non possint admittere. Sed obiici nobis
potest: Et quomodo infinite sunt figurae, si species sunt? Sed respondebo
leuiter: Elocutione mutata, figuram quoque mutari, atque idcirco in potestate
esse dicentis figuras facere, quas is qui tractat difficile, antequam fiant,
potest agnoscere; hae uero non substantialibus quibusdam differentiis
constituuntur sed potius accidentibus explicantur. Unde fit ut tum communis
nominis in significationes partitio fieri uideatur, cum figura diuiditur,
potius quam generis in species; omnia uero significata cuiusque nominis
diuisione includere, difficile est, quia noua plerumque finguntur sed ne id
quidem rerum ratio permittit. Nam unaquaeque figura generalis figurae nomine et
definitione comprehenditur. Quocumque enim modo figura definitur, eadem erit
definitio etiam uniuscuiusque figurae. Quae res unamquamque figuram uniuersalis
figure speciem esse declarat. Uniuoca enim sunt species et genus. Sed est
illud uerius, partitionem figurarum ad elocutionem ipsam Tullium retulisse,
cuius pars quaedam est figura, non species. Variis enim multiplicibusque
figuris elocutio luculenta contexitur. Si quis igitur elocutionem partiri uelit
in figuras, non genus in species sed totum secabit in partes. Quae cum ita
sint, ex hoc quoque apparet quid intersit inter diuisionem partitionemque, cum
partitio interdum talis sit, ut si quid in ea praetermissum sit, nihil afferat
uitii. Diuisio uero formarum talis est, ut in ea non queat aliquid sine culpa
praeteriri. Quod factum est, ut quia res differebant, diuersa etiam uocabula
rebus inter se distantibus uiderentur. MULTA ETIAM EX NOTATIONE SUMUNTUR.
EA EST AUTEM CUM EX VI NOMINIS ARGUMENTUM ELICITUR; QUAM GRAECI *ETYMOLOGIAN*
APPELLANT, ID EST VERBUM EX VERBO VERILOQUIUM; NOS AUTEM NOVITATEM VERBI NON
SATIS APTI FUGIENTES GENUS HOC NOTATIONEM APPELLAMUS, QUIA SUNT VERBA RERUM
NOTAE. ITAQUE HOC QUIDEM ARISTOTELES *OUMBOLON* APPELLAT, QUOD LATINE EST NOTA.
SED CUM INTELLEGITUR QUID SIGNIFICETUR, MINUS LABORANDUM EST DE NOMINE.
[8.36] MULTA IGITUR IN DISPUTANDO: NOTATIONE ELICIUNTUR EX VERBO, UT CUM
QUAERITUR POSTLIMINIUM QUID SIT -- NON DICO QUAE SINT POSTLIMINI; NAM ID
CADERET IN DIVISIONEM, QUAE TALIS EST: POSTLIMINIO REDEUNT HAEC: HOMO NAVIS
MULUS CLITELLARIUS EQUUS EQUA QUAE FRENOS RECIPERE SOLET -- SED CUM IPSIUS
POSTLIMINI QUAERITUR ET VERBUM IPSUM NOTATUR; IN QUO SERVIUS NOSTER, UT OPINOR,
NIHIL PUTAT ESSE NOTANDUM NISI POST, ET LIMINIUM ILLUD PRODUCTIONEM ESSE VERBI
VULT, UT IN FINITIMO LEGITIMO AEDITIMO NON PLUS INESSE TIMUM QUAM IN MEDITULLIO
TULLIUM. SCAEVOLA AUTEM P. F. IUNCTUM PUTAT ESSE [1111B] VERBUM, UT SIT
IN EO ET POST ET LIMEN; UT, QUAE A NOBIS ALIENATE, CUM AD HOSTEM PERVENERINT,
EX SUO TAMQUAM LIMINE EXIERINT, HINC EA CUM REDIERINT POST AD IDEM LIMEN,
POSTLIMINIO REDISSE VIDEANTUR. QUO GENERE ETIAM MANCINI CAUSA DEFENDI POTEST,
POSTLIMINIO REDISSE; DEDITUM NON ESSE, QUONIAM NON SIT RECEPTUS; NAM NEQUE
DEDITIONEM NEQUE DONATIONEM SINE ACCEPTIONE INTELLEGI POSSE. Post
enumerationem partium recto ordinede notatione perpendit. Notatio igitur est
quoties ex nota aliqua rei, quae dubia est, capitur argumentum. Nota uero est
quae rem quamque designat. Quo fit ut omne nomen nota sit, idcirco quod notam
facit rem de qua praedicatur, id Aristoteles *symbolon* nominauit. Ex notatione
autem sumitur argumentum quoties aliquid ex notatione, id est nominis
interpretatione, colligitur. Interpretatio uero nominis *etymologia* Graece.
Latine ueriloquium nuncupatur; *etymon* enim uerum significat, *logos*
orationem. Sed quia id ueriloquium minus in uso Latini sermonis habebatur,
interpretatione nominis notationem Tullius appellat. Ea est huiusmodi, ut
si quaeras quid est postliminium. In qua quaestione non illud uidetur inquiri
quae res postliminio reuertantur, hoc enim in diuisionem caderet, id est earum
omnium rerum enumerationem quae postliminio redeunt postularet. Velut si ita
dicamus: Post liminio redeunt homo, nauis, mulus clitellarius, equus, equa quae
frenos recipere solet, id est domita, nunc enumeratae sunt res quae postliminio
reuertantur. At cum quod sit ipsum postliminii ius quaeritur, potest ex
ipsius nominis interpretatione cognosci. Postliminio enim redit quisquis captus
ab hostibus ad patriam remeauerit; namque dum captiuitatem hostium putitur, ius
ciuis amittit; ornnia uero iura recipit, si postliminio reuertatur. Ergo ex
notatione nominis ita ius postliminii clarescere potest, ut quia semper post id
significatur quod retro relinquitur, postliminii uocabulo quaedam reuersio
significatur, ut Seruius probat, qui ex aduerbio post uim nominis
interpretatur, reliquem uocabuli partem protractionem esse confirmans; nam in
eo quod est postliminium, ex eo quod post dictum est interpretationem nominis
sumit, liminium uero superuacuo putat esse productum. Ad horum nominum formam, meditullium;
prima enim pars medium significat, Tullium uero nihil. Et legitimum et
aeditimum similiter. In utrisque enim, lex ibi, aedes ibi, aliquid, timum uero
nihil omnino designat. Id uero nomen quod est postliminium, Scaeuola P. filius
ex aduerbio post et limine putat esse compositum, nam quia ad idem limen quod
prius reliquit reuertitur is qui postliminio redit, idcirco ex utrisque
significationibus arbitratur nomen esse compositum. Quaecumque enim a nobis
abalienata ad hostem perueniunt, cum a nostro limine exierint, si post ad id em
limen reuertantur, postliminio redeunt. Quomodo etiam Mancini causa
defendi potest, quem cum populus Romanus ob foedus male dictum dedisset, hostes
eum suscipere noluere? qui cum reuersus esset, postliminio rediisse uidebatur.
Idcirco quia si cum hostes recepissent deditum a ciuibus, etiamsi quo modo ab
hostibus effugisset, non uideretur postliminio regressus qui iudicio ciuium
omni libertatis iure fuisset exutus; sed quoniam neo deditio, neo datio, neo
donatio, praeter acceptionem uidetur posse consistere, idcirco qui non sit
susceptus, ne deditus quidem intelligi possit. Recte ergo Mancinus qui non
deditus in hostium, si ea uti uellent, peruenerat potestatem, is cum in patriam
remeauit, iure postliminio rediisse defensus est. SEQUITUR IS LOCUS, QUI
CONSTAT EX EIS REBUS QUAE QUODAM MODO AFFECTAE SUNT AD ID DE QUO AMBIGITUR;
QUEM MODO DIXI IN PLURES PARTES DISTRIBUTUM. CUIUS EST PRIMUS [1112C] LOCUS EX
CONIUGATIONE, QUAM [GRAECI] *SYZYGIAN* UOCANT, FINITIMUS NOTATIONI, DE QUA MODO
DICTUM EST; UT, SI AQUAM PLUVIAM EAM MODO INTELLEGEREMUS QUAM IMBRI COLLECTAM
VIDEREMUS, VENIRET MUCIUS, QUI, QUIA CONIUGATA VERBA ESSENT PLUVIA ET PLUENDO,
DICERET OMNEM AQUAM OPORTERE ARCERI QUAE PLUENDO CREVISSET. Cum locum qui
ipsis de quibus quaeritur inhaereret in quatuor differentius supra distribuit,
a toto, ab enumeratione partium, a nota, ab affectis, quoniam diligenter de
superioribus tribus paulo ante tractauit, nunc quartum locum, id est affecta,
persequitur. Et quoniam locus ab affectis in plurimas differentias soluebatur,
quarum prima a coniugatis proposita est, primum loquitur de coniugatis.
Quae multum a notatione non differunt. Nam qui notatio ex ui nominis trahitur,
itemque coniugatio similitudine uocabuli continetur, aliquod inter se ueluti confinium
tenent. Sed hoc interest, quia notatio expositione nominis, coniugatio
similitudine uocabuli ac deriuatione perficitur. Et quoniam facilis et
intellectu et tractatu locus est, tantum ponere sufficit exemplum, quod est
huiusmodi: Aqua pluuia est quae pluendo colligitur et crescit. Pluendo uero
atque pluuia coniugata sunt. In uno enim eodemque uocabulo diuersus nominum
terminus differentiam facit. Item: ius est aquam pluuiam arceri, id est, ut si
in alicuius agro pluuia aqua colligatur, et in alterius agrum defluat, eaque
uicini frugibus nocitura concrescat, arceat eam suis finibus ille qulid sua
putat inter esse ne defluat. Si fluuius igitur pluuia creuerit, quaeritur an
debeat arceri, respondet, inquit, Mutius, quoniam aqua pluuia a pluendodicta
sit, fluuium quoque, qui pluendo creuerit, aquam esse pluuiam, atque arceri
deberi. CUM AUTEM A GENERE DUCETUR ARGUMENTUM, NON ERIT NECESSE ID USQUE
A CAPITE ARCESSERE. SAEPE ETIAM CITRA LICET, DUM MODO SUPRA SIT QUOD SUMITUR,
QUAM ID AD QUOD SUMITUR; UT AQUA PLUVIA ULTIMO GENERE EA EST QUAE DE CAELO
VENIENS CRESCIT IMBRI, SED PROPIORE, IN QUO QUASI IUS ARCENDI CONTINETUR, GENUS
EST AQUA PLUVIA NOCENS: EIUS GENERIS FORMAE LOCI VITIO ET MANU NOCENS, QUARUM
ALTERA IUBETUR AB ARBITRO COERCERI ALTERA NON IUBETUR. Talis generum
specierumque intelligitur esse natura, ut cum colliguntur uel etiam diuiduntur,
ab indiuiduis per species et genera usque ad maxima generapossitascendi,
itemque a maximis generibus per infra posita genera usque ad indiuidua ualeat
esse descensus. Id uero uno clarum fiet exemplo. Cicero quippe indiuiduum est,
huius species homo, huius genus animal, huius superius genus est corpus
animatum, et si longius ascendas, corpus alterius genus inuenies, si prolixius
egrediare, substantia ultimi loco generis occurrit. Cum igitur multa sint
genera, si cuiuslibet speciei genus assignandum sit, non nec esse erit, inquit,
maxima et principalia genera semper exquirere, uerum eorum quoque aliquid quae
in medio locata sunt oportebit adhibere, illa tamen ratione seruata, ut semper
genus superius sit eo ad quod praedicatur ut genus. Extrema quippe inscitia
est, si dum genus semper natura speciebus propriis superponatur, loco generis
id quod est inferius collocetur. Quocirca uitiosum est, si quis corporis genus
dicat esse corpus animatum. Quo fit ut si ad speciem aptandum est genus, eorum
quae superiora sunt aliquid aptemus, et non erit nec esse ultimum semper genus
adhibere, ut si homini genus proprium praeponere uolimus, non necesse est ut
substantiam praeponamus sed uel corpus, uel corpus animatum, uel quod maxime
fieri oportet animal. Illa enim semper genera sumenda sunt, quaecumque proxima
formis adhaerent, eaque in definitione maxime requiruntur. Sed in
argumentationibus nihil differt utrum proximum eligas, an superius genus. Nam
quoniam ex continenti fit argumentatio, plus continet id quod est superius
genus. Quocirca si de homine aliquid ambigitur, et a genere argumentanrii
sumitur locus, quidquid de animali dicetur, id etiam de homine praedicabitur.
Quo fit ut si quid etiam de animato corpore praedicetur, idem etiam de homine
dici possit. Ut igitur argumentationes ex proximis generibus fiunt, ita etiam
ex alterius constitutis. Sed in his omnibus illud est quod maxime
considerandum uidetur, ne id quod est inferius superiori praeponatur ut genus.
Et sententia quidem talis est. Quod uero ad exemplum attinet, declarabitur hoc
modo: Sit aqua pluuia ea quae deiecta de caelo imbri colligitur, huius species
duplex est; alia enim aqua plouia nocens est, alia non nocens. Nocentis quoque
duplex species est, alia manu, alia uitio. Sed aqua pluuia manu nocens est,
quae ita loco aliquo excipitur, inde profluens uicino noceat, si locus is non
sit naturaliter talis sed manu hominis excipiendae aquae fuerit apparatus;
uitio uero, quoties naturaliter ita sese locus habet, ut excipere aquam possit
et nocere uicino. Si igitur eius aquae quam quis arceri uelit, ne sibi noceat,
a uicino genus uelit exquirere, non nec esse est ab ultimo usque genere
deducere, ut nicat aquae eius quam quis uelit arceri genus esse aquam pluuiam
sed potest id quod inquirit genus paulo inferius inuenire, ut huius aquae quam
arceri desiderat id genus esse dicat, quod est aqua pluuia nocens. Quod si genus
proximum quaerat, illud poterit adhibere quod est aqua pluuia manu nocens, hoc
enim arceri quis cogitur quod manu fit noxium. Quod uero loci forma uel uitio
incommoditatis aliquid apportat, arcere non cogitur. Quod autem diximus,
eius aquae quam arceri oporteat genus esse quam pluuiam manu nocentem, ita
intelligendum est, si aqua quae arceri debet plurima sub se habet indiuidua et
similia, tunc enim demum eius aquae quae arceri debet, aqua pluuia manu nocens
genus esse poterit. Quod si aqua quae arceri dehet in nulla indiuidua
diducatur, ipsa est indiuidua, nec est eius genus aqua pluuia nocens manu sed
species. Quod si cui paululum uidetur obscurius hic si eos commentarios quos de
genere, specie, differentia, proprio, atque accidenti, composuimus, libris quinque
digestos inspexerit, nihil horum poterit incurrere quo caliget. COMMODE
ETIAM TRACTATUR HAEC ARGUMENTATIO QUAE EX GENERE SUMITUR, CUM EX TOTO PARTIS
PERSEQUARE HOC MODO: SI DOLUS MALUS EST, CUM ALIUD AGITUR ALIUD SIMULATUR,
ENUMERARE LICET QUIBUS ID MODIS FIAT, DEINDE IN EORUM ALIQUEM ID QUOD ARGUAS
DOLO MALO FACTUM INCLUDERE; QUOD GENUS ARGUMENTI IN PRIMIS FIRMUM VIDERI
SOLET. Dictum est quemadmodum genus ad speciem debeat aptari, atque in eo
praescriptum est ut nisi id quod est superius adhiberi non debeat. Nunc illud
adiungitur, quemadmodum eius loci, qui a genere ducitur, in argumentatione
commodior usus esse possit. Quotiescumque enim de re aliqua dubitatur, si,
facta generis alicuius diuisione, sub aliqua eius generis parte id de quo
ambigitur potuerimus includere, tunc a genere tractum esse argumentum uidetur
hoc modo: Sit dolus malus, quando aliud agitur, aliud simulatur. Huius ergo si
species diuidantur, et id quod factum esse arguimus alicui earum specierum quae
a dolo malo deductae sunt potuerimus adiungere, quidquid de dolo malo
existimabitur, idem etiam de ea re quani arguimus nec esse est iudicari, et
factum est argumentum a genere. Nam de quo quaeritur species est, et id a quo
sumitur argumentum genus est, scilicet ut si ita contingit dolus malus.
Locus uero hic ab eo qui est a partium enumeratione diuersus est. Nec si
enumeramus partes, id est formas aut species, idcirco non a genere sed ab
enumeratione partium ducitur argumentum. Quoties enim ipsa partium enumeratione
utimur ad argumentationem, tunc ab eadem partitione argumentum tractum esse
dicimus, ut hoc modo: Si fundamenta, et parietes, et tectum habet, et
habitationi est destinatus locus, domus est. Ipsa igitur partitione utentes,
domum esse probauimus. Quoties uero sub genere aliquid collocandum est,
diuisisque partibus alicui eorum quae a genere deducuntur id de quo quaeritur
aggregamus, ut hoc modo: Si Ciceronem animal esse monstremus, dicemus ita: Omne
animal aut rationale est, aut irrationale; sed Cicero rationalis est, animal
igitur est: non partitione utimur principaliter ad argumentum constituendum sed
idcirco genus diuisimus, ut in unaqualibet diuisione id quod nitebamur ostendere
posset includi, id est ut id de quo dubitatur in assumpti continentia generis
redigeretur, itaque de eo per generis naturam fides fieret. Sic ergo a genere
facta argumentatio iure dicetur. Amplius ita partium enumeratio totius
efficere substantiam solet, siue illud uniuersale sit ut genus, siue partium
coniunctione completur ut totum. At uero haec diuisio generis in cuius partes
quaelibet illa res de qua contenditur includenda est, non id efficit, ut totius
substantia constituatur sed ut illud quod approbare quaerimus intra genus
collocetur. Quem argumentationis modum imprimis M. Tullius ualidum esse
confirmat. Illa enim regula satis uera est atque necessaria: Quae de
genere praedicantur, eadem de specie modis omnibus praedicari.
Illud uero quaeri perutile est, cum aliquid de particularibus rebus probetur ex
superposita proxima specie, ut si Socratem rationalem esse approbemus, quoniam
sit homo, cum sit homo rationalis, utrum ex genere an ex forma argumentum
ductum esse arbitremur. Nam si dicamus ex genere, ultima species genus esee non
potest; si ex specie, superpositum genus semper species probare desiderat.
Socrates uero cui fidem praestat homo, quoniam rationalis est, genus hominis
non est sed dicendum est quoniam uelut a genere tractum uidebitur argumentum.
Nam exgenere quasi ex continenti atque ampliori, et de substantia fides
praedicati ducitur: quam sortem ad sua indiuidua speciem nemo dubitat obtinere,
nam et continet ea, et de eorum substantia praedicatur. SIMILITUDO SEQUITUR,
QUAE LATE PATET, SED ORATORIBUS ET PHILOSOPHIS MAGIS QUAM VOBIS. ETSI ENIM
OMNES LOCI SUNT OMNIUM DISPUTATIONUM AD ARGUMENTA SUPPEDITANDA, TAMEN ALIIS
DISPUTATIONIBUS ABUNDANTIUS OCCURRUNT ALIIS ANGUSTIUS. ITAQUE GENERA TIBI NOTA
SINT; UBI AUTEM EIS UTARE, QUAESTIONES IPSAE TE ADMONEBUNT. SUNT ENIM
SIMILITUDINES QUAE EX PLURIBUS COLLATIONIBUS PERVENIUNT QUO VOLUNT HOC MODO: SI
TUTOR FIDEM PRAESTARE DEBET, SI SOCIUS, SI CUI MANDARIS, SI QUI FIDUCIAM
ACCEPERIT, DEBET ETIAM PROCURATOR. HAEC EX PLURIBUS PERUENIENS QUO UULT
APPELLATUR INDUCTIO, QUAE GRAECE *EPAGOGE* NOMINATUR, QUA PLURIMUM EST USUS IN
SERMONIBUS SOCRATES. [10.43] ALTERUM SIMILITUDINIS GENUS COLLATIONE
SUMITUR, CUM UNA RES UNI, PAR PARI COMPARATUR HOC MODO: QUEM AD MODUM, SI IN
URBE DE FINIBUS CONTROVERSIA EST, QUIA FINES MAGIS AGRORUM VIDENTUR ESSE QUAM
URBIS, FINIBUS REGENDIS ADIGERE ARBITRUM NON POSSIS, SIC, SI AQUA PLUVIA IN
URBE NOCET, QUONIAM RES TOTA MAGIS AGRORUM EST, AQUAE PLUVIAE ARCENDAE ADIGERE
ARBITRUM NON POSSIS. EX EODEM SIMILITUDINIS LOCO ETIAM EXEMPLA SUMUNTUR,
UT CRASSUS IN CAUSA CURIANA EXEMPLIS PLURIMIS USUS EST, QUI TESTAMENTO SIC
HEREDES INSTITUISSET, UT SI FILIUS NATUS ESSET IN DECEM MENSIBUS ISQUE MORTUUS
PRIUS QUAM IN SUAM TUTELAM VENISSET, HEREDITATEM OBTINUISSENT. QUAE
COMMEMORATIO EXEMPLORUM VALUIT, EAQUE VOS IN RESPONDENDO UTI MULTUM
SOLETIS. FICTA ENIM EXEMPLA SIMILITUDINIS HABENT VIM; SED EA ORATORIA
MAGIS SUNT QUAM VESTRA; QUAMQUAM UTI ETIAM UOS SOLETIS, SED HOC MODO: FINGE
MANCIPIO ALIQUEM DEDISSE ID QUOD MANCIPIO DARI NON POTEST. NUM IDCIRCO ID EIUS
FACTUM EST QUI ACCEPIT? AUT NUM IS QUI MANCIPIO DEDIT OB EAM REM SE ULLA RE
OBLIGAVIT? IN HOC GENERE ORATORIBUS ET PHILOSOPHIS CONCESSUM EST, UT MUTA ETIAM
LOQUANTUR, UT MORTUI AB INFERIS EXCITENTUR, UT ALIQUID QUOD FIERI NULLO MODO
POSSIT AUGENDAE REI GRATIA DICATUR AUT MINUENDAE, QUAE *HYPERBOLE* DICITUR,
MULTA ALIA MIRABILIA. SED LATIOR EST CAMPUS ILLORUM. EISDEM TAMEN EX
LOCIS, UT ANTE DIXI, ET [IN] MAXIMIS ET MINIMIS QUAESTIONIBUS ARGUMENTA
DUCUNTUR. De similitudinis loco plene aeque expedite disseruit, omnemque
aperuit intellectum, similitudinum diuidens formas, praescripsitque apertissime
quibus magis ex similitudine argumenta contingerent, id est philosophis atque
oratoribus; et enim similitudo persuasionibus uidetur aptissima. Nam quod in
unam uel plures extra eam de qua quaeritur causam cadere solet, facile credi
potest in eam quoque de qua ambigitur conuenire. Idcirco ex similitudine
tractae argumentationes magnum oratoribus usum praestant, philosophis quoque,
quoniam non in omnibus quaestionibus demonstratione utuntur sed aliquoties
uerisimilia colligunt, quo id facilius persuadeant quod nituntur ostendere,
similitudo rerum saepe est inquirenda atque idcirco locus a similitudine
oratoribus maxime philosophisque conducit, non tamen solis. Omnes enim loci
communes sunt cuiusque materiae sed in aliis uberius incidunt, in aliis
angustius inueniuntur. Quocirca cognitis atque ante perceptis locis quaestiones
ipsae quae tractabuntur quibus locis uti debeat solertem animum poterunt
admonere. Omnis uero similitudo duplex est: aut enim ex pluribus
similitudo colligitur, et inductio nuncupatur, quod Graeci *epagoge* nominant,
aut singulae res per similitudinem comparantur. Ac prior quidem huiusmodi
est: Si tutor fidem praestare debet, si socius, si cui mandaueris, si qui
fiduciam acceperit, debet etiam procarator. Nam cum in pluribus rebus fides
praestari debeat, unaque similitudo sit in fide praestanda tam in tutore quam
socio, atque eo cui mandatum sit, eoque qui fiduciam acceperit, debet eadem
similitudo procuratori etiam conuenire. Fiduciam uero accepit cuicumque res
aliqua mancipatur, ut eam mancipanti remancipet, uelut si quis tempus dubium
timens amico potentiori fundum mancipet, ut ei cum tempus quod suspectum est
praeterierit reddat; haec mancipatio fiduciaria nominatur, idcirco quod
restituendi fides interponitur. Hac similitudinis collectione plurimum Socrates
esse usus dicitur, ut in Platonis aliorumque eius sectatorum uoluminibus
inuenitur. Quoties uero una res uni rei per similitudinem comparatur, hoc
modo colligitur argumentum. Regendorum finium arbitri esse dicuntur, qui
finalia litigia discernunt, ut si fuerit de finibus orta contentio, eorum
dirimatur arbitrio. Sed fines in agrorum tantum limitibus esse dicuntur,
arbitri autem finiam regendorum in ciuitate esse non poseunt. Item arceri aquam
in agris tantum dici solet, ubi si ex aliquo loco aqua pluuia colligatur, et
defluens in campos uicini pascua frugesue corrumpat, arbitri arcendae aquae a
magistratibus statuebantur. Quaeritur ergo an in urbe arcendae quae arbitrium
possimus adigere. Et argumentum capitur ex similitudine. Si regendorum finium,
quia solius agri sunt, in urbe arbitrum adigere non possis, ne aquae quidem
arcendae, quia solorum esse uidetur agrorum, in urbe arbitrum possis adigere.
Hic igitur una res uni rei similitudine coniuncta est. Ex eodem etiam
similitudinis loco illa sumi Cicero proponit quae uocantur exempla, ueluti
Crassus in causa Curiana, quae fuit huiusmodi: Quidam praegunutem uxorem
relinquens scripsit haeredem posthumum, eique alium substituit secundum, qui
Curius uocabatur, ea conditione, ut si posthumus, qui intra menses decem proximos
nasceretur, ante moreretur quam in suam tutelam peruenisset, idem ante obiret
diem, quam testamentum iure facere posset, secundus haeres succederet; quod si
ad id tempus peruenisset quo, iam firmo iudicio in suam tutelam receptus, iure
ciuili instituto posset haerede defungi, secundus haeres, id est Curius, non
succederet quae uocatur substituto pupillaris: quaesitum est an ualeret ita
instituta ratio. Crassus, igitur multa protulit exempla, quibus ita institutis
haeres obtinuisse haereditatem, quae exemplorum commemoratio iudices
mouit. Dicit etiam ipsos quoque iurisconsultos uti saepius exemplis,
ueluti cum fingitur, id est imaginatur, propositio, ut casus de quo agitur per
similitudinem intelligatur, hoc modo: Si quis enim iurisperitus adiiciat id quod
non iure contractum est nullius esse momenti, adhibeatque exemplum tale, uelut
si quis rem non mancipi mancipauerit, num idcirco aut rem alienauit, aut se reo
facto potuit obligasse? minime, quod enim non iure contractum est nil retinet
firmitatis. Et alia huiusmodi apud iurisperitos inueniuntur, in quibus oratores
maxime ualent, quibus etiam in tantum fingere licet, ut eorum ratione etiam
mortui saepe ab inferis excitentur, quod Tullius in ea facit oratione qua
Caelium defendit. Sed latior, inquit, est illorum campus, id est oratorum,
quibuss patiari ac deuagari licet: nec idcirco minus caeteris quoque
facultatibus similitudines prosunt, quoniam eadem argumenta maximis minimisque
causis conueniunt; quo fit ut loci quoque argumentorum diuersarum artium quaestionibus
accomodentur. SEQUITUR SIMILITUDINEM DIFFERENTIA REI MAXIME CONTRARIA
SUPERIORI; SED EST EIUSDEM DISSIMILE ET SIMILE INVENIRE. EIUS GENERIS
HAEC SUNT: NON, QUEMADMODUM QUOD MULIERI DEBEAS, RECTE IPSI MULIERI SINE
TUTORE AUCTORE SOLVAS, ITEM, QUOD PUPILLO AUT PUPILLAE DEBEAS, RECTE
POSSIS EODEM MODO SOLVERE. Eiusdem facultatis est similitudines
differentiasque cognoscere; qui enim scit quid sit idem, nosse poterit quid sit
diuersum. Omnis uero similitudoidem aliquid esse constituit, quod enim idem est
secundum qualitatem, id simile esse necesse est. Omnis quippe res aut
substantia eaedem sunt, aut qualitate, aut caeteris praedicamentis. Quod si ita
est, et animus intelligere hoc idem in pluribus praedicamentis potest. Sed eam
hoc ipsum idem in praedicamentis notat, eodem modo in eisdem praedicamentis
quod diuersum est intuetur; sed simile idem est, differentia uero diuersum.
Idem igitur animus eademque intelligentia similitudinem differentiamque
cognoscit. Differentiarum uero multae sunt species, aliae quippe sunt
substantiales, ut homini rationale, aliae non substantiales sed inseparabiles,
ut nigrum Aethiopi atque coruo; aliae uero mobiles neque constantes, ut sedere,
stare, et huiuscemodi caeterae quibus et ab aliis hominibus et a nobis ipsis
saepe distamus. Item differentiae aliae aliquo modo sunt generum diuisibiles,
aliae aliquo modo specierum constitutiuae; sed si a constitutiuis argumentum ducatur,
uelut a genere ducitur. Nam sicut genus continet speciem, ita differentiae
continent species. Sane si differentiae constitutiuae ut genera intelligentur,
fides ab his ad ea aptabitur quae constituunt. Haec enim talium differentiarum
ueluti formae quaedam sunt. Sin uero sint diuisibilis, siquidem ad ea probanda,
id est genera, quae diuidunt, earum ducitur fides, a forma argumentum fieri
uidetur, nam tales differentiae eorum quae diuiduntur formae quaedam
sunt. Quod ei ad ea probanda referuntur quae in contrariam partem genus
diuidunt, tunc proprie a differentia fieri argumentum uidetur, quia contrariae
ueluti differentiae comparantur. Quod uero ad exemplum attinet Tullii
huiusmodi est: Mulieres antiquitus perpetua tutela tenebantur, pupilli item sub
tutoribus agunt; sed mulieribus si quid debitum fuisset, sine tutoris
auctoritate poterat solui, pupillis uero minime. Ergo si quaeratur an id quod
debeatur pupillo cuilibet, renuente tutore, possit exsolui, a differentia
sumitur argumentum, sic: Non sicut mulieri sine tutoris auctoritate debitum
possis exsoluere, eodem modo, nisi auctoritas tutoris accesserit, pupillo
soluere quod debeas possis; illas enim perpetua tutela, etiam prouecta iam
aetate, continentur, illorum tutelae certus annorum numerus terminum facit;
atque idcirco solui pupillo sine auctoritate non poterit. Differt enim persona mulierum
a persona pupillorum, uel in eo quod pupilli non perpetua reguntur tutela,
mulieres uero perpetua; uel quod pupillus nullum suae rei administrandae
utilitatis iudicium habere potest cum sit aliquis mulieribus etsi non firmus,
in explicanda familiaris rei utilitate delectus. DEINCEPS LOCUS EST QUI E
CONTRARIO DICITUR. CONTRARIORUM AUTEM GENERA PLURA; UNUM EORUM QUAE IN EODEM
GENERE PLURIMUM DIFFERUNT, UT SAPIENTIA STULTITIA. EODEM AUTEM GENERE DICUNTUR
QUIBUS PROPOSITIS OCCURRUNT TAMQUAM E REGIONE QUAEDAM CONTRARIA, UT CELERITATI
TARDITAS, NON DEBILITAS. EX QUIBUS CONTRARIIS ARGUMENTA TALIA EXISTUNT: SI
STULTITIAM FUGIMUS, SAPIENTIAM SEQUAMUR ET BONITATEM SI MALITIAM. HAEC QUAE EX
EODEM GENERE CONTRARIA SUNT APPELLANTUR ADVERSA. SUNT ENIM ALIA CONTRARIA,
QUAE PRIVANTIA LICET APPELLEMUS LATINE, GRAECI APPELLANT *STERETIKA*.
PRAEPOSITO ENIM 'IN' PRIVATUR VERBUM EA VI, QUAM HABERET SI 'IN' PRAEPOSITUM
NON FUISSET, DIGNITAS INDIGNITAS, HUMANITAS INHUMANITAS, ET CAETERA GENERIS
EIUSDEM, QUORUM TRACTACTIO EST EADEM QUAE SUPERIORUM QUAE ADVERSA DIXI. NAM
ALIA QUOQUE SUNT CONTRARIORUM GENERA, VELUT EA QUAE CUM ALIQUO CONFERUNTUR, UT
DUPLUM SIMPLUM, MULTA PAUCA, LONGUM BREVE, MAIUS MINUS. SUNT ETIAM ILLA
VALDE CONTRARIA QUAE APPELLANTUR NEGANTIA; EA *APOPHATIKA*; GRAECE, CONTRARIA
AIENTIBUS: SI HOC EST, ILLUD NON EST. QUID ENIM OPUS EXEMPLO EST? TANTUM
INTELLEGATUR, IN ARGUMENTO QUAERENDO CONTRARIIS OMNIBUS CONTRARIA NON
CONVENIRE. Diuisio, differentiae loco, nunc de contrariis tractat. Quare
uti rerum ordo clarius colliquescat, pauca mihi ex Aristotele sumenda sunt quae
ille uir omnium longe doctissimus de hac diuisione tractauit, quanquam M.
Tullius re quidem Aristoteli fere consentit sed ab eo nominum interpretatione diuersus
est. Nam quae Aristoteles opposita, id est *antikeimena* uocat, ea Tullius
contraria nominat; sed haec paulo posterius. Nunc Aristotelis diuisio
consideretur. Oppositorum igitur secundum Aristotelem alia sunt contraria, alia
priuatio et habitus, alia relatiua, alia contradictoria. Contraria quidem, ut
album atque nigrum; habitus uero et priuatio, ut uisus et caecitas, dignitas et
indignitas; relatiua uero, ut pater, filius, dominus, seruus; contradictioria,
ut est dies, non est dies: horum omnium tales inter se differentiae
considerantur. Nam quae contraria sunt, partim mediata sunt, partim uero
medio carent. Mediata sunt, ut album, nigrum, est enim horum medius quilibet
alius color, ut rubeas uel pallidus, et horum contrariorum non nec esse est
alterum semper inesse corporibus. Neque enim omne corpus aut album aut nigrum
est; sed aliquoties in horum medietate est constitutum, ut sit rubrum uel
pallidum. Immediata uero contraria sunt quorum nihil medium poterit inueniri,
ut grauitas et leuitas: horum enim nihil est medium. Nam quae leuia sunt,
sursum feruntur, quae grauia, deorsum. Quod autem sit corpus quod neque sursum
neque deorsum feratur, nihil poterit inueniri. Sed immediata contraria talia
sunt, ut allerum eorum accidere semper inhaereat, ut in propositio superius exemplo.
Necesse est enim omne corpus uel leue esse uel graue, quia leuitas et grauitas
medium non habent, quod praeterea inesse corporibus possit. At ea quae in
priuatione et habitu sunt, ut caecitas et uisus, distant quidem ab his
contrariis quae claudunt aliquam medietatem, quod ipsa medietatem non habent;
ab his uero contrariis differunt quae sunt immediata, quoniam horum
contrariorum alterum semper subiecto inesse est, ut corpori grauitatem uel
leuitatem; priuationem uero et habitum non semper, ut cum sit habitus quidem
uisus, priuatio autem caecitas, non omne quod uideri potest, aut uidet, aut
caecum est: infans quippe nondum editus neque uidet, quia nondum processit in
luce, neque caecus est, quia nondum habuit uisum, quem potuisset amittere. Idem
de catulis dici potest, qui statim nati nequeunt intueri, nam tunc eos nec
caecos dicere possumus, nec uidentes. Et postremo contraria semper in suis
qualitatibus considerantur; priuationes autem, non quod ipsae sint aliquid sed
ex habitus absentia colliguntur neque enim caecitas est aliquid sed a uisus
intelligitur abscessu. Tam uero priuatio quam contrarietas differt a
relationis oppositione, eo quod neque contraria, neque priuatoria simul esse
possunt; idem enim in uno eodemque tempore, uno eodemque in loco album et
nigrum, uidens et caecum esse non poterit; sed relatiua a se nequeunt separari,
neque enim potest esse filius sine patre, nec seruus, si dominus non sit.
Amplius, contraria ad se et priuatoria non referuntur. Nemo enim dicit album
nigri, uel nigrum albi, uel caecitatem uisus, uel uisum caecitatis. Quae uero
in relatione sunt posita in ipsa relationis praedicatione consistunt, ut duplum
dimidii, dominus serui, et caetera ad hunc modum. Tam uero contraria quam
etiam relationes differunt a contradictionibus, quoniam contradictiones quidem
semper in oratione consistunt, et in altera earum parte ueritas, in altera
falsitas inuenitur, contraria uero priuatoria et relationes in simplicibus
partibus orationis inuenitur et in his neque ueritas neque falsitas
inest. Nam cum dico album, nigrum, caecitas, uisus, dominus, seruus,
simplices orationis partes sunt, neque uerum, neque mendacium continentes; in
simplicibus enim partibus orationis ueritas uel falsitas nulla est: cum autem
dico dies est, dies non est, utraeque propositiones, una in affirmatione,
altera in negatione posita, orationes sunt. Sed M. Tullius non tam
propriis nominibus quam notioribus utitur; ait enim contrariorum alia esse quae
aduersa uocantur, alia quae priuantia, alia quae in comparatione sunt, alia
quae aientia et negantia nuncupantur. Sed quae contraria nominat, opposita
uerius dicerentur; quae aduersa dicit, contrariorum melius susciperent nomen;
quae in collatione nominat, ea relatiua uel ad aliquid certius uocarentur: sed
utatur nominibus ut uolet, dum res ipeae certa proprietatis suae ratione
signentur; nos uero in caeteris quos edidimus libris eo nuncupauimus modo, quo
superius in Aristotelis dictum est diuisione. Secundum M. Tullium igitur
contrariorum alia sunt aduersa, ut sapientia, stultitia; alia priuantia, ut
dignitas et indignitas; alia quae cum aliquo conferuntur, ut duplum, simplum;
alia quae appellantur negantia, e contrario aientibus constituta, ut si hoc
est, illud non est. Aduersa igitur sunt quae, sub uno genere posita,
plurimum differunt, ut album, nigrum, quae a se plurimum distant sub uno genere
posito, id est sub colore. Item celeritati tarditas aduersa est, positis
utrisque sub motu, neque enim celeritati debilitus opponenda est, quia
debilitati firma ualetudo contraria est, quod in diuisione omisit Cicero sed
docuit exemplo; illa quoque dicuntur aduersa, quae, in diuersis generibus sita,
plurimum a se discrepare intelliguntur, ut sapientiae stultitia. Illa enim sub
genere boni est, haec uero sub mali, quamquam huiusmodi exemplum priuationem
potius spectare uideatur; nam stultitia priuatio est sapientiae, nec quidquam
est aliud stultitia nisi sapientiae et rationis absentia; sed quae sint quae
priuantia Cicero appellat, posterius demonstrabo. Ex his aduersis hoc modo
sumitur argumentum. Si stultitiam fugimus, sapientiam sequamur; si bonitatem
appetimus, malitiam fugiamus, quanquam malitia quoque, secundum eumdem modum
qui superius dictus est, priuationibus possit adiungi. Priuantia uero
secundum Ciceronem sunt, quae Graece *steretika* appellantur, quae habent eam
partem orationis praepositam, quae cum fuerit adiecta, semper fere aliquid
demit ut ea in praepositio; haec enim syllaba cui fuerit apposita, demit fere
aliquid ex ea ui quam esset res quaelibet habitura, si in syllabam praepositam
non haberet, ut humanitati inhumanitas: in namque praeposita id de quo dicitur
humanitate priuauit, ut dignitas, indignitas; et Tullius quidem ea tantum
priuantia esse confirmat, in quibuscumque syllaba ista praeponitur: priuantium
quippe natura secundum Tullium huius syllabae commemoratione finitur; a
Peripateticis uero accepimus priuationes cum simplicibus nominibus, tum
priuatoriis syllabis efferri, cum simplicibus norninibus, ut caecitas, cum
priuantibus uero syllabis, ut indignitas, inhumanitas. Quocirca, secundum M.
Tullium, caecitas non erit priuatio uisus sed ei aduersum, atque idcirco
forsitan stultitiam inter aduersa numerauit, quoniam non habet in syllabam ex
qua priuationes arbitrantur existere. Ex quibus eodem modo, ut in
superius positis aduersis, argumenta ducuntur: Inhumanitalem auersemur, si
humanitas consectanda est. Illa uero contraria, ut ait Tullius, quae cum
aliquo conferuntur, talia sunt, ut duplum simpli. Id tantumdem est tanquam si
diceret duplum dimidii simplum enim dupli dimidium est, et pater filii; eaque
sunt semper reciprocantia, aliquoties quidem septimo casu, aliquoties uero
genitiuo, nam filius patris est filius et pater filii, haec secundum genitiuum
conuersio est, et duplum simplo duplum est, haec secundum septimum casum; sunt
etiam quae accusatiuo, ut pauca ad multa, et magnum ad paruum. Item
negantia sunt quae in affirmationibus et negationibus posita sunt, ut si hoc
est, illud non est, ueluti si dies est, nox non est, atque hanc oppositionem
Cicero ualde dicit esse contrariam. Ex quibus omnibus secundum superius
dictum modum argumentorum facultas est, nam ex relatiuis contrariis ita sumimus
argumentum si pater est, fieri non potest quin ei filius sit. Ex negantibus
autem quae *apophatika* (ut ait) Graeci uocant, ita: Si sol supra terram
fuit, nox esse non potuit haec enim affirmatio illam perimit negationem;
cur uero haec negantia esse constituerit mirandum est. Nam quae negantia sunt
aientibus opponuntur, et simul esse non possunt, ut diem esse ac diem non esse,
hoc uero consequens est cum ita dicatur, si hoc est, illud non est, ut si dies
est, nox non est. Atque affirmationem negationemque Tullius ualde dicit esse
contrariam sed in hac consequentia nequeunt csse contraria: nam quod est
consequens, contrarium non est. AB ADIUNCTIS AUTEM POSUI EQUIDEM EXEMPLUM
PAULO ANTE, MULTA ADIUNGI, QUAE SUSCIPIENDA ESSENT SI STATUISSEMUS EX EDICTO
SECUNDUM EAS TABULAS POSSESSIONEM DARI, QUAS IS INSTITUISSET CUI TESTAMENTI
FACTIO NULLA ESSET. SED LOCUS HIC MAGIS AD CONIECTURALES CAUSAS, QUAE VERSANTUR
IN IUDICIIS, VALET, CUM QUAERITUR QUID AUT SIT AUT EUENERIT AUT FUTURUM SIT AUT
QUID OMNINO FIERI POSSIT. AC LOCI QUIDEM IPSIUS FORMA TALIS EST. ADMONET
AUTEM HIC LOCUS, UT QUAERATUR QUID ANTE REM, QUID CUM RE, QUID POST REM
EVENERIT. "NIHIL HOC AD IUS; AD CICERONEM" INQUIEBAT GALLUS NOSTER,
SI QUIS AD EUM QUID TALE [1122C] RETTULERAT, UT DE FACTO QUAERERETUR. TU TAMEN
PATIERE NULLUM A ME ARTIS INSTITUTAE LOCUM PRAETERIRI; NE, SI NIHIL NISI QUOD
AD TE PERTINEAT SCRIBENDUM PUTABIS, NIMIUM TE AMARE VIDEARE. EST IGITUR MAGNA
EX PARTE LOCUS HIC ORATORIUS NON MODO NON IURIS CONSULTORUM, SED NE
PHILOSOPHORUM QUIDEM. [12.52] ANTE REM ENIM QUAERUNTUR QUAE TALIA SUNT:
APPARATUS COLLOQUIA LOCUS CONSTITUTUM CONVIVIUM; CUM RE AUTEM: PEDUM CREPITUS,
STREPITUS HOMINUM, CORPORUM UMBRAE ET SI QUID EIUS MODI; AT POST REM: PALLOR
RUBOR TITUBATIO, SI QUA ALIA SIGNA CONTURBATIONIS ET CONSCIENTIAE, PRAETEREA
RESTINCTUS IGNIS, GLADIUS CRUENTUS CAETERAQUE QUAE SUSPICIONEM FACTI POSSUNT MOVERE.
Qui sit ab adiunctis locus breui superius monstrauit exemplo, eo scilicet
quo dixit: Si secundum mulieris nunquam capite diminutae tabulas possessio
bonorum daretur, consequens esss ut secundum quoque puerorum et seruorum
tabulas possessio permitteretur. Sed nunc formam ipsam et quasi subiectum loci
monstrare proponit, quae est huiusmodi: Ab adiunctis enim locus est, cum ex eo
quod proponitur aliquid aliud uel esse, uel fuisse, uel futurum esse
argumentatione colligitur, ut in eo ipse quod dudum posuit exemplo. Approbatur
enim non debere secundum mulieris nunquam capite diminutae tabulas bonorum
possessionem dari, quia si id fuerit positum, id futurum est, ut secundum
puerorum quoque ac seruorum tabulas honorum possessio permittatur. Talia uero
sunt quae dicuntur adiuncta, ut circa rem fere quae quaeritur inueniantur,
neque tamen nec esse sit ei semper adhaerere; et forma quidem huius loci talis
est, ut hanc quoque definitionem possit admittere. Ab ad iunctis locus est cum
ex aliquibus, quae sunt proxima eis de quibus quaeritur rebus, id quod
quaeritur uel inesse, uel esse, uel futurum esse monstratur. Qui locus
est coniecturalibus causae, maxima necessarius. Cum enim de facto quaeritur,
tum si id factum est quod dubitatur, qui uel fuerit, uel sit, uel futurum sit,
considerari solet: multa enim sunt quae unicuique adiuncta rei uariorum euentu
temporum colliguntur. Idcirco enim quid ante rem, quid cum re, quid post rem
euenerit, in coniecturalibus causis inquiritur, quae ab oratoribus tractantur
solis, neque iurisconsultis in huiusmodi negotiis cum rhetorica facultate ulla
communio est, iuris enim peritus de facti qualitate, non etiam de ipsius facti
ueritate respondet. Idcirco quoties ad Gallum peritum iuris facti quaestio
deferebatur, NIHIL AD NOS inquiebat, et ad Ciceronem potius consulentes, id est
ad rhetorem remittebat. In quo Tullius facere ad Trebatium locum miscuit
dicens: Quanquam locus hic ab adiunctis coniecturalibus causis maxime utilis,
nihil consultorum iuris prudentiam iuuet, patiere me tamen, inquit, nullam
suscepti operis partem praeterire, ne si in hoc libro nihil praeter tuae artis
exempla conscripsero, tuae tantum gratiae uideatur addictus. Ab adiunctis
uero locus qui non modo iurisconsultis sed ne philosophis quidem praeter
oratores non patet, trium saepe temporum ratione tractandus est. Nam de facto
si quaeritur, quid uel ante id, uel cum eo, uel post id fuerit nec esse est
uestigari. Ante rem quidem hoc modo, apparatus; uerisimile est enim effecisse
aliquem quod ante efficiendum parauit, colloquia fieri enim potuit ut amauerit,
qui saepe fuerit collocutus. LOCUS, uelut cum ad aliquid faciendum
opportunus locus eligitur. CONSTITUTUM CONVIVIUM, uelut si quis
constituto ante conuiuio in eo fecisse aliquid arguatur capiaturque coniectura
facti, ex eo ipse quod sit conuiuium constitutum, atque horum omnium ante rem
de qua quaeritur exempla sunt. Cum re uero hoc modo: Pedum crapitus, uelut si
isse in quempiam locum aliquis accusetur, pedum crepitu deprehensus esse
probabitur; uel si fuisse adulter in cubiculo ex umbra corporis designetur,
haec cum ipsis de quibus quaeritur inspecta, eisdem tamen intelliguntur
adiuncta. Post rem uero, si quas conscientiae maculas pallor, rubor,
titubatioque prodiderit: restinctus ignis, uelut si clam factum aliquid
exstincto igni uelimus ostendere, ut tutius notitiam submouentibus tenebris
committeretur. Item gladius cruentus peractum facinus monstrat. Haec omnia post
rem facto intelliguntur adiuncta. Et semper ante rem cum re, et post rem,
secundum rationem temporum intelligendum est, neque ita ut in antecedentibus et
consequentibus. Illic enim naturae ratio consideratur. Omnia quippe simul sunt:
nam quod antecedit, si positum sit, statim est id quod consequitur, ut si ponas
hominem statim animal esse nec esse est, nec ante secundum tempus homo dici
potest, post uero subsequi animal, ut ante aliquis apparatus est secundum
tempus, posterior effectus. Itaque illic antecedentia et consequentia nominantur,
hic ante rem, cum re, et post rem. Idcirco quod illud quidem, non secundum
tempus, sed secundum principalitatem naturae secum simul aliquid trahentis
antecedens dicitur, consequens id quod antecedens comitatur. Ea uero quae
secundum temporis priorem posterioremue rationem considerantur, adiuncta,
idcirco ante rem, cum re et post rem coepere uocabulum. DEINCEPS EST
LOCUS DIALECTICORUM PROPRIUS EX CONSEQUENTIBUS ET ANTECEDENTIBUS ET REPUGNANTIBUS.
NAM CONIUNCTA, DE QUIBUS PAULO ANTE DICTUM EST, NON SEMPER EVENIUNT;
CONSEQUENTIA AUTEM SEMPER. EA ENIM DICO CONSEQUENTIA QUAE REM NECESSARIO
CONSEQUUNTUR; ITEMQUE ET ANTECEDENTIA ET REPUGNANTIA. QUIDQUID ENIM SEQUITUR
QUAMQUE REM, ID COHAERET CUM RE NECESSARIO; ET QUIDQUID REPUGNAT, ID EIUS MODI
EST UT COHAERERE NUMQUAM POSSIT. Expedito adiunctorum loco, nunc de
antecedentibus et consequentibus et repugnantibus disserit. Qui locus sit unus
in tria uelut membra diuisus est. M. quidem Tullius loci huius uocabulum
tacuit, mihi autem totus conditionalis appellandus uidetur. Cuius cum
promptissime natura claruerit, nomen quoque ei, quod nos posuimus, recte
inditum manifestius apparebit. Primum igitur singularum partium definitio
prodenda est. Itaque antecedens est, quo posito aliud nec esse est consequatur:
itemque consequens alicuius est, quod esse nec esse est, si illud cuius est
consequens praecessisse constiterit. Repugnans est quod simul cum eo cui
repugnare dicitur esse non possit. Antecedentium igitur, atque
consequentium, et repugnantium, unum esse locum praediximus, qui quomodo sit
unus, paucis ostendam. Primum igitur dum quaereretur quonam modo unus esset
locus a consequentibus, antecedentibus et repugnantibus, dicebatur quoniam
eiusdem mentis esset atque intelligentiae tam consentanea sibimet quam
dissidentia praeuidere, idcirco hunc quoque locum unum uideri. Consentaneorum
namque duae sunt partes, antecedens una, altera consequens. Nam cum altero
praecedente comitatur alterum, illa sibi in ipsa naturae consequentia
consentire necesse est. Repugnantium uero tametsi duae partes sint, unum tamen
est utriusque uocabulum, utraque enim repugnantia nominantur. Duae uero esse,
quae sibimet repugnent, atque a se dissentiant nullus ignorat; sed eo distant,
quod antecedentium et consequentium duo sunt nomina, licet unus sit utriusque
consensus; repugnantibus uero unum nomen est, cum sit unus in utrisque
dissensus, ergo eadem mens, eademque intelligentiae ratio id quod praecedit et
id quod comitatur, intelligit. Neque enim fieri potest ut antecedens
aliquid intelligatur, nisi in eodem quid sit consequens consideretur: eodem quoque
modo nec consequens, nisi appareat quid praecedat; item repugnans aliquod
intelligere nemo potest, nisi intelligat cui repugnet: sed quoniam eadem ratio
potest similia dissimiliaque perspicere, antecedentium uero et consequentium
consensus quidam et per naturae similitudinem concordia est, dissensus uero in
repugnantibus dissimilitudo, nec esse est ut una atque eadem ratio
antecedentium consequentiumque naturam et repugnantium spectet; quo fit ut unus
quoque locus sit eorum quae una intelligentia comprehendit. Sed huic
opponebatur: Cur igitur alium ex similitudine, alium ex contrario locum Marcus
Tullius superius enumerauit? Nam secundum propositam rationem, quoniam
similitudinem et contrarietatem intelligentia una perpendit, unus locus similium
contrariorumque esse debuisset. Sed respondebatur quoniam non eodem modo sibi
antecedentia et consequentia consentire dicuntur, sicut ea qum similia
nuncupantur. In his namque una tantum qualitas inuenitur, et secundum eamdem
qualitatem similia esse dicuntur; at in antecedentibus et consequentibus non
qualitatis similitudo sed quidam naturae consensus est. Et quae similia sunt
sine se esse possunt, antecedentia uero et consequentia sine se esse non
possunt, atque idcirco non uidetur esse consequentium et antecedentium cum
similitudine ulla communio naturae. Quae ratio non ualde uidentur idonea, nec
explicat quod demonstrare conabatur. Illud certe firmissimum esse
constat, quod huius loci tractatus conditionalibus semper propositionibus
accomonodaretur. Conditionalis uero propositio est quae cum conditione
pronuntiat esse aliquid, si aliud fuerit, ueluti cum dicimus: Si dies est,
lucet. Haec igitur rerum consequentia facile in repugnantiam uertitur.
Nam si rebus consequentibus negatio interponatur, ex consequentibus repugnantia
redduntur, hoc modo: Si dies est, lux est. Repugantia sunt
ita: Si dies est, lux non est repugnant enim diem esse et lucem non
esse. Quae repugnantia in conditione consistit. Dicimus enim: Si dies est,
lux non est nam diei contrarium est nox. Consequens uero noctis, lucem
non esse, quare esse diem et non esse lucem repugnat. Argumentum uero
est, hanc repugnantiam in conditione consistere, quia si conditio deficiat,
nulla est repugnantia, hoc modo: Dies est Lux non est utraeque
enim disiunctae propositiones suas sententias gerunt, nec quidquam
intelliguntur habere commune, atque ideo diuersis acceptae temporibus uerae
sunt, nec repugnant. Nam sicut in his propositionibus, dies est, lux est, nulla
est consequentia, quoniam conditio deest, quae propositionem facit connexam sed
utraeque a se disiunctae suam sententiam claudunt, ita in his quibus
proponitur, dies est, lux non est nulla est repugnantia, quoniam seruat suam
utraque separata sententiam. At si his conditio interueniat superiorum quidem,
ita sententia copulatur, ut consequentes fiant, posteriorum uero ita ut
repugnantes, hoc modo: Si dies est, lux est. Haec consequens
propositio ex duabus per conditionem mediam effecta est una. At si sit ita, si
dies est, lux non est, repugnat. Negatum enim quod sequitur repugnare necesse
est. Amplius, argumentum quod ex antecedentibus et consequentibus fit ex
unius propositionis connexae partibus nascitur, nam conditionalis propositionis
connexae una pars est antecedens, alia consequens. Quod si a repugnantibus
argumentum fiat, rursus ab unius propositionis membris tale argumentum nasci
oportebit. Igitur ex his propositionibus, dies est, lux est, una esse non
potest nisi a conditione copulentur, ut unum sit antecedens, aliud consequens,
et ideo in his ex antecedenti et consequenti argumentum esse non potest,
quoniam duae sunt ex illis quoque propositionibus quae sunt, dies est, lux non
est: una esse non poterit, nisi conditionis adiunctione in unius quodammodo
propositionis sententiam reducantur cuius propositionis partes sunt
repugnantes. Nam, ut in connexa propositione una pars antecedens, alia est
consequens, ita in repugnanti utraque pars propositionis a semet inuicem
repugnat ac dissidet. Amplius: repugnans propositio connexae partem
contrariarm tenet, nam ut in illa quod antecedit secum id quod sequitur trahit,
ita in hac propositione partes simul esse non possunt. Contrariae uero
differentiae sub eodem genere poni solent. Si igitur connexa propositio in
conditione est constituta, repugnans quoque in conditione subsistit; quod si et
consequentiam propositionum et repugnantiam conditio facit, non est dubium quin
locus hic iure conditionalis uocetur, ac sit unus positus in conditione diuisis
partibus, id est in antecedentem consequentemque et repugnantem. Connexaeque
namque propositionis una pars antecedens est, alia consequens. Repugnantis uero
propositionis utraque repugnatae dissidet. Itaque connexae propositionis partes
antecedens et consequens sunt, repugnantis uero repugnantes. Nec illud intelligentiam
turbet quod dies est et lux est quadam sibi ratione consentiunt. Item dies est
et lux non est, quasi a se dissentiunt atque discordant, nam connexa est
propositio si cum aliud antecesserit, aliud consequatur. Item repugnans, si uno
posito aliud inferatur, quod esse non potest nisi id ius conditionis efficiat.
Quocirca aperte demonstratum esse arbitror conditionalem hunc locum uocari et recte
unum esse a M. Tullio constitutum. Quomodo uero fiat ab antecedentibus et
consequentibus et repugnantibus argumentum, posterius dicam. Sed quoniam
nullius facultatis alterius est, quid uel quamque rem consequitur, uel quid
cuique repugnet inspicere, nisi dialecticae tantam, quae huius quam maxime rei
perititiam profitetur, idcirco ait hunc esse locum totum dialecticorum.
Qui etiam ab adiunctis longe lateque diuersus est. Primum quod adiuncta prodere
sese atque ostendere inuicem poesunt, non uero perficere atque adimplere
naturam, ueluti ambulationem pedum strepitus significare quidem ac denuntiare
potest, efficere uero non potest. Neque etiam ambulationem efficit pedum
strepitus, nec uero ex neccssitate ambulatio ut sit pedum strepitus auctor est
sed saepe ita ambulatur, ut nullus pedum strepitus exaudiatur; saepe non mulato
loco moueri pedes ac strepere praeter ambulationem queunt; idcirco non semper
inueniunt ad iuncta: propositoque termino quem probare contendimus, saepe ex
adiunctis argumenta deficiant, quia ipsa quoque aliquoties deficere uidentur
adiuncta. Praecedentia uero et consequentia et repugnantia numquam desunt omne
enim quidquid in rebus est, habet quod se aut sequatur naturaliter, aut
praecedat. Est etiam a quo per naturae diuersitatem dissideat, uelut animal
sequitur quidem hominem, praecedit uero substantiam; dicimus enim: Si homo
est, animal est substantiam uero praecedit, cum proponimus, si animal est,
substantia est. Repugnat uero mortuo cum enuntiamus, si animal est,
mortuum non est. Praeterea quae sunt adiuncta temporibus distributae
sunt, ut ante rem, cum re, post rem. Quae uero sunt antecedentia, consequentia,
et repugnantia, quomodolibet modo in temporibus sint, nihil refert. Nam priora
saepe temporibus comitantur, et temporibus posteriora praecedunt, et quae simul
temporibus sunt, alias praecedunt, alias uero consequuntur, ut superius quoque
saepe diximus. Amplius, quae antecedentia sunt et consequentia relinquere
sese non possunt, nec sibi repugnantia cobaerere, et sunt repugnantia
necessario sibimet inconnexa; quae uero sunt adiuncta nihil obtinent
necessitatis, quia et iungi sibimet, et a se separari queunt. Quae cum
ita sint, quaestio difficilis uehementer oboritur, uidetur enim minus
intuentibus nihil hic locus differre his locis qui dicti sunt uel a genere, uel
a specie, uel a contrariis. Nam genus semper speciem sequitur, speciem genus
praecedit, contraria simul esse non possunt. Quae soluenda est hoc modo:
Primum quia non omne consequens genus est, nec omnis species antecedens.
Repugnantia uero ipsa contraria sed contrariorum sunt consequentia, ut in
locorum qui a M. Tullio propositi sunt expositione monstrauimus. De hinc quia
cum a genere fit argumentum, ipsum genus assumitur, eodem quoque modo et
species, cum ab ea aliquid uolumus approbare, cum uero ab antecedentibus
aliquid monstrare contendimus, eo quod in conditionali propositione praecessit
utimur in assumptione, etiamsi non fuerit genus. Item si a consequenti
argumentum fiat, etiamsi species non sil, a consequenti parte conditionalis
propositionis ducitur argumentum, ueluti cum ita dicimus: Si ignis est, leuis
est, ignis anteoedit, leuitas sequitur; sed neutrum neutri est genus aut
species, assumitur itaque, atqui ignis est. Nunc igitur id quod antecedebat
assumpsi, ex quo monstratur conclusio, leuis igitur est. At si ita assumamus
sed non est leuis, id quod consequebatur assumpsi. Concluditur ergo atque
monstratur, non est igitur ignis. Vides igitur ut de his praecedentibus
etconsequentibus nunc biquamur quae in conditionali propositione posita, uel
praecedere uel consequi intelliguntur. Cum uero fit ex genere argumentum,
species quidem est de qua aliquid probare contendimus; genus uero assumimus non
quasi praecedens sed quasi continens, ut quidquid esse consideratur in genere,
id formae quoquo debeat aptari. Genus enim quoad permanet, a sua specie non
recedit: cum uero de specie sumimus argumentum, genus quidem est de quo aliud
quaeritur; sed id laboramus, ut quod de genere conamur ostendere, id ex specie
possit facilius agnosci. Ut cum uxori Fabiae relictum fuisset legatum, si
materfanilias esset, quoniam non conuenit in manum, scilicet, ab in manus
conuentione, quae est species uxoris, uxorem quod est matris familiae genus a
legati iure seiungimus, et legatum ad speciem, id est matremfamilias
deriuamus. Sed illud interius dispiciendum uidetur, num locus ab
antecedentibus et consequentibus totus superuacaneus esse uideatur, cum
quolibet modo fuerint ex eo argumenta composita, a caeteris locis quos superius
deseripsimus non recedant. Nam quodcumque ab antecedentibus et consequentibus
ducitur argumentum, id uel a toto, uel a partibus, uel a coniugatis, uel ab
aliquo reliquorum tractum esse perpenditur hoc modo: Si utilis est acquitas
constituta ad res suas obtinendas, utile est ius ciuile, ad id quod praecedit,
quod sequitur igitur, hoc est a definitione argumentum, scilicet ab assumptione
praecedentis. At si ita dicam: Sed non est utile ius ciuile, non est igitur
utilis aequitas constituta ad res suas obtinendas, hic per consequentis
assumptionem a definitionis loco sumptum est argumentum. Item a partium
enumeratione, si neque censu, neque caeteris non est liber, at censu uel
caeteris, est igitur liber: at non est liber; neque censu igitur, neque
caeteris manumissus est. Sed notandum est quae sit uis uniuscuiusque
argumenti, et quonam modo proferatur. Sunt enim argumenta quae predicatiuis
apta sint syllogismis ut a definitione fiat sic: ius ciuile est aequitas
constituta his qui eiusdem sunt ciuitatis ad res suas obtinendas. Id uero utile
est, utile est igitur ius ciuile. Item a partibus: Qui neque censu neque uindicta,
neque testamento est manumissus, hic ex seruitute liber factus non est; Stichus
uero neque testamento, neque censu, neque uindicta manumissus est; Stichus
igitur liber non est: et in caeteris, eodem modo. Omnia uero quaecumque
per categoricum syllogismum proferri possunt, eadem per conditionalem
syllogismum dici queunt. Omnis namque praedicatiua propositio in conditionalem
uerti potest, hoc modo: omnis homo animal est, praedicatiua est; haec facile
uertitur in conditionalem ita, si homo est, animal est. Non uero omnis
conditionalis in praedicatiuam uerti potest, uelut haec: si peperit, cum uiro
concubuit. Nemo enim dicere potest ipsum peperisse, id esse quod cum uiro
concumbere, quo modo dicimus hominem, id esse quod animal sit. Alia enim
ratio est in his propositionibus quae ita dicuntur, quae peperit, cum uiro
concubuit. Haec enim similis est ei quae dicit, si peperit, cum uiro concubuit
sed praedicatiua propositio id esse subiectum dicit, quod fuerit praedicatum.
Conditionalis uero id ponit, ut si id quod antecedens fuerit necessario
comitetur quod subsequitur. Cum uero praedicatiua est propositio, si ea
uertetur in conditionalem, alia nimirum redditur propositio. Nam cum dicitur,
omnis homo animal est, ipse homo animal esse proponitur; cum uero, si homo est,
aninial est, non id sentitur, ut ille qui homo est, animal sit sed proposito
esse hominem, consequi ut sil animal. Ergo conditionalis syllogismus in
antecessione et consecutione positus, licet per definitionem, et per partium
enumerationem, et per coniugationem, et quolibet alio fiat modo, tamen in
propria forma se continet, et est conditionalis, id est utens propria potestate,
ut quodammodo caetera argumenta suae ueluti naturae uideatur habere subiecta.
Ut cum sit a definitione argumentum, si quidem per praedicatiuam formam factus
fuerit syllogismus, a definitione ductum esse dicatur. Sin uero per hypothesin
facta fuerit argumentatio, conditionalis fit syllogismus, quem discernat
assumptio, utrum ab antecedentis, an a consequentis parte promatur. Quo fit ut
etiamsi per caeteros locos conditionale argumentum proferatur, tamen suam
quamdam habeat formam, quandoquidem in antecessione et consecutione est
constitutus. Tunc enim definitio, partes, coniugatio, et caetera ueluti res
ipsa, fiunt ac non locus, cum uenerint in conditionem; at si conditio cesset,
ex ipsis profectum uidebitur argumentum. Quod si propositionem conditio
copulauerit, ipsa quidem ea sunt quae in propositionibus continentur ueluti
quaedam argumenti partes, locus uero in conditione est constitutus. Atque
haec ita dicta sunt, quasi aliter conditionalis hic locus tractari non ualeat, nisi
eorum aliquem quos praediximus includat: nam potest praeter eos etiam saepe
reperiri, ut cum dicimus: si homo est, risibilis est; si coruus est, niger est.
Hic enim nec definitionem, nec partes, nec ullum alium locum superius
enumeratum continet argumentum. Amplius, facile est in singulis eorum
differentias praeuidere: locus quippe a toto a substantia trahitur, a partibus
uero a rei compositione. Nam in simplicibus terminis tale argumentum non potest
inueniri, a nota, ab interpretatione; a coniugatis; ab eo quod ex eodem
utrumque deducitur; a genere; a continenti; a forma, ab eo quod continetur; a
differentia, ab eo quod discrepat; a similibus, ab eadem qualitate; a
contrariis, ab eo quod a se longe diuersa sunt; a causis, ab his qui efficiendi
uim habent; ab effectis, ab his quae uim alterius efficientiae susceperunt; ab
adiunctis, a uicinitate naturae; a comparatione maiorum, parium uel minorum; a
relatione, ad aequalem uel inaequalem quantitatem. Ab antecedentibus uero longe
alius modus est: constat enim in eo quod si propositum quid fuerit, aliud
quiddam modis omnibus existet, quod consequens appellatur; huius uero
intelligentia consistit in eo quod praecedente quolibet, aliud subsecutum;
repugnantium uero intelligentia consistit, non modo quod neque sequi, neque
antecedere possunt, uerum etiam quod simul esse non possunt, quae in conditione
consistere dubium non est. His igitur ita expeditis, quoniam M. Tullius
proprietatem loci succincte, ut in transcursu potuit, euidenter expressit, nunc
quibus modis eodem loco uti conueniat, adiungit. Quae Topicorum pars, quoniam
diligentius explananda est, finem quarto uolumini faciam, quinto caetera
redditurus. De omnibus quidem hypotheticis syllogismis, Patrici rhetorum
peritissime, plene abundanterque digessimus his libris, quos de eorum
principaliter institutione conscripsimus, a quibus integram perfectamque
doctrinam, cui resoluendi illa uacuum tempus esi, lector accipiet. Sed quia nunc
Ciceronis Topica sumpsimus exponenda, atque in his aliquorum M. Tullius modorum
meminit, dicendum mihi breuiter existimo de his septem conditionalibus
syllogismis, que eorum natura sit, propositionumque contextio, ut cum haec ad
scientiam rite praelibata peruenerint, Tulliana facilius noscantur
exempla. Omne igitur quod in quaestione dubitatur, aut uerisimilibus aut
necessariis probabitur argumentis. Argumentum uero omne aut in syllogismi
ordinem cadit, aut ex syllogismo uires accipit. Syllogismus uero omnis
propositionibus constat. Propositiones autem uel simplices sunt, uel
compositae. Simplices sunt quae simplicibus orationis partibus coniunguntur.
Copulant autem incompositam propositionem simplices orationis partes, nomen et
uerbum, ueluti cum dicimus, dies est, uel dies uernus est, uel dies serenus
est; hic enim omnem uim propositionis nomen connectit et uerbum. Omnis
autem simplex propositio ex subiecto praedicatoque consistit. Subiectum est de
quo dicitur id quod praedicatur. Praedicatum est quod de eo dicitur quod
subiectum est. Verbum autem aliquoties praedicato nomini adiungitur, aliquoties
ipsum praedicatur. Praedicato nomini adiungitur, ut in hac propositione quae
dicit, dies serenus est: dies enim subiectus est, serenus praedicatus; est uero
uerbum sereno adiunctum est, quod diximus esse praedicatum. At si talis sit
propositio, quae solo nomine constet et uerbo, ueluti cum dicimus, dies est,
tunc dies subiicitur, est uerbum sine dubio praedicatur; sine uerbo autem nulla
est propositio: omnis enim propositio uel uera uel falsa est; nisi autem uerbum
sit quodlibet adiunctum, quo esse aliquid aut non esse dicatur, nulla ueritas
aut falsitas in propositionibus deprehenditur. Saepe autem propositiones
etiam ex totis orationibus constant; ut si dicamus: Transire in Africam utile
est Romanis; hic enim subiectum quidem est transire in Africam, utile autem
Romanis praedicatum, est uero praedicato coniungitur. Huiusmodi igitur
omnes propositiones praedicatiuae dicuntur. Praedicatiuae uero appellantur,
quia aliud de alio praedicant. Omnesque qui ex his propositionibus fiunt
syllogismi, secundum enuntiationum suarum formas praedicatiui
appellantur. Ex his autem praedicatiuis propositionibus existunt
compositae propositiones, quarum alia quidem copulatiua coniunctione nectuntur,
ut et dies est, et lux est; alia uero per conditionem fiunt, quae etiam
conditionales enuntiationes uocantur. Hae uero sunt quae coniunctione quadam
partibus interposita ad consequentiam conditionemque ducuntur. Age enim sint
duae propositiones praedicatiuae: una quidem, quae dicit, animal est; alia uero
quae proponit, homo est. His si coniunctis interueniat, faciet, si homo est,
animal est. Vides igitur ut duas praedicatiuas propositiones in unam
conditionem coniunctio copulauerit. Quae cum ita sint, omnes hae propositiones
hypotheticae, id est conditionales, uocantur, atque ex his syllogismi tales
existunt, quibus hypotheticis uel conditionalibus nomen est. Omnis autem
hypothetica propositio, uel per connexionem fit, uel per disiunctionem. Per
connexionem hoc modo, si dies est, lux est. Per disiunctionem ita, aut dies
est, aut nox est. Earum uero quae per connexionem fiunt, aliae ex duabus
affirmatiuis copulatae sunt, ut si dies est, lux est, namque dies est, et lux
est, utraeque aliquid affirmant; aliae ex duabus negatiuis, ut si lux non est,
dies non est, nam lucem non esse, et diem non esse, utraque negatio est; aliae
uero ex affirmatiua negatiuaque coniunctae sunt, ut si dies est, nox non est;
aliae uero ex negatiua affirmatiuaque copulantur, ut si dies non est, nox est:
omnes tamen in connexione positae sunt. Aut enim affirmatio affirmationem
sequitur, aut negatio negationem, eique connexa est, aut affirmationem negatio,
aut negationem affirmatio. Sed ex connexis repugnantes manifestum esi
nasci, namque ubi affirmatio sequitur affirmationem, his si media negatio
interposita sit, repugnantiam facit hoc modo:si dies est, lax est. Hic
affirmatio sequitur affirmationem; at cum dico, si dies est, lux non est, repugnant
inter se partes propostionis connexae, interposita negatione. Item quoties
negatio sequitur negationem, si posteriori propositionis parti negatiuum
dematur aduerbium, repugnantes fiunt hoc modo, si animal non est, homo non est;
haec connexio est ex duabus proposita negatiuis. At si posteriori parti, id est
homo non est, negatiuum detrahatur aduerbium, fiet, si animal non est, homo
est, quod repugnat; at si affirmatio negationem sequatur, siue posteriori parti
negatio iungatur, siue priori auferatur, repugnantes fiunt, hoc modo, si dies
non est, nox est. Hic igitur affirmatio sequitur negationem. Siue igitur
posteriori parti, id est, nox est, negatio copuletur, ut sit ita, si dies non
est, nox non est, siue priori auferatur, ut sit ita, si dies est, nox non est,
repugnantem fieri propositionem nec esse est. Quod si negatio affirmationem
sequatur, et posteriori parti negatiuum aduerbium subtrahatur, propositionis
connexae partes in repugnuntiam cadunt, hoc modo, si uigilat, non stertit. Hic
affirmationem sequitur negatio sed si posteriori parti, id est, non stertit,
negatio dematur, fiet, si uigilat stertit, et erit repugnans. Sed in
connexis atque disiunctis propositionibus illud intelligendum est, quod in
earum partibus et uis quaestionis includitur et argumenti. Age enim dubitetur
an lux sit, idque approbandum sit ex eo quod dies est. Si igitur ita fiat
propositio, si dies est, lux est, ea quidem pars totius propositionis quae
sequitur, id est, lux est, quaestionis est. De ea namque quaeritur an lux sit.
Ea uero quae prior est, id est, dies est, uim continet argumenti. Ex eo enim
quod dies est, lux esse probabitur, et in caeteris quidem uel connexis, uel
disiunctis eadem ratio est. In omnibus uero his quoniam syllogismus atque
argumentatio ad demonstrandam partem alteram quaestionis accommodatur, quaestio
uero omnis dubitabilis est, oportet syllogismos qui acommodantur ambiguae
quaestioni indubitabiles esse atque perspicuos, qui ut tales sint, ex claris
atque apertis et in ueritate patentibus propositionibus necesse est constent;
propositiones uero partim per se notae sunt, partim aliquibus probationibus
indigebunt. Omnis uero syllogismus enuntiatione proposita habet alicuius partis
assumptionem ut quod est in quaestione concludat, hoc modo: Si dies est, lux
est. Ut igitur lucem esse demonstrem, assumam unam partem propositionis
superius constitutae, dicamque sed dies est, ac tunc demum id quod est in
quaestione concludam, lux est igitur, Ergo cum ad syllogismi conclusionem, et
tota enuntiatione in proponendo, et in assumendo parte enuntiationis utamur,
nec esse est ut ea quibus utimur nil habeant dubitabile, siquidem ex his ea
quae sunt ambigua capient fidem. Quod si propositio aliquoties quidem per
se nota est atque perspicua, uliquoties uero probationis indigens inuenitur,
assumptio quoque aliquoties per se uera esse notabitur aliquoties approbationis
indiget adiumentis. Quo fit ut si et propositio et assumptio demonstrandae
sint, quinquepartitus (ut Cicero etiam in Rhetoricis auctor est) syllogismus
fiat, constans ex propositione eiusque probatione, assumptione, eiusdemque
probatione, et conclusione. Quod si neutra sit approbanda. tripartitus sit, ex
propositione scilicet, assumptione et conclusione. Quod si altera earum
demonstranda sit, fit quadripartitus, ex propositione scilicet, et assumptione,
atque unius earum approbatione et conclusione. Conclusionis uero ipsius
probatio praecedente propositione atque assumptione perfcitur. Quae cum
ita sint, cumque omnis propositio hypotheticam connexionem disiunctionemque
diuidatur, in connexis propositionibus aliud dicimus praecedens, aliud
consequens. Idem autem consequens et connexum uocamus, uelut in hac
propositione, si dies est, lux est. Dies est praecedit, annectitur lux est. In
disiunctis autem non est eadem ratio, quia cum ea quae proponuntur simul esse
non possint, nullo modo dicuntur esse connexa. Praecedens autem et subsequens
inde iudicatur, quia quod primum ponitur, iure antecedens uocatur, quod
posterius, iure subsequens dicitur. Ex his igitur propositionibus, quae
connexae sunt, fit primus et secundus hypotheticorum syllogismorum modus.
Addita uero negatione propositioni connexae et ex duabus affirmationibus
copulatae, atque insuper denegata, tertius accedit modus. Ex disiunctis autem
propositionibus diuerso modo assumptionibus tactis, quartus et quintus.
Utrisque uero per negationem compositis, sextus et septimus. Atque hae septem
sunt hypotheticae conclusiones, quarum M. Tullius in Topicis meminit, quarum
omnium deinceps ordo atque exempla subdenda sunt. Primus igitur modus
est, cum in connexa propositione assumpto eo quod praecedit, uolumus monstrare
quod sequitur, itaque esse oportere, ut est in connexione prolatum. In quo si
id quod connexum est ac sequitur, assumpserimus, nullus omnino fit syllogismus.
Huius exemplum tale est: Si dies est, lucet; si igitur lucere
monstremus, assumamus, nec esse est diem esse, hoc modo, atqui dies est;
consequitur ergo ex necessitate, lucere. Quod si lucere assumamus, itaque
dicamus, atqui lucet, non nec esse est diem esse, atque ideo nulla necessitas
euenit conclusionis; ubi uero nulla necessitas est, ne syllogismus quidem
intelligi potest. Est igitur primus modus in hanc formam: Si dies est
lucet; Dies autem est, Lucet igitur. Inueniuntur tamen in
quibus aequo modo ualet assumptio, siue praecedens, siue subsequens assumatur,
ut in homine atque risibili. Si enim homo est, risibile est; Atqui
homo est, Risibile igitur est. Atqui risibile est, Homo igitur
est. Sed in his haec causa est, quia homo atque risibile aequi sunt
termini, atque idcirco uno posito alterum comitari nec esse est. Sed quia hoc
in omnibus non est, idcirco dicimus non esse uniuersale, ut assumpto
posteriore, quod praecedebat probetur. Secundus uero modus est quoties
assumpto posteriore atque consequenti quod antecesserat aufertur, hoc modo, si
dies est, lucet; hic si assumamus non lucere, contrario modo atque in
propositione prolatum est; assumamus dicentes, atqui non lucet, in eo igitur
sequitur non esse diem; quod si diem negemus, id est quod antecedit in
assumptione contrario modo atque positum est in propositione proferamus, non
tollitur quod est connexum, ut si dicamus, atqui non est dies, non mox
sequitur, non lucere, potest enim non esse dies; et tamen lucere. Est igitur
secundi modi forma huiusmodi: Si dies est, lucet; Atqui non
lucet, Non est igitur dies. Primus igitur modus assumit quod
praecessit, ut approbet quod connexam est; non potest uero assumere quod
connexum est, ut approbet quod praecessit. Secundus autem assumit econtrario
quod sequitur, ut quod praecessite uertat; non potest autem econtrario assumere
quod praecessit, ut id quod connexum est auferatur. Tertius modus est,
cum inter partes connexae atque ex duabus affirmationibus copulatae propositionis
negatio interponitur, eaque ipsa negatio denegatur, quae propositio*hyperapophatike*
Graeco sermone appellatur, ut in hac ipsa quam superius proposuimus, si dies
est, lux est; si inter huius propositionis partes negatio interueniat, fiet hoc
modo, si dies est, lux non est; hanc si ulterius denegemus, erit ita, non si dies
est, lux non est: cuius propositionis ista sententia est, quia si dies est,
fieri non potest ut lux non sit. Quae propositio superabnegatiua appellatur,
talesque sunt omnes in quibus negatio proponitur negationi, ut non est dies, et
rursus, Necuon Ausonit Troia gens missa coloni. In hac igitur si priorem
partem, id est diem esse, in assumptione ponamus, consequitur etiam lucem esse
hoc modo: Non si dies est, lux non est; Atqui dies est, Lux
igitur est. Qui modus a superioribus plurimum distat, quod in eo modo qui
sit ab antecedentibus, ponitur antecedens, ut id quod sequitur astruatur. In
modo uero qui sit a consequentibus, perimitur consequens, ut id quod
praecesserat, auferatur. In hoc uero neutrum est, nam neque antecedens ponitur,
ut quod sequitur, confirmetur, nec interimitur subsequens, ut id quod
praecesserat, euertatur; sed ponitur antecedens, ut id quod sequitur,
interimatur. Hic autem propositionis modus partes inter se suas continet
repugnantes, aduersum quippe est ac repugnat, si dies est, non esse lucem. Sed
idcirco rata positio est, quia consequentium repugnantia facta per mediam
negationem alia negatione destruitur, et ad uim affirmationis omnino reuocatur.
Nam quia consequens esse intelligitur, ac uerum, si dies est esse lucem, repugnat
ac falsum est, si dies est, non esse lucem, quae denegata rursus uera est ita,
non si dies est, lux non est, et si consimilis affirmationi, si dies est, lux
est, quia facit affirmationem geminata negatio. Similiter uero fiunt ex
repugnantibus propositionis partibus argumenta, uel si duabus negationibus, uel
si negatione et affirmatione, uel si affirmatione et negatione iungatur.
Quomodo uero fiant ex talibus connexis repugnantes, superius dictum est. Fit
uero ex ea propositione quae duabus iungitur negatiuis ex repugnantibus
argumentum hoc modo: sit propositio, si non est lux, dies non est; fiat
repugnans ita, si non est lux, est dies; huic iungamus negationem ut fiat uera
ita: Non si lux non est, dies est; Atqui lux non est, Dies
igitur non est. Item fit ex negatione atque affirmatione propositio haec:
si dies non est, nox est; huic additur ex posteriore parte negatio, et fit ita:
si dies non est, nox non est; fit repugnans, haec nihilominus abnuatur ut sit
uera, non si dies non est, nox non est, assumimusque, atqui dies non est
concludimus, nox igitur est. Item ex eadem propositione, quae ex negatiua
affirmatiuaque coniungitur et dicit: si dies non est, nox est, si a priori
parte negatio subtrahatur, fiet repugnans, hoc modo: si dies est, nox est; huic
apponatur negatio, ut uera esse possit, hoc modo: non si dies est, nox est,
assumamque, atqui dies est, concluditur, nox igitur non est. At si sit ex
affirmatione et negatione propositio coniuncta, uelut haec: si uigilat non
stertit, demitur posteriori parti negatio, ut fiat ita: si uiglat stertit; sed
haec repugnat. Tota rursus propositio denegatur, ut fiat uera hoc modo: non si
uigilat stertit; assumimus, at qui uigilat; concludamus necesse est, non
stertit igitur. Sed hae quatuor ex repugnantibus conclusiones in tertio
modo consistere intelliguntur, quarum quidem Tullius tres commemorauit, unamque
praecepto docuit, eam quam propositio talis efficit, quae duabus iungitur
affirmatiuis; duas uero exemplo, scilicet eam quae ex tali propositione
nascitur, quae duae copulant negationes, et eam quae ex propositione tali
connexa procreatur, quae ex affirmatione negationeque consistit. Reliquam uero
praeteriit, quod illarum similitudine etiam haec in tertium conclusionis modum
uidebatur incidere. Quartus modus in disiunctione consistit, hoc
modo: Aut dies est, aut nox est; Sed dies est, Nox igitur non
est. Huius haec ratio est, quia disiunctiua enuntiatione proposita, prior
pars eius assumitur affirmando, ut subsequens auferatur; ex ea enim
propositione quae dicit, aut dies est, aut nox est, assumimus, atqui dies est,
scilicet affirmantes esse diem, quam assumptionis affirmationem consequitur non
esse noctem. Quintus modus est, cum in eadem disiunctiua propositione, id
quod primum est, negando assumitur, ut id quod est posterius inferatur, hoc
modo aut dies est, aut nox est, atqui dies non est, per negationem scilicet
facta est assumptio, consequitur esse noctem. Sextus uero modus ac
septimus ex quarti et quinti modi disiunctiua propositione deducuntur, una
negatione uidelicet adiuncta, et disiunctiua propositione detracta, additaque
coniunctiua his propositionibus quae superius in disiunctione sunt positae, hoc
modo: non et dies est et nox est. Dudum igitur in disiunctiua ita fuit, ut aut
dies est, aut nox est. Ex hac igitur propositione sublata, aut coniunctione,
quae erat disiunctiua adlecimus, et quae copulatiua est, praeposuimusque
negationem. Itaque fecimus ex partibus disiunctiuae propositionis copulatis, addita
negatione, propositionem sexti atque septimi modi, quae est, non et dies est et
nox est, in qua is assumatur esse diem, noctem non esse consequitur ita, atqui
dies est, non est igitur nox. Septimus uero modus est, cum prima pars
prorositionis negando assumitur, ut posterior subsequatur, hoc modo: Non
et dies est et nox est; Atqui dies non est, Nox igitur est.
Atque hic modus propositionum in solis his inueniri potest, quorum alterum esse
nec esse est, ut diem uel noctem, aegritudinem uel salutem, et quidquid medium
non habet. Quo autem modo omnium syllogismorum conditionalium ueritas
sese habeat, his diligentissime expliculmus libris quos de hypotheticis
conscripsimus syllogismis. Nunc uero, non quod de his perfectior consideratio
inueniri potest apposuimus sed id quod ad explanandum M. Tullii sententiam
poterat accommodari. Ut igitur cuncta quae diximus breuiter colligantur,
primus modus est quoties in connexa propositione primum ut in propositione
locatur, assumitur, ut consequatur secundum, hoc modo: Si dies est, lux
est, Atqui dies est, Lux igitur est. Secundus modus est quoties
in connexa propositione secundum econtrario assumitur quam in propositione
collocatum est, ut id quod primum est auferatur, hoc modo: Si dies est,
lux est; Atqui non est lux, Non est igitur dies. Tertius
modus estcum connexa propositionis partes ex affirmationibus iunctae, negatione
diuiduntur, totique propositioni negatio rursus adiungitur, assumiturque, quod
prius est, sicut in propositione est enuntiatum, ut econtrario concludatur
secundum quod in propositione prolatum est, hoc modo: Non si dies est, lux
non est; Atqui dies est, Lux igitur est. Hic ergo posito quod
praecedebat, id est esse diem, euersum est quod sequebatur, id est, non esse
lucem; negatione quippe affirmatio omnis euertit, uel cum connexae
propositionis ex negationibus iunctae, secundae parti negatio detrahitur,
totaque propositio denegatur, positaque priore propositionis parte, interimitur
quod subsequebatur, hoc modo: non si lux non est, dies est, atqui lux non est,
dies igitur non est; uel si connexae propositionis ex negatione atque
affirmatione compositae, secundae parti negatio iungatur, eaque insuper
denegetur, ponaturque quod prius est, ut id quod sequitur auferatur, hoc modo:
non si dies non est, nox non est atqui dies non est, nox igitur est; uel si in
eadem propositione, quae ex negatione atque affirmatione copulata est, priori
parti negatio subtrabatur, eaque insuper denegetur, ponaturque quod primum est,
ut id quod sequitur auferatur, hoc modo: non si dies est, nox est, atqui dies
est, nox igitur non est; uel si connexae propositionis ex affirmatione et
negatione copulatae, posteriori parti denegatio dematur, totaque insuper
denegetur, positoque priore, id quod sequitur interimatur, hoc modo: non si
uigilat sterlit, atqui uigilat, non stertit igitur. Atque haec omnia in
tertio modo esse intelliguntur, atque ex repugnantibus fiunt, et semper id quod
antecedit, ponitur, ut id quod sequitur, auferatur. Nam non sicut non
propositione conditionali quia negata repugnantia partium fit uera, prior pars
ponitur, siue affirmatiue, siue negatiue, ita eam reddit assumptio. Sed ut
prior pars fuerit assumpta, reliqua contraria enuntiatione concluditur. Nam si
assumptio fuerit affi rinatiua, erit negatiua conclusio. Si assumptio negatiua,
erit conclusio affirmatiua. Quartus modus est cum in disiunctiua
propositione primum ponitur, ut auferatur secundum hoc modo: Aut dies
est, aut nox est; Atqui dies est, Nox igitur non est. Quintus
modus est quoties in disiunctiua propositione auferatur quod prius est, ut
ponatur secundum, hoc modo: Aut dies est, aut nox est; Non est autem
dies, Nox igitur est. Sextus modus cum his rebus quae in
disiunctionem uenire possunt, id est contrariis uel repugnantibus medictate
carentibus, negatio praeponitur, et copulatiuae coniunctiones adiunguntur,
poniturque quod primum est, ut id quod est subsequens auferatur, hoc modo: Non
et dies est et nox est; Dies autem est, Nox igitur non
est. Septimus modus est cum in eadem propositione aufertur id quod
praecedit, ut ponatur id quod consequitur, hoc modo: Non et dies est et
nox est; Atqui dies non est, Nox igitur est. His igitur ita
praedictis ad Ciceronis uerba ueniamus. CUM TRIPERTITO IGITUR
DISTRIBUATUR LOCUS HIC, IN CONSECUTIONEM ANTECESSIONEM REPUGNANTIAM, REPERIENDI
ARGUMENTI LOCUS SIMPLEX EST, TRACTANDI TRIPLEX. NAM QUID INTEREST, CUM HOC
SUMPSERIS, PECUNIAM NUMERATAM MULIERI DEBERI CUI SIT ARGENTUM OMNE LEGATUM, UTRUM
HOC MODO CONCLUDAS ARGUMENTUM: SI PECUNIA SIGNATA ARGENTUM EST, LEGATA EST
MULIERI. EST AUTEM PECUNIA SIGNATA ARGENTUM. LEGATA IGITUR EST; AN ILLO MODO:
SI NUMERATA PECUNIA NON EST LEGATA, NON EST NUMERATA PECUNIA ARGENTUM. EST
AUTEM NUMERATA PECUNIA ARGENTUM; LEGATA IGITUR EST. AN ILLO MODO: NON ET
LEGATUM ARGENTUM EST ET NON EST LEGATA NUMERATA PECUNIA. LEGATUM AUTEM ARGENTUM
EST; LEGATA IGITUR NUMERATA PECUNIA EST? Eum locum qui ex antecedentibus,
consequentibus et repugnantibus esset, unum recte uideri, eumque in conditione
esse positum, sed trina partiione distribui, superius explicatum est; idque M.
Tullius euidentius notat dicens, intellectum quidem eius considerationemque in
conditione positam unam esse sed per argumentationis tractationem tripartito
diuidi. Cuius rei per primum ac secundum et tertium hypotheticorum
syllogismorum modum, sicut paulo superius diximus, exempla subiecit. Quae
quoniam implicatiora uidentur quam ut primo statim auditu comprehendantur,
uisum paulisper est apertioribus exemplis animum lectoris imbuere, ut in
facilioribus primum exercitata intelligentia, sine magno negotio, qua sunt
difficiliora perpendat. Ab antecedentibus igitur argumentatio fit,
quoties enuntiata propositionis conditione sumitur id quod antecedit, ut id
quod sequitur inferatur, hoc modo: sit enim dubium an Tullius animal sit,
concedaturque eumdem Ciceronem esse hominem, et sit rata propositio haec:
Tullius si homo est, animal est; homo antecedit, animal sequitur; si igitur ex
antecedenti uelim facere argumentationem, assumam id quod praecedit, hoc modo: sed
homo est Cicero, consequitur animal esse Ciceronem; et est hic primus quem
supra diximus modus. Rursus a consequenti argumentatio fit quoties in
conditione proposita id quod consequitur tollit assumptio, ut id quod
praecesserat interimatur, hoc modo: si homo est Cicero, animal est. Antecedit
homo, sequitur animal. Si igitur ex consequenli facere argumentum uelim, dicam,
atqui non est animal, sequitur ne esse hominem quidem, sed id perspicue falsum
est, esse enim hominem constat falsum est igitur animal non esse. Tullius
igitur animal est; et hic dictorum superius secundus est modus. Quod si a
repugnantibus fiat, in tertio scilicet modo digestarum superius conclusionum,
faciemus ita: non si homo est Tullius, animal non est, repugnat enim esse
hominem et animal non esse; hic si assumamus esse hominem, animal quoque esse, recta
ratione concludimus, hoc modo: atqui homo est, animal igitur est, atque hic
quidem modus ex ea propositione connexa conuersus est, quae ex duabus coniuncta
est affirmatiuis. His igitur tribus modis Tullius qui homo esset, animal
quoque monstratus est esse: nunc quidem dum id quod antecedit assumimus, id est
esse hominem; nunc uero dum id quod consequitur, in assumptione denegamus, id
est non esse animal; nunc autem repugnantiam denegantes eorum quae sibi sunt
consequentia, posito quod praecedebat, id quod sequebatur intulimus.
Quibus ita precognitis, nunc M. Tullii tractemus exempla. Cum enim dixisset
loci in consecutione, antecessione et repuguantia positi, reperiendi quidem
argumenti simplicem esse intellectum, tractandi autem triplicem, adiecit: Nam
quid interest, cum tibi sumpseris ad demortstrandum, pecuniam numeratam mulieri
deberi, cui sit argentum omne legatum, utrum id ab antecedentibus, an a
consequentibus, an a repugnantibus probes? Namque eadem sententia in conclusione
colligitur, et argumentationum diuersitas non in re sed in antecedenium et
consequentium et repugnantium tractatu est constituta. Primum igitur
ponatur quod testamento aliquis omne suum argentum mulieri legauerit, quaeraturque
an numerata quoque pecunia mulieri legata sit, concedaturque numeratam etiam
pecuniam argentum appellari, argumentum igitur in primo modo ex antecedentibus
tali ratione contexitur: proponimus enim sic, si pecunia signata numerataque
argentum est, eadem pecunia signata numerataque legata mulieri est; hic igitur
praecedit numeratam atque signatam pecuniam argentum esse, sequitur legatam
esse mulieri; id igitur quod praecessit assumimus dicentes: at est signata ac
numerata pecunia argentum; concludimus numeratam signatamque pecuniam mulieri
esse legatam, eritque totius argumentationis hic textus: Si pecunia signata
numerataque argentum est, legata mulieri est; At est pecunia signata
numerataque argentum, Igitur legata est mulieri. In quo si ad
saepius praemissa plurimisque exemplis superius enodata lectoris animus
reuertatur, hanc argumentationem in primo modo ab antecedentibus esse
compositam non ignorabit. A consequentibus uero hoc modo: Si numerata
pecunia non est egata mulieri cui sit argentum omne legatum, numerata peculia
non est argentum. Hic igitur praecedit numeratam pecuniam non esse legatam, cum
sit argentum omne legatum; sequitur numeratam pecuniam argentum non esse. Si
igitur id quod est posterius auferamus, id est numeratam pecuniam non esse
argentum, dicemus: Atqui est numerata pecunia argentum, affirmatio namque
tollit negationem. Sequitur igitur ut pars praecedens auferatur, ea quae erat
non esse legatam mulieri pecuniam numeratam, cum argentum ei fuisset omne
legatum. Sed cum sit, omnis negatio affirmatione consumitur, dicimusque in
conclusione: Est igitur numerata pecunia mulieri legata, cum ei sit argentum
omne legatum; eritque huiusmodi argumentatio: Si non est mulieri legata pecunia
numerata, cum ei sit argentum omne legatum, non est argentum numerata
pecunia; Atqui est argentum numerata pecunia, Legata est igitur
mulieri numerata pecunia, cum ei fuerit argentum omne legatum. Sed
quod Tullius breuitatis causa praeteriit, id est, illam partem propositionis
quae ait: Cum sit mulieri argentum omne legatum, nos apertioris intelligentiae
causa subiunximus. Nec perturbare lectorem debet, quod cum in
superioribus exemplis in secundo modo per negationem facta fuerit semper
assumptio, et per negationem rursus illata conclusio, nunc per affirmationem et
assumptio et conclusio facta est. Cuius rei euidentissima ratio est. Nam cum in
superioribus exemplis prima propositio ex affirmationibus fuerit constituta,
atque in secundo modo assumptio id quod sequebatur auferret, atque interimeret
id quod praecedebat, necessarium erat duplicem affrmationem geminata negatione
consumi, hoc modo: Si dies est, lux est, utraeque ex affirmatione sunt
constitutae. Ut igitur posterior pars, id est lux est, quae affirmatio est,
interimatur, deneganda est. Dicam igitur: Atqui non est lux, quo fit ut
praecedentem quoque partem, id est, dies est, quam affirmationem esse
manifestum est, negatione tollamus, concludentes, dies igitur non est. At in
hoc Ciceronis exemplo utraque pars primae atque hypotheticae propositionis
negationibus enuntiata est, quae in assumptione uel confusione non ab allis
nisi ab affirmationibus auferuntur, hoc modo. Est enim tale Ciceronis exemplum:
si legata non est mulieri numerata pecunia, non est numerata pecunia argentum,
uides ut sit utraque negatio? Nam et non esse legatam mulieri pecuniam
numeratam, et non esse numeratam pecuniam argentum, utraeque in negatione sunt
positae; quod si auferenda est per assumptionem propositionis consequens pars,
quoniam negatio est, non esse numeratam pecuniam argentum, dicendum est
argentum esse pecuniam numeratam; quod si in conclusione auferenda est pars
praecedens, ea quae negatio est, id est, non esse legatam mulieri pecuniam
numeratam, dicendum est: Legata igitur mulieri numerata pecunia est. Et secundus
quidem modus rite a consequentibus factus huiusmodi est. Illud tamen est
diligentius adnotandum. quod superius M. Tullius, cum locorum omnium breuiter
exempla disponeret, loci huius, qui a consequentibus ducitur, inconueniens
secundo conditionalium syllogismorum modo subiecit exemplum, potiusque primo
conuenit modo quia non a consequentibus conclusionem sed ab antecedentibus
facit. Ita quippe posuit a consequentibus, si mulier cum fuisset nupta cum eo
quicum connubii ius concessum non esset, nuntium remisit, quoniam qui nati sunt
patrem non sequuntur, pro liberis manere nihil oportet. Hic igitur cum
quaeratur an dotis pars apud uirum debeat permanere, id quod praecedit
assumitur, ut fiat rata conclusio hoc modo: Sed mulier cum eo nupta est qui cum
connubii ius non fuit, concluditur: Quoniam igitur qui nati sunt patrem non
sequuntur, pro liberis manere nihil oportet, et ita non est a consequentibus
argumentum, quia non id quod consequebatur assumptum est sed id quod
praecedebat. Erat quippe antecedens, nupta mulier praeter connubii ius;
sequebatur, cum filii patrem non sequebantur, pro eis nihil ex dote retineri.
Sic igitur Tullius pro eo quod est a consequentibus argumentum, ab
antecedentibus potius dedit exemplum. Potest uero ita fieri a
consequentibus argumentum, si id de quo quaeritur prius ponatur, et id quod
assumendum; est posterius, hoc modo: Si quid ex dote pro liberis manere
oportebit, quia patrem liberi sequuntur, cum eo nupta est mulier qui cum
connubii ius esset. Sumo igitur id quod consequitur per negationem, ita: Sed
non est nupta mulier cum eo quicum connubii ius erat, atque ideo qui nati sunt,
patrem non sequuntur. Perimitur ergo in conclusione id quod in propositione
praecesserat. Ita pro liberis igitur manere nihil oportet. Sed de secundo
modo ista sufficiant, nihil namque, ut arbitror, praetermissum est.
Tertius modus a repugnantibus longe perspicuus hoc modo est: Non et legatum
omne argentum est, et non est legata mulieri pecunia enumerata. Hic namque
consequens erat: Si argentum esset omne legatum, pecuniam quoque numeratam
fuisse legatam; ut igitur fieret repugnans, huic consequentiae interposita
negatio est, dictumque est, si argentum omne legatum esset, numeratam pecuniam
non esse legatam; quod quia pugnat et falsum est, ad ueritatem alia negatione
sic reducitur: Non si legatum argentum est, non est legata numerata pecunia, ut
scilicet ei affirmationi conueniat, quae dicit, si legatum argentum est,
legatam esse pecuniam numeratam. Assumimus igitur huic propositioni argentum
omne esse legatum, et consequitur omne in numeratam pecuniam mulieri esse
legatam, ut sit forma argumentationis huiusmodi: Non si legatum argentum
est, non est legata numerata pecunia; Atqui legatum argentum
est, Legata est igitur numerata pecunia. M. uero Tullius
propositionem ita formauit: Non et legatum argentum est, et non est legata
numerata pecunia. Sed nos idcirco casualem coniunctionem apposuimus eam quae
est "si", ut ex quo esset genere talis propositio monstraremus.
Namque id ex consequenti connexo negatione addita fit repugnans. Connexum uero
nulla aeque ut sit coniunctio posset ostendere, quanquam idem efficiat et
copulatiua coniunctio. Nam quae connexa sunt, etiam coniuncta esse
intelliguntur, ex hoc quod paulo ante diximus, quod argumentum ex ea propositione
profectum est, quae duabus affirmationibus copulabatur, et iuncta negatione
insuper denegata est. In omnibus igitur illud est approbatum, pecuniam
numeratam mulieri deberi, cum sit argentum omne legatum. Sed nunc quidem ex
supradictis propositionibus, id quod antecedebat, assumpsimus; nunc uero, id
quod consequebatur; nunc autem, id quod repugnabat. Ac de explanandis Ciceronis
exemplis, ut arbitror, satis est. Illud autem dubitationem mouere potest: nam
si quis minus callidus ad Ciceronis exempla respiciat, eumdem locum
arbitrabitur esse a genere, quem ab antecedentibus, et consequentibus, et
repugnantibus esse diximus; illo falsus errore, quod in utrisque locis eodem
Cicero utitur exemplo, argenti uidelicet et numeratae pecuniae. Sed diligentius
intuenti, in eisdem rebus diuersus argumentationum uidebitar esse tractatus.
Aliud quippe est dicere, cum argenti species sit numerata; pecunia, si genus
legatum sit, et speciem esse legatam, quoniam nunquam species a genere
separatur, aliud est in conditione enumerationem proponere, et eisdem partibus
assumptis argumentationem uaria ratiocinatione formare, ut superius
demonstratum est, cum praesertim huiusmodi ex consequentibus, antecedentibus et
repugnantibus, argumentationes etiam praeter genera ac species fieri possint,
uelut nos superuns indicauimus in die atque luce. Nam neque dies lucis, neque
lux dici species, aut genus est. Sed id tantum in his considerari debet, quia
posito altero, alterum necessaria ratione subsequitur. Differunt igitur loci a
genere uel a specie ab eo loco qui in conditione est constitutus, quoniam illi
ex uniuersalitatis speciei ac partis ratione ducuntur, hic autem in
consequentiae ac repugnantiae ordine tractatur. Post haec igitur Tullius
hypotheticorum syllogismorum modos conclusionesque dinumerat hoc modo: [APPELLANT
AUTEM DIALECTICI EAM CONCLUSIONEM ARGUMENTI, [1141C] IN QUA, CUM PRIMUM
ASSUMPSERIS, CONSEQUITUR ID QUOD ANNEXUM EST PRIMUM CONCLUSIONIS MODUM; CUM ID
QUOD ANNEXUM EST NEGARIS, UT ID QUOQUE CUI FUERIT ANNEXUM NEGANDUM SIT,
SECUNDUS IS APPELLATUR CONCLUDENDI MODUS; CUM AUTEM ALIQUA CONIUNCTA NEGARIS ET
EX EIS UNUM AUT PLURA SUMPSERIS, UT QUOD RELINQUITUR TOLLENDUM SIT, IS TERTIUS
APPELLATUR CONCLUSIONIS MODUS. EX HOC ILLA RHETORUM EX CONTRARIIS
CONCLUSA, QUAE IPSI *ENTHYMEMATA* APPELLANT; NON QUOD OMNIS SENTENTIA PROPRIO
NOMINE *ENTHYMEMA* NON DICATUR, SED, UT HOMERUS PROPTER EXCELLENTIAM COMMUNE
POETARUM NOMEN EFFICIT APUD GRAECOS SUUM, SIC, CUM OMNIS SENTENTIA *ENTHYMEMA*
DICATUR, QUIA VIDETUR EA QUAE EX CONTRARIIS CONFICITUR ACUTISSIMA, SOLA PROPRIE
NOMEN COMMUNE POSSEDIT. EIUS GENERIS [1141D] HAEC SUNT:HOC METUERE, ALTERUM IN
METU NON PONERE! EAM QUAM NIHIL ACCUSAS DAMNAS, BENE QUAM MERITAM ESSE
AUTUMAS MALE MERERE? ID QUOD SCIS PRODEST NIHIL; ID QUOD NESCIS
OBEST? HOC DISSERENDI GENUS ATTINGIT OMNINO VESTRAS QUOQUE IN RESPONDENDO
DISPUTATIONES, SED PHILOSOPHORUM MAGIS, QUIBUS EST CUM ORATORIBUS ILLA EX
REPUGNANTIBUS SENTENTIIS; COMMUNIS CONCLUSIO QUAE A DIALECTICIS TERTIUS MODUS,
A RHETORIBUS *ENTHYMEMA* DICITUR. RELIQUI DIALECTICORUM MODI PLURES SUNT, QUI
EX DISIUNCTIONIBUS CONSTANT: AUT HOC AUT ILLUD; HOC AUTEM; NON IGITUR ILLUD.
ITEMQUE: AUT HOC AUT ILLUD; NON AUTEM HOC; ILLUD IGITUR. QUAE CONCLUSIONES
IDCIRCO RATAE SUNT QUOD IN DISIUNCTIONE PLUS UNO VERUM ESSE NON POTEST. ATQUE
EX EIS CONCLUSIONIBUS [1142A] QUAS SUPRA SCRIPSI PRIOR QUARTUS POSTERIOR
QUINTUS A DIALECTICIS MODUS APPELLATUR. DEINDE ADDUNT CONIUNCTIONUM NEGANTIAM
SIC: NON ET HOC ET ILLUD; HOC AUTEM; NON IGITUR ILLUD. HIC MODUS EST SEXTUS.
SEPTIMUS AUTEM: NON ET HOC ET ILLUD; NON AUTEM HOC; ILLUD IGITUR. EX EIS MODIS
CONCLUSIONES INNUMERABILES NASCUNTUR, IN QUO EST TOTA FERE *DIALEKTIKE*. SED NE
HAE QUIDEM QUAS EXPOSUI AD HANC INSTITUTIONEM NECESSARIAE. Etsi
multipliciter superius cuncta digessimus, nec expositionis indiget repetita
toties disputatio, erit tamen operae pretium, si quam breuissime potero M.
Tullii uerbis mediocris lucem commentationis interseram. Septem igitur modos
hypotheticos enumerans ait, cum in connexis propositionibus id quod est primum
assumitur, ut ostendatur secundum, primum a dialecticis modum uocari, hoc modo:
Si hoc est, illud est; quod dicit hoc, primum est, quod uero ait illud,
secundum. Assumatur ergo quod primum est, atqui hoc est; concluditur igitur id
quod secundum est, illud igitur est, uelut in his rursus exemplis: si homo est,
animal est, assumitur, atqui homo est, concluditur, animal igitur est.
Secundum uero modum ait esse Tullius connexis propositionibus textum, in quo si
secundum negatur, sequitur ut id etiam quod primum est abnuatur hoc modo;
Si hoc est, illud est; Illud autem non est, Igitur ne hoc quidem
est. In exemplis ita: si homo est, animal est; animal autem non est, homo
igitur non est. Sed Tullius ita dixit, cum id quod annexum est negaris, ut id
quoque cui fuerit annexum negandum sit, secundum esse modum, quasi connexa
propositione affirmatiuis partibus iuncta; uniuersaliter autem rectius
diceretur, cum id quod annexum est, id est secundum, perimitur, perimi iliud
quoque cui annexum est, id est primum, ut si affirmatiuum est id quod annexum
est, negatione perimatur; sin uero negatiuum affirmatione; et de eo quoque cui
annexum est, id est primum, idem est ut si in connexa propositione affirmetur,
in conclusione denegetur, secundum nunc propositum Ciceronis exemplum; si uero
negatiua sit propositionis prior pars, in conclusione contraria affirmatione
tollatur. Tertium uero modum ait esse Cicero cum ea quae coniuncta sunt, denegantur, et his alia negatio rursus ad
iungitur, ut quia animal homini coniunctum est, ita dicamus: Non et homo et non
animal est, atque ex his unum ponitur, ut quod relinquitur auferatur, hoc modo:
Ponimus hominem esse, dicentes: Atqui homo est; quod ergo relinquitur, non est
animal, aufertur, atque concluditur, animal igitur est. Fit argumentatio hoc
modo: Non et homo est et non animal; Atqui homo est, Animal
igitur est. Ex his nasci dicit enthymemata ex contrariis conclusa, quibus
plurimum rhetores uti solent; atque haec enthymemata nuncupantur, non quod
eodem nomine omnis inuentio nuncupari non possit (enthymema namque est mentis
conceptio, quod potest omnibus inuentionibus conuenire) sed quia haec inuenta,
quae breuiter ex contrariis colliguntur, maxime acuta sunt, propter
excellentiam speciemque inuentionis commune enthymematis nomen proprium factum
est, ut haec a rhetoribus quasi proprio nomine enthymemata uocentur. Sicut apud
Graecos quoque poeta Homerus tantum dicitur, et quisquis ex Homero aliquid
profert, ita dicere consueuit: Hunc uersum poeta locutus est, et tunc non alius
intelligitur praeter Homerum, non quod caeteri non sint poetae sed quod
excellentia huius commune nomen uertit in proprium. Fiunt uero haec enthymemata
hoc modo, ex contrariis uidelicet texta: Hunc metuere, alterum in metu non
ponere (uelut si de Lentulo et Cethego, caeterisque diceretur) Paucos
ciues interficere metuis, ne respublica intereat nihil laboras.
Connexum quippe est ut quicumque noluit interire paucos ciues, rempublicam
multo magis nolit exstingui. Quibus cum interponitur negatio, fit ex
repugnantibus argumentum. Sed hoc breuiter Tullius enuntiauit, nos uero
argumentum in syllogismum redigamus, a repugnantibus scilicet, ex quo
enthymemata nasci solent, hoc modo: Sit connexum, si quis metuit ciues paucos
interfici, is metuit interire rempublicam, hic interponitur negatio sic: Si
quis metuit ciues paucos interfici, is non metuit interire rempublicam,
iungitur alia negatio: Non si quis metuit paucos ciues interfici, non metuit
interire rempublicam. Quae duae negationes uni affirmationi partes sunt, quae
dicit: Si quis metuit hoc, metuit et illud, cuius quidem assumptio est, at
metuit hoc, conclusio sequitur, metuit igitur et illud, quae tantumdem ualet,
si negando interrogetur ita, hoc metuis, illud non metuis. Sed quia non totus
(ut supra posuimus) in his argumentationibus ponitur syllogismus sed
propositio, cuius assumptio et conclusio notae sunt, idcirco enthymema dicitur,
quasi breuis animi conceptio. Et in caeteris exemplis idem modus est. Sed
haec quidem Ciceronis similitudo non tam ex repuguantibus quam ex contrariis
argumentum intelligitur continere. Metuere quippe et non metuere contraria
sunt, nisi hoc ipsa uerborum prolatio a contrariis argumentum ad repugnantiam
retrahat. Nam quod dicit hunc metuere, alterum in metu non ponere, tale est ut
repugnantia uideantur. Etenim metuere et non metuere contraria sunt. In metu
autem non ponere, et metuere, prolatione ipsa tam contraria quam repugnantia
intelliguntur, licet eadem probetur esse sententia. His adiecit alia
rursus in exempla. "Eam quam nihil accusas, damnas." Huius
enthymematis talis est integer syllogismus: Non si nihil accusas
damnas; Sed nihil accusas, Non damnas igitur. Venit ergo hoc
argumentum ex ea propositione connexa, quae ex duabus componitur negatiuis,
ita: si nihil accusas, non damnas; posteriori uero parti detracta negatio est,
et insuper tota est propositio denegata hoc modo, non si nihil accusas, damnas,
et ex ea factum est argumentum, quod positum in interrogatione efficit
enthymema, hoc modo: quam nihil accusas, damnas, bene quam meritam esse
autumas, male mereri. Huius quoque enthymematis talis est ratio
</collectio>: Non et bene meritam esse autumas, et male
mereri; Atqui bene meritam esse autumas, Non male igitur
mereri. Quod enthymema ex ea propositione connexa perticitur, quae
constat ex affirmatione et negatione, ita: si bene meritam esse autumas, non
male mereri. Cuius ex posteriore parte dempta negatione, totaque propositione
denegata, fiet propositio: non si bene meritam esse autumas, male mereri; quod
in interrogationem deductum tacit enthymema: bene quam meritam esse autumas,
male mereri. Item: "Id quod scis prodest, nihil id quod nescis,
obest?" Hoc quoque enthymema tali nectitur syllogismo: Non id quod
scis prodest, et id quod nescis non obest; At id quod scis
prodest, Obest igitur id quod nescis. Hoc argumentum ex ea
propositione compositum est, quae duabus affirmationibus iuncta acceperit
mediam negationem et insuper denegata est. Quod interrogatum fit enthymema hoc
modo: "Id quod scis prodest, nihil id quod nescis obest?"
Omnium uero superius exemplorum ista sententia est. Nam quam quisquam nihil
accusat, eam damnare recte non potest; et eam quam bene meritam esse autumat,
male mereri de ea turpe est; et si id quod scit quisque in causa proderit,
oberit, si est contrarium id quod nescit. Hunc uero locum communem esse
oratoribus ac philosophis dicit sed apud illos tertium modum, apud rhetores
uero enthymema nuncupari. Reliqui, inquit, modi plures sunt, nam cum tres
superius enumerasset modo adiungens quatuor, plures dixit. Hi sunt in
disiunctionibus constituti hoc modo: Aut hoc aut illud; Hoc
autem, Non igitur illud qui est quartus modus a nobis quoque
suprapositus ita: Aut dies est aut nox est; Dies autem est, Non igitur nox
est et semper quod ait Cicero 'hoc' ad praecedens spectat; quod uero ait
'illud' ad consequens, siue inconnexis propositionibus siue disiunctis.
Item: Aut hoc aut illud Non autem hoc, Illud igitur. Hic
quoque quintus modus est, uelut in his exemplis: Aut dies est aut nox
est; Non autem dies, Nox igitur est. Quarum conclusionum,
necessitatem ex eo dicit euenire, quia quae in disiunctione posita, medium non
uidentur admittere, ut esse aliud praeter eorum alterum possit, atque ideo uno
sublato alterum esse, unoque posito alterum non esse concluditur. Quod si sit
medium, quod preter alterutrum esse possit, nec uera propositio, nec rata est
conclusio, uelut in his, aut album est, aut nigrum, id falsum est. Esse enim
praeter ea rubrum potest. Sed si ponamus esse album uel auferamus, non nec esse
erit non esse uel esse nigrum, quia quod rubrum est, medium esse potest.
Deinde, inquit Tullius, addunt coniunctionum negantiam, in disiunctiuis
scilicet propositionibus, hoc modo: Non et hoc et illud; Hoc
autem, Non igitur illud. Idem est: Non et nox et dies
est; Nox autem est, Non igitur dies est. Hic igitur sextus
modus esse praedictus est. Septimus autem est ex eadem ueniens
propositione, hoc modo: Non et hoc et illud; Non autem
hoc, Illud igitur uelut si ita dicamus: Non et nox et dies
est; Nox non autem est, Dies igitur est. Quae propositiones
nisi in disiunctis medioque carentibus rebus ratam conclusionem habere non
poterunt. Age enim ita dicamas, non et album, et nigrum, ponamusque non esse
album, non consequitur ut sit nigrum, potest enim esse quod medium est.
Huiusmodi igitur per negationem coniunctionum (ut Tullius ait) propositio si
ratas factura est conclusiones in disiunctis rebus, medioque carentibus
accommodetur, alias non erit rata conclusio. Distat uero propositio
tertii modi a propositione sexti et septimi, quod tertii modi propositio ex
coniunctis nascitur. Haec uero sexti et septimi ex disiunctis terminis existit,
ut in superioribus patet exemplis. Ex his igitur, inquit, modis
conclusiones innumerabiles nascuntur, unus enim quilibet eorum modus infinitis
conclusionibus aptari potest, ueluti primus ac secundus in omnibus quae sibi
connexa sunt, quorum nullus est numerus, si quis per. sequi uelit; itemque
repugnantium infinitaest multitudo, in quibus tertius modus est utilis; item
plura disiuncta sunt in quibus quartus, et quintus, et sextus, et septimus
pluriumum ualent. Atque in his, inquit, omnis fere est dialectica sed ad
topicos locos tres primi modi sunt necessarii, qui antecessionem, consecutionem
et repugnantiam tenent. Reliqui uero complendae disputationis magis gratia quam
quod ad hanc institutionem necessarii fuerint uidentur adiecti. PROXIMUS EST
LOCUS RERUM EFFICIENTIUM; QUAE CAUSAE APPELLANTUR; DEINDE RERUM EFFECTARUM AB
EFFICIENTIBUS CAUSIS. HARUM EXEMPLA, UT RELIQUORUM LOCORUM, PAULO ANTE POSUI
EQUIDEM EX IURE CIVILI; SED HAEC PATENT LATIUS. CAUSARUM [ENIM] GENERA
DUO SUNT; UNUM, QUOD VI SUA ID QUOD SUB EAM VIM SUBIECTUM EST CERTE EFFICIT, UT
IGNIS ACCENDIT; ALTERUM, QUOD NATURAM EFFICIENDI NON HABET SED SINE QUO EFFICI
NON POSSIT, UT SI QUIS AES STATUAE CAUSAM VELIT DICERE, QUOD SINE EO NON POSSIT
EFFICI. [15.59] HUIUS GENERIS CAUSARUM, SINE QUO NON EFFICITUR, ALIA SUNT
QUIETA, NIHIL AGENTIA, STOLIDA QUODAM MODO, UT LOCUS TEMPUS MATERIA FERRAMENTA
ET CAETERA GENERIS EIUSDEM; ALIA AUTEM PRAECURSIONEM QUANDAM ADHIBENT AD
EFFICIENDUM ET QUAEDAM AFFERUNT PER SE ADIUVANTIA, ETSI NON NECESSARIA, UT:
AMORI CONGRESSIO CAUSAM ATTULERAT, AMOR FLAGITIO. EX HOC GENERE CAUSARUM EX
AETERNITATE PENDENTIUM FATUM A STOICIS NECTITUR. ATQUE UT EARUM CAUSARUM SINE
QUIBUS EFFICI NON POTEST GENERA DIVISI, SIC ETIAM EFFICIENTIUM DIVIDI POSSUNT.
SUNT ENIM ALIAE CAUSAE QUAE PLANE EFFICIANT NULLA RE ADIUVANTE, ALIAE QUAE
ADIUUARI VELINT, UT: SAPIENTIA EFFICIT SAPIENTIS SOLA PER SE; BEATOS EFFICIAT
NECNE SOLA PER SESE QUAESTIO EST. Post eum locum qui in conditione est
constitutus, consequens erat is qui considerabatur ex causis; post hunc is
enumeratus locus est qui, in effectis causarum positus, argumenta praestabat.
Quorum quidem superius M. Tullius exempla proposuit, nunc rationem latius
tractat. Cum igitur Aristoteles quatuor posuerit causas, quibus unumquodque
conficitur: primam, quae mouendi principium est; secundam, ex qua fit aliquid,
quam materiam uocat; tertiam rationem ac speciem, qua unumquodque formatur;
quartam, finem propter quem quodlibet efficitur, at uero M. Tullius principalem
causarum diuisionem facit in ea quae efficiant aliquid et in ea sine quibus
effici nequeant, ut id quod efficit, ad eam causam referatur in qua motus
principium constitutum est, id uero sine quo non fit aliquid, tum ad
intellectum materiae transferatur, uel eorum quae coniuncta materiae
efficientis adiuuant facultatem, tum ad reliquas causas ducatur, ut paulo
posterius apparebit. Eius igitur causae, quae ui sua id quod subiectum
est efficit, tale proponit exemplum, ut ignis accendit: nam accensionis ipsius
causa ignis est, et id efficere potest, atque illud quod accenditur, mouet
atque permutat. Eam uero causam, sine qua id quod faciendum est fieri nequit,
ab una eius parte designat, ueluti cum dicit aes causam esse statuae, quod sine
eo status noc possit existere: hoc enim, ut per faciendam diuisionem clarescet,
non ea ipsa est causa sine qua non efficitur sed pars eius esse monstrabitur.
Eam uero causam sine qua id quod faciendum est, effici non potest, diuidit hoc
modo: alia enim sunt quieta, nihil agentia sed stolida quodammodo, ac per se,
nisi agendi extra motus accesserit, immobilia: horum exempla, ut locus, tempus,
materia, instrumentum. Omne enim quod fit, locum nec esse est habere subiectum,
in quo nisi aliquid fiat, locus ipse immobilis est, ad aliquid explicandum.
Itemque materia et instrumenta, nisi manu moueantur artificis, ipsa naturaliter
nihil egerint. Tempus quoquo operationi subiectum est, quae si desit, nihil
ipsum propriae naturae ratione perfecerit. Atque haec quidem sunt quae nihil
agentia, tamen causae sunt, si his efficiens operatio superueniet. Alia
uero quae in motu posita praecursionem quamdam ad efficientiam ac
praeparationem uidentur afferre, uelut amoris causa est congressio, quae
praecessit, et amor flagitii. Ex his, inquit, causis Stoica disputatio fatum
connectit. Fatum enim dicunt esse praecedentium causarum subsequentiumque
perplexionem quamdam et catenae more continentiam, hoc modo: Ideo profectus est
peregre, quoniam parentum iracundiam ferre non puterat; idcirco parentum
iracundiam successione non ferebat, quia amicae amore detinebatur, idcirco
amabat, quod saepe fuerat ante congressus; ideo congressus est, quia aliquid ut
congrederetur praecessit. Itaque ordine praecedentium consequentiumque rerum
fatum (ut dicit) a Stoicis nectitur. Item diuidit eam causam quae ui sua
efficit aliquid in eam quae ad etficiendum sibi sufficit, eamque qua extrinsecus
adminiculationis indigeat. Sufficit igitur sibi ad efficiendum causa, ut
sapientia efficere sapientes per se nullo penitus adiuta solet. Sed haec an
sola beatos efficere possit, quaeritur an ei sint extrinsecus addenda quae
iuuent, uel fortunae bona, uel corporis, itaque ea causa quae ui sua efficit
aliquid, aut talis est, ut ei nulla sint extrinsecus adiuncta quaerenda, ueluti
artifici instrumenta quaedam, quibus id quod efficiendum est explicet atque
conformet. Earum uero omnium quae Tullius statuit in alterutra diuisione
causarum, illa quidem quae ui sua explicant ea quorum causae sunt, omnia tam
per se ad efficiendum ualentia, quam quaesiti extrinsecus iuuaminis indigentia,
in ea Aristotelicae diuisionis causa locabuntur, quae est principium motus.
Quanquam de sapientia tali causae non conuenit exemplum sed potius ad rationem
formamque contendit Namque sapientia ratione quadam atque forma efficit
sapientes. Eius uero causae quam Tullius refert, sine qua non fit aliquid,
materia quidem, tempus et locus, id est, ex quo fit, uel in quo fit, quae sunt
efficienti substantia naturae: ut uno intellectu comprehendantur, uel materia
sunt, uel materiae uice supposita; instrumenta uero ei causae sunt quae ad
finem spectant sed non ipsa finis, quia non finis instrumenta respicit sed haec
tinem. Instrumenta namque propter aliquem finem parantur. Sed mirum
uideri potest cur congressionem amoris causam non interea enumerauit, quae
habent efficiendi uim sed inter eas posuerit causas, sine quibus effici non
potest, cum tamen agat aliquid atque moueat. Nam ipsa congressio aliquid
uidetur efficere, similisque est ei caasae quae ipsa quidem habet efficiendi
uim sed sine adminiculo non potest, ueluti cum quaeritur de sapientia an sola
beatum possit efficere. Sed Merobaudes rhetor ita disseruit, earum causarum,
quae efficiendi uim haberent, eam esse facultatem, ut etiamsi adiumentis
extrinsecus indigeant, effectus tamen earum ad id spectet quod efficiendum est.
At in his causis quae sunt praecursoriae, etiamsi eis antecedentibus aliquid
existit, non tamen id quod existere intelligitur praecursio principaliter operatur.
Sed ista quidem ueluti sub quadam occasione praecurrit, illa uero res quae
existeret dicitur, aliis operantibus nascitur, uelut in congressione solum est
fieri. Fortasse enim non propter amorem quisque congreditur sed praecedente
congressione amor existit, quem non congressio principaliter appetebat. Itaque
quoniam praeter congressionem amor existere non potuit, recte intereas causas
congressio locata uidetur sine quibus non efficitur; quoniam uero non efficit
ui sua, quandoquidem nec principaliter ut efficiat, spectat sed tantum ea ante
aliquid existit, recte inter praecursorias, ac non inter efficientes causas est
collocata. QUA RE CUM IN DISPUTATIONEM INCIDERIT CAUSA EFFICIENS ALIQUID
NECESSARIO, SINE DUBITATIONE LICEBIT QUOD EFFICITUR AB EA CAUSA
CONCLUDERE. CUM AUTEM ERIT TALIS CAUSA, UT IN EA NON SIT EFFICIENDI
NECESSITAS, NECESSARIA CONCLUSIO NON SEQUITUR. ATQUE ILLUD QUIDEM GENUS
CAUSARUM QUOD HABET VIM EFFICIENDI NECESSARIAM ERROREM AFFERRE NON FERE SOLET;
HOC AUTEM SINE QUO NON EFFICITUR SAEPE CONTURBAT. NON ENIM, SI SINE PARENTIBUS
FILII ESSE NON POSSUNT, PROPTEREA IN PARENTIBUS CAUSA FUIT GIGNENDI
NECESSARIA. HOC IGITUR SINE QUO NON FIT, AB EO IN QUO CERTE FIT
DILIGENTER EST SEPARANDUM. ILLUD ENIM EST TAMQUAM: UTINAM NE IN
NEMORE PELIO -- NISI ENIM 'ACCIDISSENT ABIEGNAE AD TERRAM TRABES,' ARGO
ILLA FACTA NON ESSET, NEC TAMEN FUIT IN HIS TRABIBUS EFFICIENDI VIS NECESSARIA.
AT CUM IN AIACIS NAVEM CRISPISULCANS IGNEUM FULMEN INIECTUM EST, INFLAMMATUR
NAVIS NECESSARIO. Prima quidem causarum diuisio, secundum Tullium, fuit
in ea quae efficerent aliquid, et ea sine quibus effici non posset, atque illud
quidem quod efficeret, in gemina item partitus est, scilicet in id quod ad
efficiendum aliquid necessariam uim possideret, neque ullius indigeret
extrinsecus adiumenti, etinid quod nisi illis adiuuantibus operari atque
efficere non posset. Ac primum de ea loquitur causa quae efficiendi uim tenet,
eius enim ea pars cui efficiendi necessitas adest, statim secum conclusionem
comitem trahit; dicta enim causa, quae necessario ac quid efficit, effectus
etiam nec esse est consequatur, ueluti si solem adfuisse quis dixerit, lucem
quoque adfuisse monstrabit, aut cum alicui ad esse sapientiam dixerimus,
sapientem nec esse est fateamur. At in his causis efficientibus quae
extrapositis indigent adiumentis, non eadem ratio est; neque enim ut quaeque
huiusmodi causa dicitur, ita nec esse est affectum sequi. Non enim huiusmodi
causa necessario efficit quod uult, nisi extrapositis auxiliis adiuuetur; idem
est etiam in ea causa quae ipsa quidem efficiendi uim non habet sed sine ea non
prouenit effectus. Nam, ut Tullius quoque commemorat, nullam in efficiendis
rebus adhibet necessitatem, atque ideo dicta causa non statim sequitur
effectus. Neque enim si congressus est, mox amauit, nec si fuit aes, statuam
quoque fuisse nec esse est. Ex quo aliarum causarum partitio nascitur.
Aliae namque causae sunt necessariae, aliae minime. Non necessariarum aliae
sunt efficientes, aliae sine quibus non efficitur. Necessariarum uero causarum
conclusio non solet conturbare: ut enim haec causa fuerit dicta, statim in
conclusione sequustur effectus. Non necessariarum uero, quae sunt partim efficientes,
quod nunc tacuit sed paulo ante praedixit, non habent subsequentem effectae rei
conclusionem. Neque enim si liberi sine parentibus non sunt, idcirco in
parentibus efficiendi causa necessaria fuit, cum uideamus in hominum esse
potest ate ne gignant. Ea uero causa quae ipsa quidem non efficit sed sine ipsa
effici non potest, huiusmodi est quemadmodum Enniano uersu declaratur: NISI
ENIM CECIDISSENT ABIEGNAE TRABES AD TERRAM, ARGO ILLA FACTA NON ESSET. Ex
trabibus namque Argo facta est sed nulla inerat trabibus necessitas, ut ex eis
fieret nauis; at uero ea causa quae est efficiens, et quae in se suam continet
necessitatem, talis est. Quale CUM IN AIACIS NAVEM IGNEUM CRISPISULCANS FULMEN
INIECTUM EST, statim enim accendi nec esse est nauim, quia ignis accendend
necessaria causa est. Et sensus quidem est huiusmodi, ordo autem paulo
confusior est, ait enim hoc modo: ATQUE ILLUD QUIDEM GENUS CAUSARUM, QUOD HABET
VIM EFFICIENDI NECESSARIAM, ERROREM AFFERRE NON FERE SOLET; HOC AUTEM SINE QUO
NON EFFICITUR, SAEPE CONTURBAT. Quod cum dixisset, cumque uel utriusque uel
alterius exemplum ponere debuisset, neutro conueniens exemplum similitudine
dedit. Namque cum uel necessariam causam efficientem, uel eam sine qua non
efficitur, proposuisset, eius causae posuit exemplum, quae efficiat quidem
aliquid sed non sine extrapositis adiumentis, hoc modo: NON ENIM SI SINE
PARENTIBUS FILII ESSE NON POSSUNT, PROPTEREA CAUSA FUIT IN PARENTIBUS GIGNENDI
NECESSARIA. Parentes enim et maxime masculini sexus efficiens causa est sed non
sine femina, id est non sine materia quadam, et ea causa sine qua fieri non
possit, cum ipsa uim efficiendi non habeat. Itaque nec causa necessariae
et efficientis posuit exemplum, nec eius sine qua fieri nihil possit sed
efficientis quidem, non tamen necessariae sed uidetur tacuisse in propositione
id cuius posuit exemplum; ita enim apertius dici potuisset: ATQUE ILLUD QUIDEM
GENUS CAUSARUM, QUOD HABET VIM EFFICIENDI NECESSARIAM, ERROREM AFFERRE NON FERE
SOLET; HOC AUTEM quod non habet efficiendi uim necessariam; uel HOC SINE QUO
NON EFFICITUR, SAEPE CONTURBAT. Itaque sic intelligendum est quasi ita sit
dictum; nam de necessaria causa nullum posuit exemplum. Quod uero subiecit,
utrisque causis conuenit posterius enumeratis, tam efficienti non necessariae,
quam eius sine qua nihil efficitur. Parentes namque tam masculini sexus quam
feminini esse dicuntur, quorum quidem masculini sexus ea causa est quae
efficiat sed non necessaria. Feminini uero ea quae non efficiat sed sine qua
effici [non possit. Quae cum ita sint, discernendae sunt causae et
peruidenda necessitas, nec omnis causa praemittenda ut subsequatur effectus sed
ea tantum in qua est efficiendi necessitas, etiamsi extrinsecus adiumenta
defuerint. ATQUE ETIAM EST CAUSARUM DISSIMILITUDO, QUOD ALIAE SUNT, UT
SINE ULLA APPETITIONE ANIMI, SINE VOLUNTATE, SINE OPINIONE SUUM QUASI OPUS
EFFICIANT, VEL UT OMNE INTEREAT QUOD ORTUM SIT; ALIAE AUTEM AUT VOLUNTATE
EFFICIUNT AUT PERTURBATIONE ANIMI AUT HABITU AUT NATURA AUT ARTE AUT CASU:
VOLUNTATE, UT TU, CUM HUNC LIBELLUM LEGIS; PERTURBATIONE, UT SI QUIS EVENTUM
HORUM TEMPORUM TIMEAT; HABITU, UT QUI FACILE ET CITO IRASCITUR; NATURA, UT
VITIUM IN DIES CRESCAT; ARTE, UT BENE PINGAT; CASU, UT PROSPERE NAVIGET. NIHIL
HORUM SINE CAUSA NEC QUIDQUAM OMNINO; SED HUIUSMODI CAUSAE NON NECESSARIAE. Facit
aliam rursus causarum diuisionem ita: CAUSARUM enim ALIAE SUNT quae sua quadam
ui, SINE APPETITIONE, SINE VOLUNTATE, SINE OPINIONE unum atque eumdem in
efficiendis rebus ordinem tenent, ut est interire omnia quae orta sunt. Nam
quia ortum est, idcirco etiam nec esse interire, nec tamen ipse ortus, ut
caetera intereant, uel appetitu aliquo, uel uolutate uel opinione efficit; sed
ita est ab aeterno rerum statu, ut quidquid ortum est, quia accepit esse,
aliquando etiam esse desistat. Item ALIAE sunt causae quae AUT in VOLUNTATE AUT
in PERTURBATIONE ANIMI AUT in HABITU AUT in NATURA AUT in ARTE CASU ue
consistunt. VOLUNTATE, ut si quaerat aliquis cur Trebatius librum legat,
respondebitur, quia legendi uoluntas est. PERTURBATIONE animi, ut si quis
timore pallescat, aut urbem fugiat, bellis ciuilibus conturbatas. HABITU, UT si
idcirco Trebatius FACILE. de iuris ratione responderit, quoniam multo usu
constantem ciuilis scientiae habitum tenet, uel si quis idcirco irascatur facile,
quia eius animus per iracundiae habitum efferatus est. NATURA, ut si quis
idcirco dicatur irasci, quia naturaliter iracundus est, id quod in dies uitium
crescat. ARTE, ut si idcirco bene quisque pingat, quia eius artis peritus esse
proponatur. CASU, ut quae in nostra potestate nullo modo sunt, fiunt tamen,
uelut in certo praesertim tempore, prosperitas nauigandi. Atque horum omnium
nihil a causa uacuum est, nec quidquam est in rebus quod non aliqua causa
perficiat. Omnia enim quae fiunt habent aliquam rationem cur facta sint, quam
si quis reddere possit, causam quoque reddiderit. Id est enim causa propter
quam unumquodque fit. Omnes uero causae quae uel ex uoluntate, uel
perturbatione animi intelliguntur, ad eam causam pertinent quae est mouendi
principium, ut in Aristotelica diximus diuisione. Haec enim ut aliquid
efficiatur, mouendi principium sunt, at in arte, uel habitu, uel natura, illa
causa est, quae in ratione consistit. Species enim ac ratio uniuscuiusque
efficiendae rei in arte et habituet natura posita est. Casus uero exterior
causa, nec inter principales annumeratur secundum Aristotelem. Secundum uero M.
Tullium casus est latens effectae rei causa; quod quale sit paulo posterius
designabitur. OMNIUM AUTEM CAUSARUM IN ALIIS INEST CONSTANTIA, IN ALIIS NON
INEST. IN NATURA ET [IN] ARTE CONSTANTIA EST, IN CAETERIS NULLA. SED TAMEN
EARUM CAUSARUM QUAE NON SUNT CONSTANTES ALIAE SUNT PERSPICUAE, ALIAE LATENT.
PERSPICUAE SUNT QUAE APPETITIONEM ANIMI IUDICIUMQUE TANGUNT; LATENT QUAE
SUBIECTAE SUNT FORTUNAE. CUM ENIM NIHIL SINE CAUSA FIAT, HOC IPSUM EST FORTUNAE
EVENTUS; OBSCURA CAUSA ET LATENTER EFFICITUR. ETIAM EA QUAE FIUNT PARTIM SUNT
IGNORATA PARTIM VOLUNTARIA; IGNORATA, QUAE NECESSITATE EFFECTA SUNT; VOLUNTARIA,
QUAE CONSILIO. QUAE AUTEM FORTUNA, VEL IGNORATA VEL VOLUNTARIA.] NAM
IACERE TELUM VOLUNTATIS EST, FERIRE QUEM NOLUERIS FORTUNAE. EX QUO ARIES
SUBICITUR ILLE IN VESTRIS ACTIONIBUS: SI TELUM MANU FUGIT MAGIS QUAM IECIT.
CADUNT ETIAM IN IGNORATIONEM ATQUE IMPRUDENTIAM PERTURBATIONES ANIMI; QUAE
QUAMQUAM SUNT VOLUNTARIAE -- OBIURGATIONE ENIM ET ADMONITIONE DEICIUNTUR --
TAMEN HABENT TANTUS MOTUS, UT EA QUAE VOLUNTARIA SUNT AUT NECESSARIA INTERDUM
AUT CERTE IGNORATA VIDEANTUR. Rursus causarum diuisionem aliam claram ac
perspicuam prodit. Causarum namque aliae sunt constantes, alia uero
inconstantes. Constantes sunt, quarum non fereuariatur effectus; inconstantes
uero, quae huc atque illuc facilioribus mutationibus transferuntur. Omnia
igitur quae ex natura atque arte descendunt, constantia sunt. Natura quippe
atque ars suum semper opus efficiunt, nisi subiectae materiae obstet incertum.
Nam quod unus idemque artifex ex eadem saepe materia non admodum similes
statuas format, non est haec in arte uarietas sed tum in artificis manu, quae
integritatem artis assequi non potest, tum in ipsa materia, quae efficientiae
atque formae non aequaliter cedit. Idem est in natura, seruat namque
constantiam suam, cum hominem format ex homine. Itaque similia in caeteris ex
similibus gignit: at cum monstrosum aliquid effertur, non naturae uitio sed
materiae potius applicatur, ex qua id quod efficere contendebat, non ita potuit
natura explicare. Sed inter constantes causas habitus quoque debuit
adiungi; nam quod habitu cuiusque lit, id constans, nec mutabile esse solet;
quandoquidem idcirco habitus dicitur, quia diuturnitate habendi in naturae
similitudinem uertitur. Sed forsan Tullius uidit quod natura atque ars, non tam
in effectibus constantes quam in propria ratione esse intelliguntur, in tantum
ut quod ars ac natura delinquit, materiae saepius impPombaur, habitus uero ipse
consuetudine quadam collectus est, qui non ratione aliquid et propria
constantia sed usu facit, atque idcirco forsitan habitum, qui inter caetera
praeter artem et naturam uidebatur esse constantior, a causis constantibus
segregauit. Ea uero quae non sunt constantia, in ea diuidit quae sunt
perspicua, et in ea quae latent. Perspicua sunt quae ab animi quolibet motu uel
appetitione, uel iudicii ratione profecta sunt; latent uero quae fortunae
subiacent. Nam quia non ignorat animus in quam partem declinet, qui tametsi
boni aliquanio habet iudicium, nunquam tamen eius rei quam efficit notionem
relinquit, praetereos qui funditus mente capiuntur, et in quibus iam nulla
uoluntas est, nec esse est nota esse, quae ex uoluntate uel animi iudicio
fiunt. Fortuna uero atque casus semper ignotus est. Cuius quidem natura aeque
incerta est, atque ea quae casibus ipsis fiunt. Sed M. Tullius definit
esse casum, euentum causis latentibus effectum; quae non uidetur integra
definitio: quid enim, si adhuc lateret quibus causis solis defectus lunaeue
contingeret, num idcirco casu atque fortuna fierent, quae constantibus caeli
motibus administratur? An casus quidem putaretur ab his qui defectus
rationem reperire non possent, per se autem consideratus, nullo quidsm modo
esset casus. Sed M. Tullius non quod uideretur esse casus, his qui eius naturam
minime perspexissent sed qui omnino fortunae euentus esset definitionis
rationem monstrabat. Euentum uero latentibus causis Cicero casum esse ita
concludit: Cum omnia certis de causis fiant, quorum ratio cognoscitur, eorum
euentus casu fieri non posse monstrantur sed putantur aliqua fieri casu eorum
quorum causa nulla ratione cognoscitur. Ex quo euenit ut fortunae sit euentus,
qui latentibus causis efficitur. Hic igitur in rebus quidem ipsis constantiam
ponit, casum uero non re sed opinione metitur. Quo fit ut si aliter effectae
remouerit causam, id quod accidit fortunae non sit euentus, idem tamen sit
alteri fortunae euentus, si rationem alter ignoret. Quod uero omnium rerum
causas esse dicit, non determinat quales, atque ideo nec de fortuna ipsa, quorum
euentum causa sit, monstrat. Nec me saeuae hominum mentes arrogantiae
notent, quod uelut affectata auctoritate Tullianis sententiis pugnem, cum
aduersus eas si quid uidebitur non nostra sed ab antiquissimis tractata
compensem. Quod si nostra quoquo diceremus, oporteret tamen eos non personarum
uetustatem sed eorum quae opponuntur considerare rationem, nec odisse potius quae
aduersus magni nominis uiros dicuntur, quam contraria, si possent,
argumentatione reuincere. Nam si eis M. Tullius in definitione rerum nimium
placet, quaenam est inuidia nos quoque Aristotelicam rationem probare?
Quod si intemperanter molestissimi esse pergunt, audiant M. Tullium secundo
Tusculanarum disputationum libro adhortantem potius, atque ad certamen
uocantem, hoc modo: Sed tamen tantum abest ut scribi contra nos nolimus,
ut id etiam maxime optemus. Ipsa enim Graeciae philosophia nunquam in honore tantum
fuisset, nisi doctissimorum contentionibus, dissensionibusque creuisset;
quamobrem hortor omnes, qui facere id possunt, ut eius quoque generis
laudem iam languenti Graeciae eripiant, et transferant in hanc urbem,
sicut reliquas omnes, quae quidem erant expetendae studio atque industria
sua maiores nostri transtulere. Et rursus, nos qui sequimur
probabilia nec, ullraquam quod uerisimile occurrit, progredi possumus, et
refelli sine pertinacia et refellere sine iracundia parati sumus. Quocirca quae
malum ratio est ipsius M. Tullii uoluntatem iudiciumque conuellere, cum eiusdem
contra nos sententiis atque auctoritate nitantur? Sed si cui commentarios
nostros inspicere uacuum fuerit, sciat haec nos ex Aristotelis secundo
Physicorum uolumine aduertisse, quae tametsi altioris philosophiae
disputationes tangunt, non est tamen studiis inuidendum, si rhetoricis quoque
ac dialecticis disputationibus admisceamus, qua sunt profundiora naturae, neque
pigrescere ac dilassari animos dignum est, quos intentiores ac uegetos ipsa
rerum ambiguitas et uariarum cognitio speculationum deberet efficere, eum
praesertim ea librorum natura sit, ut ad legendum studiosos teneat, nullum
cogat ignauum. Dicamus igitur quid euentus sit fortunae, uel quarum sors causa
esse dicatur. Omnia igitur sunt uel immutabiliter ac semper, ut quod sol
oritur; uel saepius, ut quod equus quadrupes nascitur; uel raro, ut si equus
cum quinque uel tribus pedibus procreetur; uel aeque, ut in quibus faciendarum
rerum nihil interest, quo potius uoluntatem uergamus. Atque illud quidem quod
semper fit, nihil habet oppositum, quod ullo modo aliter fiat; id uero quod
saepe contingit habet; aduersum, id quod rarius euenit, neque enim saepius
fieret, ac non semper, nisi diuersum raro quidem sed aliquando contingeret.
Quod igitur ex fortuna tit, in sempiternis non est; quis enim casu solem dicat
oriri? Ne in his quidem quae frequentius fiunt; nullus enim casu equum dixerit
esse quadrupedem. Nee uero in his quae fieri aequaliter solent; nam quae
uoluntaria sunt non uidentur esse fortuita. Restat igitur ut in his
fortunae euentus sit, quae rarius fiunt. Eorum uero quae fiunt, partim finem
aliquem spectant, partim minime. Quis enim finis esse potest, si manum
extendam, si genua complicem, atque aliquid iacens humi tollam, quod nullis
usibus applicem? At uero ea quae aliquem finem spectant partim uoluntatis sunt,
partim naturae. Voluntatis, ut siquis idcirco domo egrediatur, ut uideat
amicum. Naturae, ut quod est in animalibus. Omnia quae ab ea fiunt certam animalis
respiciunt utilitatem, atque ad eius salutem conseruationemque omnium membrorum
momenta sunt constituta. Casum igitur ac fortuitos euentus in his esse ponimus,
quae cum rarius fiant, in his tamen per accidens eueniunt, quae propter aliquid
fiunt. Veluti si quis egressus domo ut amicum uideret, praeteriens
cadente. desuper lapide ictus est: id igitur quod euenit, in rariore
causa ponendum est, accessit uero ei uoluntati, quae certum respiciebat finem.
Ea uero fuit domo egrediendi causa, ut amicum uideret. Rursus, quoniam lapsis
naturaliter grauis est, grauitas uero terram petit, casus quidem lapidis
propter aliquid naturaliter factus est; ad id enim lapidis natura tendebat, ut
in suum locum pondus ueniens conquiesceret. Sed huic naturali intentioni accidit
id quod rarius euenit scilicet ut percuteret caput; quo fit ut sit secundum
Aristotelem fortuna uel casus, causa per accidens rarius eueuientum in his
rebus quae propter aliquid fiunt. Quae cum ita sint, cumque definitio
Aristotelica a Tulliana plurimum discrepet, illud tamen in utrisque constat, id
quod fortunae subiectum est, incertis casibus semper esse suppositum. Nam licet
in his rebus saepe fortuna suos experiatur actus, quae uoluntate sunt, et ad
aliquem finem referuntur, extra tamen accidit quod fortunae est, nec ab eo tine
uenit, quem sibi animus ante perspexerat. Sed cum Cicero diuisisset
causas in eas quae perspicuae sunt, et in eas quae laterent, cumque eas quae
perspicuae sint diceret esse quae appetitionem animi iudiciumque tangerent,
manifestum est eum uel artem, uel uoluntatem, uel perturbationem, uel habitum
in his causis ponere quae perspicu ac sunt; uoluntas quippe atque animi
perturbatioin appetitione ponitur, saepe enim ex perturbatione aliquid
appetimus, artem uero uel habitum in iudicio; arte namque iudicamus, habitus
uero ad utrumque pertinet: nam et uoluntates consuetudo ministrat, et multo usu
peritiaque fit quaedan constantia iudicandi. Casum in non perspicuis
posuit. De natura incertum est utrum inter perspicuas an inter latentes
ipsam coliocet: nam si inter latentes causas, ipsam naturam casum uideretur
putare: cuius opinionis nulla ratio est Quod si inter perspicuas, quaenam
appetitio animi uel iudicium in natura est? Neque enim appetendo aliquid uel
iudicando facit natura, nisi forte quoniam ex ipsa saepe habilitas quaedam
mentis et corpori existit, quae habi lit as ad unamquamque rem adiuuat
uoluntatem; id enim maxime uolumus ad quod habiles sumus. Sed natura inter
perspicuas causas ponitur, quae iudicio quoque coniuncta est, ut si naturaliter
sano quisque iudicio compositus est: appetitioni etiam, ut si naturaliter
aliquid animus petat. His adiungit aliam causarum diuisionem; ait enim
alias causas esse uoluntarias, alias ignoratas: uoluntarias, eas quaecumque ex
iudicio ueniunt animi; ignoratas in quibus necessitas domina est, id est in
quibus aut omnino non uolumus, aut ne si uelimus quidem aliter facere possumus,
ut in natura atque casu. Necessitate enim quadam naturae grauia deorsum
feruntur, necessitate item factum dicimus, ut aliquis ignorans iacto trans
parietem lapide praetereuntem hominem peremerit. Eaque necessitas talis est,
non quod aliter fieri non potuisset, nisi ut lapide iacto percuteret sed quia
uoluntas defuit, et non idcirco, quia uoluit, fecit. Prior uero necessitas iam
talis est, in qua nulla uoluntas est, uel ea quae est, ne id quod cupit
efficiat, ualidiore necessitate constringitur. Nam cum lapsis deorsum propria
grauitate deponitur, nulla uoluntas est sed tantum naturae necessitas; at si
homo deorsum cadat, est quidem non cadendi uoluntas sed ferri quo non uult,
ualidior naturae causa compellit. Voluntatem uero a fortuitis euentihus
uno eodemque aptissimo secreuit exemplo, ueluti si telum manu iaciat, nolensque
feriat praetereuntem. Nam iecisse ex uoluntatis principio nascitur. Idcirco
enim iecit, quia uoluit. Ignorauit uero quod perculeret; neque enim iecisset,
si se percussurum praeuidere potuisset. Neque iecit, quia uoluit percutere. Si
autem non ignorasset, non percutere potuisset. Unde etiam machinamentum quoddam
atque defensio in iuris peritoram responsionibus inuenitur, hoc modo: Si telum
manu fugit magis quam iecit; nam si quis caedis accusetur, optima solet esse
defensio, si alia non suppetit, fugisse manu telum, magis quam uoluerit
iecisse, ut non uoluntati, quae condemnatur in culpis sed ignorantiae factum
tribuatur. De perturbationibus autem animorum paulo confusius iudicium
est. Dubitari enim potest utrum ex uoluntate, an necessitate, an ex ignoratione
uenerit, quod perturbatione peccatur: uidentur enim uoluntaria esse peccata,
quoniam qui perturbatus est appetit aliquid, aut fugit. Sed in hoc perturbatio
eius apparet, quod non fugienda uitat, et non appetenda nimis exoptat. Porro
autem quoniam in perturbationibus sunt confusa iudicia (neque enim aliter id
quod fugiendum est saepe appetunt perturbati, nisi obcaecato obscuratoque
iudicio), quod uero fit animi confusione, saepe tale est ut nollet admisisse
qui fecit, et euenit ut non inter uoluntarias sed inter ignoratas uel
necessarias causas animorum perturbatio sit; in tantum uero qui perturbatus
est, a uera discretione discedit, ut in eam possit recta bene consulentium
admonitione reduci. Quo fit ut animorum perturbatio iure a causis uoluntariis
segregetur, et aut in ignoratione, aut in necessitate ponatur. Nam quod
ait: TAMEN HABENT TANTOS MOTUS, UT EA QUAE VOLUNTARIA SUNT, AUT NECESSARIA
INTERDUM, AUT CERTE IGNORATA VIDEANTUR, ita intelligendum est: quoniam omnis
animi passio iudicium conturbat, confundit uero rectam discretionem, si acrior fuerit
quam ut rationis retinaculis temperetur, et fit quaedam ex perturbationibus
ueluti uiolenta necessitas, ut dubium sit utrum is qui aliquid perturbatus
animo facit, ignorans faciat; ueluti cum casu ignorans delinquit, cum futurum
non prouidet casum, an sciens faciat, uel necessitate ducatur. Quod igitur
dixit: Aut necessaria esse, aut ignorata, et diuisit a neeessariis ignorata,
non pugnat contra id quod superius dixit, ea quae ignorata sunt esse
necessaria. Nam id quod est ignoratum ita quodammodo diuidit: ignoratorum alia
quadam necessitate fiunt, dum aut nulla uoluntas est, aut ea quae est,
necessitati nequit obsistere; alia casu, cum in his faciendis, quae ignorantur,
nulla uoluntas est. Quod igitur dixit, perturbationes animi, aut in
necessariis causis poni, aut in ignoratis, id sine dubio sensisse intelligitur,
perturbationes animi, aut in his esse ignoratis in quibus ea necessitas est, ut
uoluntas obsistere non possit, aut in his in quibus nalla uoluntas est sed sit
delictum caecitate iudicii, uelut in his qui immoderatius amoris cupiditati
deseruiunt: aut enim confuso iudicio ab honestate discedunt, et dum quasi bonum
appetunt, in malum decidunt ignorantes, atque ita in casu quodam atque errore
ponitur amor immodicus; aut nouit quidem quod appetit esse uitandum sed maioris
actu cupiditatis impellitur, atque ita inter ea necessaria ponitur, quae aut
non habent uolunt. Item, aut eam ita infirmam ac debilem, ut nullo modo
ualidioribus passionibus obnitatur. Fore quosdam, Patrici rhetorum
peritissime, non dubitauerim, qui hunc in Topicis altiorem ex philosophia
tractatum uaria obtrectatione reprehendant, quia inter logicam disputationem
physicam interposuit. Hi uero sunt, uel quibus hoc totum philosophari
displiceat, uel qui in argumentorum locis naturales admisceri causas oportuisse
non existiment. Sed contra priores quidem, et a M. Tullio, et ab ipsa
quodammodo humana ratione, quae in motu posita aliquid semper inquirit, atque
amore scientiae neque decipi patitur, neque ullo modo a ueritatis ratione
traduci, saepe multumque responsum est. His uero qui sequestrandas ab
oratorio facultate philosophiae disciplinas putant, respondendum breuiter
existimo. Ratione quidem reperiri quiddam potest sed melius atque facilius
artifex faciet, si in opere construendo artis facultatem atque elegantiam
comparet. In argumentis quoque idem esse manifestum esti ui namque
naturalis ingenii argumenta promuntur. Sed ars facultatem imitata naturae uiam
quamdam rationemque reperit, qua id effici facilius ac melius possit. In
qua re illorum nec esse est reprehendatur error, qui rhetoricam facultatem
naturalem esse dixerunt, quoniam quilibet totius artis alienus et intendere in
alterum crimen, et sese purgare solet, et argumento aliquid prohare contendit.
Reprehendendi etiam sunt qui eamdem facultatem in sola arte positam esse
dixerunt: oportuit enim eos animaduertere, omnem quidem artem sui materiam
effectus ex natura suscipere sed in ea tamen ratione propriam facultatem
elegantiamque experiri. Haec itaque quae artium ratio perficit, ab imperitis
etiam fieri, utcumque contigerit, possunt. Bene autem ac facile nemo efficit
nisi artis ratione fuerit instructus. Cum igitur totius operis haec sit
intentio, ut argumenta quae confusa et ueluti clausa natura suppeditat,
artificialiter uestigentur, quid sit per quod efficere id quod promittit ars
ualeat, sub exempli notatione demonstrat: ut enim facilius argumenta reperiantur,
illa res efficiet, si demonstrentur loci in quibus argumenta sunt collocata. Et
enim ut si quis aliquid quaerat, facilius id inuestigare possit atque inuenire,
si locus ei monstretur ubi sit positum id quod inquirit; ita etiam cum quis
argumentum inuenire conatur, si ei locus ubi argumentum sit positum,
declaretur, facilius argumentum quod quaerit ualebit inuenire. Ita enim
Aristoteles, et ita Tullius appellat eas sedes in quibus argumenta sunt collocata,
id est locos, qui ab Aristotele topica uocati sunt. Sed quoniam de
sedibus argumentorum loquimur, hi cuiusmodi sint paulo altius expediamus; locos
enim non uno modo intelligitur. Ac relinquamus quidem eos locos quos Victorinus
frustra atque inconuenienter interserit, uelut cos qui corpora concludunt, ac
simpliciter intelligamus eos locos argumentorum esse qui intra se continent
argumenta in quibus exponendis posterius quid sit quod dicimus clarius
apparebit. Nunc communiter de tota locorum ratione, deque argumentatione, ac de
quaestionibus et propositionibus earumque terminis uidetur esse
tractandum. Ac primum quoniam locus qui tractatur in Topicis, non
cuiuslibet rei sed tantum locus est argumenti, exposito prius argumenti
intellectu, deinceps de loci ratione tractabimus. Definit igitur Tullius
argumentum hoc modo: Argumentum est ratio quae rei dubiae faciat fidem. Sumpsit
igitur rationem ut genus. Omnes enim iniuriosi sunt qui orationis uirtutem a
sapientiae ratione seiungunt, aliamque esse dicendi artem uelint, aliam intelligendi.
Nam si nihil orationes aliud agimus, nisi interius cogitata uulgamus, quae
malum ratio est, orationis elegantiam a sententiarum grauitate se ponere? Quae
porro sententiarum grauitas esse potest, sine earum rerum de quibus dicendum
est comprehensione? Quae uero alia disciplina naturam proprietatemque rerum
omnium docet, uel quae omnino eorum quae intelligi possunt, scientiam profitetur,
nisi haec tantum ex qua nos pauca praesumpsimus philosophia? quae longe aliter
de his ipsis in proprio sapientium tractatu disputare solet. Neque ita cursim
ut nos, quae sint in illorum libris solet, prolixius disserenda sumpsissem,
quis ferret insolentium hominum temeritatem prouectus suos culpare uolentium
quibus prouectibus proficerent, si studiosi potius quam queruli esse mallent?
Sed his contentionibus neque antiqua caruit aetas, nec nos ita delicati sumus,
ut quibus patientia doctissimorum hominum saepius obstitit, fere nolimus, dum
et pluribus prod esse possumus, et sapientium iudicia consequamur. Ad quem
finem hic noster labor et totius operis summa contendit. Sed haec
hactenus. Nunc susceptae expositionis ordinem persequamur. TOTO
IGITUR LOCO CAUSARUM EXPLICATO, EX EARUM DIFFERENTIA IN MAGNIS QUIDEM CAUSIS
VEL ORATORUM VEL PHILOSOPHORUM MAGNA ARGUMENTORUM SUPPETIT COPIA; IN VESTRIS
AUTEM SI NON UBERIOR, AT FORTASSE SUBTILIOR. PRIVATA ENIM IUDICIA MAXIMARUM
QUIDEM RERUM IN IURIS CONSULTORUM MIHI VIDENTUR ESSE PRUDENTIA. NAM ET ADSUNT
MULTUM ET ADHIBENTUR IN CONSILIA ET PATRONIS DILIGENTIBUS AD EORUM PRUDENTIAM
CONFUGIENTIBUS HASTAS MINISTRANT. IN OMNIBUS IGITUR EIS IUDICIIS, IN
QUIBUS EX FIDE BONA EST ADDITUM, UBI VERO ETIAM UT INTER BONOS BENE AGIER
OPORTET IN PRIMISQUE IN ARBITRIO REI UXORIAE, IN QUO EST QUOD EIUS AEQUIUS
MELIUS, PARATI EIS ESSE DEBENT. ILLI DOLUM MALUM, ILLI FIDEM BONAM, ILLI AEQUUM
BONUM, ILLI QUID SOCIUM SOCIO, QUID EUM QUI NEGOTIA ALIENA CURASSET EI CUIUS EA
NEGOTIA FUISSENT, QUID EUM QUI MANDASSET, EUMVE CUI MANDATUM ESSET, ALTERUM
ALTERI PRAESTARE OPORTERET, QUID VIRUM UXORI, QUID UXOREM VIRO TRADIDERUNT.
LICEBIT IGITUR DILIGENTER ARGUMENTORUM COGNITIS LOCIS NON MODO ORATORIBUS ET
PHILOSOPHIS, SED IURIS ETIAM PERITIS COPIOSE DE CONSULTATIONIBUS SUIS
DISPUTARE. Diuiso causarum loco atque ordine suis partibus distributo, de
locis eiusdem facultate, quibusque uberius, quibusque angustius accomodetur,
uti saepe Ciceroni mos est, disserit. Primum enim inquit, oratoribus ac
philosophis, quorum in disputationibus larga materia est, multa ex causarum
loco argumentorum suppetit copia. Communis quippe oratoribus ac philosophis hic
locus esse prospicitur qui est a causis, his naturas rerum quod est
philosophiae proprium, illis quod oratoriae facultatis est, facta probantibus.
Nam et cum res quaelibet quaeritur, [eius causae a philosophis uestigari
solent. Quibus praemissis, ut superius dictum est, comitatur statim quod
concludendum est, et oratores ad suspicionem mouendam detergendamue factorum
causas requirunt. Hoc quippe stabile in hominum mentibus manet, quod neque
factum, neque res ulla praeter illam omnium principem naturam, sine propriis
causis possit existere. Quo fit ut uberrimus causarum usus sit in rhetorum orationibus,
philosophorumque tractatu. Sed ut hunc libellum M. Tullius scribens,
pleraque omnia Trebatio dedisse uideatur, hunc locum iuris quoque consultis
attributum esse demonstrat, dicens: Etsi non tam uberes opportunitates habeat
hic locus in iurisperitorum responsionibus subtilius certe atque acutius pro
ipsius artis natura tractari potest, scilicet ubertatem quae deerat,
subtilitate quae poterat inesse compensans. Habent enim etiam ipsi proprium
campum in quo eorum uirtus possit enitere. Est enim iurisconsultorum prudentiae
priuatarum quaestio causarum, maximeque in illis negotiis; hic causarum locus
examinabitur, in quibus bonae fidei iudicia nectuntur. In his enim qui fuerit
animus contrahentium quaeri solet, qui deprehendi uix poterit, nisi praecedentibus
causis intelligatur. In his igitur iudiciis in quibus additur ut ex bona fide
iudicent, id est ubi ita iudices dantur, ut non strictas inter litigantes
stipulationes sed bonam fidem quaerant, pluribus causarum usus est: additur ut
inter bonos bene agi oportet, considerantur mores, inquiruntur consilia;
statuitur quibus, quidque de causis, administratum sit. In primisque in iudicio
uxoriae rei uberrimus causarum tractatus est. Est autem iudicium uxoriae
rei, quoties post diuortium de dote contentio est. Dos enim licet matrimonio
constante in bonis uiri sit, est tamen in uxoris iure, ut post diuortium uelut
res uxoria poti potest. Quae quidem dos interdum his conditionibus dari
solebat, ut si inter uirum uxoremque diuortium contigisset, quod melius a quius
esset, apud uirum remaneret, reliquum dotis restitueretur uxori, id est ut quod
ex dote iudicatum fuisset melius aequius esse ut apud uirum maneret, id uir
sibi retineret; quod uero non esset melius aequius apud uirum manere, id uxor
post diuortium reciperet. In quo iudicio non tantum boni natura spectari solet,
uerum etiam comparatio bonorum fit, ut non tam quod aequum sed melius
aequiusque est id sequendum sit. Quae omnia ex precedentibus causis inuestigari
solent. Nam si uiri culpa diuortium factum est, aequiusmelius est nihil apud
uirum manere. Si mulieris est culpa, aequius melius est sextans retineri.
In hisque omnibus peritissimi iurisconsulti esse debent; quo fit ut Trebatium
quoque hortetur ad studium. Multa enim esse dicit, quae eorum operam exspectant.
Illi enim, inquit, dolum malum, illi bonam fidem, illi aequum et bonum, illi
etiam quid socius socio praestare debeat, quid is qui alienum in se gerendum
sponte negotium suscepisset, ei cuius id negotium fuerat, quid is qui
mandauerit ei cui mandauerit suorum negotiorum actiones, quid uir uxori, quid
uxor uiro tradiderit; quae omnia ad posteriora causae sunt, aique exinde
iudicia sumuntur idcirco enim, uerbi gratia, quodlibet illud iudex pronuntiare
debet in uxoris ac uiri causa, quia uirum hoc praestare oportet uxori; idcirco
etiam mandato rei cui mandauerit, obligatus esse iudicandus est, quia inter
mandatorem susceptoremque negotii illud est obseruandum, omnia quoque quae
quisque alteri prmslare debet, ea in tractandis iudicandisque negotiis causae
sunt. Quocirca recte conclusit, diligenter cognitis argumentorum locis, et
oratoribus, et philosophis, et iurisconsultis argumentorum copiam non
defuturam. CONIUNCTUS HUIC CAUSARUM LOCO ILLE LOCUS EST QUI EFFICITUR EX
CAUSIS. UT ENIM CAUSA QUID SIT EFFECTUM INDICAT, SIC QUOD EFFECTUM EST QUAE
FUERIT CAUSA DEMONSTRAT. HIC LOCUS SUPPEDITARE SOLET ORATORIBUS ET POETIS,
SAEPE ETIAM PHILOSOPHIS, SED EIS QUI ORNATE ET COPIOSE LOQUI POSSUNT, MIRABILEM
COPIAM DICENDI, CUM DENUNTIANT QUID EX QUAQUE RE SIT FUTURUM. CAUSARUM ENIM
COGNITIO COGNITIONEM EVENTORUM FACIT. Omnia quae ad se referuntur recte
dicuntur esse cnniuncta; ipsa enim relatio rerum efficit coniunctionem; quod si
causa alicuius causa est, non alterius, nisi sui effectus est causa, itemque si
est aliquis effectus, ex causarum principiis uenit; iure igitur ab effectis
locus, causarum loco debet esse coniunctus. Quoniam uero semper quae ad se
referuntur aequantur, nec esse est, quae ubertas sit causarum, eadem quoque sit
effectorum. Quoniam enim causa praeter effectum esse non potest, cum sit causa
super effectum, nec esse est ut ex euentibus quoque atque effectibus, plurima
suppetant argumenta, siquidem ex causis etiam plurima contrahuntur. Nam sicut
cuiuslibet effectus potest causa tractari, si ex qualibet causa potest, qui sit
euentus ostendi, recteque, ait, causarum cognitio euentuum cognitionem facit;
ut enim in praedicamentis ostenditur, sciri relatiuum aliquod non potest,
praeter reliqui scientiam relatiui. RELIQUUS EST COMPARATIONIS LOCUS,
CUIUS GENUS ET EXEMPLUM SUPRA POSITUM EST UT CAETERORUM; NUNC EXPLICANDA
TRACTATIO EST. COMPARANTUR IGITUR EA QUAE AUT MAIORA AUT MINORA AUT PARIA
DICUNTUR; IN QUIBUS SPECTANTUR HAEC: NUMERUS SPECIES VIS, QUAEDAM ETIAM AD RES
ALIQUAS AFFECTIO. NUMERO SIC COMPARABUNTUR, PLURA BONA UT PAUCIORIBUS
BONIS ANTEPONANTUR, PAUCIORA MALA MALIS PLURIBUS, DIUTURNIORA BONA BREVIORIBUS,
LONGE ET LATE PERVAGATA ANGUSTIS, EX QUIBUS PLURA BONA PROPAGENTUR QUAEQUE
PLURES IMITENTUR ET FACIANT. SPECIE AUTEM COMPARANTUR, UT ANTEPONANTUR QUAE
PROPTER SE EXPETENDA SUNT EIS QUAE PROPTER ALIUD ET UT INNATA ATQUE INSITA
ASSUMPTIS ATQUE ADVENTICIIS, INTEGRA CONTAMINATIS, IUCUNDA MINUS IUCUNDIS,
HONESTA IPSIS ETIAM UTILIBUS, PROCLIVIA LABORIOSIS, NECESSARIA NON NECESSARIIS,
SUA ALIENIS, RARA VULGARIBUS, DESIDERABILIA EIS QUIBUS FACILE CARERE POSSIS,
PERFECTA INCOHATIS, TOTA PARTIBUS, RATIONE UTENTIA RATIONIS EXPERTIBUS,
VOLUNTARIA NECESSARIIS, ANIMATA INANIMIS, NATURALIA NON NATURALIBUS, ARTIFICIOSA
NON ARTIFICIOSIS. [18.70] VIS AUTEM IN COMPARATIONE SIC CERNITUR:
EFFICIENS CAUSA GRAVIOR QUAM NON EFFICIENS; QUAE SE IPSIS CONTENTA SUNT MELIORA
QUAM QUAE EGENT ALIIS; QUAE IN NOSTRA QUAM QUAE IN ALIORUM POTESTATE SUNT;
STABILIA INCERTIS; QUAE ERIPI NON POSSUNT EIS QUAE POSSUNT. AFFECTIO AUTEM AD
RES ALIQUAS EST HUIUS MODI: PRINCIPUM COMMODA MAIORA QUAM RELIQUORUM; ITEMQUE
QUAE IUCUNDIORA, QUAE PLURIBUS PROBATA, QUAE AB OPTIMO QUOQUE LAUDATA. ATQUE UT
HAEC IN COMPARATIONE MELIORA, SIC DETERIORA QUAE EIS SUNT CONTRARIA. PARIUM
AUTEM COMPARATIO NEC ELATIONEM HABET NEC SUMMISSIONEM; EST ENIM AEQUALIS. MULTA
AUTEM SUNT QUAE AEQUALITATE IPSA COMPARANTUR; QUAE ITA FERE CONCLUDUNTUR: SI
CONSILIO IUVARE CIVES ET AUXILIO AEQUA IN LAUDE PONENDUM EST, PARI GLORIA
DEBENT ESSE EI QUI CONSULUNT ET EI QUI DEFENDUNT; AT QUOD PRIMUM, EST; QUOD
SEQUITUR IGITUR... Omnis comparatio duplex est: aut enim aequalia sibimet
comparantur, aut inaequalia; sed in his quae sunt aequalia, semper eadem esse
notatur aequalitas. Inaequalia autem ingemina ueluti membra diuiduntur, minoris
scilicet atque maioris. Nam quod minus est, non per se minus est sed com
paratione maioris. Itemque quod maius est, minoris comparatione dicitur maius.
Quae cum ita sint, diuidit atque ante oculos ponit omnium comparationem modos,
et quod raro in superioribus locis fecit, ipsas maximas propositiones ponit in
comparationibus constitutas, ut si quando loco sit nobis comparationis utendum,
habeamus quoddam, uelut inuentionis exemplar, ad quod quaerentem animum
possimus aduertere. Omnis igitur comparatio, aut in numero constat, aut
in specie aut in ui aut aliqua locata extrinsecus affectione. Nam quodcumque
conferre contendimus, aut numero comparamus, et secundum id aliud maius, aliud
minus esse decernimus; aut speciem ipsam intuentes, eamque alii comparantes de
excellentia iudicium damus; aut aliud consideramus, quid res quaeque possit
efficere, et in quantum eius progredi possit natura, aut ex aliorum quodammodo
continentia, et ex circumstantium affectione rem quam alii conferimus intuemur.
Numero igitur quae comparantur, si ex eodem sint genere, plura paucioribus ante
ponuntur, uelut ei bona omnia sit aequalia, iure quis quamplura bona
paucioribus anteponit. Et est haec maxima propositio: Plura bona
paucioribus anteponuntur et in caeteris quoque eadem ratio perspicitur
maximarum propositionum. At si omnia in contrario sint genere, pluralitati
paucitas praeferenda est, ut pauca mala pluribus malis, mala uero ipsa bonis
nullo modo conferuntur. Quae enim ullo modo compensantur, in eodem esse genere
debent, non in contrario. Nam cum aduersum se contraria e regione locata sunt,
conferri compararique non possunt, quod sibi intelligitur esse inimica. Est
etiam secundum numerum comparatio in temporis quoque ratione. Nam cum
tempuscertis quibusdam spatiis, diuidatur, uelut horae, diei, mensis atque
anni, ex aequalibus bonis ea magis eligenda sunt, quae diuturnius perseuerant,
quod in numero positum esse nullus ignorat. Ipsa enim diuturnitas plurimos esse
uel dies, uel menses, uel annos fatetur, quibus duret id quod eligitur. Longe
etiam peruagala bona, angustis et in unum minimum locum coarctatis numeri
comparatione praecedunt. Nam quae longe lateque peruagata sunt, ea in plurimas
gentes regionesque diffusa sunt; pluralitas uero cuiuslibet rei numerum spectat.
Iam uero ex quo plura propagantur bona, qui non iudicet esse meliora his quorum
est inops bonorum contractiorque fecunditas? Quis etiam bonum quod plures
imitentur ut faciant, caeteris quae ita non sint, excellere non arbitretur,
quae in numero constare quis nesciat, quando in numero pluralibus
constat? Specie uero comparantur, quae per seipsa considerata suae
quodammodo pulchritudinis merito caeteris anteferuntur. Meliora enim sunt quae
propter se, quam quae propter aliud expetuntur, ueluti salus quae propter se
excetitur, medicina propter salutem; quocirca melior est salus quam medicina:
atque haec non ad aliquem numerum, nec postremo ad aliquam quantitatem sed ad
ipsam speciem salutis ac medicinae considerationem referentes, iudicium
promimus. Illa quoque quae innata atque insita sunt, assumptis et aduentitiis
meliora iudicantur, unde innata moribus grauitas longe amplius excellit eam
quae per imitationem affectatur. Integra etiam potius quam contaminata melioris
rei iudicium ferunt. Nam quae integra sunt, suam speciem seruant, quae
contanimata sunt atque ex aliqua parte uitiata, si qua etiam inerat, speciei
pulchritudinem perdiderunt. iocunda minus iocundis meliora, communis omnium
animalium natura diiudicat. Honesta utilibus sapientes anteponunt; procliuia
laboriosis anteferri illa res monstrat, quod nemo ad eumdem finem per
laboriosam atque asperam uiam tendere cupiat, ad quem possit procliui facilique
itinere peruenire. Labor quippe omnis iniocundus est, iocunda est facilitas.
Necessaria etiam non necessariis partim praeferri, partim etiam postponi
debent, quod M. Tullius tacuit: necessaria quippe praeferuntur his non
necessariis, quae non boni ratione sed uoluptatis appetitione sunt constituta,
ueluti luxu regio parata conuiuia nullus sapiens iudicet esse meliora his quae
naturae expleant indigentiam. Quaedam uero sunt quae ipsa specie boni, cum non
necessaria sint, meliora sunt necessariis. Nam uiuere necessarium est, et sine
eo subsistere animal nequit. Philosophari uero non est necessarium, melius tamen
longeque excellentius est philosophum uiuere quam tantum uiuere: illud enim
raro paucisque etiam utentibus ratione concessum; illud pecudibus commune
nobiscum. Sua quoque alienis iure meliora esse dicuntur, ueluti hominibus ratio
potius quam uoluptatis appetitio: illud enim proprium est hominis, illud
alienum; rara quoque uulgaribus meliora sunt. (Atque hic locus approbat id quod
superius dictum est, philosophantem uitam ipsa uita esse meliorem: nam quae
rara sunt, facile id quod uulgare est antecedunt.) Desiderabilia etiam
his quibus facile carere possis, illa res approbat esse meliora, quod maxime
desiderantur, et sine his anxia uita est, ueluti ei quis capillis uisum
conierat. Aegrius enim toleramus carere uisu quam capillis; ita ex hoc meliorem
esse uisum capillis iudicamus, quod his facile, illo aequo animo carere non
possumus. Perfecta etiam imperfectis naturaliter excellunt, illa enim suam
formam adepta sunt, illa minime. Tota etiam partibus eodem modo excellentiora
esse arbitramur: nam quod totum est, habet naturae propriam formam. Quod uero
pars est et ad totius nititur perfectionem, nondum suae pulchritudinis speciem
cepit, nisi ad totius integritatem referatur. Iam uero ratione utentia rationis
expertibus nullus dubitat esse meliora. Voluntaria quoque necessariis iure
anteponuntur, namque uoluntaria libera sunt, quae necessaria quodam nos ueluti
dominio necessitatis astringunt, atque ideo meliora esse uoluntaria necessariis
existimamus; quanquam in hoc etiam illud intelligi possit, quod a nobis
superius dictum est, non necessaria saepe necessariis anteponi, quandoquidem ea
quae uoluntaria sunt non fuerint necessaria; uoluntaria uero meliora sunt
necessariis. Non necessaria igitur saepe necessariis excellunt; animata quoque
inanimatis. ipsius animae negatione considerata, anteponenda esse ratio
persuadet. Naturalia etiam non naturalibus, et artificiosa inartificiosis.
Optimusque hic gradus est, ut naturam arti, artem praeferas inertiae, ars
quippe imitatur naturam. Quo fit ut id quod in se retinet pulchri, ex natura
ueniat, cuius inmitari speciem cupit. Longe uero postrema sunt quae cum
artificio carent, non a specie solum naturae, uerum etiam ab imitatione
discedunt, atque haec quidem de specie in comparationibus considerantur. Vis
autem in eo consistit in quo consideratur quid unaquaeque res possit efficere,
nam quod quaeque res potest, ea uis eius rectissime dicitur. Efficiens igitur
causa grauiorem uim habet quam ea quae nihil efficit: uelut artifex melior quam
materia, illa quippe stolida est atque immota. Nec aliquid efficiens, nisi
formam ab artifice, id est ab efficiente causa, susceperit. Item quae se ipsis
contenta sunt, meliora esse his uidentur quae egent aliis: ueluti omnium Deus
optimus est, quia nullo indiget, et ipso cuncta sunt indiga. Item quae in
nostra sunt potestate magis eligenda sunt quam qua in aliena manu posita facile
labuntur. Quo fit ut sit uirtus meliorquam diuitiae; nam uirtus est in nostra
potestate, diuitiarum fortuna domina est. Iam uero stabilia incertis, quae
eripi non possunt, his quae possunt, si tamen bona sunt, quis non intelligat
esse meliora? Quorum tamen locorum pars contraria contrarium teneet:
inspectis quippe his quae meliora sunt, si horum aduersa uideamus, deteriora
sunt. Restat in affectione posita comparatio quae ita tractatur, ut non
per semetipsam res quae alii confertur sed ex alterius cuiuslibet
consideratione pensetur, uelut in tribus quibusdam rebus si duae ad seinuicem
comparentur, eo quod ad tertiam plus minueue iungantur. Sint enim duo quaedam
humanis rebus accommodata, quarum una principibus atque etiam ipsi reipublicae
accommodatior: hic igitur iudicabimus eam rem esse meliorem quae melioribus
prodest, id est ut reipublicae uel principibus non considerantes ut sese res
habeat sed quantum reipublicae uel principibus adiuncta sit. Haec igitur res ex
affectione est comparata, meliusque iudicatur id quod principibus commodum est,
quam id quod aliquibus priuatis, quoniam principes reliquorum etiam continent
statum. Eodem modo sunt quae sequuntur, ut quae iucundiora sunt pluribus, quae
clariora inter multos, quae pluribus comprobata sunt, meliora ducantur. Nam
etiamsi minus ipsa huius naturae sint, affectione tamen, ut dictum est, eorum
quibus uel iucundiora, uel inter quos clariora sunt, aut a quibus probantur,
meliora existimanda sunt. Sed quanquam id quod a pluribus bonum ducitur, superius
in ea comparationis parte posuerit in qua fiebat secundum numerum comparatio,
nihil tamen impedit eumdem locum secundum aliam atque aliam considerationem
diuersis generibus subdi: uelut ala auis cum substantia sit, eadem tamen ad
aliquid esse intelligitur, si ad alatum consideretur. Illa quoque ex affectione
uidentur esse meliora quae ab eo laudata sunt, contra quem dialectica oratione
uel rhetorica facultate disseritur. Nam ut reuincere ad uersarium possis, sat
est si eum tibi consensisse monstraueris, atque id aliquando uelut optimum
praedicasse, quod tu melius re proposita monstrare contendas. Dictis
igitur omnibus meliorum locis, his oppositi quae deteriora sunt
continebunt. Parium uero nulla discretio est. Neque enim quod par est,
aut intentionem sumere, aut remissionem potest. Quibus autem modis inter se
maiora minoraque penduntur, iisdem inter se paria conferuntur. Nam quae uel
numero, uel specie, uel ui, uel affectione fuerint, aeque paria esse dicuntur.
Commune autem cunctorum exemplum est, quod Cicero in qualitate constituit, quae
qualitas in cunctis paribus aequa est sed uel numero, uel specie, uel ui, uel
affectione paria sunt. Nam in eorum comparatione quae maiora uel minora sunt, una
quaedam qualitas est sed horum accessione uariantur. Nam quibus in eadem
qualitate maior numerus, pulchrior species, efficacior uis, ad pretiosiora
coniunctior affectio, ea meliora esse existimabuntur. Quae si aequa fuerint, in
eadem qualitate paria sunt. Exemplum uero quod proposuit, ad blandiendum
Trebatii animum ualet, cum propriam, id est oratoriam, facultatem cum
iurisperitorum laude coniungit hoc modo: Si consilio iuuare ciues, quod
iurisperitorum, est, et auxilio, quod oratorum est, aequa in laude ponendum
est, pari gloria debent esse que consulunt, id est periti iuris, et hi qui
defendunt, id est oratores. Atqui primum est, id est consilio iuuare ciues, et
auxilio, aequa in laude ponendum est. Quod sequitur igitur, id est -- supple:
pari gloria debent, esse qui consulunt, id est periti iuris, et hi qui
defendunt, id est oratores -- infertur. Ea uero conclusio est per quam dicimus:
hi igitur qui consulunt, et hi qui defendunt, pari gloria esse debent. Hoc
autem breuiter dialecticorum more protulit, qui sit enuntiaut: si dies est,
lucet. At quod primum est, id autem tantumdem est ac si dicatur, atqui dies
est. In propositione enim quae est, si dies est, lux est, prior est propositio,
dies est. Concludunt quod sequitur, igitur, id est, esse lucem. Id enim in
prima parte propositionis, quae erat, si dies est, sequebatur. Igitur hic
quoque Cicero sic protulit: Atqui primum est, id est, consilio et auxilio
iuuare ciues aequa in laude esse ponendum, id enim erat primum in ea propositione
quae dicebat si consilio et auxilio ciues iuuare aequa in laude poneretur, pari
gloria esse oratores iurisque consultos. Quod sequitur igitur, id est, pari
gloria debent esse qui consulunt ac defendunt; id enim erat consequens in ea
propositione quae statuebat: Si consilio et auxilio ciues iuuare par esset,
pares esse qui consulunt ac deltendunt. PERFECTA EST OMNIS ARGUMENTORUM
INUENIENDORUM PRAECEPTIO, UT, CUM PROFECTUS SIS A DEFINITIONE, A PARTITIONE, A
NOTATIONE, A CONIUGATIS, A GENERE, A FORMIS, A SIMILITUDINE, A DIFFERENTIA, A
CONTRARIIS, AB ADIUNCTIS, A CONSEQUENTIBUS, AB ANTECEDENTIBUS, A REPUGNANTIBUS,
A CAUSIS, AB EFFECTIS, A COMPARATIONE MAIORUM MINORUM PARIUM, NULLA PRAETEREA
SEDES ARGUMENTI QUAERENDA SIT. Tametsi ex his quae dicta sunt intelligatur
nullum argumenti locum esse praeteritum, breuiter tamen Ciceronis conclusionem,
qua se nihil omisisse commemorat, ad ampliorem doctrinae fidem approbandam
reor, in his enim nihil omnino praetermittitur quae certa ratione tractantur.
Nulla uero certior ratio diuisione; quod enim quisque partitur a communibus in
particularia deducens, cum rectum iter insistat, labi atque in errorem duci noo
potest. Locorum igitur omnium prima diuisio fuit in ea quae in ipsis haererent,
et ea quae assumerentur extrinsecus. Cuius diuisionis nihil medium reperiri
potest: aut enim in ipso est aliquid de quo quaeritur, aut extrinsecus nec esse
est assumatur. Videamus igitur nunc quemadmodum disputatio per nihil omittentem
diuisionem feratur. Eorum igitur locorum, qui in ipsis sunt de quibus
agitur, nunc ex toto, nunc ex partibus, nunc ex uocabulo, nunc ex adectis
sumitur argumentum. In his igitur quoniam nihil relictum sit perspicue apparet;
in eo enim quod coniunctum est, duplex discretio est: una ex eo ipso quod
formatum est atque compositum, quod totum est, in quo etiam definitiones
adhibentur: alia in eius partibus inspiciendis, ex quibus compositi forma
coniuncta est. Sed quoniam natura hominum id quod intelligit, uoce saepius
prodit, nec esse est ut nomen quoque quod ad intellectus declarationem
adhibetur, ostendat aliquam rei quam significat proprietatem, intellectus
quippe, qualitatem rei quam intelligit, significat. Quocirca nomen quoque
intellectus qualitatem designat. Iure igitur dictum est proprietatem quamdam
rei uocabulo significari, atque ita ex eo trahi argumentum potest, quod uocatur
a nota. (Horum uero locorum alias partitiones dedit, quas paulo post breuius
colligemus.) Affecta uero, quae, ut superius dictum est, in relatione
consistunt, ipsa etiam rite diuisa sunt. Nam quae referuntur ad aliquid, aut
substantialia sunt, aut accidentia. Substantialia, ut coniugata, nam iusto, in
eo quod iustus est, iustitia substantiam facit. Nec id dico, quod homini esse
ex iustitia conslituatur sed iusto, qui iustitia discedente corrumpitur.
Similis et de eo quod est iuste aduerbio, ratio est. Est etiam substantiale,
genus, species, differentia, causa, effectus. Accidentia, ut contrarium,
simile, adiunctum, paria, maiora, minora. Consequentia uero atque repugnantia,
quoniam, ut superius dictum est, in conditione posita sunt, nunc substantialia
reperiuntur, nunc uero in accidentibus considerantur. Substantialia, ut cum
genus antecedit speciem; accidentia, ut cum nigredo praecedentem sequitur
coruum, quanquam etiam in causis aliquae accidentes esse possint. De quarum
omnium proprietatibus Tullius supra disseruit. Atque ut breuissima
descriptione tota locorum diuisio colligatur, erit hoc modo: Omne argumentum
aut ex his locis ducitur qui in ipso de quo quaeritur inhaerent, aut ex his
quae extrinsecus assumuntur. Is uero locus qui in ipsis de quibus ambigitus
positus est, diuiditur in eum locum qui est ex toto, et in eum qui est ex
partibus, et in eum qui est ex nota, et in eum qui est ab affectis. Is autem
qui a toto est, a definitione locus uocatur. Definitionum uero aliae sunt
propriae, aliae non propriae. Non propriarum uero aliae sunt quae singulis
nominibus denotantur, aliae quae oratione panduntur. Earum uero quae singulis
nominibus fiunt, aliae sunt in quibus pro nomine redditur nomen, quae
dicununtur *kat' antilexin*, aliae quae exempli gratia nomen subiiciunt, quae
dicuntur *hos typos*. Earum uero quae oratione declarantur, aliae fiunt a
partitione, aliae a diuisione, aliae a differentiis praeter genus, quae
*ennoematike* dicitur; aliae quae ex pluribus qualitatibus fiunt, etiam
singulis totum id significantibus, quod omnis qualitatum collectio declarat,
quae uocantur *poiotes*; aliae quae ex accidentibus, non singulis sed cunctis
unum aliquid efficientibus constant; aliae quae ad differentiani dantur; aliae
per translationem, aliae quae ex priuatione contrarii, aliae quae propriis
nominibus aptantur quae etiam *hypotyposeis* dicuntur; aliae per indigentiam
pleni, aliae per proportionem, aliae per relationem, aliae per causam. Item
alia definitionis diuisio secundum Tullium principalis, quod aliae corporalium
rerum sint, aliae incorporalium, et definitionis quidem locus ita diuisus
est. A partibus autem locus diuiditur in partitionem et diuisionem. A nota
uero locus simplex est. Ab affectis autem, alii sunt a coniugatis, aliia
genere, alii a forma, alii a simili, alii a differentia, alii a contrariis,
alii ab adiunctis, alii a consequentibus, antecedentibus et repugnantibus, alii
a causa, alii ab effectis, alii a comparatione parium, maiorum uel
minorum. Genus uero diuiditur in suprema genera, et in ea quae etiam
species esse possunt. Species quoque diuiditur in ultimas species et in ea quae
etiam genera esse possunt. Similium quoque alia in singulis considerantur, et
uocantur exempla, alia in pluribus, et appellatur inductio; alia in coniunctis,
et uocatur proportio. Item differentiarum aliae sunt substantiales, aliae, etsi
non substantiales, inseparabiles tamen, aliae neque substantiales neque
inseparabiles. Contrariorum alia dicuntur aduersa, alia priuantia, alia
negantia, alia relatiua. Adiunctorum uero alia sunt quae ante rem existunt,
alia quae cum re, alia uero post rem.
Locus uero conditionalis diuiditur in antecedens, consequens et
repugnans. Causarum quoque multiplex locus est: aliae namque sunt quae ui
sua efficiunt, aliae sine quibus effici non potest. Earum uero quae ui sua
efficiunt, aliae sunt necessariae nihilo indigentes ut efficiant, aliae uero
indigentes ut efficiant, alis? uero indigentes et non necessariae. Earum
uero sine quibus non efficitur, aliae sunt mobiles, aliae immobiles. Item
causarum aliae sunt non spontaneae, aliae ex uoluntate, alia, ex perturbatione,
aliae ex habitu, alia ex natura, aliae ex arte, aliae ex casu. Rursus causarum
aliae sunt constantes, aliae inconstantes. Amplius, causarum aliae sunt
uoluntariae, aliae ignoratae. Ignoratarum pars in casu, pars in necessitate est
constituta. Necessariarum pars in ui, pars in scientia posita est.
Effecta uero in tantum diuidi possunt, in quantum ad superius dictas causas
referuntur. Locus uero a comparatione minorum, parium atque maiorum,
diuiditur innumerum, speciem, uim, ad res alias affectionem. Quae cum ita
sint, cumque nihil sit in diuisione praetermissum, recte M. Tullius
partitione in conclusit, dicens nullam argumenti sedem esse praeteritam. Restat
igitur locus qui extrinsecus sumitur, quem, quoniam nihil iurisconsultis est
utilis, non Trebatii causa sed ne quid perfecto operi deesse uideatur,
adiungit. SED QUONIAM ITA A PRINCIPIO DIVISIMUS, UT ALIOS LOCOS DICEREMUS
IN EO IPSO DE QUO AMBIGITUR HAERERE, DE QUIBUS SATIS EST DICTUM, ALIOS ASSUMI
EXTRINSECUS, DE EIS PAUCA DICAMUS, ETSI EA NIHIL OMNINO AD VESTRAS
DISPUTATIONES PERTINENT; SED TAMEN TOTAM REM EFFICIAMUS, QUANDOQUIDEM COEPIMUS.
NEQUE ENIM TU IS ES QUEM NIHIL NISI IUS CIVILE DELECTET, ET QUONIAM HAEC ITA AD
TE SCRIBUNTUR, UT ETIAM IN ALIORUM MANUS SINT VENTURA, DETUR OPERA, UT QUAM
PLURIMUM EIS QUOS RECTA STUDIA DELECTANT PRODESSE POSSIMUS. Ne locus nihil
iuris perito profuturus negligentiam sui faceret, Trebatium ut in prooemio
magnus orator reddit attentum; ait enim ita sese diuisisse in principio, ut;
alios locos in ipsis haerere diceret, de quibus ageretur, alios extrinsecus
assumi, et eum de superioribus locis idonee disputatum sit, intractatam
reliquam partem non oportere praeteriri. Neque enim hunc esse Trebatium, qui
sua arte contentus, caeterorum studia negligat, uerum diligentia atque ingenio
plurimum ualens, cuncta ad se pertinere ducat, quae liberalibus studiis
annumerentur: simul dandam esse operam dicit, queniam beneuolo animo Ciceronis
opus Trebatius esset editurus, ut cum in multorum manus uenisset, prodesse iis
integrum posset, qui rectis studiis tenerentur, hoc quoque Trebatio beneficii
nomine concedens, quod ad eum scripta, et per eum edita plurimis profutura
conscriberet. HAEC ERGO ARGUMENTATIO, QUAE DICITUR ARTIS EXPERS, IN TESTIMONIO
POSITA EST. TESTIMONIUM AUTEM NUNC DICIMUS OMNE QUOD AB ALIQUA RE EXTERNA
SUMITUR AD FACIENDAM FIDEM... Extrinsecus positum argumenti locum, quem
M. Tullius uocat artis expertem, in testimonio positum esse pronuntiat.
Dubitari autem potest quid hic locus a superioribus differat, quos in affectis
locauit. Nam uti affecta semper in relatione sunt constituta, ita etiam
testimonia ad ea quorum sunt testimonia referuntur. Omne enim testimonium
testatae rei testimonium est. Quocirca, cur aut ea quae affecta dudum uocata
sunt, non extrinsecus collocentur, aut ea quae nunc uocantur extrinsecus non
inter affecta ponantur, quaeri potest, cum praesertim ea quae adiuncta esse
negotio superius diximus, ueluti quoddam testimonium saepe rebus afferant, cum
ex eorum quae praecesserunt, uel consecuta sunt signis, quod gestum si
considerari solet. Quorum omnium communis illa solutio est, quod ex affectis
argumenta quae fiunt, ab oratore inueniuntur, eiusque opera atque industria
nascuntur. Ea uero quae extrinsecus posita sunt, rei tantum testimonium
prrebent, non enim inueniantur ab oratore sed his orator utitur positis atque
ante constitutis. Namque a genere, uel a specie, uel a caeteris affectis
argumenta sunt, ab ipso quodammodo oratore reperiuntur. Testimonia uero sibi
ipse non efficit sed ad causam utitur ante praeparatis. Quo fit ut argumenta ex
affectis in eausa statim atque ex tempore nascantur; ea uero quae in
testimoniis posita sunt, ante rem praecurrentia confirmando usum negotio
posterius praestent, et in adiunctis ab oratore coniectura colligitur, et
auditorum mentibus intimatur. Testimonia uero non in coniecturio, aut in
suspicionibus sed in rei gestae narratione consistunt. Ostendit autem
uehementius quid esset testimonium, cum dicit, id a se testimonium uocari quod
ab aliqua externa re sumitur. Omnia quippe affecta, ab eis ad quae affecta
sunt, non uidentur externa. Testis uero cum re testificata nulla cognatione
coniungitur, nisi sola notitia, quae nihil ad rem quae gesta est attinet, cum
si gestum negotium nullus agnosceret, nihilominus tamen gesta res esset; sed id
poterit etiam ad similitudinem duci, quid enim minus esset aliquid, si ei
simile nihil reperiretur? Sed quod simile est, ei cui simile est eadem
qualitate coniungitur, quae qualitas utrumque conformat. Scientia uero quamuis
efficiat testem, nulla tamen qualitate coniungitur cum re cuius illa notitia est.
Neque enim scientis notitia, rei gestae qualitas dici potest, cum si notitia,
qualitas rei posset intelligi, pereuntibus his qui rem norunt, res uel
interiret, uel mutaretur, quod neutrum euenire rec esse est, quandoquidem,
absumptis scientibus, res ignorata poterit permanere. PERSONA AUTEM NON
QUALISCUMQUE EST TESTIMONI PONDUS HABET; AD FIDEM ENIM FACIENDAM AUCTORITAS
QUAERITUR; SED AUCTORITATEM AUT NATURA AUT TEMPUS AFFERT. NATURAE AUCTORITAS IN
VIRTUTE INEST MAXIMA; IN TEMPORE AUTEM MULTA SUNT QUAE AFFERANT AUCTORITATEM:
INGENIUM OPES AETAS [FORTUNA] ARS USUS NECESSITAS, CONCURSIO ETIAM NON NUMQUAM
RERUM FORTUITARUM. NAM ET INGENIOSOS ET OPULENTOS ET AETATIS SPATIO PROBATOS
DIGNOS QUIBUS CREDATUR PUTANT; NON RECTE FORTASSE, SED VULGI [1168A] OPINIO MUTARI
VIX POTEST AD EAMQUE OMNIA DIRIGUNT ET QUI IUDICANT ET QUI EXISTIMANT. QUI ENIM
REBUS HIS QUAS DIXI EXCELLUNT, IPSA VIRTUTE VIDENTUR EXCELLERE. SED
RELIQUIS QUOQUE REBUS QUAS MODO ENUMERAVI QUAMQUAM IN HIS NULLA SPECIES
VIRTUTIS EST, TAMEN INTERDUM CONFIRMATUR FIDES, SI AUT ARS QUAEDAM ADHIBETUR --
MAGNA EST ENIM VIS AD PERSUADENDUM SCIENTIAE -- AUT USUS; PLERUMQUE ENIM
CREDITUR EIS QUI EXPERTI SUNT. FACIT ETIAM NECESSITAS FIDEM, QUAE TUM A
CORPORIBUS TUM AB ANIMIS NASCITUR. NAM ET VERBERIBUS TORMENTIS IGNI FATIGATI
QUAE DICUNT EA VIDETUR VERITAS IPSA DICERE, ET QUAE PERTURBATIONIBUS ANIMI,
DOLORE CUPIDITATE IRACUNDIA METU, QUIA NECESSITATIS VIM HABENT, AFFERUNT
AUCTORITATEM ET FIDEM. CUIUS GENERIS ETIAM ILLA SUNT EX QUIBUS VERUM NON
NUMQUAM INVENITUR, PUERITIA SOMNUS IMPRUDENTIA VINOLENTIA INSANIA. NAM ET PARVI
SAEPE INDICAVERUNT ALIQUID, QUO ID PERTINERET IGNARI, ET PER SOMNUM VINUM
INSANIAM MULTA SAEPE PATEFACTA SUNT. MULTI ETIAM IN RES ODIOSAS IMPRUDENTER
INCIDERUNT, UT STAIENO NUPER ACCIDIT, QUI EA LOCUTUS EST BONIS UIRIS
SUBAUSCULTANTIBUS PARIETE INTERPOSITO, QUIBUS PATEFACTIS IN IUDICIUMQUE
PROLATIS ILLE REI CAPITALIS IURE DAMNATUS EST. [HUIC SIMILE QUIDDAM DE
LACEDAEMONIO PAUSANIA ACCEPIMUS.] [20.76] CONCURSIO AUTEM FORTUITORUM
TALIS EST, UT SI INTERVENTUM EST CASU, CUM AUT AGERETUR ALIQUID QUOD
PROFERENDUM NON ESSET, AUT DICERETUR. IN HOC GENERE ETIAM ILLA EST IN PALAMEDEM
CONIECTA SUSPICIPNUM PRODITIONIS MULTITUDO; QUOD GENUS REFUTARE INTERDUM
VERITAS VIX POTEST. Quoniam locum artis expertem in testimonio positum esse
dixit, in testimoniis uero personarum fidem suam interponentium auctoritas
quaeritur, necessarium fuit, quibus rebus fieri soleat auctoritas, expedire. Ac
caetera quidem clarissime atque apertissime dicta sunt. Sed quonium auctoritatem
in naturam tempusque diuisit, cumque in tempore, ingenium, opes, aetatem,
fortunam, artem, usum, necessitatem, concursionem etiam nonnunquam rerum
fortuitarum locauit, quaeri potest: Quid enim attinet ad tempus ingenium? quid
ars? quid usus? Nam aetus atque opes, fortuna et fortuitarum rerum concursio
subiecta sunt tempori, quoniam unumquodque eorum uariis temporum uicibus
permutatur. Ingenium uero naturae potius oportuit attribui artem atque usum
tertium quiddam, quoniam neque tempori neque naturae subiiciuntur. Quanquam
uirtus quoque ipsa, quam M. Tullius in naturae ratione constituit quibusdam non
naturalis sed tum doctrina, tum recta exercitatione uiuendi uideatur
ascita. Sed haec ita intelligenda diuisio est, quod omnis auctoritas aut
ex magnis atque excellentibus rebus et per naturam optimis uenit, aut ab his
quae inferiore loco sunt constituta, fidem non ex naturae qualitate sed ex
uulgo insitis opinionibus capit. Et maximas quidem excellentesque res in natura
constituit, quae semper, ut ipse Tullius multis in locis defendit, boni est
appetens. At uero quae posteriora sunt, in tempore posuit, idcirco quod omnia
tempori subiecta, principalis boni non retinent statim. Virtus quidem in
deterius flecti non potest. Ingenium uero atque opes, fortuna et ars atque usus
saepe non recta exercitatione deprauantur. Nam quidquid horum fuerit a uirtute
seiunctum, dignitatem uerae laudis anmittit. Et de uirtute quidem
distulit dicere. Posteriorem uero partem, id est in tempore positae
auctoritatis diuisit et euidentissimis patefecit exemplis. Nam et ingeniis
fides adest, atque ex ea praesto est auctoritas plurima. Eos quippe sapientius
loqui homines credunt, quorum ingenium ad expedienda quts proposuerint,
sufficit. Opibus quoque praepollentes, dignos fide iudicant, fortuna quoque et
dignitate praeclaris, maiestatem auctoritatis impertiunt, non recte fortasse;
sed et iudicium in negotiis, et existimatio uitae, opinione hominum maxime
continetur, quae quia mutari uix potest, ad eam cuncta diriget, eaque sibi
tractanda regendaque proponet orator. Ars etiam atque usus plurimum ualent. In
utrisque enim fidem notitia facit. Necessitas quoque, quasi id quod
latebat, extorquens, auctoritate subnixa est, quae tum ab animo, tum a
corporibus uenit: a corporibus, cum igni, ferro ac uerberibus uerum quod latet
aperitur; ab animo, cum mens quadam perturbationis uel ignoranti; e necessitate
confunditur. Tunc enim quid dici, quid taceri debeat, minime distinguens, uerum
quod occultum erat, prodit atque effundit in lucem. Nam iracundia saepe, et
quaelibet animi perturbatio, quod occultandum foret, haud continet, quae
idcirco habet auctoritatem ad fidem, quia simpliciter prodita sunt, nec ulla
calliditatis arte prolata. Quin etiam ignorantia puerorum, uinolentia, somnus
quaedam saepe produxit in medium, in quibus si iudicium fuisset ullum, prolata
non essent. Saepe etiam homines praeter ullam animi perturbationem imprudentes
propria confessione obligati sunt, dum cuncta simpliciter effundunt, quae sibi
nocitura non existimant, ut Staterio euenisse proposuit, qui interposito
pariete testibus audientibus ea confessus est, ignorane se ab insidiantibus
audiri, quibus uulgatis in iudiciumque prolatis, capitali sententia condemnatus
est. Atque haec quidem ignorantia in necessitate constituta est; nam qui nescit
id quod ignorat, ne si uelit quidem poterit euitare; quae autem necessitas
extorquet, ipso quodammodo uidetur ueritas dicere, atque ideo eis ueluti
auctoritate subuixis fides adhibetur. Concursio etiam rerum fortuitarum
facit fidem, quae cum aliquoties falsa designet, tamen ita est uehemens, ut se
ab ea ueritas explicare uix possit. Quale est quod de Palamede narratur. Phryx
exstinctus, qui quasi a Priamo missus uideretur, repertae Priami litterae
Phrygia manus imitata, quae concurrentia fidem lucerent proditionis. Hinc dicit
Cicero: TALIS ETIAM FORTUITARUM RERUM CONCURSIO EST. CAETERA DESUNT. Primum
dicendum circa quid et de quo est intentio, quoniam circa demonstrationem et de
disciplina demonstrativa est. Deinde determinandum quid propositio, et quid
terminus, quid syllogismus, quis perfectus, et quis imperfectus. Postea vero
quid est in toto esse, vel non esse hoc in illo, et quid dicimus de omni, aut
de nullo praedicari. Propositio ergo est oratio affirmativa, vel negativa
alicuius de aliquo. Haec autem aut universalis, aut particularis, aut
indefinita. Dico autem universalem quidem, cum aliquid omni, aut nulli inesse;
particularem vero, cum alicui, aut non alicui, aut non omni inesse. Indefinitam
autem, cum quid inesse, vel non inesse significat, sive universali, vel
particulari, ut contrariorum eamdem esse disciplinam, aut voluptatem non esse
bonum. Differt autem demonstrativa propositio A dialectica, quoniam
demonstrativa quidem sumptio alterius partis contradictionis est. Non enim
interrogat, sed sumit, qui demonstrat. Dialectica vero interrogatio
contradictionis est. Nihil autem refert ut fiat ex utraque syllogismus; nam et
qui demonstrat, et qui interrogat, syllogizat, sumens aliquid de aliquo esse,
vel non esse. Quare erit syllogistica quidem propositio, simpliciter
affirmatio vel negatio alicuius de aliquo secundum dictum modum. Demonstrativa
vero si vera sit, et per primas propositiones sumpta. Dialectica autem
percontanti quidem interrogatio contradictionis est, syllogizanti vero sumptio
apparentis et probabilis, quemadmodum in Topicis dictum est. Quid est ergo
propositio, et quid differt syllogistica A demonstrativa et dialectica,
diligentius quidem in sequentibus dicetur. Ad praesentem vero utilitatem,
sufficienter nobis determinata sint, quae nunc dicta sunt. Terminum autem voco,
in quem resolvitur propositio, ut praedicatum, et de quo praedicatur, vel
apposito, vel separato esse, vel non esse. Syllogismus est oratio in qua,
quibusdam positis, aliud quiddam ab his quae posita sunt ex necessitate
accidit, eo quod haec sunt. Dico autem eo quod haec sunt, propter haec
accidere. Propter haec vero accidere, est nullius extrinsecus termini indigere,
ut fiat necessarium. Perfectum vero voco syllogismum, qui nullius alius
indiget, praeter ea quae sumpta sunt, ut appareat necessarium. Imperfectum
vero, qui indiget aut unius aut plurium, quae sunt quidem necessaria per
subiectos terminos, non autem sumpta sunt per propositiones. In toto autem esse
alterum in altero, et de omni praedicari alterum de altero idem est. Dicimus
autem de omni praedicari, quando nihil est sumere subiecti, de quo non dicatur
alterum, et de nullo similiter. Quoniam autem omnis propositio est, aut de
inesse, aut ex necessitate inesse, aut contingere inesse; harum autem, hae
quidem affirmativae, illae autem negativae secundum unamquamque appellationem;
rursus autem affirmativarum et negativarum, aliae sunt universales, aliae
particulares, aliae indefinitae: universalem quidem privativam de eo quod est
inesse, necesse est in terminis converti. Ut si nulla voluptas est bonum, neque
bonum nullum, erit voluptas. Praedicativam autem converti quidem necessarium
est, non tamen universaliter, sed in parte, ut, si omnis voluptas est bonum, et
bonum aliquod voluptas. Particularem autem affirmativam quidem converti necesse
est particulariter. Nam si voluptas aliqua, bonum, et bonum aliquod erit
voluptas. Privativam vero non est necessarium. Non enim si homo non inest
alicui animali, et animal non inest alicui homini. Primum ergo sit privativa
universalis A B propositio, si ergo nulli B inest A, neque A nulli inerit B.
Nam si alicui inest ut C, non verum erit nullum B esse A. Nam C eorum quae sunt
B aliquod est. Si vero omni B inest A, et B alicui A inest, nam si nulli, neque
A nulli B inerit, sed positum erat omni inesse. Similiter autem et si
particularis est propositio, nam si inest A alicui B, et B alicui eorum quae
sunt A necesse est inesse; si enim nulli, nec A nulli inerit B. Si autem A
alicui eorum quae sunt B non inest, non necesse est et B alicui A non inesse,
ut si B quidem sit animal, A vero homo, homo enim non omni animali, animal vero
omni homini inest. Eodem autem modo se habebit in necessariis propositionibus,
nam universalis quidem privativa universaliter convertitur. Affirmativarum
autem utraque particulariter. Nam si necesse est A nulli B inesse, necesse est
et B nulli A inesse; si enim alicui contingit, et A alicui B continget. Si
autem ex necessitate A omni vel alicui B inest, et B alicui A necesse est
inesse, nam si non ex necessitate inest, neque A alicui B ex necessitate
inerit. Particularis vero privativa non convertitur, propter eamdem causam, propter
quam et supra diximus. In contingentibus vero, quoniam multipliciter dicitur
contingere, nam et necessarium, et non necessarium, et possibile contingere
dicimus; in affirmativis quidem, similiter se habebit secundum conversionem in
omnibus. Nam si A omni aut alicui B contingit, et B alicui A contingit, si enim
nulli, nec A nulli B, ostensum est enim hoc prius. In negativis vero non
similiter, sed quaecunque quidem contingere dicuntur, ex eo quod ex necessitate
non insunt, vel in eo quod non ex necessitate insunt similiter. Ut si quis
dicat hominem contingere non esse equum, aut album nulli tunicae inesse. Horum
enim hoc quidem ex necessitate inest, illud vero non ex necessitate inest, et
similiter convertitur propositio. Nam si contingit nulli homini equum inesse,
et hominem contingit nulli equo inesse, et si album contingit nulli tunicae, et
tunica contingit nulli albo, si enim alicui necessario, et album tunicae alicui
inerit ex necessitate, hoc enim ostensum est prius. Similiter autem et in
particulari negativa. Quaecunque vero ut in pluribus, et in eo quod nata sunt
dicuntur contingere secundum quem modum determinamus contingens, non similiter
se habebit in privativis conversionibus. Sed et universalis quidem privativa
propositio non convertitur, particularis vero convertitur. Hoc autem erit
manifestum quando de contingenti dicemus. Nunc autem nobis tantum sit cum iis
quae dicta sunt, manifestum, quoniam contingere nulli aut alicui non inesse
affirmativam habet figuram, nam et contingit ipsi est similiter ordinatur. Est
autem, quibuscunque adiacens praedicatur, affirmationem semper facit, et
omnino, ut: est non bonum, vel est non album, vel simpliciter, est non hoc.
Ostendetur autem et hoc per sequentia, secundum conversiones autem similiter se
habebunt in aliis. His vero determinatis dicemus iam per quae et quando et
quomodo fit omnis syllogismus, postea vero dicendum de demonstratione. Prius
enim de syllogismo dicendum quam de demonstratione, eo quod universalior est
syllogismus, nam demonstratio quidem syllogismus quidam est; syllogismus vero
non omnis demonstratio. Quando igitur tres termini sic se habent ad invicem, ut
et postremus sit in toto medio, et medius in toto primo vel sit, vel non sit,
necesse est extremitatum perfectum esse syllogismum. Voco autem medium quod et
ipsum in alio, et aliud in ipso est, quod et positione medium est; extrema vero
quod et ipsum in alio, et in quo aliud est. Si enim A de omni B, et B de omni
C, necesse est A de omni C praedicari. Prius enim dictum est quomodo de omni
dicimus. Similiter autem et si A de nullo B, B autem de omni C, quoniam A nulli
C inerit. Si autem primum quidem omni medio consequens est, medium vero nulli
postremo, non erit syllogismus extremitatum. Nihil enim necessarium accidit, eo
quod haec sunt, nam et omni et nulli contingit primum postremo inesse, quare
neque particulare, neque universale fit necessarium. Cum autem nihil est
necessarium, per haec non erit syllogismus. Termini vero eius quod est omni
inesse, animal, homo, equus; eius vero quod est nulli, animal, homo, lapis.
Quando vero nec primum medio, nec medium postremo ulli inest, nec sic erit
syllogismus. Termini vero ut inesse, scientia, linea, medicina; ut non inesse,
scientia, linea, unitas. Universalibus igitur existentibus terminis, manifestum
est in hac figura quando erit, et quando non erit syllogismus, et quoniam cum
est syllogismus, necessarium est terminos sic se habere, ut diximus, et sic se
habens manifestum quoniam erit syllogismus. Si autem hic quidem terminorum
universaliter, alius vero particulariter ad alium, quando universale quidem
ponitur ad maiorem extremitatem vel praedicativum, vel privativum, particulare
vero ad minorem praedicativum, necesse est syllogismum esse perfectum. Quando
vero ad minorem vel quolibet modo aliter se habeant termini, impossibile est.
Dico autem maiorem extremitatem quidem in qua medium est, minorem vero, quae
sub medio est. Insit enim A quidem omni B, B autem alicui C, ergo si est
de omni praedicari, quod in principio dictum est, necesse est A alicui C
inesse. Et si A quidem nulli B inest, B vero alicui C, necesse est A alicui C
non inesse, determinatum est enim et de nullo, quomodo dicimus, quare erit
syllogismus perfectus. Similiter autem et si indefinitum sit B C praedicativum,
nam idem erit syllogismus indefinito et particulari sumpto. Si autem ad minorem
extremitatem universale ponatur vel praedicativum, vel privativum, non erit
syllogismus neque cum affirmativa, neque negativa, neque indefinita, neque
particularis sit, ut si A quidem alicui B inest, vel non inest, B autem omni C
inest. Termini ut inesse, bonum, habitus, prudentia; ubi non inesse, bonum,
habitus, indisciplina. Rursum si B quidem nulli C, A vero alicui B inest, vel
non inest, vel non omni inest, nec sic erit syllogismus. Termini omni inesse,
album, equus, cygnus; nulli inesse, album, equus, corvus. Idem autem et si A B
indefinitum sit. Nec quando ad maiorem extremitatem quidem universale ponatur
vel praedicativum, vel privativum, ad minorem vero particulare privativum, non
erit syllogismus vel indefinito, vel particulari sumpto. Velut si A quidem omni
B inest, B autem alicui C non inest, vel non omni inest. Cui enim alicui non
inest medium, hoc omne et nullum sequatur primum.Ponantur enim termini, animal,
homo, album, deinde et de quibus albis non praedicatur homo, sumantur cygnus et
nix; ergo animal de uno quidem omni praedicatur, de altero vero nullo, quare
non erit syllogismus. Rursum A quidem nulli B insit, B autem alicui C non
insit, et sint termini, inanimatum, homo, album, deinde sumantur alba, de
quibus non praedicatur homo, cygnus et nix; nam inanimatum de hoc quidem omni
praedicatur, de illo vero nullo. Amplius: quoniam indefinitum est alicui eorum
quae sunt C non inesse B, verum est autem et nulli inest, et si non omni,
quoniam alicui non inest, sumptis autem his terminis velut nulli inesse, non
fit syllogismus (hoc enim dictum est prius) manifestum; ergo est quoniam in eo
quod sic se habent termini non erit syllogismus, esset enim et in his.
Similiter autem ostendetur, et si universale ponatur privativum. Neque enim si
ambo intervalla particularia praedicative, vel privative dicantur, aut hoc
quidem praedicativum, illud vero privativum, vel hoc quidem indefinitum, illud
vero definitum, vel ambo indefinita, non erit syllogismus nullo modo. Termini
vero communes omnium, animal, album, equus, animal, album, lapis. Manifestum
est igitur ex iis quae dicta sunt quoniam si sit syllogismus in hac figura
particularis, quoniam necesse est terminos sic se habere, ut diximus. Aliter
enim se habentibus, nullo [modo] fit. Palam autem quoniam omnes qui in hac sunt
syllogismi perfecti sunt, omnes enim perficiuntur per ea quae ex principio
sumuntur, et quoniam omnia problemata ostenduntur per hanc figuram: etenim omni
et nulli, alicui et non alicui inesse. Voco autem huiusmodi figuram, primam. Quando
vero idem huic omni quidem, illi vero nulli inest, vel utique omni, vel nulli,
figuram quidem huiusmodi voco secundam. Medium autem in hac dico quod de
utraque praedicatur; extremitates vero de quibus dicitur hoc, maiorem quidem
extremitatem, quae iuxta medium posita est, minorem vero, quae longius sita est
A medio. Ponitur autem medium foras quidem extremitatum, primum vero positione.
Perfectus igitur non erit syllogismus nullo modo in hac figura, possibile vero
erit et universalibus, et non universalibus existentibus terminis. Universalibus
igitur terminis erit syllogismus, quando medium huic quidem omni, illi vero
nulli inerit, etsi ad utrumvis sit privativum, aliter vero nullo modo.
Praedicetur enim M de N quidem nullo, de O vero omni, quoniam igitur
convertitur privativa, nulli M inerit N, at M omni O supponebatur, quare N
nulli O inerit: hoc enim ostensum est prius. Rursum si M N quidem omni inest, O
vero nulli, neque N O nulli inerit. Nam si M nulli O, neque O nulli N inerit,
at vero M omni N inerat, quare O nulli inerit. Facta est enim rursum prima
figura. Quoniam autem convertitur privativum, neque N nulli O inerit, quare
erit idem syllogismus, est autem ostendere haec et ad impossibile ducentes. Quoniam
ergo fit syllogismus sic se habentibus terminis manifestum, sed non perfectus,
non enim solum ex iis quae ab initio sumpta sunt, sed ex aliis perficitur
necessarium. Si autem M de omni N et O praedicetur, non erit syllogismus.
Termini inesse, substantia, animal, ratio; non inesse, substantia, animal,
lapis, medium, substantia.Nec quando de N nec de O nullo praedicatur M. Termini
inesse, linea, animal, homo; non inesse, linea, animal, lapis. Manifestum ergo
quoniam si fit syllogismus ex universalibus terminis, necesse est terminos sic
se habere, ut in principio diximus. Aliter enim se habentibus terminis non fit
conclusio necessaria.Si autem ad alterum sit universaliter medium, quando ad
maius quidem fuerit universaliter vel praedicative, vel privative, ad minus
autem et particulariter, et oppositae universali (dico autem oppositae, si
universale quidem privativum particulare praedicativum, vel si universale
praedicativum, particulare privativum), necesse est syllogismum fieri
privativum particulariter. Nam si M nulli quidem N, O autem alicui inest,
necesse est N alicui O non inesse. Quoniam enim convertitur privativum, nulli M
inerit, N M vero supponebatur alicui O inesse, quare N alicui eorum quae sunt O
non inerit. Fit enim syllogismus per primam figuram. Rursus si N quidem omni M,
O vero alicui non inest, necesse est N alicui O non inesse. Nam si O omni inest
N, praedicatur autem et M de omni N, necesse est M omni O inesse, supponebatur
autem alicui non inesse. Et si M N omni quidem inest, O autem non omni, erit
syllogismus, quoniam non omni O inest N. Demonstratio autem eadem. Si autem de
O quidem omni, de N vero non omni praedicatur M, non erit syllogismus. Termini
inesse, animal, substantia, corvus. Non inesse, animal, album, corvus. Nec
quando de O quidem nullo, de N vero aliquo. Termini inesse, animal, substantia,
lapis. Non inesse, animal, substantia, scientia. Quando igitur oppositum est
universale particulari, dictum est quando erit, et quando non erit syllogismus.
Quando autem similis figurae fuerint propositiones, ut ambae privativae vel
affirmativae, nullo modo erit syllogismus. Sint enim primum privativae, et
universale ponatur ad maiorem extremitatem, ut M N quidem nulli, O autem alicui
non insit: contingit ergo et omni, et nulli O inesse N. Termini quidem nulli
inesse, nigrum, nix, animal. Omni vero inesse, non est sumere, si M alicui
quidem O inest, alicui autem non. Nam si omni O inest N, et M nulli, N etiam M
nulli O inerit; sed positum erat alicui inesse, non igitur sic sumere contingit
terminos. Ex indefinito autem ostendendum est. Quoniam enim verum est M non
inesse alicui O, et si nulli inest, nulli vero cum insit non erit syllogismus,
manifestum quoniam neque nunc erit. Rursum si praedicativae, et universale
ponatur similiter, ut M omni quidem N, O autem alicui insit, contingit ergo et
omni, et nulli O inesse. Termini nulli inesse, album, cygnus, lapis. Omni vero
non erit sumere terminos, propter eamdem causam quam et prius, sed ex
indefinito monstrandum est. Si autem universale ad minorem extremitatem est, et
M O quidem nulli, N vero alicui non inest, contingit N, et omni et nulli O
inesse. Termini inesse, album, animal, corvus; non inesse, album, lapis,
corvus. Similiter autem et si praedicativae fuerint propositiones. Termini non
inesse, album, animal, nix; inesse, album, animal, cygnus. Manifestum est
igitur quoniam si similis figurae sint propositiones, et haec quidem
universalis, illa vero particularis, quoniam nullo modo fit syllogismus. Sed
nec si alicui, utrique inest, vel non inest, vel huic quidem inest, illi vero
non, vel neutri omni, vel indefinitae. Termini autem communes omnium, album,
animal, homo, album, animal, inanimatum. Manifestum est igitur ex praedictis
quoniam si sic se habent termini ad invicem, ut dictum est, fit syllogismus ex
necessitate, et si fit syllogismus, necesse est terminos sic se habere. Palam
autem et quoniam omnes imperfecti sunt, qui in hac figura sunt syllogismi;
omnes enim perficiuntur assumptis quibusdam, quae vel insunt terminis ex
necessitate, vel ponuntur velut hypotheses, ut quando per impossibile
ostendimus. Et quoniam non fit affirmativus syllogismus per hanc figuram, sed
omnes privativi, et universales, et particulares. Si autem eidem hoc quidem
omni, illud vero nulli inest, vel ambo omni vel nulli, figuram quidem huiusmodi
voco tertiam. Medium autem in hac dico, quo ambo praedicamus; extremitates
vero, quae praedicantur; maiorem autem extremitatem, quae longius est medio;
minorem vero, quae propius. Ponitur autem medium foras quidem extremitatum,
ultimum vero positione est. Perfectus igitur non fit syllogismus, nec in hac
figura, possibilis vero erit et universaliter, et non universaliter terminis
existentibus ad medium. Universaliter quidem quando et p et r inerunt omni s,
quoniam alicui r inerit p ex necessitate, nam quoniam convertitur praedicativa,
inerit s alicui r. Quare quoniam p inest omni s, et s alicui r, necesse est p
alicui r inesse. Fit enim syllogismus per primam figuram. Est autem et per
impossibile, et expositione facere demonstrationem: si enim ambo omni s insunt,
si sumatur aliquod eorum quae sunt s, ut N huic et p et r inerunt ex necessitate,
quare alicui r inerit p. Et si r omni quidem s, p autem nulli s inest, erit
syllogismus, quoniam p alicui r non inerit ex necessitate. Nam idem modus erit
demonstrationis, conversa r s propositione. Ostendetur autem et per
impossibile, quemadmodum in prioribus. Si autem insit r, s quidem nulli, p vero
omni s, non erit syllogismus. Termini inesse, animal, equus, homo; non inesse,
animal, inanimatum, homo, neque quando ambo de nullo s dicuntur, non erit
syllogismus. Termini inesse, animal, equus, inanimatum; non inesse, homo, equus
inanimatum, medium, inanimatum. Manifestum est igitur et in hac figura et
quando erit, et quando non erit syllogismus ex universalibus terminis. Quando
enim ambo termini sunt praedicativi, erit syllogismus, quoniam inest alicui
extremitas extremitati; quando vero privativi, non erit syllogismus; quando
autem hic quidem privativus, ille vero affirmativus; si maior quidem fuerit
privativus, alter vero affirmativus, erit syllogismus, quoniam alicui non inest
extremitas extremitati. Si autem e converso, non erit. Si autem hic quidem sit
universaliter ad medium, alter vero particulariter, si uterque sit
praedicativus, necesse est fieri syllogismum, et si alteruter sit universalis
terminorum; nam si r omni s insit, p vero alicui s, necesse est et p alicui r
inesse, nam quoniam convertitur affirmativa, inerit s alicui p, quare quoniam r
omni s inest, s autem alicui p, et r alicui p inerit, quare et p alicui r. Rursum
si r alicui s, p vero omni s insit, necesse est et p alicui r inesse, nam idem
modus demonstrationis. Est autem demonstrare et per impossibile, et
expositione, quemadmodum in prioribus. Si autem unus quidem sit praedicativus,
alius vero privativus, universaliter autem praedicativus, quando minor quidem
fuerit praedicativus, erit syllogismus; nam si r omni s, p vero alicui s non
inest, necesse est p alicui r non inesse, si enim p omni r, et r omni s, et p
omni s inerit, sed non inerat. Monstratur autem et sine deductione, si sumatur
aliquid eorum quae sunt s, cui p non inest. Quando vero maior fuerit
praedicativus, non erit syllogismus, ut si p insit omni s, r autem alicui s non
insit. Termini vero omni inesse, animatum, homo, animal. Nulli vero, non est
sumere terminos si r inest alicui quidem s, alicui autem non. Si enim omni s
inest p, r autem alicui s, et p inerit alicui r, sed positum erat nulli r
inesse. Sed quemadmodum in prioribus dicendum est; nam cum indefinitum est
alicui non inesse, et quod nulli inest, verum est dicere alicui non inesse,
nulli vero cum inesset, non erat syllogismus; manifestum ergo est, quoniam non
erit syllogismus. Si autem privativus sit universalis terminus, quando maior
quidem privativus fuerit, minor autem praedicativus, erit syllogismus. Si enim
p nulli s, r autem alicui inest s, et p alicui r non inerit. Rursum enim prima
erit figura, r s propositione conversa. Quando autem minor fuerit privativus,
non erit syllogismus. Termini inesse, animal, homo, ferum. Non inesse, animal,
scientia, ferum, medium in utrisque ferum. Nec quando ambo privativi ponuntur,
est autem unus quidem universalis, alter vero particularis. Termini inesse,
quando minor est universalis ad medium, animal, homo, ferum, non inesse, animal,
scientia, ferum. Quando autem maior, non inesse quidem, corvus, nix, album;
inesse vero non est sumere si r alicui quidem inest s, alicui autem non inest.
Si enim p omni r insit, r autem alicui s, et p inerit alicui s. Positum est
autem nulli, sed ex indefinito monstrandum est. Neque si uterque alicui medio
inest, vel non inest, vel unus quidem inest, alter vero non inest, vel hic
quidem alicui, ille vero non omni, vel indefinite, nullo modo erit syllogismus.
Termini autem communes omnium, animal, homo, album, animal, inani matum, album.
Manifestum est igitur, et in hac figura, quando erit, et quando non erit
syllogismus, et quoniam habentibus se terminis, ut dictum est, fit syllogismus
ex necessitate, et si sit syllogismus, necesse est terminos sic se habere. Manifestum
est etiam, quia omnes imperfecti sunt in hac figura syllogismi, omnes enim
perficiuntur quibusdam assumptis. Et quoniam syllogizare universale per hanc
figuram non erit, neque privativum, neque affirmativum. Palam autem et quoniam
in omnibus figuris, aliquando non fit syllogismus. Cum praedicativi quidem, vel
privativi sunt utrique termini, et particulares, nihil omnino fit necessarium. Cum
autem praedicativus, et privativus, et universaliter sumptus privativus, semper
fit syllogismus minoris extremitatis ad maiorem, ut si A quidem omni B vel
alicui, B autem nulli C; conversis enim propositionibus, necesse est C alicui A
non inesse. Similiter autem et in aliis figuris, semper enim fit per
conversionem syllogismus. Palam etiam quoniam indefinitum pro praedicativo
particulari positum, eumdem faciet syllogismum in omnibus figuris. Manifestum
autem et quoniam omnes imperfecti syllogismi perficiuntur per primam figuram.
Aut enim ostensive, aut per impossibile clauduntur omnes. Utrinque autem fit
prima figura. Et ostensive quidem perfectis, quoniam per conversionem
claudebantur omnes, conversio autem primam faciebat figuram, per impossibile
vero demonstratis, quoniam posito falso syllogismus fit per primam figuram. Ut
in postrema figura, si A et B omni C insunt, quoniam A alicui B inest, nam si
nulli et B omni C, nulli C inerit A, sed inerat omni. Similiter autem in aliis.
Est etiam reducere omnes syllogismos ad universales syllogismos primae figurae.
Nam qui sunt in secunda figura, manifestum quoniam per illos perficiuntur,
verum non similiter omnes, sed universales quidem privativa conversa;
particularium autem utraque per ad impossibile reductionem. Qui vero in prima
sunt particulares, perficiuntur quidem per se. Est autem et per secundam
figuram ostendere ad impossibile ducentes, ut si A omni B, et B alicui C,
quoniam A alicui C inerit. Si enim nulli, B autem omni, nulli C inerit B. Hoc
enim scimus per secundam figuram. Similiter autem et in privativo erit
demonstratio; si enim A nulli B, et B alicui C inest, A alicui C non erit, nam
si A omni C, B autem nulli inest, nulli C inerit B. Haec autem fuit media
figura; quare quoniam qui in media sunt syllogismi, omnes reducuntur in primae
figurae universales syllogismos, qui vero particulares sunt in prima, ad eos
qui sunt in media, manifestum est quoniam et particulares reducentur ad eos qui
in prima figura sunt universales syllogismos; qui vero sunt in tertia, cum
universales sint quidem termini, statim perficiuntur per illos syllogismos. Si
autem particulares, sumuntur per particulares syllogismos primae figurae, sed
hi reducti sunt ad illos, quare et tertiae figurae particulares. Manifestum
ergo quoniam omnes reducentur in primae figurae universales syllogismos. Igitur
syllogismi inesse vel non inesse ostendentes, dictum est quomodo se habent, et
ad eos qui ex eadem sunt figura, et ad invicem, et ad eos qui ex aliis sunt
figuris. Quoniam autem diversum est inesse, et ex necessitate inesse, et
contingere inesse (nam multa insunt quidem, non tamen ex necessitate, alia vero
neque ex necessitate, neque insunt omnino, contingit autem inesse), manifestum
quoniam et syllogismus in unoquoque horum diversus est, et non similiter
habentibus se terminis, sed hic quidem ex necessariis, ille vero ex iis quae
simpliciter insunt, ille autem ex contingentibus. Ergo in necessariis quidem
fere similiter se habet, et in iis qui insunt. Similiter enim positis terminis,
et in iis quae insunt, et in iis quae ex necessitate insunt vel non insunt, et
erit, et non erit syllogismus. Verum distabit in eo quod adiacet terminis ex
necessitate inesse, vel non inesse, nam et privativum similiter convertitur, et
in toto esse, et de omni similiter assignabimus. Ergo in aliis quidem eodem
modo ostendetur per conversionem, quoniam conclusio necessaria, quomodo in eo
quod est inesse. In media autem figura quando fuerit universalis affirmativa,
particularis vero privativa, et rursum in tertia quando universalis quidem
praedicativa, particularis vero privativa, non similiter erit demonstratio, sed
necesse est exponentes, cui alicui utrumque non inest, de hoc facere
syllogismum. Erit enim necessarius in hoc. Si autem de exposito est
necessarius, erit et de illo aliquo. (0648C) Nam hoc quod est expositum, ipsum
quidem illud aliquid est. Fit autem uterque syllogismus in propria figura. Accidit
autem quandoque et altera propositione necessaria, necessarium fieri
syllogismum, verum non utralibet, sed quae ad maiorem extremitatem est, ut si A
quidem, B ex necessitate sumptum est inesse, vel non inesse, B autem C inesse
tantum; sic enim sumptis propositionibus ex necessitate A inerit C, vel non
erit. Nam quoniam omni B ex necessitate inest, vel non inest A, C autem aliquid
eorum quae sunt B, est manifestum quoniam et C ex necessitate erit alterum
horum. Si autem A B quidem non necessaria, B C autem necessaria, non erit
conclusio necessaria. Nam si est, accidit A alicui B inesse ex necessitate, per
primam et tertiam figuram, hoc autem falsum, contingit enim tale esse B cui
possibile est A nulli inesse. Amplius autem et ex terminis manifestum quoniam
non erit conclusio necessaria; ut si A quidem sit motus, B autem sit animal, in
que autem C homo, namque homo animal est ex necessitate, movetur autem animal
non ex necessitate, quare nec homo. Similiter autem et si privativa sit A B;
nam eadem demonstratio. In particularibus autem syllogismis, si universalis
quidem est necessaria, et conclusio erit necessaria; si autem particularis, non
necessaria, sive privativa, sive praedicativa fuerit universalis propositio. Sit
autem primo universalis necessaria, et A quidem omni B insit ex necessitate, B
autem alicui C insit solum, necesse est ergo A alicui C inesse ex necessitate,
nam C sub B est, B autem omni A inerat ex necessitate. Similiter autem et si
privativus syllogismus sit, nam eadem erit demonstratio. Si autem particularis
est necessaria, non erit conclusio necessaria, nihil enim impossibile evenit,
quemadmodum nec in universalibus syllogismis, similiter autem et in privativis.
Termini, motus, animal, album. In secunda autem figura si privativa quidem
propositio universalis sit et necessaria, conclusio erit necessaria. Si autem
praedicativa, non necessaria. Sit enim primum privativa necessaria, et A B
quidem nulli contingat, C autem insit tantum; quoniam ergo convertitur
privativa, et B nulli A contingit, A autem omni C inest, quare nulli C
contingit B, nam C sub A est. Similiter autem et si ad C ponatur privativum,
nam si A C nulli contingit, et C nulli A poterit inesse, A autem omni B inest.
Quare nulli eorum quae sunt B contingit C, fit enim prima figura. Rursum non
ergo neque B ipsi C, convertitur enim similiter. Si autem praedicativa
propositio est necessaria, non erit conclusio necessaria, insit enim A omni B
ex necessitate, C autem nulli insit tantum, conversa ergo privativa, fit prima
figura. Ostensum est autem in prima quoniam cum non est necessaria quae ad
maiorem est privativa, nec conclusio erit necessaria, quare nec in his erit ex
necessitate. Amplius autem si conclusio est necessaria, accidit C alicui A non
inesse ex necessitate, si enim B nulli C inest ex necessitate, neque C nulli B
inerit ex necessitate, B autem alicui A necesse est inesse, siquidem et A omni
B ex necessitate inerat, quare C necesse est alicui A non inesse, sed nihil
prohibet A huiusmodi accipere, cui omni C contingat inesse. Amplius et si
terminos ponentes sit ostendere, quoniam conclusio non est necessaria
simpliciter. Et his existentibus, necessarium ut sit A animal, B vero homo, C
autem album, et similiter propositiones sumptae sint, contingit enim animal
nulli albo inesse, non inerit ergo nec homo nulli albo, sed non ex necessitate.
Contingit enim hominem fieri album, non tamen donec animal nulli albo insit,
quare cum haec sint, necessaria erit conclusio, simpliciter autem non
necessaria. Similiter autem se habebit et in particularibus syllogismis, quando
privativa quidem propositio, et universalis fuerit, et necessaria, et conclusio
erit necessaria. Quando autem praedicativa universalis fuerit necessaria,
privativa vero particularis non necessaria, non erit conclusio necessaria. Sit
enim primum privativa, et universalis necessaria, et A B quidem nulli contingat
inesse, C autem alicui insit, quoniam ergo convertitur privativa, et B nulli A
continget inesse, A autem alicui C inest, quare ex necessitate alicui eorum
quae sunt, C non inerit B. Rursum sit praedicativa, et universalis, et
necessaria, et ponatur ad B quidem praedicativum, si ergo A omni B ex
necessitate inest, C autem alicui non inest, quoniam non inerit B alicui C
manifestum, sed non ex necessitate. Nam iidem termini erunt ad demonstrationem,
qui in universalibus syllogismis: sed nec si privativa necessaria est
particulariter sumpta, erit conclusio necessaria. Nam per eosdem terminos
demonstratio. In postrema autem figura terminis quidem universalibus ad medium,
et praedicativis utrisque propositionibus, si utralibet sit necessaria, et
conclusio erit necessaria. Si autem haec quidem sit privativa, illa vero
praedicativa, quando privativa quidem fuerit necessaria, et conclusio erit
necessaria, quando autem praedicativa, non erit necessaria. Sint enim primum
utraeque praedicativae propositiones, et A et B omni C insint, necessaria autem
sit A C, quoniam ergo B omni C inest, et C alicui B inerit, eo quod convertitur
universalis particulariter. Quare si A inest omni C ex necessitate, et C alicui
B, et A alicui B necessarium inesse, nam B sub C est. Fit igitur prima figura.
Similiter autem ostendetur, et si B C est necessaria, convertitur enim C alicui
A, quare si omni C inest B ex necessitate, et A alicui B inerit ex necessitate.
Rursum sit A C quidem privativa, B C vero affirmativa, necessaria autem
privativa, quoniam ergo convertitur affirmativa, erit C alicui B, A autem nulli
C ex necessitate, neque A alicui B inerit ex necessitate, nam B sub C est. Si
autem praedicativa sit necessaria, non erit conclusio necessaria. Sit enim B C
praedicativa et necessaria, A C autem privativa et non necessaria, quoniam ergo
convertitur affirmativa, inerit et C alicui B ex necessitate. Quare si A quidem
nulli eorum quae sunt C inest, C autem alicui eorum quae sunt B et A alicui
eorum quae sunt B non inerit, sed non ex necessitate. Ostensum est enim in
prima figura quoniam privativa propositione necessaria, nec conclusio erit
necessaria. Amplius autem et per terminos sit manifestum, sit enim A quidem
bonum in quo B animal, C autem equus, ergo bonum quidem contingit nulli equo
inesse, animal vero necesse est omni equo inesse, sed non necesse est aliquod
animal non esse bonum, siquidem contingit omne esse bonum. Aut si non hoc possibile,
sed vigilare, vel dormire terminum ponendum. Omne enim animal susceptibile est
horum. Si igitur termini universaliter ad medium sint, dictum est quando erit
conclusio necessaria. Si autem hic quidem universalis, ille vero particularis,
praedicativus uterque, quando universalis fuerit necessarius, et conclusio erit
necessaria. Demonstratio autem eadem quae prius, convertitur enim et
particularis affirmativa. Si ergo necesse est B omni C inesse, A autem sub C
est, necesse est B alicui A inesse. Si autem B alicui A, et A alicui B inesse
necessarium, convertitur enim. Similiter autem et si A C sit necessaria
universalis, nam B sub C est. Si autem particularis est necessaria, non erit
conclusio necessaria. Sit enim B C particularis et necessaria, A autem insit
omni C, non tamen ex necessitate, conversa ergo B C prima fit figura, et
universalis quidem propositio non necessaria, particularis autem necessaria,
quando autem sic se habebant propositiones, non erat conclusio necessaria,
quare nec in his. Amplius autem et ex terminis manifestum. Sit enim A quidem
vigilatio, B autem bipes, in quo autem C animal, ergo B alicui C necesse est
inesse, A autem omni C contingit, et A non necessario B, non enim necesse est
aliquem bipedem dormire vel vigilare. Similiter autem per eosdem terminos
ostendetur etiam si A C sit particularis et necessaria. Si autem hic quidem
terminorum sit praedicativus, ille privativus et necessarius, quando
universalis fuerit privativus et necessarius, et conclusio erit necessaria. Si
enim A nulli C ex necessitate contingit, B autem alicui C inest, necesse est A
alicui B non inesse, quando autem affirmativa necessaria ponetur vel
universalis, vel particularis, vel privativa particularis, non erit conclusio
necessaria. Nam alia quidem eadem quae et in prioribus dicemus. Termini autem
cum universalis quidem affirmativa est necessaria, vigilatio, animal, homo,
medium homo: cum autem particularis praedicativa necessaria, vigilatio, animal,
album. Animal enim necesse est alicui albo inesse, vigilatio autem contingit
nulli, et non necesse est alicui animali non inesse vigilationem. Quando autem
privativa particularis est necessaria, bipes, motus, animal, medium animal. Manifestum
igitur quoniam inesse quidem non est syllogismus, si utraeque propositiones non
sunt in eo quod est inesse, necessaria vero est, et altera solum existente
necessaria. In utrisque autem affirmativis et privativis existentibus
syllogismis necesse est alteram propositionem similem esse conclusioni. Dico
autem similem, si inesse quidem, inexistentem, si autem necessaria,
necessariam. Quare et hoc palam, quoniam non erit conclusio neque necessaria,
neque inesse, non sumpta vel necessaria, vel quae inesse significet
propositione. Igitur de necessario quomodo fit, et quam differentiam habeat ad
inesse, sufficienter pene dictum est. De contingente autem post haec dicemus,
quando, et quomodo, et per quae erit syllogismus. Dico autem contingere, et
contingens, quo non existente necessario, posito autem inesse, nihil erit
propter hoc impossibile. Nam necessarium aequivoce contingere dicitur. Quoniam
autem hoc est contingens, manifestum ex affirmationibus et negationibus
oppositis. Nam non contingit esse, non possibile esse, et impossibile esse, et
necesse est non esse, vel eadem sunt, vel sequuntur se invicem, quare et
opposito his contingit esse, et non impossibile esse, et non necesse non esse,
eadem erunt, vel sequentia se invicem. De omni enim affirmatio, vel negatio
vera. Erit ergo contingens necessarium, et non necessarium contingens. Accidit
autem omnes quae secundum contingere sunt propositiones converti sibi invicem, dico
autem non affirmativas negativis sed quaecunque affirmativam habent figuram
secundum oppositionem, ut ea quae est contingit esse ei quae est contingit non
esse, et ea quae est contingit omni ei quae est contingit nulli, vel non omni,
et quae alicui, et quae non alicui, eodem autem modo et in aliis. Quoniam
enim quod est contingens non est necessarium, et quod non est necessarium
possibile est non esse, manifestum quoniam si contingit A inesse B, contingit
et non inesse, et si omni contingit inesse, et omni contingit non inesse. Similiter
autem et in particularibus affirmationibus, nam eadem demonstratio. Sunt autem
huiusmodi propositiones praedicativae, nam contingere ei quod est esse
similiter ponitur, quemadmodum dictum est prius. Determinatis autem his, rursum
dicimus quoniam contingere duobus modis dicitur: uno quidem, quod plerumque fit
et deficit, necessarium, ut canescere hominem, vel augeri, vel minui, vel
omnino quod natum est esse. Hoc enim non continuum habet necessarium, eo quod
non semper est homo, cum tamen homo est, aut ex necessitate, aut ut in pluribus
est. Alio autem modo infinitum, quod et sic, et non sic possibile, ut animal
ambulare, vel ambulante fieri motum terrae, vel omnino quod casu fit, nihil
enim magis sic natum est, vel econtrario. Convertitur ergo et secundum
oppositas propositiones utrumque contingens, non tamen eodem modo, sed quod
natum quidem est esse ei quod non ex necessitate esse. Sic enim contingit non
canescere hominem. Infinitum autem ei quod nihil magis sic, vel illo modo.
Disciplina autem, et syllogismus demonstrativus, ex infinitis quidem non est,
eo quod inordinatum est medium, ex iis vero quae nata sunt esse, pene orationes
et considerationes fiunt de sic contingentibus, ex illis autem possibile quidem
est fieri syllogismum, non tamen solet quaeri. Haec ergo definientur magis in
sequentibus, nunc autem dicemus quando et quomodo, et quis erit syllogismus ex
contingentibus propositionibus. Quoniam autem contingere hoc huic inesse
dupliciter est accipere, aut enim cui inest hoc, aut cui contingit ipsum
inesse, nam de quo B, A contingere, horum alterum significat, aut de quo
dicitur B, aut de quo contingit dici, de quo autem B, A contingere, aut omni B
possibile inesse A, nihil differt. Manifestum igitur quoniam dupliciter dicetur
A omni B inesse contingere. Primum ergo dicemus si de quo C contingit B, et de
quo B contingit A, quis erit, et qualis syllogismus, sic enim utraeque
propositiones sumuntur secundum contingere, quando autem de quo B est contingit
A, haec quidem inesse, illa vero contingens, quare A similibus figuris incipiendum,
quemadmodum et in aliis.Quando ergo A contingit omni B, et B omni C,
syllogismus erit perfectus, quoniam A contingit omni C inesse. Hoc autem
manifestum est ex definitione, nam contingere omni inesse sic dicebamus.
Similiter autem et si A quidem contingit nulli B, B autem omni C, quoniam A
contingit nulli C. Nam de quo B contingit, A non contingere, hoc erat nullum
dimittere sub B contingentium. Quando autem A contingit omni B, B autem nulli
C, per sumptas quidem propositiones nullus fit syllogismus, conversa autem B C
secundum contingere, fit idem quemadmodum et prius, quoniam enim contingit B
nulli C inesse, contingit et omni inesse. Hoc autem dictum prius. Quare si B
quidem omni C, A autem omni B, rursum idem fit syllogismus. Similiter autem
etsi ad utrasque propositiones negatio ponatur cum contingere (dico autem ut si
A contingit nulli B, et B nulli C ), igitur per sumptas quidem propositiones
nullus fit syllogismus, conversis autem rursus idem erit qui et prius.
Manifestum est igitur quoniam negatione posita ad minorem extremitatem, vel ad
utrasque propositiones, aut non fit syllogismus, aut fit quidem, sed non
perfectus, ex conversione enim fit necessarium. Si autem haec quidem
propositionum universalis, illa vero particularis sumatur, ad maiorem quidem
extremitatem posita universali, syllogismus erit perfectus. Nam si A omni B
contingit, B autem alicui C, A alicui C contingit, hoc autem manifestum ex
definitione contingentis. Rursum si A contingit nulli B, B autem contingit
alicui C inesse, necesse est A contingere alicui C non inesse. Demonstratio
autem eadem quae in his. Si autem privativa sumatur particularis propositio,
universalis autem affirmativa, positione autem similiter se habeant (ut A
quidem omni B contingat, B autem alicui C contingat non inesse), per sumptas
quidem propositiones non fit manifestus syllogismus, conversa autem particulari,
et posito B alicui C contingere inesse, eadem erit conclusio quae et prius,
quemadmodum in iis quae ex principio. Si autem quae ad maiorem extremitatem
particularis sumatur, quae ad minorem universalis, sive utraeque sumantur
affirmativae, sive privativae, sive non similis figurae, sive utraeque
indefinitae, vel particulares, nullo modo erit syllogismus. Nihil enim prohibet
B transcendere A, et non praedicari de aequis, in quo enim B transcendit A
sumat C, huic neque omni, neque nulli, neque alicui, neque non alicui contingit
A inesse, siquidem convertuntur secundum contingere propositiones, et B
pluribus contingit quam A inesse. Amplius autem ex terminis manifestum est, nam
sic se habentibus propositionibus primum postremo et nulli contingit, et omni
ex necessitate inesse. Termini autem communes omnium, inesse quidem ex
necessitate, animal, album, homo, non contingere vero, animal, album, vestis. Manifestum
igitur quoniam hoc modo habentibus se terminis, nullus fit syllogismus, nam
omnis syllogismus vel eius quod est inesse est, vel ex necessitate vel
contingere, non est autem eius quod est inesse, neque necessarii, manifestum
quoniam non est, nam affirmativus interimitur privativo, et privativus
affirmativo, relinquitur ergo eius quod contingere esse, hoc autem impossibile.
Ostensum est enim quoniam sic se habentibus terminis, et omni postremo primum
necesse inesse, et nulli contingere inesse, quare non erit eius quod est
contingere syllogismus, nam necessarium uno [sic] erat contingens. Manifestum
autem et quoniam cum universales sunt termini in contingentibus
propositionibus, semper fit syllogismus in prima figura, sive sunt praedicativi,
sive privativi. Verum ex praedicativis quidem perfectus, ex privativis autem
imperfectus. Oportet autem contingere sumere non in necessariis, sed secundum
dictam definitionem, aliquoties autem latet huiusmodi. Si autem haec quidem
inesse, illa vero contingere sumatur propositionum, quando quae ad maiorem
quidem extremitatem contingere significaverit perfecti erunt omnes syllogismi,
et contingentis secundum dictam determinationem, quando autem quae ad minorem, et
imperfecti omnes, et privativi syllogismi, non contingentis secundum dictam
determinationem, sed eius quod est nulli, aut non omni ex necessitate inesse.
Si enim nulli, aut non omni ex necessitate contingere dicimus, et nulli, et non
omni inesse. Contingat enim A omni B, B autem omni C ponatur inesse, quoniam
igitur sub B est C, A autem contingit omni B, manifestum quoniam et C omni
contingit A, fit ergo perfectus syllogismus. Similiter autem et cum privativa
est A B propositio, B C autem affirmativa, et haec quidem contingere, illa vero
inesse sumetur, perfectus erit syllogismus, quoniam A contingit nulli C inesse.
Quoniam ergo inesse posito ad minorem extremitatem, perfecti syllogismi fiunt,
manifestum. Quod autem contrariae se habentes erunt syllogismi, per impossibile
monstrandum est, simul autem erit manifestum et quoniam imperfecti, nam
ostensio non ex sumptis propositionibus.Primum autem dicendum quoniam si cum
est A, necesse est esse B, et cum possibile est esse A, possibile erit B ex
necessitate. Sit enim sic se habentibus rebus ut in quo quidem A possibile, in
quo autem B impossibile, si ergo aliud possibile quidem est, cum possibile
esse, ipsum fiet, hoc vero impossibile, quoniam impossibile, non utique fiet,
simul autem si A possibile, et B impossibile, continget fieri praeter B, si
autem fieri et esse. Nam quod fit, quando factum est, est. Oportet autem
accipere non solum in generatione possibile et impossibile, sed et in verum
esse, et in quod actu est, et quocunque modo simpliciter aliter dicitur
possibile, in omnibus enim similiter se habebit. Amplius cum est A, B esse, non
tanquam uno aliquo existente A, erit B, oportet opinari, nihil enim est ex
necessitate uno aliquo existente, sed duobus ad minus, ut quando propositiones
sic se habent (ut dictum est) secundum syllogismum, nam sic dicitur de D, D
autem de E, et C de E ex necessitate, et si utrumque possibile, et conclusio
erit possibilis. Quemadmodum ergo si quis ponat A quidem propositiones, B autem
conclusionem, accidet non solum A existente necessario, et B simul esse
necessarium, sed etiam possibili possibile. Hoc autem ostenso manifestum est
quoniam falso posito, et non impossibili, et quod accidit propter positionem
falsum erit, et non impossibile, ut si A falsum quidem est, non tamen
impossibile, cum autem sit A et B, et B erit falsum quidem, non tamen impossibile.
Nam ostensum est quoniam cum est A, est B, et cum possibile est A, possibile
est B. Positum autem est A possibile esse, et B erit possibile, si enim
impossibile est B, simul idem erit possibile et impossibile. Determinatis autem
iis, insit A omni B, B autem contingit omni C, necesse est A igitur contingere
omni C inesse. Non enim contingat, B autem omni C ponatur inesse, hoc autem
falsum quidem, non tamen impossibile, si ergo A quidem non contingit omni C, B
autem omni C insit, A non omni B contingit. Fit enim syllogismus per tertiam
figuram. Sed positum erat omni C contingere inesse, necesse est ergo A omni C
contingere. Falso enim posito, et non impossibili, quod accidit est
impossibile. Possibile est autem et primam figuram facere impossibile ponentes
B inesse C, nam si B omni C inest, A autem omni B contingit, et omni C
continget A, sed positum erat non omni possibile inesse.Oportet autem accipere
omni inesse non secundum tempus determinantes, ut nunc, aut in hoc tempore, sed
simpliciter (per huiusmodi enim propositiones et syllogismos facimus), quoniam
secundum nunc sumpta propositione, non erit syllogismus. Nihil enim fortasse
prohibet quandoque et omni moventi hominem inesse, ut si nihil aliud moveatur,
movens autem contingit omni equo, sed homo nulli equo contingit. Amplius: sit
primum quidem animal, medium vero movens, postremum vero homo, ergo
propositiones quidem similiter se habebunt, conclusio vero erit necessaria, non
contingens. Ex necessitate enim homo est animal, manifestum igitur quoniam
universale sumendum simpliciter, et non tempore determinantes. Rursum: sit
privativa propositio universalis A B, et sumatur A quidem nulli B inesse, B
autem contingat omni C inesse. His igitur positis necesse est A contingere
nulli C inesse, non enim contingat, B autem ponatur inesse C sicut prius,
necesse est igitur A alicui B inesse, fit enim syllogismus per tertiam figuram.
Hoc autem impossibile, quare contingit A, nulli C. Posito enim falso, et non
impossibili, impossibile est quod accidit. Hic ergo syllogismus non est
contingentis secundum definitionem, sed nulli inesse ex necessitate. Haec est
contradictio factae hypothesis. Positum est enim ex necessitate A alicui C
inesse, syllogismus autem per impossibile, oppositae est contradictionis. Amplius
autem et ex terminis manifestum quoniam non erit conclusio contingens, sit enim
A quidem corvus, in quo autem B intelligens, in quo autem C homo, nulli ergo B
inest A, nam nullum intelligens, corvus, B autem contingit omni C, omni enim
homini inest intelligere, sed A ex necessitate nulli C, non igitur conclusio
contingens. Sed nec necessaria semper: sit enim A quidem movens, B autem
scientia, in quo autem C homo, ergo A quidem nulli B inerit, B autem omni C
contingit, et non erit conclusio necessaria, non enim necesse est nullum
hominem moveri, sed necesse est aliquem. Manifestum igitur quoniam est
conclusio eius quod est nulli ex necessitate inesse. Sumendum autem melius
terminos. Si autem privativum ponatur ad maiorem extremitatem contingere
significans, ex ipsis quidem sumptis propositionibus, nullus erit syllogismus,
conversa autem secundum contingens propositione, erit quemadmodum in prioribus.
Insit enim A omni B, B autem contingat nulli C, sic ergo habentibus se
terminis, nihil erit necessarium. Si autem convertatur B C, et sumatur B
contingere omni C, fiet syllogismus quemadmodum prius, similiter enim habent se
termini positione. Eodem autem modo et cum privativa sunt utraque intervalla,
si A B quidem non inesse, B C autem nulli, contingere significat, nam per ea
quidem quae sumpta sunt nullo modo fit necessarium, conversa autem secundum
contingens propositione erit syllogismus, sumatur enim A quidem, nulli B
inesse, B autem contingere nulli C, per haec quidem nihil necessarium. Si autem
sumatur B omni C contingere, quod verum est, A B autem propositio similiter se
habeat, rursus erit idem syllogismus. Si autem non inesse ponatur B omni C, et
non contingere non inesse, non erit syllogismus nullo modo, sive privativa sit,
sive affirmativa A B propositio. Termini autem communes ex necessitate quidem
inesse, album, animal, nix. Non contingere autem, album, animal, pix. Manifestum
est igitur quoniam cum universales sunt termini, et haec quidem propositionum
inesse, illa vero sumitur contingens, quando quae ad minorem est extremitatem
contingere sumitur propositio, semper fit syllogismus, verumtamen quandoquidem
ex ipsis, quando autem propositione conversa, quando vero utrumque horum, et ob
quam causam, diximus. Si autem hoc quidem universale, illud vero particulare
sumitur intervallorum, quando ad maiorem quidem extremitatem universale
ponitur, et contingens sive negativum, sive affirmativum, particulare autem
affirmativum et inesse, erit syllogismus perfectus, quemadmodum et cum universales
sunt termini, demonstratio autem eadem quae et prius. Quando autem universale
quidem fuerit, ad maiorem extremitatem inesse, et non contingens, alterum vero
particulare, et contingens, sive affirmative, sive negative ponantur utraeque,
sive haec quidem negativa, illa vero affirmativa, omnino erit syllogismus
imperfectus. Verum hi quidem per impossibile ostenduntur, illi vero per
conversionem contingentis, quemadmodum in prioribus. Erit autem syllogismus per
conversionem, et quando universalis quidem ad maiorem extremitatem posita
significaverit inesse, vel non inesse, particularis vero cum sit privativa,
sumatur contingens, ut si A quidem omni B inest, vel non inest, B autem alicui
contingit non inesse, conversa enim B C, secundum contingere fit syllogismus.
Quando autem non inesse sumetur particulariter posita propositio, non erit
syllogismus Termini inesse, album, animal, nix; non inesse autem, album,
animal, pix, per indefinitum enim est sumenda demonstratio. Si autem universale
quidem ponatur ad minorem extremitatem, particulare autem ad maiorem sive
privativum, sive affirmativum, sive contingens, sive inesse utrumvis, nullo
modo erit syllogismus. Nec cum particulares, vel indefinitae ponentur
propositiones, sive contingere sumptae, sive inesse, seu permutatim, nec sic
erit syllogismus, demonstratio autem eadem quae in prioribus. Termini autem
communes inesse quidem, ex necessitate, animal, album, homo; non contingere
vero, animal, album, tunica. Manifestum est igitur quoniam universali posito ad
maiorem extremitatem semper erit syllogismus, ad minorem autem nunquam. Quando
autem haec quidem propositionum ex necessitate inesse, vel non inesse, illa
vero contingere significat, syllogismus quidem erit hoc modo habentibus se
terminis. Et perfectus, quando ad minorem extremitatem ponetur necessaria.
Conclusio autem, si praedicativi sunt quidem termini, contingentis, et non
inesse erit, sive universaliter, sive non universaliter ponantur, si autem sint
hoc quidem affirmativum, illud vero privativum, quando affirmativum quidem
fuerit necessarium, et contingentis erit conclusio, et non eius quod est non
inesse. Quando autem privativum necessarium, et contingentis non esse, et non
inesse, sive universales, sive non universales sint termini. Contingere autem
in conclusione eodem modo accipiendum est quo in prioribus. Eius autem quod est
ex necessitate non inesse, non erit syllogismus, aliud enim est non ex
necessitate inesse, et ex necessitate non inesse. Quoniam igitur
universalibus affirmativis existentibus terminis non fit conclusio necessaria,
manifestum: insit enim A omni B ex necessitate, B autem contingat omni C, erit
igitur syllogismus imperfectus, quoniam A contingit omni C inesse. Quoniam
autem imperfectus, ex demonstratione palam, eodem enim modo ostendetur quo et
in prioribus. Rursum A quidem contingat omni B inesse, B autem omni C insit ex
necessitate, erit itaque syllogismus, quoniam A contingat omni C inesse, sed
non quoniam inest, et perfectus quidem, sed non imperfectus, statim enim
perficitur ex principio propositionis. Si autem non similis figurae sint
propositiones, sit primum privativa necessaria, et A quidem nulli contingat B
ex necessitate, B autem contingat omni C, necesse est igitur A nulli C inesse.
Ponatur enim A inesse aut omni, aut alicui, positum autem est A nulli
contingere B, quoniam ergo convertitur privativa, et B nulli A contingit, A
autem positum est inesse C aut omni, aut alicui, quare nulli, aut non omni C
continget B inesse, sed supponebatur omni ex principio. Manifestum autem
quoniam et eius quod est contingere non inesse fit syllogismus, siquidem non
inesse. Rursum sit affirmativa quidem propositio necessaria, et A quidem
contingat nulli B inesse, B autem insit omni C ex necessitate. Ergo fit
syllogismus quidem perfectus, sed non eius quod est non inesse, sed eius quod
est contingere non inesse. Nam et propositio sic sumpta est, quae ad maiorem
est extremitatem, et ad impossibile non est ducere: nam si ponatur A inesse
ulli C, positum est autem et A B contingere nulli inesse, nihil accidit per
haec impossibile. Si autem ad minorem extremitatem ponatur privativum quando
contingere quidem significaverit, syllogismus erit per conversionem,
quemadmodum in prioribus. Quando autem non contingere, non erit ex necessitate,
nec quando utraque quidem propositio privativa, non est autem contingens quod
ad minorem est. Termini autem inesse quidem, album, animal, nix; non inesse
quidem, album, animal, pix. Eodem autem modo se habebit, et in particularibus
syllogismis. Quando enim fuerit privativa necessaria, et conclusio erit eius
quod est non inesse, ut si A quidem nulli B contingit inesse ex necessitate, B
autem alicui C contingat inesse, necesse est A alicui eorum quae sunt C non
inesse. Si enim A omni C inest, nulli autem contingit B, et B nulli A contingit
inesse: quare si omni C inest A, nulli C contingit B, sed positum erat alicui
contingere. Quando autem particularis affirmativa necessaria fuerit, quae in
privativo est syllogismo, ut B C, aut universalis in affirmativo, ut A B, non
erit inesse syllogismus. Demonstratio autem eadem quae in prioribus. Si autem
universale quidem ponatur ad minorem extremitatem vel affirmativum vel
privativum contingens, particulare autem necessarium, non erit syllogismus.Termini
autem inesse quidem ex necessitate, animal, album, homo; non contingere autem,
animal, album, tunica. Quando similiter universale quidem est necessarium,
particulare autem contingens, cum privativum quidem est universale, inesse
quidem termini, animal, album, corvus; non inesse, animal, album, pix. Cum
autem affirmativum, inesse quidem, animal, album, cygnus; non contingere autem,
animal, album, nix. Nec quando indefinitae sumuntur propositiones, aut utraeque
particulares, non sic erit syllogismus. Termini autem communes, inesse quidem,
animal, album, homo; non inesse autem, animal, album, inanimatum. Nam et animal
alicui albo, et album inanimato alicui est necessarium inesse, et non contingit
inesse, et in contingenti similiter, quare ad omnia utiles sunt termini.
Manifestum ergo ex iis quae dicta sunt, quoniam similiter habentibus se
terminis, et in eo quod est inesse, et in necessariis, et fit, et non fit
syllogismus, verumtamen secundum inesse quidem posita privativa propositione,
eius quod est contingere erat syllogismus, secundum necessarium autem
privativa, et contingere, et non inesse. Palam autem et quoniam omnes
imperfecti syllogismi, et quomodo perficiuntur per praedictas figuras.In
secunda autem figura quando contingentes quidem sumuntur utraeque
propositiones, nullus erit syllogismus, sive sint affirmativae, sive
privativae, sive universales, sive particulares. Quando autem haec quidem
inesse, illa vero contingere significat, affirmativa quidem inesse
significante, nunquam erit syllogismus, privativa universali existente, semper.
Eodem modo et quando haec quidem ex necessitate, illa vero contingere
assumatur, oportet autem et in his accipere quod in conclusionibus est contingens
quemadmodum in prioribus. Primum igitur ostendendum quoniam non convertitur in
contingenti, privativa, ut si A contingit nulli B, non necesse est et B
contingere nulli A. Ponatur enim hoc et contingat B nulli A inesse, ergo
quoniam convertuntur quae sunt in eo quod est contingere affirmationes
negationibus, et contrariae, et contraiacentes, B autem contingit nulli A
inesse, manifestum est quoniam et omni A contingit B inesse. Hoc autem falsum
est. Non enim si hoc huic omni contingit, et hoc huic contingat necessarium,
quare non convertitur privativa. Amplius autem nihil prohibet A quidem
contingere nulli B, B autem alicui A ex necessitate non inesse, ut album quidem
contingit omni homini non inesse, nam et inesse hominem autem non verum est
dicere, quoniam contingit nulli albo, pluribus enim ex necessitate non inest,
necessarium autem non inerat contingens. Sed nec ex impossibili ostendet
convertens, ut si quis pPomba quoniam falsum est B contingere nulli A inesse,
verum non contingere nulli A, affirmatio enim et negatio, si autem hoc verum,
ex necessitate alicui A inesse B, quare et A alicui B inesse, hoc autem
impossibile. Non enim si A non contingit nulli B, necesse est A alicui B
inesse. Nam non contingere nulli dicitur dupliciter, hoc quidem si ex
necessitate alicui inest, illud vero si ex necessitate alicui non inest. Nam
quod ex necessitate alicui eorum quae sunt A non inest, non est verum dicere
quoniam omni contingit non inesse, quemadmodum nec alicui inest ex necessitate,
quoniam omni contingit inesse. Si ergo aliquis pPomba quoniam contingit C omni
D inesse, ex necessitate alicui non inesse ipsum, falsum sumet, omni enim
inest, si contingat, sed quoniam quibusdam ex necessitate inest, propter hoc
dicimus non omni contingere. Quare ei quod est contingere omni inesse, et ea
quae est ex necessitate alicui inesse, opponitur, et ea quae est ex necessitate
alicui non inesse, similiter autem et ei quae est contingere nulli. Palam ergo
quoniam ad sic contingens, et non contingens, ut in principio definivimus, non
solum ex necessitate alicui inesse, sed et ex necessitate alicui non inesse
sumendum. Hoc autem sumpto, nihil accidit impossibile, quare non fit
syllogismus. Manifestum ergo ex iis quae dicta sunt quoniam non convertitur
privativa. Hoc autem ostenso ponatur A, B quidem contingere nulli, C vero omni,
per conversionem ergo non erit syllogismus. Dictum est enim quoniam non
convertitur huiusmodi propositio. Sed nec per impossibile, nam posito B omni C
contingere inesse, nihil accidit falsum, continget enim A et omni et nulli C
inesse. Omnino autem si est syllogismus, palam quoniam contingens erit, eo quod
neutra propositionum sumpta est in eo quod est inesse, et hic vel affirmativus,
vel privativus: neutro autem modo possibile est, affirmativo enim posito,
ostendetur per terminos quoniam non contingit inesse; privativo autem, quoniam
conclusio non est contingens, sed necessaria. Sit enim A quidem album, B autem
homo, in quo autem C equus, ergo album A contingit huic quidem omni, illi vero
nulli inesse, sed B neque inesse contingit C, neque non inesse. Quoniam igitur
inesse non possibile, est manifestum, nullus enim equus homo, sed neque
contingere non inesse, necesse est enim nullum equum hominem esse, necessarium
autem non erat contingens, non igitur fit syllogismus Similiter autem
ostendetur, et si e converso ponatur privativa, et si utraeque affirmative
ponantur, vel privative, nam per eosdem terminos erit demonstratio. Et quando
haec quidem universalis, illa vero particularis, vel utraeque particulares, vel
indefinitae, aut quolibet modo aliter contingit permutari propositiones, semper
enim erit per eosdem terminos demonstratio. Manifestum ergo quoniam utrisque
propositionibus secundum contingere positis, nullus fit syllogismus. Si autem
altera quidem inesse, altera vero contingere significat, praedicativa quidem
inesse posita, privativa vero contingere, nunquam erit syllogismus, sive
universaliter, sive particulariter sumantur termini, demonstratio autem eadem,
et per eosdem terminos. Quando autem affirmativa quidem contingere, privativa
inesse, erit syllogismus. Sumatur enim A B quidem nulli inesse, C vero omnia
contingere, conversa ergo privativa, B inest nulli A, A autem omni C
contingebat, fit ergo syllogismus, quoniam B contingit nulli C, per primam
figuram. Similiter autem et si ad C ponatur privativa. Si autem utraeque sint
privativae, significet autem haec quidem non inesse, illa vero contingere non
inesse, per ea quidem quae sumpta sunt nihil accidit necessarium, conversa
autem secundum contingere propositione fit syllogismus, quoniam B contingit
nulli C inesse, quemadmodum in prioribus, erit enim rursum prima figura. Si
autem utraeque ponantur praedicativae, non erit syllogismus. Termini quidem
inesse sanitas, equus, homo. Eodem autem modo se habebit et in particularibus
syllogismis. Quando autem erit affirmativa inesse, sive universaliter, sive
particulariter sumpta, nullus erit syllogismus; hoc autem similiter, et per
eosdem terminos demonstratur, quibus et prius. Quando autem et privativa, erit
per conversionem, quemadmodum in prioribus. Rursum si ambo quidem intervalla
privativa sumantur, universaliter autem quod non inesse, ex ipsis quidem
propositionibus non erit necessarium, conversa autem contingenti sicut in
prioribus, erit syllogismus. Si autem inesse quidem sit privativa, particulariter
quidem sumpta, non erit syllogismus, neque praedicativa, neque privativa
existente altera propositione. Nec quando utraeque ponuntur indefinitae, vel
affirmativae, vel negativae, aut particulares; demonstratio autem eadem et per
eosdem terminos. Si autem haec quidem propositionum ex necessitate, illa vero
contingere significat, privativa quidem necessaria, erit syllogismus, non solum
quoniam contingit non inesse, sed et quoniam non inest, affirmativa autem non
erit. Ponatur autem A B quidem nulli inesse ex necessitate, C autem omni
contingere, conversa ergo privativa, et B nulli A inerit, A autem omni E
contingebat. Fit igitur rursum per primam figuram syllogismus, quoniam B
contingit nulli C inesse. Simul autem manifestum quoniam neque inest B nulli C,
ponatur enim inesse, ergo si A nulli B contingit, B autem inest alicui C, A
alicui C non contingit, sed omni ponebatur contingere. Eodem autem modo
ostendetur, et si ad C ponatur privativum. Rursum. Sit praedicativa quidem
necessaria, altera autem privativa, et contingens, et A B contingat nulli, C
autem omni insit ex necessitate, sic ergo habentibus se terminis, nullus erit
syllogismus, accidit enim B ex necessitate non inesse. Sit enim A quidem album,
in quo autem B, homo, in quo vero C, cygnus, ergo album cygno quidem ex
necessitate inest, homini autem contingit nulli, et homo nulli cygno ex
necessitate. Quoniam igitur eius quod est contingere non est syllogismus,
manifestum est, nam ex necessitate non erat contingens. Sed tamen non
necessarii, nam necessarium aut ex utrisque necessariis, aut ex privativa
necessaria contingebat. Amplius et possibile est iis positis B inesse C. Nihil
enim prohibet C quidem sub B esse, A autem B quidem omni contingere, C vero ex
necessitate inesse, ut sit quidem C vigilia, B autem animal, in quo autem A
motus. Nam vigilanti quidem ex necessitate inest motus, animali autem nulli
contingit, et omne vigilans animal. Manifestum ergo quoniam non eius quod est
non inesse, siquidem sic se habentibus terminis, necesse est inesse, neque
autem oppositarum affirmationum, quare nullus erit syllogismus. Similiter autem
ostendetur, et e converso posita affirmativa. Si autem similis figurae sint
propositiones, cum privativae sint, semper fit syllogismus, conversa secundum
contingere propositione, quemadmodum in prioribus. Si sumatur enim A B quidem
ex necessitate non inesse, C autem contingere non inesse, conversis autem
propositionibus, B quidem nulli inesse A, A autem omni C contingit, fit igitur
prima figura, et si ad C ponatur privativum similiter. Si autem praedicativae
ponantur, non erit syllogismus, nam eius quod est non inesse, aut eius quod est
ex necessitate non inesse, manifestum quoniam non erit, eo quod non sumpta sit
privativa propositio, neque in eo quod est inesse, neque in eo quod est ex
necessitate inesse, sed neque eius quod est contingere non inesse, ex
necessitate enim sic se habentibus, B non inerit C, ut si A quidem ponatur
album, in quo autem B cygnus, in quo autem C homo, neque oppositarum
affirmationum, quoniam ostensum est B ex necessitate non inesse C, non ergo fit
syllogismus omnino. Similiter autem se habebit et in particularibus syllogismis.
Quando autem fuerit privativa, et universalis, et necessaria, semper erit
syllogismus, et eius quod est contingere non inesse, et eius quod est non
inesse, demonstratio autem per conversionem. Quando autem affirmativa, nunquam,
eodem autem modo ostendetur quo et in universalibus, et per eosdem terminos.
Nec quando utraeque sumuntur affirmative, nam et huius eadem demonstratio, quae
et prius. Quando utraeque quidem privativae, universalis autem et necessaria,
quae non inesse significat, per ea quidem quae sumpta sunt, non erit
necessarium, conversa autem secundum contingere propositione, erit syllogismus,
quemadmodum in prioribus. Si autem utraeque indefinitae, vel particulares
sumantur, non erit syllogismus, demonstratio autem eadem, et per eosdem
terminos. Manifestum igitur ex praedictis quoniam privativa quidem universalis
posita necessaria, semper fit syllogismus, non solum eius, quod est contingere
non inesse, sed et non inesse, affirmativa autem nunquam. Et quoniam eodem modo
se habentibus, et in necessariis, et in iis quae insunt, fit et non fit
syllogismus Palam et quoniam imperfecti omnes sunt syllogismi, et quoniam omnes
perficiuntur per praedictas figuras. In postrema autem figura, et utrisque
contingentibus, et altera, erit syllogismus. Quando ergo contingere significant
propositiones, et conclusio erit contingens. Et quando haec quidem contingere,
illa vero inesse, similiter erit syllogismus. Quando autem altera ponitur
necessaria, si affirmativa quidem non erit conclusio, neque necessaria, neque
inesse. Si autem privativa, eius quod est non inesse erit syllogismus,
quemadmodum in prioribus. Sumendum autem et in his similiter, quod est in
conclusionibus contingens. Sint ergo primum contingentes, et A et B contingant
omni C inesse, quoniam ergo convertitur affirmativa particulariter, B autem
omni C contingit, et C alicui B contingit, quare si A quidem omni C contingit,
C autem alicui B, et A alicui B contingit, fit enim prima figura. Et si A
quidem contingit nulli C inesse, B autem omni C contingat, necesse est A alicui
cui B contingere non inesse, erit enim rursum prima figura per conversionem. Si
autem utraeque privativae ponantur, ex his quidem quae sumpta sunt non erit
necessarium, conversis autem propositionibus erit syllogismus, quemadmodum in
prioribus. Si enim A et B contingunt C non inesse, si transmutatur contingere
non inesse, rursum erit prima figura per conversionem. Si autem hic quidem
terminorum est universalis, ille vero particularis, eodem modo se habentibus
terminis quo inesse, et erit, et non erit syllogismus. Contingat enim A quidem
omni C, B autem alicui C inesse, erit ergo rursum prima figura particulari
propositione conversa, nam si A omni C, C autem alicui B, et A alicui B
contingit. Et si ad B C ponatur universale, similiter. Similiter autem et si A
C quidem privativa sit, B C autem affirmativa, erit unum rursum prima figura
per conversionem, si autem utraeque privativae ponantur, haec quidem
universaliter, illa vero particulariter, per ea quidem quae sumpta sunt non
erit syllogismus, conversis autem propositionibus erit quemadmodum in
prioribus. Quando autem utraeque indefinitae vel particulares sumuntur, non
erit syllogismus, etenim necesse est A omni B, et nulli inesse. Termini inesse,
animal, homo, album: non inesse, equus, homo, medium album. Si autem haec
quidem propositionum inesse, illa autem contingere significet, conclusio quidem
erit quoniam contingit, et non quoniam inest, syllogismus autem erit eodem modo
se habentibus terminis, quo et in prioribus. Sint enim primum praedicativae, et
A quidem omni C insit, B autem omni C contingat, conversa ergo B C erit prima
figura, et conclusio quoniam contingit A alicui B inesse, cum enim altera
propositionum in prima figura significabit contingere, et conclusio erit
contingens. Similiter autem et si B C quidem inesse, A C autem contingit
inesse. Et si A C quidem privativa, B C autem praedicativa, insit autem
alterutra utrinque, contingens erit conclusio, fit enim rursum prima figura.
Ostensum est autem quoniam si altera propositio significet contingere in prima
figura, et conclusio erit contingens. Si autem contingens privativa ponatur ad
minorem extremitatem, vel si utraque ponatur privativa, per ea quidem quae
posita sunt non erit syllogismus, conversis autem erit, quemadmodum et in
prioribus. Si autem haec quidem propositionum sit universalis, illa vero
particularis, utrisque quidem praedicativis, aut universali quidem privativa,
particulari autem affirmativa, idem modus erit syllogismorum, omnes enim
clauduntur per primam figuram. Quare manifestum quoniam eius quod est
contingere, et non eius quod est inesse, erit syllogismus. Si autem affirmativa
quidem universalis, privativa autem particularis, per impossibile erit
demonstratio. Insit enim B quidem omni C, A autem contingat alicui C non
inesse, necesse est ergo A alicui B contingere non inesse, nam si omni B inest
A ex necessitate, B autem omni C positum est inesse, A omni C ex necessitate
inerit. Hoc autem ostensum est prius, sed positum est alicui contingere non
inesse. Quando autem indefinitae, vel particulares sumuntur utraeque, non erit
syllogismus, demonstratio autem eadem quae et in universis et per eosdem
terminus. Si autem est haec quidem propositionum necessaria, illa vero
contingens, si praedicativi quidem sunt termini, semper eius quod est contingere
erit syllogismus. Quando autem fuerit hic quidem praedicativus, ille autem
privativus, si sit affirmativus quidem necessarius, eius erit quod est
contingere non inesse, si autem privativus, et eius quod est contingere non
inesse, et eius quod est non inesse; eius autem quod est ex necessitate non
inesse non erit syllogismus, quemadmodum et in aliis figuris. Sint ergo
praedicativi termini primum, et A C quidem omni insit ex necessitate, B autem
omni C contingat inesse, quoniam ergo A omni C necessario inest, C autem alicui
B contingit, et A alicui B contingens erit, et non inerit, sic enim accidit in
prima figura. Similiter autem ostendetur, et si B C quidem ponatur necessaria,
A C autem contingens. Rursum sit hoc quidem praedicativum, illud vero
privativum, necessarium autem praedicativum, et A quidem contingat nulli C
inesse, B autem omni insit ex necessitate C, erit ergo rursum prima figura, et
conclusio contingens, sed non inesse. Nam privativa propositio contingere
significat. Manifestum est igitur quoniam conclusio erit contingens; cum enim
sic se habebant propositiones in prima figura, et conclusio erat contingens. Si
autem privativa sit propositio necessaria, et conclusio erit, quoniam contingit
alicui non inesse, et quoniam non inesse Ponatur enim A non inesse C, ex
necessitate, B autem omni C contingere, conversa ergo B C affirmativa, prima
erit figura, et necessaria privativa propositio. Cum autem sic se habebant
propositiones, accidebat A et contingere alicui C non inesse, et non inesse,
quare et A necesse est alicui B non inesse. Quando autem privativum ponitur ad
minorem extremitatem, si contingens quidem, erit syllogismus transsumpta
propositione, quemadmodum! et in prioribus. Si autem necessarium, non erit. Etenim
necesse est omni et nulli contingat inesse. Termini omni inesse, somnus, equus,
dormiens homo. Nulli inesse, somnus, equus, vigilans homo. Similiter autem se
habebit, et si hic quidem terminorum sit universalis, ille autem particularis
ad medium, nam si utrique sint praedicativi, eius quod est contingere, et non
eius quod est inesse erit syllogismus. Et quando hoc quidem privativum sumetur,
illud vero affirmativum, necessarium autem affirmativum, huius quod est
contingere. Quando autem privativum necessarium, et conclusio erit quod est non
inesse, nam idem modus erit demonstrationis, et cum universales et non
universales sunt termini. Necesse est enim per primam figuram perfici
syllogismos, quare ut in illis, et in his necessarium accidere. Quando autem
privativum universaliter sumptum ponitur ad minorem extremitatem, si contingens
quidem, erit syllogismus per conversionem, si autem necessarium sit, non erit,
ostendetur autem eodem modo quo et in universalibus, et per eosdem terminos. Manifestum
ergo et in hac figura quando et quomodo erit syllogismus, et quando eius quod
est contingere, et quando eius quod est inesse. Palam autem et quoniam omnes
imperfecti, et quoniam perficiuntur per primam figuram. Quoniam igitur qui in
his figuris sunt syllogismi perficiuntur per eos qui in prima figura sunt
universales syllogismos, et in hos reducuntur, palam ex dictis. Quoniam autem
simpliciter omnis syllogismus sic se habebit, nunc erit manifestum, cum
ostensus fuerit omnis qui fit, per aliquam harum figurarum fieri. Necesse est
ergo omnem demonstrationem et omnem syllogismum aut inesse quid, aut non inesse
monstrare. Et hoc aut universaliter, aut particulariter, amplius aut ostensive,
aut ex hypothesi. Eius autem quod est ex hypothesi, pars est per impossibile.
Primum ergo dicemus de ostensivis, his enim ostensis, manifestum erit et de iis
qui ad impossibile, et omnino de iis qui ex hypothesi. Si ergo oporteat A de B
syllogizare, vel inesse, vel non inesse, necesse est sumere aliquid de aliquo. Si
ergo A sumatur de B, quod ex principio erit sumptum, si autem A de C, C autem
de nullo alio, nec aliud de illo C, neque de A alterum, neque de altero A,
nullus erit syllogismus, nam in eo quod unum de uno sumitur, nihil accidit ex
necessitate, quare assumenda est altera propositio. Si igitur sumatur A de
alio, aut aliud de A, aut de C alterum, esse quidem syllogismum nihil prohibet,
ad B autem non erit per ea quae sumpta sunt, nec quando C inest alteri, et
illud alii, et hoc alteri, non copuletur autem ad B, nec sic erit ad B
syllogismus ipsius A. Omnino enim dicimus quoniam nullus nunquam erit
syllogismus alius de alio, non sumpto aliquo medio, quod ad utrumque se habet
quoquo modo praedicationibus. Nam syllogismus quidem simpliciter ex
propositionibus est, ad hoc autem syllogismus ex propositionibus, quae ad hoc,
qui autem est huius ad hoc, per propositiones huius ad hoc, impossibile est
autem ad B sumere propositionem, nihil neque praedicantes de eo, neque
negantes, aut rursum eius quod est A ad B, nihil commune sumentes, sed
utriusque propria quaedam praedicantes, aut negantes, quare sumendum, utriusque
quod copulet praedicationes, si erit huius ad hoc syllogismus. Ergo si necesse
est aliquod sumere ad utrumque commune, hoc autem contingit tripliciter, aut
enim A de C et de B praedicantes, aut C de utrisque, aut utraque de C, hae
autem sunt tres dictae figurae. Manifestum quoniam omnem syllogismum necesse
est fieri per aliquam harum figurarum. Nam eadem ratio est, etsi per plura
copuletur ad B, eadem enim erit figura et in pluribus. Quoniam igitur ostensivi
terminantur per praedictas figuras, manifestum est. Quoniam autem et qui ad
impossibile, palam erit per haec, omnes enim qui per impossibile concludunt,
falsum quidem syllogizant. Quod autem ex principio erat, ex hypothesi
demonstrant, quando aliquid accidit impossibile posita contradictione, ut
quoniam diameter est asymeter, eo quod fiunt abundantia aequalia perfectis,
posito symetro. Ergo aequalia quidem fieri abundantia perfectis syllogizant,
asymetrum autem esse diametrum, ex hypothesi monstrant, quoniam falsum accidit
propter contradictionem.Hoc enim fuit per impossibile syllogizare, ostendere
aliquid impossibile propter priorem hypothesin. Quare quoniam falsus fit
syllogismus ostensivus in his quae ad impossibile deducuntur, quod autem est ex
principio, ex hypothesi monstratur, ostensivos autem diximus prius, quoniam per
has terminantur figuras, manifestum quoniam et per impossibile syllogismi per
has erunt figuras Similiter autem et alii omnes qui sunt ex hypothesi, in
omnibus his enim syllogismus quidem fit ad transsumptum, quod autem est ex
principio, terminatur per confessionem aut per aliquam aliam hypothesin. Si
autem hoc verum, necesse est omnem demonstrationem et omnem syllogismum fieri
per tres praedictas figuras. (0666C) Hoc autem ostenso, palam quoniam omnis
syllogismus perficitur per primam figuram, et reducitur in huius universales
syllogismos. Amplius autem in omnibus oportet aliquem terminorum praedicativum
esse et universalem, sine universali enim non erit syllogismus, aut non ad hoc
quod positum est, aut quod ex principio est petet. Ponatur enim musicam
voluptatem esse studiosam, si ergo poposcerit voluptatem esse studiosam, non
addens omnem, non erit syllogismus, si autem aliquam voluptatem esse studiosam,
si aliam quidem, nihil ad hoc quod positum est, si autem eamdem, quod ex
principio erat, sumit. Magis autem fit manifestum in figuris, ut quoniam
aequicruris aequales sunt anguli, qui sunt ad basim: sint enim in centrum
ductae A B, si ergo aequalem sumpserit A C angulum ei qui est B D, non omnino
petens aequales eos qui sunt semicirculorum, et rursum C ei qui est D, non
omnem assumens eum qui est incisionis. Amplius, ab aequalibus existentibus
totis angulis, aequalibus demptis, aequales esse reliquos, scilicet E F, quod
ex principio est petet, nisi sumat ab omnibus aequalibus, aequis demptis,
aequalia relinqui. Manifestum igitur quoniam in omni syllogismo oportet
universale esse. Et quoniam universale quidem ex omnibus terminis universalibus
monstratur, particulare autem et sic, et aliter. Quare si conclusio sit
universalis, et terminos necesse est universales esse, si autem universales
sint termini, contingit conclusionem non universalem esse. Palam etiam quoniam
in omni syllogismo aut utramque, aut alteram propositionem similem necesse est
fieri conclusioni, dico autem non solum in eo quod affirmativa sit, vel
negativa, sed in eo quod necessaria aut inesse, aut contingens: considerare
autem oportet et alia praedicamenta. Manifestum autem et simpliciter quando
erit, et quando non erit syllogismus, et quando perfectus, et quoniam si est
syllogismus, necessarium est habere terminos secundum aliquem dictorum modorum.
Palam autem et quoniam omnis demonstratio erit per tres terminos, et non per
plures, nisi per alia et alia eadem conclusio fiat, ut E per A B, et per C D,
aut per A B, et A C, et B C, plura enim media eorumdem nihil esse prohibet,
haec autem cum sint, non unus, sed plures sunt syllogismi. Aut rursum, quando
utrumque A B sumitur per syllogismum, ut A per D E, et rursum B per F G, aut
hoc quidem inductione, illud autem syllogismo, sed et si plures erunt
syllogismi, plures enim conclusiones sunt, ut A B et C. Si igitur non plures,
sed unus (sic autem contingit fieri per plura media eamdem conclusionem, ut E
quidem per A B C D ), impossibile. Sit enim E conclusio ex A B C D, ergo
necesse est aliquid eorum, aliud ad aliud sumptum esse, hoc quidem ut totum,
illud vero ut pars, hoc enim ostensum est prius, quoniam si est syllogismus,
necesse est sic aliquos se habere terminorum. Habeat se ergo A sic ad B, est
itaque aliqua ex eis conclusio, aut ergo E, aut alterum eorum quae sunt C D,
aut alterum aliud quidem praeter haec. Et si E quidem, ex A B tantum, erit
syllogismus, C D autem quidem se habeant sic ut sit hoc quidem ut notum, illud
vero ut pars, erit aliquid ex illis aut E, aut aliquid eorum quae sunt A B, aut
alterum aliud quidem praeter haec. Et si E quidem, aut eorum quae sunt A B
alterum, aut plures erunt syllogismi, aut (ut contingebat) idem per plures
terminos concludi accidit, si autem aliud quidem praeter haec, plures erunt et
inconiuncti syllogismi ad invicem, si autem non sic se habeat C ad D ut faciat
syllogismum, vane erunt sumpta, nisi inductionis, aut celationis, aut alicuius
alius talium gratia. Si autem ex A B non E, sed alia quaedam fiat conclusio, ex
C D autem aut horum alterum, aut aliud praeter haec, et plures fiunt
syllogismi, et non eius quod positum est. Ponebatur enim eius quod est E esse
syllogismum. Si autem non fiat ex C D nulla conclusio, et vane sumpta esse ea
accidit, et non eius quod est ex principio esse syllogismum. Quare manifestum
quoniam omnis demonstratio et omnis syllogismus erit per tres terminos
solos.Hoc autem manifesto, palam quoniam et ex duabus propositionibus, et non
pluribus, nam tres termini, duae sunt propositiones, nisi assumatur aliquid
(quemadmodum in prioribus dictum est) ad perfectionem syllogismorum. Manifestum
igitur quando, ut in oratione syllogistica, non pares sunt propositiones per
quas fit conclusio principalis (quasdam enim superiorum conclusionum
necessarium est esse propositiones), haec oratio aut non syllogistica est, aut
plura necessariis interrogavit ad positionem. Secundum igitur principales
propositiones sumptis syllogismis, omnis syllogismus erit ex propositionibus
quidem perfectis, ex terminis autem abundantibus, uno enim plures termini
propositionibus, erunt autem et conclusiones dimidietas propositionum. Quando
autem per prosyllogismos concluditur, aut per plura media non continua, ut A B
per C D, multitudo quidem terminorum similiter uno superabit propositiones, aut
enim extrinsecus, aut medium ponetur intercidens terminus, utrinque autem
accidit uno minus esse intervalla quam terminos, propositiones autem aequales
sunt intervallis. Non tamen hae quidem semper perfectae erunt, illi vero
abundantes, sed permutatim, quia cum propositiones quidem sunt perfectae,
abundantes erunt termini, cum vero termini perfecti, abundantes erunt
propositiones, simul enim termino addito, una additur propositio, undecunque
addatur terminus. Quare quoniam hae propositiones quidem perfectae, illi vero
abundantes erant, necesse est transmutare eadem, additione facta.Conclusiones
autem non etiam eum habebunt ordinem neque ad terminos, neque ad propositiones,
uno enim termino addito, conclusiones adiungentur uno, pauciores
praeexistentibus terminis, ad solum enim ultimum non facit conclusionem, ad
alios autem omnes. Ut si eis quae sunt A B C, adiacet D, statim et conclusiones
duae adiacent, quae ad A, et ad B, similiter autem et in aliis. Si autem ad
medium intercidat, eodem modo, ad unum enim solum non faciet syllogismum, quare
multo plures conclusiones erunt et terminis et propositionibus. Quoniam autem
habemus ex quibus syllogismi, et quale in unaquaque figura, et quot modis
monstratur, manifestum nobis est, et quae propositio facile, et quae difficile
argumentabilis est. Nam quae in pluribus figuris et per plures casus
concluditur, facilis; quae autem in paucis et per pauciores, difficilius
argumentabilis. Ergo affirmativa quidem universalis per primam tantum figuram
monstratur, et per hanc simpliciter. Privativa vero et per primam, et per
mediam. Per primam quidem simpliciter, per mediam autem dupliciter.
Particularis autem affirmativa per primam et per postremam, simpliciter quidem
per primam, tripliciter autem per postremam. Privativa vero particularis in
omnibus figuris monstratur, verum in prima quidem semel, in media autem et
postrema, in illa quidem dupliciter, in hac vero tripliciter. Manifestum ergo
quoniam universalem affirmativam construere quidem difficillimum, destruere
autem facillimum, omnino autem est interimenti quidem, universalia quam
particularia facilius. Etenim si nulli, et si alicui non insit interemptum est,
horum autem alicui quidem non in omnibus figuris monstratur, nulli autem in
duabus. Eodem autem modo et in privativis, etenim si omni, et si alicui,
interemptum est quod ex principio. Hoc autem fuit in duabus figuris. In
particularibus autem simpliciter, aut omni, aut nulli ostendentem inesse.
Construenti autem, facilius est particularia, nam in pluribus figuris, et per
plures modos. Omnino autem non oportet latere quoniam destruere quidem per se
invicem est, et universalia per particularia, et haec per universalia;
construere autem non est per particularia universalia, per illa vero haec est.
Nam si omni, et alicui. Simul autem manifestum quoniam destruere quam construere
facilius. Quomodo ergo fit omnis syllogismus, et per quot terminos et
propositiones, et quomodo habentes se ad invicem, amplius autem quae propositio
in unaquaque figura, et quae in pluribus, et quae in paucioribus monstratur,
palam ex his quae dicta sunt. Quomodo autem idonei erimus semper syllogizare ad
propositum, et per quam viam sumemus circa unumquodque principia, nunc
dicendum. Non enim solum fortasse oportet generationem considerare
syllogismorum, sed et potestatem habere faciendi. Omnium igitur quae sunt, haec
quidem sunt talia, ut de nullo alio praedicentur vere universaliter, ut Cleon,
et Callias, et quod singulare, et sensibile, de his autem alia, nam et homo, et
animal uterque horum est. Illa vero et ipsa quidem de aliis praedicantur, de
illis autem alia prius non praedicantur, alia autem et ipsa de aliis, et de his
alia, ut homo de Callia, et de homine animal. Quoniam ergo quaedam eorum quae
sunt de nullo nata sunt dici, palam: nam sensibilium pene unumquodque est
huiusmodi, ut de nullo praedicetur, nisi, ut secundum accidens, dicimus enim
quandoque album illud Socratem esse, et hoc veniens Calliam. Quoniam autem in
sursum pergentibus statur quandoque, rursum dicemus. Nunc autem sit hoc
positum, de iis ergo praedicatum aliquod non est demonstrare nisi secundum
opinionem, sed haec de aliis, neque singularia de aliis, sed alia de ipsis. Quae
autem in medio sunt, manifestum quoniam utrumque contingit, nam et haec de
aliis, et alia de his dicuntur, et pene rationes et considerationes sunt maxime
de his. Oportet ergo propositiones circa unumquodque horum sic sumere
supponentem, ipsum primum et definitiones, et quaecunque propria sunt rei,
deinde post hoc quaecunque sequuntur rem. Et rursum quae res sequitur, et
quaecunque non contingit ipsi inesse, quibus autem ipsa non contingit, non
sumendum, eo quod convertitur privativa. Dividendum autem est, et eorum quae
sequuntur, quaecunque in eo quod quid est, et quaecunque ut propria, et
quaecunque ut accidentia praedicantur, et horum quae secundum opinionem, et
quae secundum veritatem. Quanto enim plurium talium abundaverit quis, citius
inveniet conclusionem, quanto autem veriorum, magis demonstrabit. Oportet autem
eligere non quae sequuntur aliquam, sed quaecunque totam rem sequuntur, ut non
quod aliquem hominem, sed quod omnem hominem sequitur, per universales enim
propositiones fit syllogismus. Cum autem est indefinitum, incertum si
universalis est propositio, cum vero definitum, manifestum. Similiter autem
eligendum et quae ipsum sequitur tota, propter dictam causam. Ipsum autem quod
sequitur, non est sumendum totum sequi, dico ut hominem omne animal, aut
musicam, omnem disciplinam, sed simpliciter solum sequi quemadmodum et
praetendimus, etenim inutile alterum et impossibile, ut omnem hominem esse omne
animal, vel iustitiam omne bonum, sed cui consequens est, in illo omni esse
dicitur. Quando autem ab aliquo continetur subiectum, cuius consequentia
oportet sumere, quae universale quidem sequuntur, vel non sequuntur, non
eligendum in his, sumpta enim sunt in illis quaecunque animal et hominem
sequuntur, et quaecunque non animali insunt, similiter. Quae autem in unoquoque
sunt propria, sumendum: sunt enim quaedam speciei propria praeter genus,
necesse est enim diversis speciebus propria quaedam inesse. Neque autem
universale eligendum iis quae sequitur quod continetur, ut animal iis quae
sequitur homo, necesse est enim si hominem sequitur animal, et haec omnia
sequi, convenientiora autem haec hominis electioni. Sumendum autem et quae
plerumque sequuntur ea quae consequuntur, nam et problematibus quae plerumque,
et syllogismus ex propositionibus, quae plerumque aut in omnibus, aut
aliquibus, similis enim est uniuscuiusque conclusio principiis. Amplius quae
omnibus sequentia sunt, non eligendum, non enim erit syllogismus ex ipsis, ob
quam autem causam, in sequentibus erit manifestum. Construere ergo volentibus
aliquid de aliquo toto, eius quidem quod construitur, inspiciendum ad subiecta
de quibus ipsum dicitur, de quo autem oportet praedicari quaecunque hoc
sequuntur. Si enim aliquod horum sit idem, alterum alteri necesse est inesse.
Si autem non quoniam omni, sed quoniam alicui, quae sequitur utrumque, si enim
aliquod horum idem fuerit, necesse est alicui inesse Quando autem nulli
oporteat inesse, cui quidem oportet non inesse, ad sequentia subiecti, quod
autem oportet non inesse, inspiciendum ad ea quae non contingunt illi adesse.
Aut conversim cui quidem oportet non inesse, ad ea quae non contingunt eidem
adesse, quod vero non inesse, inspiciendum ad sequentia. Nam si haec sint eadem
utrorumque, nulli contingi alteri alterum inesse, fit enim quandoque quidem in
prima figura syllogismus, quandoque autem in media. Si autem alicui non inesse,
cui quidem oportet non inesse, quae consequitur: quod vero non inesse, quae non
possibile est illi inesse. Si enim aliquid horum sit idem, necesse est alicui
non inesse. Magis autem fortasse erit sic, unumquodque eorum quae dicta sunt
manifestum. Sint enim sequentia quidem A, in quibus B, quae autem ipsum
sequitur, in quibus C, quae autem non contingunt ei inesse, in quibus D, rursum
autem ipsi E quae quidem insunt, in quibus F, quae autem ipsum sequitur, in
quibus G, quae autem non contingunt eidem inesse, in quibus H. Si ergo eidem
aliquid eorum quae sunt C, alicui eorum quae sunt F, necesse est A omni E
inesse, nam F quidem omni E, C autem omni A, quare omni E inest. Si autem C et
G idem, necesse est alicui E inesse A, nam id quod est E A, id vero quod est G
E, omne ei sequitur. Si autem F et D sint idem, nulli E inerit ex proprio
syllogismo, quoniam enim convertitur privativa, et F ei quod est D idem, nulli
F inerit A, F autem omni E. Rursus si B et H idem, nulli E inerit A, nam B A
quidem omni, ei autem in quo E nulli inerit. Idem enim erat ei quod est H, B; H
autem nulli E inerat. Si autem G et D idem, A alicui E non inerit, nam ei quod
est G non inerit A, quoniam neque D, G autem sub E est, quare alicui E non
inerit. Si autem G et B idem, conversus erit syllogismus, nam G inerit omni A,
nam B ei quod est A, E autem ei quod est B, idem enim erat ei quod est G, A
autem ei quod est E, omni quidem non necessarium est inesse, alicui autem
necessarium, eo quod convertatur universale praedicativum in particulare. Manifestum
ergo quoniam ad praedicta perspiciendum utrinque in unaquaque quaestione, per
haec enim omnes syllogismi. Oportet autem et sequentium, et quibus sequitur singulum,
ad prima et universalia maxime inspicere, ut E quidem magis ad k F quam ad F
solum, A autem ad k C magis quam ad C solum. Si enim ei quod est k F inest A,
et ei quod est F inest et ipsi E, si vero hoc non sequitur A, possibile est id
quod est F sequi. Similiter autem et in quibus idem sequitur, considerandum,
nam si primis, et iis quae sub ipsis sunt, sequitur; si autem non his, et iis
quae sub ipsis sunt, possibile. Palam autem quoniam per tres terminos et duas
propositiones consideratio, et per praedictas figuras syllogismi omnes,
monstratur enim omni quidem E inesse A, quando eorum quae sunt C F idem,
quiddam sumitur, hoc autem erit medium, extremitates autem A et E, fit enim
prima figura. Alicui autem quando C et G sumitur idem, hoc autem postrema
figura, medium enim fit G. Nulli vero quando D et F idem; sic autem et prima
figura, et media: prima quidem, quoniam nulli F inest A, siquidem convertitur
privativa, F autem omni E. Media autem quoniam D A quidem nulli, E autem omni
inest. Alicui autem non inesse, quando D et G idem fuerit, haec autem postrema
figura, nam A quidem nulli G inerit, E vero omni G; manifestum igitur est
quoniam per praedictas figuras omnes syllogismi. Et quoniam non eligendum
quaecunque omnibus sequuntur, eo quod nullus fiat syllogismus ex ipsis, nam
construere quidem non omnino erat ex sequentibus, privare autem non contingit
per ea quae omnibus sequuntur, oportet huic quidem inesse, illi vero non
inesse. Manifestum autem quoniam et aliae considerationes quae secundum electiones,
inutiles ad faciendum syllogismum. Ut si sequentia utrumque eadem sint, aut
quae sequitur A, et quae non contingit E inesse, aut rursum quaecunque non
possibile est utrique inesse, non enim fit syllogismus per haec. Nam si
sequentia sunt eadem, ut B et F, media fit figura praedicativas habens utrasque
propositiones. Si autem ea quae sequitur A, et quae non contingit E, ut C, et
H, prima erit figura privativam habens propositionem ad minorem extremitatem.
Si autem quaecunque non contingunt utrique, ut D et H, privativae utraeque
propositiones erunt vel in prima figura, vel in media, sic autem nullo modo
erit syllogismus. Palam autem et quae eadem, sumendum secundum considerationem,
et non quae diversa vel contraria, primum quidem quoniam medii gratia,
inspectio, medium autem non diversum, sed idem oportet sumere. Deinde et in
quibus accidit fieri syllogismum quod sumantur contraria, aut non contigentia
eidem inesse, in praedictos omnia reducuntur modos. Ut si B et F sint
contraria, aut non contingant eidem inesse, erit enim his sumptis syllogismus,
quoniam nulli E inest A, sed non ex ipsis, sed ex praedicto modo, nam B A
quidem omni, E autem nulli inerit, quare necesse est B idem esse alicui eorum
quae sunt H. Rursum si B et G non possint eidem adesse, erit quoniam alicui E
non inerit A, nam et sic media erit figura, nam B A quidem omni, G vero nulli
inerit, quare necesse est G idem esse alicui eorum quae sunt D, nam non
contingere G et B eidem inesse nihil differt, aut G alicui D idem esse, omnia
enim sumpta sunt in D, quae non contingunt A inesse. Manifestum ergo quoniam ex
istis quidem inspectionibus nullus fit syllogismus, et si B et F sint
contraria, idem esse B alicui H, et syllogismum semper fieri per haec. Accidit
ergo sic inspicientibus considerare viam aliam necessariam, eo quod quandoque latet
identitas horum quae sunt B et H. Eodem autem modo se habent et qui ad
impossibile deducunt syllogismi, ostensivis, nam et ipsi fiunt per ea quae
sequuntur, et quibus sequitur utrumque. Et eadem consideratio in utrisque, nam
quod monstratur ostensive, et per impossibile est syllogizare, et per eosdem
terminos, et quod per impossibile et ostensive. Ut quoniam A nulli E inest,
ponatur enim alicui inesse, ergo quoniam B omni A, A autem alicui E, et B
alicui E inerit, sed nulli inerat. Rursum quoniam alicui E inest A, si enim
nulli E inest A, E autem omni G, nulli G inerit A, sed omni inerat. Similiter
autem est in aliis propositis, semper enim erit in omnibus per impossibile
ostensio, ex sequentibus, et quibus sequitur utrumque. Et in uno quoque
proposito, eadem consideratio et ostensive volenti syllogizare, et ad
impossibile ducere, nam ex eisdem terminis utraeque demonstrationes. Ut si
ostensum est nulli E inesse A, quoniam accidit et B alicui E inesse, quod est
impossibile. Si sumptum sit E quidem nulli B, A autem omni B inesse, manifestum
est enim quoniam nulli E inerit A. Rursum si ostensive syllogizatum sit A
inesse nulli E, suppositis inesse per impossibile monstrabitur nulli inesse,
similiter autem et in aliis. In omnibus enim necesse est iis qui per
impossibile communem aliquem sumere terminum alium A subiectis, ad quem erit
mendacii syllogismus, quare conversa ea propositione, altera autem similiter se
habente, ostensivus erit syllogismus per eosdem terminos. Differt autem
ostensivus ab eo qui ad impossibile, quoniam in ostensivo secundum veritatem
ambae propositiones ponuntur, in eo autem qui ad impossibile, falsa una. Haec
vero erunt magis manifesta per sequentia quando de impossibili dicemus; nunc
autem tantum nobis sit manifestus, quoniam ad haec perspiciendum, et ostensive
volentibus syllogizare, et ad impossibile deducere. (0673C)In aliis autem
syllogismis quicunque sunt ex hypothesi, ut quicunque secundum transsumptionem,
aut secundum qualitatem in subiectis, non in prioribus, sed in transsumptis
erit consideratio, modus autem inspectionis idem: considerare autem oportet, et
dividere quot modis sunt ex hypothesi, monstratur ergo unumquodque propositorum
sic. Est autem et alio modo quaedam syllogizare horum, ut universalia per
particularem inspectionem ex hypothesi. Si enim C et G eadem sint, solum G
autem sumatur E inesse, omni E inerit A, et rursum si G et D eadem, solum autem
de G praedicetur E, quoniam nulli E inerit A, manifestum ergo quoniam sic inspiciendum.
Eodem autem modo et in necessariis, et in contingentibus, nam eadem
consideratio, et per eosdem terminos erit, eodemque ordine et contingentis, et
inesse syllogismus. Sumendum autem et in contingentibus et quae non insunt, possibilia
autem inesse. Ostensum est enim quoniam et per haec fit contingentis
syllogismus, similiter autem se habebit et in aliis praedicationibus. Manifestum
ergo ex praedictis quoniam non solum possibile est per hanc viam fieri omnes
syllogismos, sed etiam quoniam per aliam impossibile. Omnis enim syllogismus
ostensus est quoniam per aliquam praedictarum figurarum fit, has autem non
contingit per alia constitui quam per sequentia et quae sequitur unumquodque,
ex his enim propositiones, et medii sumptio, quare nec syllogismum possibile
est fieri per alia. Ergo methodus quidem de omnibus eadem est, et circa
philosophiam, et circa autem quamlibet disciplinam. Oportet enim quae insunt,
et quibus insunt circa unumquodque colligere, et his quamplurimis abundare, et
hoc per tres terminos considerare, destruentem quidem sic, construentem vero
sic, et secundum veritatem quidem, ex iis quae secundum veritatem scripta sunt
inesse, ad dialecticos autem syllogismos, ex propositionibus quae sunt secundum
opinionem. Principia autem syllogismorum universaliter quidem dicta sunt, et
quomodo se habeant, et quomodo oportet inquirere ea, quatenus non aspiciamus ad
omnia quae dicuntur, neque eadem construentes et destruentes, neque
construentes de omni aut de aliquo, destruentes ab omnibus aut ab aliquibus,
sed ad pauciora et determinata. Secundum singulum autem eorum quae sunt
eligere, ut de bono aut disciplina. Propria autem in unaquaque sunt plurima,
quare principia quidem quae sunt circa unumquodque, experimento est crescere,
dico autem ut astrologicam quidem experientiam astrologicae disciplinae,
sumptis enim sufficienter apparentibus, sic inventae sunt astrologicae
demonstrationes. Similiter autem et circa quamlibet aliam se habet et artem et
disciplinam. Quare si sumantur quae insunt circa unumquodque, nostrum erit iam
demonstrationes prompte declarare: si enim nihil secundum historiam omittatur
eorum quae subtiliter et vere insunt rebus, habebimus de omni (cuius quidem non
est demonstratio) hanc invenire et demonstrare, cuius autem non nata est
demonstratio, hoc facere manifestum. Universaliter ergo quo oportet modo
propositiones eligere pene dictum est, per diligentiam autem pertransivimus in
eo negotio quod circa dialecticam est.Quoniam autem divisio per genera parva
quaedam particula est dictae methodi facile videre: est enim divisio velut
infirmus syllogismus, nam quod oporteat quidem ostendere petitur, syllogizatur
vero semper aliquid superiorum. Primum autem idem hoc latuit omnes utentes ea,
et suadere conati sunt quoniam esset possibile de substantia demonstrationem
fieri, et de eo quod est quid; quare neque quoniam contingebat syllogizare eos
qui dividunt, intellexerunt, neque quoniam contingebat sic quemadmodum diximus.
Ergo in demonstrationibus quidem cum oporteat quid syllogizare, oportet medium
per quod fit syllogismus minus semper esse, et non universaliter de prima
extremitate. Divisio autem contrarium vult, nam universalius sumit medium. Sit
enim animal quidem in quo A, mortale autem in quo B, et immortale in quo C,
homo vero cuius terminum oportet sumere in quo D, omne ergo animal accipit aut
mortale, aut immortale: hoc autem est quidquid erat, omne esse aut B, aut C. Rursus
hominem semper qui dividit, ponit animal esse, quare de D sumit A esse, ergo
syllogismus quidem est, quoniam D, aut B, aut C omne erit, quare hominem aut
mortalem, aut immortalem oportet sumere, nam mortale quidem, aut immortale esse
necessarium est animal, mortale autem non necessarium est, sed petitur. Hoc
autem erat quod oportebat syllogizare. Et rursus qui ponit A quidem animal
mortale in quo autem B pedes habens, in quo autem C, non habens pedes, hominem
vero D, similiter sumit A quidem, aut in B, aut in C esse. Omne enim animal
mortale aut pedes habens, aut pedes non habens est, de D autem A, nam hominem
animal mortale sumpsit esse, quare habens pedes, vel non habens pedes esse
animal, necesse est hominem, pedes autem habens non necesse est, sed sumit, hoc
autem erat quod oportebat rursum ostendere. Et ad hunc modum semper
dividentibus, universale quidem accidit eis medium sumere, de quo oporteat
ostendere et differentias et extremitates. In fine autem quoniam hoc est homo,
aut quidquid erat quod quaeritur, nihil dicunt manifestum, quare necessarium
est esse, etenim aliam viam faciunt omnem, non quidem contingentes idoneitates,
opinantes esse. Manifestum est autem quoniam neque destruere hac via est, neque
de accidente aliquid, aut de proprio syllogizare, neque de genere, neque de
quibus ignoretur utrum hoc modo aut illo se habet, ut putasne diameter est
symeter, vel asymeter? si enim sumat quoniam omnis longitudo est symetros vel
asymetros, diameter autem longitudo, syllogizatum est quoniam symeter vel
asymeter est diameter. Si autem sumetur incommensurabile, quod oportebat
syllogizare sumetur, non ergo est ostendere, nam via quidem haec, per hanc
autem non est ostendere symetrum vel asymetrum, in quo A longitudo, B autem
symeter aut asymeter, diameter C. Manifestum est igitur quoniam neque ad omnem
considerationem congruit inquisitionis modus, neque in quibus maxime videtur
convenire, in his est utilis. Ex quibus ergo demonstrationes fiunt, et quomodo,
et ad quae perspiciendum secundum unumquodque propositum manifestum ex dictis. Quomodo
autem reducemus syllogismos in praedictas figuras, dicendum erit post haec,
restat enim consideratio haec, si enim et generationem syllogismorum
inspiciamus, et inveniendi habeamus potestatem, amplius autem factos reducamus
praedictas figuras, finem habebit quod ex principio propositum est, accidet
etiam simul quae praedicta sunt confirmari et manifestiora esse, quoniam sic se
habent per ea quae nunc dicenda sunt. Oportet enim omne quod verum est, ipsum
sibi ipsi manifestum esse omnino. Primum ergo oportet tentare duas
propositiones accipere syllogismi, facilius enim in maiora dividere quam in
minora: maiora autem compositiora sunt quam ea ex quibus componuntur. Deinde
considerare utra in toto, et utra in parte. Et si non ambae sumptae sint, eum
qui ponit alteram. Aliquoties enim universalem protendentes, eam quae in hac
est non sumunt, neque scribentes, neque interrogantes, aut has quidem
protendunt, per quas autem hae concluduntur, omittunt, alia vero vane
interrogant. Considerandum autem si quid superfluum sumptum sit, et si quid
necessariorum omissum, et hoc quidem ponendum, illud vero auferendum, donec
veniat quis ad duas propositiones, sine his enim non est reducere sic interrogatas
orationes. In aliquibus ergo facile est videre quod minus est, aliqui vero
latent, et videntur quidem syllogizare, eo quod necessarium quid accidit ex iis
quae posita sunt. Ut si sumatur, non substantia interempta substantiam non
interimi, ex quibus autem est, interemptis, et quod ex eis est corrumpi. His
enim positis, necessarium est substantiae partem esse substantiam, non tamen
syllogizatum est quod ea quae sumpta sunt, sed desunt, propositiones. Rursum si
cum est homo, necesse est esse animal, et cum est animal, substantiam, et cum
est homo, necesse est esse substantiam, sed nondum syllogizatum est, non enim
se habent propositiones ut diximus. Fallimur autem in talibus eo quod
necessarium quiddam accidat ex his quae posita sunt, quam et syllogismus,
necessarium est, in plus autem est necessarium quam syllogismus, nam omnis
syllogismus, necessarium, necessarium autem non omne syllogismus. Quare non (si
quid accidat positis quibusdam) statim tentandum est reducere, sed primum
secundum est duas propositiones. Deinde sic dividendum in terminos. Medium
autem ponendum terminorum, qui utrisque propositionibus dicitur, necesse est
enim medium in utrisque esse in omnibus figuris. Si ergo subiiciatur et
praedicetur medium, aut ipsum quidem praedicetur, aliud vero illo abnegetur,
prima erit figura. Si autem et praedicetur, et negetur ab aliquo, media erit
figura: si vero alia de illo praedicentur, aut hoc quidem praedicetur, illud
vero ab illo negetur, postrema, sic enim se habuit in postrema figura medium,
similiter autem etsi non universales sint propositiones, nam est eadem
determinatio medii. Manifestum igitur quoniam in qua oratione non dicitur idem frequenter,
non fit syllogismus, non enim sumptum est medium. Quoniam autem habemus quod
propositorum in unaquaque figura clauditur, et in qua universale, et in qua
particulare, manifestum est quoniam non ad omnes figuras perspiciendum, sed in
unoquoque proposito ad propriam. Quaecunque vero in pluribus concluduntur,
medii positione cognoscimus figuram. Frequenter ergo falli accidit circa
syllogismos propter necessarium, quemadmodum dictum est prius: aliquoties autem
propter similitudinem positionis terminorum, quod non oportet latere nos. Ut si
A de B dicitur, et B de C, videbitur enim sic se habentibus terminis esse
syllogismus, non fit autem neque necessarium quidquam, neque syllogismus. Sit
enim in quo A semper esse, in quo autem B intelligibilis Aristomenes, in quo
autem C Aristomenes, verum est autem A inesse B, semper enim est intelligibilis
Aristomenes, sed et B de C, nam Aristomenes est intelligibilis Aristomenes, A
autem non inest C, corruptibilis est enim Aristomenes; non igitur fiebat
syllogismus sic se habentibus terminis, sed oportebat universaliter A B sumi
propositionem: hoc vero falsum quod putabat omnem intelligibilem Aristomenem
semper esse, cum Aristomenes sit corruptibilis. Rursum sit in quo quidem C
Micalus, in quo autem B musicus Micalus, in quo autem A corrumpi cras. Verum
est ergo B de C praedicari, nam Micalus est musicus Micalus, sed et A de B,
corrumpetur enim cras musicus Micalus, A autem de C falsum: hoc autem idem est
priori, non enim verum est universaliter, Micalus musicus quoniam corrumpetur
cras. Hoc autem non sumpto non erat syllogismus. Haec ergo fallacia fit in eo
quod pene, ut enim nihil differens dicere hoc huic inesse, aut hoc huic omni
inesse, concedimus. Frequenter autem mentiri evenit, eo quod non bene
exponuntur secundum propositionem termini, ut si A quidem sit sanitas, B autem
aegritudo, C vero homo, verum est enim dicere quoniam A nulli B contingit
inesse, nulli enim aegritudini sapitas inest; et rursum quoniam B inest omni C,
omnis enim homo susceptibilis est aegritudinis, videbitur ergo accidere nulli
homini contingere sanitatem inesse. Huius autem causa est quod non bene
exponuntur termini secundum locutionem, quoniam transsumptis quae iis sunt
secundum habitudines, non erit syllogismus. Ut si pro sanitate quidem ponatur
sanum, pro aegritudine autem aegrum, non enim verum est dicere quoniam non
contingit aegrotanti inesse sanum esse, hoc autem non sumpto, non fit
syllogismus, nisi contingentis. Hoc autem non impossibile, contingit enim nulli
homini inesse sanitatem. Rursum in media figura similiter erit falsum. Nam
sanitatem aegritudini quidem nulli, homini vero omni contingit inesse, quare nulli
homini aegritudo. In tertia autem figura secundum contingere accidit falsum,
etenim sanitatem, et aegritudinem, et disciplinam, et ignorantiam, et omnino
contraria omni eidem contingit inesse, sibi vero invicem impossibile, hoc autem
confessum in praedictis. Cum enim eidem plura contingere inesse, contingebant
et sibi invicem. Manifestum igitur quoniam in omnibus his fallacia fit propter
terminorum expositionem, transsumptis enim his quae sunt secundum habitudines,
nihil fit falsum. Palam ergo quoniam secundum huiusmodi propositiones semper
quod est secundum habitum, pro habitu sumendum et ponendum terminum. Non
oportet autem terminos semper quaerere nomine exponi, saepe enim erunt
orationes quibus non ponuntur nomina, quare et difficile erit reducere
huiusmodi syllogismos, aliquot es autem et falli accidet propter huiusmodi
inquisitionem, ut quoniam immediatorum erit syllogismus; sit enim A duo recti,
B autem triangulus, C vero aequicrurus; ergo ei quod est C inest A propter B;
ei vero quod est B, non iterum propter aliud, per se enim triangulus habet duos
rectos, quare non erit medium eius quod est A B, cum sit demonstrativum. Manifestum
enim quoniam medium non sic semper est sumendum ut hoc aliquid, sed aliquando
orationem, quod accidit et in praedicto. Inesse autem primum medio, et hoc
postremo non oportet sumere, ut praedicentur semper ad se invicem similiter, et
primum de medio, et hoc de postremo, et in non inesse similiter, sed quoties
dicitur esse et verum dicere, hoc toties arbitrari oportet significare et
inesse. Ut quoniam contrariorum una est disciplina: sit enim A unam esse
disciplinam, B autem contraria sibi invicem, A ergo inest B, non quoniam
contraria unam esse eorum disciplinam, sed quoniam verum est dicere de ipsis
unam esse eorum disciplinam. Accidit autem quandoque primum de medio dici,
medium autem de tertio non dici, ut si sophia est disciplina, boni autem est
sophia: conclusio, quoniam boni est disciplina, et non bonum quidem est
disciplina, sophia autem est disciplina. Quandoque autem medium quidem de
tertio dicitur, primum autem de medio non dicitur, ut si qualis omnis est disciplina,
aut contrarii. Bonum autem est, et contrarium, et quale: conclusio quidem,
quoniam boni est disciplina. Non est autem bonum disciplina, neque quale, neque
contrarium, sed omnium disciplina. Non est autem bonum disciplina, neque
conclusio secundum rectum, neque quale, neque contrarium, sed bonum haec. Est
autem quandoque neque primum de medio, neque hoc de tertio, primo de tertio
quandoque quidem dicto, quandoque autem non dicto. Ut si cuius est disciplina,
huius est genus, boni autem est disciplina: conclusio, quoniam boni est genus.
Praedicatur autem nullum de nullo, si autem cuius est disciplina, genus est
hoc, boni autem est disciplina: conclusio, quoniam bonum est genus: ergo de
extremo quidem praedicatur primum, de se autem invicem non dicuntur. Eodem
autem modo et non inesse sumendum, non enim semper significat non inesse hoc
huic, non esse hoc, hoc; sed aliquando non esse hoc huius, aut hoc huic: ut
quoniam non est motionis motus, aut generationis generatio, voluptatis autem
est, non ergo voluptas generatio. Aut rursus quoniam risus est signum, signi
autem non est signum, quare non est signum risus; similiter autem et in aliis,
in quibus interimitur propositum, eo quod dicitur aliquo modo ad id genus. Rursus
quoniam occasio non est tempus opportunum, Deo enim occasio quidem est, tempus
autem opportunum non est, eo quod nihil sit Deo conferens. Terminos enim
ponendum est occasionem, et tempus opportunum, et Deum. Propositio autem
sumenda secundum nominis casum, simpliciter enim hoc dicimus de omnibus,
quoniam terminos quidem semper ponendum secundum declinationes nominum, ut
homo, aut bonum, aut contraria, aut hominis, aut boni, aut contrariorum.
Propositiones autem sumendum secundum cuiusque casus, aut enim quoniam huic ut
aequale, aut quoniam huius ut duplum, aut quoniam hoc ut feriens, vel videns,
aut quoniam hic ut homo, animal, aut si quolibet modo aliter cadit nomen
secundum propositionem, inesse autem hoc huic, et verum esse hoc de hoc, toties
sumendum, quoties praedicamenta divisa sunt, et haec aut aliquo modo, aut
simpliciter, amplius aut simplicia, aut complexa. Similiter autem et non
inesse. Considerandum haec autem, et determinandum optimum. Reduplicatum autem
in propositionibus ad primam extremitatem ponendum, non ad medium, dico autem
ut si fiat syllogismus, quoniam iustitiae est disciplina quoniam bonum, ad
primam extremitatem ponendum. Sit enim A disciplina quoniam bonum, in quo autem
B bonum, in quo autem C iustitia, ergo verum est A de B praedicari. Nam boni
est disciplina quoniam bonum. Sed et B de C, nam iustitia quiddam bonum est; sic
ergo fit resolutio. Si autem ad B ponatur, quoniam bonum, non erit, nam A
quidem de B verum erit, B autem de C non erit verum, nam bonum quoniam bonum
praedicari de iustitia falsum est, et non intelligibile. Similiter autem et si
salubre ostendatur, quoniam disciplinatum est in eo quod bonum, aut
hircocervus, opinabilis in eo quod existens, aut homo corruptibilis in eo quod
sensibile, in omnibus enim praedicatis ad extremum reduplicationem ponendum. Non
est autem eadem positio terminorum, quando simpliciter quidem syllogizatum
fuerit, et quando hoc aliquid, aut quo, aut quomodo. Dico autem ut quando bonum
disciplinatum ostensum erit, et quando disciplinatum quoniam bonum. Sed
simpliciter quidem disciplinatum ostensum est medium ponendum ens, si autem
quoniam bonum, quid ens. Sit enim A disciplina quoniam quid ens, in quo autem B
ens quid, in quo autem C bonum, verum est ergo A de B praedicari, erat enim
disciplina alicuius entis, quoniam quid ens, sed et B de C, nam in quo C ens
quid, quare et A de C, erit ergo disciplina boni quoniam bonum, erat enim quid
ens, proprie substantiae signum. Si autem ens medium positum sit, et ad
extremum ens simpliciter, et non quid ens dictum sit, non erit syllogismus,
quoniam est disciplina boni quoniam bonum, sed quoniam ens, ut si sit in quo A
disciplina quoniam ens, in quo B ens, in quo C bonum. Manifestum igitur quoniam
in particularibus syllogismis sic sumendum terminos. Oportet autem accipere
quae idem possunt nomina pro nominibus, et orationes pro orationibus, et nomen
et orationem et semper pro oratione nomen suscipere, facilior est enim
terminorum expositio, ut si nil differt dicere suspicabile opinabilis non esse
genus, aut non esse idem quiddam suspicabile, quod opinabile, nam si idem est
quod significatur, pro oratione dicta, suspicabile et opinabile terminos
ponendum. Quoniam vero non est idem voluptatem esse bonum, et esse voluptatem
quod bonum, non similiter ponendum terminos; sed si est syllogismus quoniam
voluptas quod bonum, terminum ponendum quod bonum; si autem quoniam bonum,
bonum, similiter autem et in aliis. Non est autem idem neque esse, neque dicere
quoniam cui B inest, huic quoque omni A inest, et dicere, cui omni B inest, et
A inest omni, nihil enim prohibet B inesse C, non autem omni. Ut sit B pulchrum
quid, C autem album, si igitur alicui albo inest pulchrum quid, verum est
dicere quoniam albo inest pulchrum, sed non omni fortasse. Si ergo A inest B,
non omni autem de quo B (neque si omni C, inest B, neque si solum alicui), non
necesse est ei quod est C inesse A, non quia non omni, sed nec inesse ei quod
est C. Si autem de quocunque B dicatur vere, huic omni inest A, accidet A de
quo omni B dicitur, de eo omni dici. Si autem A dicitur de omni de quo B
dicatur, nihil prohibet ei quod est C inesse B, non omni autem A, aut non
inesse omnino. In tribus igitur terminis manifestum est quoniam de quo B quidem
omni, et A dicitur, hoc est de quibuscunque B dicitur, de omnibus dicitur et A,
et si B quidem de omni, et A similiter, si autem non de omni, non necesse est A
inesse omni. Non oportet autem arbitrari propter expositionem accidere aliquod
inconveniens, non enim laboramus in eo quod aliquid sit hoc, sed quemadmodum
geometer pedalem, et rectam hanc esse et sine latitudine dicit quae non est,
sed non sic utitur, ut eis syllogizans. Omnino enim quod non est ut totum ad
partem, et aliud ad hoc ut pars ad totum, ex nullo talium ostendit
demonstrator, neque enim fit syllogismus, expositione autem sic utimur, ut et
sentiat qui discit dicentes, non enim sic ut sine his non possibile sit
demonstrare, quemadmodum ex quibus est syllogismus. Non lateat autem nos,
quoniam in eodem syllogismo, non omnes conclusiones per unam eamdem figuram
sunt, sed haec quidem per hanc, illa vero per aliam. Palam ergo quoniam et
resolutiones sic faciendum. Quoniam autem non omne propositum in omni figura,
sed in unaquaque disposita sunt, manifestum est ex conclusione in qua figura
sit quaerendum. Et ad definitiones orationum quaecunque ad unum quiddam sunt
argumentatae in eorum quae insunt termino, ad quod argumentatum est ponendum
terminum, et non totam orationem, minus enim contingit perturbari propter
longitudinem, ut si quis aquam ostendit quoniam est humidus potus, potum et
aquam terminos ponendum. Amplius autem ex hypothesi syllogismos non est
tentandum reducere, nam non est ex iis quae posita sunt reducere; non enim per
syllogismum ostensi sunt, sed ad placitum concessi sunt omnes. Ut si quis
ponat, si una quaedam potestas non sit contrariorum, neque disciplinam esse
unam; deinde dispPomba quoniam non est una potestas contrariorum, ut sanativi
et aegrotativi, simul enim idem erit sanativum et aegrotativum. Quoniam autem
non est omnium contrariorum una potestas, ostensum est, sed quoniam disciplina
non una, non est ostensum; quamvis confiteri sit necesse, at non ex syllogismo,
verum ex hypothesi; hoc igitur non est reducere, quoniam non una potestas est:
hic enim fortassee erat syllogismus, illud autem hypothesis. Similiter autem in
his qui per impossibile concluduntur, nam neque hoc est resolvere, sed ad
impossibile quidem reductio est; syllogismo enim monstratur; alterum autem non
est, nam ex hypothesi concluditur. Differunt autem A praedictis quoniam in
illis quidem oportet prius confiteri, si debet concedere, ut si ostendatur una
potestas contrariorum, et disciplinam es E eamdem; hic autem et non prius
confessi concedunt, eo quod manifestum sit falsum, ut posita dian etro symetro,
eo quod imparia esse aequalia paribus. Plures autem et diversi terminantur ex
conditione, quos prospicere oportet, et notare apte. Quae ergo horum
differentiae, et quoties fiunt, qui sunt ex hypothesi, postea dicemus. Nunc
autem tantum sit nobis manifestum quoniam non est resolvere in figuras
huiusmodi syllogismos, et ob quam causam diximus. Quaecunque autem in pluribus
figuris monstrantur proposita, si in altera syllogizetur, est reducere
syllogismum in alteram, ut eum qui in prima est privativum in secundam figuram,
et eum qui in media est in primam. Non omnes autem, sed quosdam, erit autem in
sequentibus manifestum. Si enim A nulli B, B autem omni C, A nulli C, sic ergo
prima figura; si autem convertatur privativa, media erit. Nam B A quidem nulli,
C autem omni inerit. Similiter autem et si non universalis, sed particularis
fit syllogismus, ut si A quidem nulli B, B autem alicui C, conversa enim
privativa media erit figura. Eorum autem syllogismorum, qui sunt in secunda
figura, universales quidem reducentur in primam figuram, particularium autem
alter solum. Insit enim A B quidem nulli, C vero omni, conversa privativa prima
erit figura, nam B quidem nulli A, A autem omni C inerit. Si autem
praedicativum quidem sit ad B, privativum autem ad C, primus terminus ponendus
est C, hoc enim nulli A, A autem omni B, quare nulli B inerit C, ergo et B
nulli C, convertitur enim privativa.Si autem particularis sit syllogismus,
quando privativum quidem erit ad maiorem extremitatem, resolvetur in primam
figuram, ut si A nulli B, B autem alicui C, conversa enim privativa prima erit
figura, nam B quidem nulli A, A autem alicui C. Quando vero praedicativum, non
resolvetur, ut si A quidem omni B, C vero non omni, non enim suscipit
conversionem A B, neque cum fit, erit syllogismus. Rursus qui in tertia quidem
sunt figura, non resolvuntur omnes in primam, qui autem sunt in prima, omnes in
tertiam. Insit enim A quidem omni B, B autem alicui C, ergo quia convertitur
particularis praedicativa, inerit et C alicui B, A vero omni B inerat, quare
fit tertia figura. Et si privativus sit syllogismus, similiter: convertitur
enim particularis affirmativa, quare A quidem nulli B, C autem alicui inerit. Eorum
autem sylogismorum qui sunt in postrema figura unus tantum non resolvitur in
primam, quando non universalis ponitur privativa, alii autem omnes resolvuntur.
Praedicentur enim de omni C, et A et B, ergo convertetur C ad utrumque
particulariter; inerit ergo A alicui B, quare erit prima figura, siquidem A
omni C, C vero alicui B; et si A quidem omni C, B autem alicui C, cadem ratio,
convertitur enim ad B C. Si autem B quidem omni C, A autem alicui C, primus
ponendus B, nam B omni C, C autem alicui A, quare B alicui A, quoniam autem
convertitur particularis, et A alicui B inerit. Et si privativus sit
syllogismus universalibus terminis, similiter sumendum. Insit enim B omni C, A
autem nulli C, ergo alicui B inerit C, A autem nulli C, quare erit medium C.
Similiter autem et si privativa quidem si universalis, praedicativa autem
particularis, nam A quidem nulli C, C autem alicui B inerit. Si autem
particularis sumatur privativa, non erit resolutio, ut si B quidem omni C, A
autem alicui C non inest, conversa enim B C, utraeque propositiones erunt
particulares.Manifestum autem quoniam ad resolvendum ad se invicem figuras,
quae ad minorem extremitatem est propositio, convertenda in utrisque figuris,
hac conversa, transitio fit; eorum autem qui in media sunt figura, alter quidem
resolvitur, alter vero non resolvitur in tertiam, nam cum sit universalis privativa,
resolvitur. Si enim A nulli quidem B, alicui autem C, utraque similiter
convertitur ad A, quare B quidem nulli A, C vero alicui, medium ergo A. Quando
autem A omni B, C autem alicui non insit, non fit resolutio, neutra enim
propositionum ex conversione universalis. Qui autem ex tertia sunt figura,
resolventur in mediam, quando fuerit universalis privativa, ut si A nulli C, B
autem alicui, aut omni C, nam C, A quidem nulli, B autem alicui inerit. Si
autem particularis sit privativa, non resolvetur, non enim suscipit conversionem
particularis negativa. Manifestum ergo quoniam iidem syllogismi non resolvuntur
in his figuris, qui nec in primam resolvebantur, et quoniam in primam figuram
reductis syllogismis, isti soli syllogismi per impossibile clauduntur. Quomodo
ergo oportet syllogismos reducere, et quoniam resolvuntur figurae in se
invicem, manifestum ex dictis. Differt autem in construendo vel destruendo
opinari, aut idem, aut diversum significare, non esse hoc, et esse non hoc, ut
non esse album, ei quod est esse non album; non enim idem significant, nec est
negatio eius quae est esse album ea quae est esse non album, sed non esse
album. Ratio autem huius haec est; similiter enim se habet possibile est
ambulare ad possibile non ambulare, id quae est esse album ad esse non album,
et scit bonum ad scit non bonum: nam scit bonum vel sciens bonum nihil differt,
neque potest ambulare vel est potens ambulare; quare et opposita, non potest
ambulare et non est potens ambulare. Si igitur non est potens ambulare idem
significat et est potens non ambulare, ipsa simul inerunt eidem, nam idem
potest ambulare et non ambulare, et idem sciens bonum et non bonum est.
Affirmatio autem et negatio non sunt oppositae simul in eodem. Quemadmodum ergo
non idem est, non scire bonum et scire non bonum, nec esse non bonum et non
esse bonum idem, nam proportionalium, si alterum sit, et alterum, nec esse non
aequale et non esse aequale idem, huic enim quod est non aequale subiacet
aliquid, et hoc est inaequale, illi vero nihil, eo quod aequale quidem vel
inaequale non omne est, aequale autem vel non aequale omne; amplius, est non
album lignum et non est album lignum non simul sunt, si enim est lignum non
album, erit lignum, quod autem non est album lignum, non necesse est esse
lignum: quare manifestum est quoniam non est eius quod est bonum, est non
bonum, negatio; si ergo de omni uno vel affirmatio, vel negatio vera, si non
est negatio, palam quoniam affirmatio aliquo modo erit; affirmationis autem
omnis, negatio est, et huius ergo, ea quae est non est, non bonum. Habent autem
ordinem hunc ad invicem, sit esse quidem bonum in quo A, non esse autem bonum
in quo B, esse autem non bonum in quo C sub B, non esse autem non bonum in quo
D sub A, omni ergo inerit aut A, aut B, et nulli eidem, et omni aut C, aut D,
et nulli eidem, et cui C inest, necesse est B omni inesse. Si enim verum est
dicere quoniam est non album, et quoniam non est album, verum; impossibile est
enim simul esse album et esse non album, aut esse lignum album et esse lignum
non album: quare si non affirmatio, et negatio inerit. Ei autem quod est B, non
semper C, quod enim omnino non est lignum, neque lignum erit album, nec non
album. E converso autem cui inest A, et D omni inest, aut enim C, aut D:
quoniam autem non possunt simul esse non album et esse album, D inerit, nam de
eo quod est album verum est dicere quoniam non est non album. De D autem non
omnino A erit, nam de eo quod omnino non est lignum, non verum est dicere A
quoniam est lignum album; quare D verum est, et A non verum, quoniam est lignum
album. Palam autem quoniam et A et C nulli eidem insunt sed B et D contingit
eidem alicui inesse. Similiter autem tem se habent et privationes ad
praedicationes eadem positione: sit enim aequale in quo A, non aequale in quo
B, inaequale in quo C, non inaequale in quo D. In pluribus autem quorum his
quidem inest, illis vero non inest idem, negatio quidem similiter vera fit, ut
quoniam non sunt alba omnia, aut quoniam non est album unumquodque, aut quoniam
est non album unumquodque, aut quoniam omnia sunt non alba, falsum est. Similiter
autem et eius quae est omne animal album, non haec (est non album omne animal)
negatio, ambae enim falsae, sed es, non omne animal album. Quoniam autem palam
quod aliud significat est non album, et non est album, et illa quidem
affirmatio, haec vero negatio, manifestum quoniam non est idem modus monstrandi
utrumque, ut quoniam quidquid est animal, non est album, aut contingit non esse
album, et quoniam verum dicere non album, hoc enim est esse non album. Sed
verum quidem dicere, est album, sive non album, idem modus. Constructive enim
ambae per primam ostenduntur figuram, nam verum ei quod est similiter
ordinatur, eius enim quae est, verum dicere album, non haec, verum dicere non
album, negatio, sed haec, non est verum dicere album. Si enim verum est dicere
quidquid est homo musicum esse, aut non musicum esse, quidquid est animal
sumendum musicum esse, aut non musicum esse, et ostensum est. Non esse autem
musicum quidquid est homo, destructive monstratur secundum dictos tres modos. Simpliciter
autem quando sic se habent A et B, ut simul quidem eidem non contingant, omni
autem de necessitate alterum, et rursum C et D similiter. Sequitur autem id
quod est C, A, et non convertitur, et id quod est B sequetur D, et non
convertitur, et A quidem et D contingunt eidem, B autem et C non contingunt.
Primum ergo quoniam id quod est B sequitur D, hinc manifestum quoniam eorum
quae sunt C D alterum ex necessitate omni inest, cui autem B non contingit C,
eo quod simul infert A, A autem et B non contingunt eidem, manifestum quoniam D
sequetur B. Rursum quoniam ei quod est A non convertitur C, omni autem vel C,
vel D, contingit A, et D eidem inesse; B autem et C non contingit, eo quod
consequitur A id quod est C, accidit enim quiddam impossibile. Manifestum est
ergo quoniam nec B ei quod est D convertitur, eo quod contingit simul A, D
inesse. Accidit autem aliquoties in huiusmodi terminorum ordine falli, eo quod
opposita non sumantur recte, quorum necesse est omni alterum inesse: ut si A et
B non contingunt simul eidem, necesse est autem inesse cui non alterum,
alterum, et rursus C et D similiter, cui autem C omni sequitur A, accidet enim
cui D, B inesse ex necessitate, quod falsum est; si sumatur enim negatio eorum
quae sunt A B, ea quae est in quibus F, et rursus eorum quae sunt C D, ea quae
est in quibus G. Necesse est igitur omni inesse vel A, vel F, aut enim
affirmationem aut negationem, et rursum, aut C, aut G; affirmatio enim et
negatio, et cui C omni A subiacet, quare cui F omni hoc quod est G. Rursum
quoniam eorum quae sunt F B omni alterum, et eorum quae sunt G D similiter.
Sequitur autem G id quod est F, et id quod est D sequitur B, hoc enim scimus. Si
ergo A id quod est C, et id quod est D sequetur B, hoc autem falsum; E
contrario enim erat in his (quae sic se habent) consequentia. Non enim fortasse
necessarium omni inesse, aut A aut F, nec F aut B: non enim est negatio eius
quod est A hoc quod est F, nam boni non bonum negatio; non autem est idem hoc
quod est non bonum ei quod est neque bonum neque non bonum; similiter autem et
in C D, nam negationes quae sumptae sunt, duae sunt. In quot ergo figuris, et
per quales, et quot propositiones, et quando, et quomodo fit syllogismus,
amplius autem ad quae perspiciendum construenti et destruenti, et quomodo
oporteat quaerere de proposito secundum unamquamque artem, amplius autem per
quam viam sumemus, quae in singulis sunt principia iam pertransivimus.
Quoniam autem alii quidem syllogismorum sunt universales, alii vero
particulares: universales quidem omnes semper plura syllogizant, particularium
autem praedicativi quidem plura, negativi vero conclusionem solam. Nam aliae
quidem propositiones convertuntur, privativa vero non convertitur. Conclusio
vero aliquid de aliquo est, quare alii quidem syllogismi plura syllogizant: ut
si A ostensum sit omni aut alicui B inesse, et B alicui A necessarium est
inesse, et si nulli B inesse A, et B nulli A, hoc autem aliud est A priore. Si
autem A alicui B non insit, non necesse est et B alicui A non inesse; contingit
enim omni A inesse. Haec ergo communis omnium causa universalium et
particularium. Est autem de universalibus, et aliter dicere, quaecunque enim
aut sub medio aut sub conclusione sunt, omnium erit idem syllogismus, si illa
quidem in medio, haec vero in conclusione ponantur, ut si A B conclusio per C,
quaecunque sub B aut sub C sunt, necesse est de omnibus dici A, nam D si in
toto B, et B in A, et D erit in A. Rursum si E in toto C, et C in toto A, et E
in toto A erit. Similiter autem et si privativus sit syllogismus. In secunda
autem figura quod sub conclusione erit, solum erit syllogizare, ut si A insit
nulli B, et omni C, conclusio quoniam nulli C inest B; si autem D sub C est,
manifestum quoniam non inest ei B, iis autem quae sunt sub A, quoniam B non
inest, non palam est per syllogismum, et si non inest B ei quod est E, si est E
sub A, sed inesse quidem B nulli C per syllogismum ostensum est, non inesse vero
A hoc quod est B, indemonstratum sumptum est, quare nec per syllogismum accidit
B non inesse E. In particularibus autem, eorum quidem quae sub conclusione
sunt, non erit necessarium. Non enim fit syllogismus, quando ea sumpta fuerit
particularis, eorum autem quae sunt sub medio, erit omnium, verumtamen non per
syllogismum, ut si A omni B, et B alicui C: nam eius quod sub C est positum,
non erit syllogismus, eius vero quod sub B erit, sed non propter eum qui prius factus
est syllogismum. Similiter autem et in aliis figuris, nam eius quidem quod sub
conclusione est non erit, alterius vero erit, verum non per syllogismum, eo
quod et in universalibus ex indemonstrata propositione quae sunt sub medio
ostendebantur; quare neque hic erit, vel et in illis. Est ergo sic se habere,
ut verae sint propositiones per quas fit syllogismus; est autem ut falsae, est
vero ut haec quidem vera, illa autem falsa, conclusio autem aut vera, aut falsa
ex necessitate. Ex veris ergo non est falsum syllogizare, ex falsis autem verum,
tamen non propter quid, sed quia, nam eius qui est propter quid non est ex
falsis syllogismus, ob quam autem causam in sequentibus dicetur. Primum ergo
quoniam ex veris non possibile falsum syllogizare, hinc manifestum. Si enim cum
est A, necesse est esse B, si non est B, necesse est A non esse; si ergo verum
est A, necesse est et B verum esse, aut accidet idem simul et esse et non esse,
hoc autem impossibile. Non autem quoniam ponitur A unus terminus, accipiatur,
contingere uno aliquo existente, ex necessitate aliquid accidere, non enim
potest. Nam quod accidit ex necessitate conclusio est, per quae autem fit ad
minimum tres sunt termini, duo autem intervalla et propositiones. Si ergo verum
est cui omni inest B et A, cui autem C et B, cui C, necesse est A inesse, et
non potest hoc falsum esse, simul enim erit idem et non inerit; ergo A ut unum,
positum est duas propositiones colligere. Similiter autem se habet et in
privativis, non enim est ex veris ostendere falsum. Ex falsis autem est verum
syllogizare, utrisque propositionibus falsis, et una; hac autem non utralibet
contingit, sed secunda, si quidem totam sumamus falsam, non tota autem sumpta
est utralibet. Insit enim A omni C, ei autem quod est B nulli, nec B insit C;
contingit autem hoc, ut nulli lapidi animal, et lapis nulli homini; si igitur
sumatur A omni B, et B omni C, A omni C inerit, quare ex utrisque falsis vera
est conclusio, omnis enim homo animal. Similiter autem et privativum: insit
enim C nulli, nec A, nec B, A autem B omni, ut si eisdem terminis sumptis
medium ponatur homo, lapidi enim nec animal, nec homo nulli inest, homini autem
omni animal; quare si cui quidem omni inest, sumamus nulli inesse, cui vero non
inest, omni inesse, ex falsis utrisque vera erit conclusio. Similiter autem
ostendetur et si in aliquo utraque falsa sumatur. Si autem altera ponatur
falsa, prima quidem tota falsa existente, ut A B, non erit conclusio vera, B C
autem erit. Dico autem totam falsam quod contrariam verae, ut si quod nulli
inest, omni sumptum est; aut si quod omni, nulli inesse. Insit enim A B nulli,
B autem omni C; si ergo B C quidem propositionem sumamus veram, A B autem
falsam totam, et omni B inesse A, impossibile est A C conclusionem veram esse,
nulli enim inerat A earum quae sunt C, siquidem cui B nulli, B autem omni
C. Similiter autem nec si A omni B inest, et B omni C, sumpta sit autem B
C quidem vera propositio, A B autem falsa tota, et nulli, cui B inest A,
conclusio falsa erit, omni enim C inest A, siquidem cui B omni C et A, B autem
omni C. Manifestum ergo quoniam prima tota sumpta falsa, sive affirmativa, sive
privativa, altera autem vera, non fit vera conclusio. Non tota autem sumpta
falsa, erit: nam si A C quidem omni inest, B autem alicui, B autem omni C, ut
animal, cygno quidem omni, albo autem alicui, album autem omni cygno, si
sumatur A omni B, et B omni C, A omni C inerit vere, omnis enim cygnus animal.
Similiter autem et si privativa sit A B; possibile est enim A B quidem alicui
inesse, C vero nulli, B autem omni C, ut animal alicui albo, nivi vero nulli,
album vero omni nivi; si ergo sumatur A quidem nulli B, B autem omni C, A nulli
C inerit. Si autem A B quidem propositio tota sumatur vera, B C autem tota
falsa, erit syllogismus verus, nihil enim prohibet A, et B et C omni inesse, B
autem nulli C, ut quaecunque eiusdem generis sunt species non subalternae, nam
animal et homini et equo inest, equus autem nulli homini inest; si ergo sumatur
A omni B, et B omni C, conclusio vera erit, tota falsa B C propositione.
Similiter autem cum universalis privativa est A B propositio, contingit enim A
neque B, neque C nulli inesse, et B nulli C, ut ex alio genere speciebus
diversum genus, nam animal nec musicae, nec medicinae inest, neque musica
medicinae. Sumpta ergo A quidem nulli B, B autem omni C, vera erit conclusio.
Et si non tota falsa sit B C, sed in aliquo, etiam sic erit conclusio vera. Nihil
enim prohibet A, et B et C toti inesse, B autem alicui C, ut genus speciei et
differentiae, nam animal homini omni et omni gressibili, homo autem alicui
gressibili, et non omni; si ergo A omni B, et B omni C sumatur, A omni C
inerit, quod quidem erat verum. Similiter autem cum privativa est A, B
propositio, contingit enim A nec B, nec C nulli inesse, B vero alicui C, at
genus ex alio genere speciei et differentiae, nam animal nec sapientiae nulli
inest, nec contemplationi, sapientia vero alicui contemplationi; si ergo
sumatur A nulli B, B autem omni C, nulli C inerit A, hoc autem erat verum. In
particularibus autem syllogismis contingit, prima propositione tota falsa
existente, altera autem vera, veram esse conclusionem, et A B in aliquo falsa
existente, B C autem vera, et A B quidem vera, particulari autem falsa, et
utrisque existentibus falsis. Nihil enim prohibet A B quidem nulli inesse, C
autem alicui, et B alicui C inesse, ut animal nulli nivi, albo autem alicui
inest, et nix albo alicui. Si ergo ponatur medium nix, primum autem animal, et
sumatur A quidem toti B inesse, B autem alicui C, A B tota falsa, B C autem
vera, et conclusio vera. Similiter autem et cum privativa est A B propositio,
possibile est enim A B quidem toti inesse, C autem alicui non inesse, B vero
alicui C inesse, ut animal homini quidem omni inest, album autem aliquod non
sequitur, homo vero alicui albo inest; quare si medio posito homine sumatur A
nulli B inesse, et B alicui C, vera fit conclusio, cum sit tota falsa A B
propositio. Et si in aliquo sit falsa A B propositio, B C vera existente, erit
conclusio vera. Nihil enim prohibet A, et B, et C, alicui inesse, B autem
alicui C, ut animal alicui pulchro, et alicui magno, et pulchrum alicui magno
inest; si ergo sumatur A omni B, et B alicui C, et A B, quidem propositio in
aliquo falsa erit, B C autem vera, et conclusio vera. Similiter autem et cum
privativa est A B propositio, nam iidem erunt termini, et similiter positi ad
demonstrationem. Rursum si A B quidem vera, B C autem falsa, vera erit
conclusio. Nihil enim prohibet A quidem toti inesse B, C autem alicui, et B
nulli C inesse: ut animal cygno quidem omni, nigro autem alicui, cygnus vero
nulli nigro; quare si sumatur A omni B, et B alicui C, vera erit conclusio, cum
sit falsa B C. Similiter autem et privativa sumpta A B propositione, possibile
enim A B quidem nulli, C autem alicui non inesse, et B nulli C, ut genus ex
alio genere speciei et accidenti eius speciebus, nam animal quidem numero nulli
inest, albo vero non alicui, numerus autem nulli albo; si ergo medium ponatur
numerus, et sumatur A quidem nulli B, B autem alicui C, A alicui C non inerit,
quod fuit verum, cum A B quidem sit propositio vera, B C autem falsa. Et si in
aliquo sit falsa A B, falsa autem et B C, erit conclusio vera. Nihil enim
prohibet A alicui B et alicui C inesse utrique, B autem nulli C, ut si B sit
contrarium ipsi C, et ambo accidentia eidem generi, nam animal alicui albo et
alicui nigro inest, album autem nulli nigro inest; si ergo sumatur A omni B, et
B alicui C, vera erit conclusio. Et privativa quidem sumpta A B, similiter. Nam
iidem termini, et similiter ponentur ad demonstrationem. Et ex utrisque falsis
erit conclusio vera. Possibile est enim A B quidem nulli, C autem alicui
inesse, B vero nulli C. Ut genus ex alio genere speciei, et accidenti speciebus
eius, animal enim numero quidem nulli, albo vero alicui inest, et numerus nulli
albo. Si ergo sumatur A omni B, et B alicui C, conclusio quidem vera, propositiones
vero ambae falsae. Similiter autem et cum privativa est A B. Nihil enim
prohibet A B quidem toti inesse, C autem alicui non inesse, et neque B nulli C,
ut animal cygno quidem omni, nigro autem alicui non inest, cygnus vero nulli
nigro: quare si sumatur A nulli B, B autem alicui C A non inerit; ergo
conclusio quidem vera, propositiones autem falsae. In media autem figura omnino
contingit per falsa verum syllogizare, et utrisque propositionibus totis falsis
sumptis, et hac quidem vera, illa tota falsa, utralibet falsa posita, et si
utraeque in aliquo falsae, et si haec quidem simpliciter vera, illa autem in
aliquo falsa, et in universalibus, et in particularibus syllogismis. Si enim A
B quidem nulli inest, C autem omni, ut lapidi animal quidem nulli, homini autem
omni, si contrariae ponantur propositiones, et si sumatur A B quidem omni, C
vero nulli, ex falsis totis propositionibus erit vera conclusio. Similiter
autem et si A inest B quidem omni, C vero nulli, nam idem erit
syllogismus. Rursum si altera quidem tota falsa, altera autem tota vera.
Nihil enim prohibet A et B et C omni inesse, B autem nulli C, ut genus non
subalternis speciebus. Nam animal equo omni, et homini inest, et nullus homo
equus; si ergo sumatur animal huic quidem omni, illi vero nulli inesse, haec
quidem erit falsa, illa vero tota vera, et conclusio vera, ad quodlibet posito
privativo. Et si altera in aliquo falsa, altera autem tota vera, possibile est
enim A B quidem alicui inesse, C autem omni, et B nulli C, ut animal albo
quidem alicui, corvo autem omni, album vero nulli corvo. Si ergo sumatur A B
quidem nulli, C autem toti inesse, A B quidem propositio in aliquo falsa est, A
C autem tota vera, et conclusio vera, et transposita quidem privativa,
similiter. Nam per eosdem terminos demonstratio. Et si affirmativa quidem
propositio in aliquo falsa, privativa autem tota vera, nihil enim prohibet A B
quidem alicui inesse, C autem toti non inesse, et B nulli C, ut animal albo
quidem alicui, pici autem nulli, album vero nulli pici: quare si sumatur A to i
B inesse, C autem nulli, A B quidem in aliquo falsa, A C autem tota vera, et
conclusio vera. Et si utraeque propositiones in aliquo falsae, erit conclusio
vera, possibile est enim A, et B, et C alicui inesse, B autem nulli C, ut
animal, et albo alicui, et nigro alicui, album vero nulli nigro. Si ergo
sumator A B quidem omni, C autem nulli, ambae quidem propositiones in aliquo
falsae, conclusio autem vera; similiter autem transposita privativa per
terminos. Manifestum autem et in particularibus syllogismis, nihil enim
prohibet A B quidem omni, C autem alicui inesse, et B alicui C non inesse, ut
animal omni homini, albo autem alicui, homo vero alicui albo non inerit. Si
ergo ponatur A B quidem nulli inesse, C autem alicui inesse, universalis quidem
propositio tota falsa, particularis autem vera, et conclusio vera. Similiter
autem et affirmativa sumpta A B, possibile est enim A B quidem nulli, C autem
alicui non inesse, et B alicui C non inesse, ut animal nulli inanimato, albo
autem alicui, et inanimatum non inerit alicui albo Si ergo ponatur A B quidem
omni, C vero alicui non inesse, A B quidem propositio universalis tota falsa, A
C autem vera, et conclusio vera. Et universali quidem vera posita, minori autem
particulari falsa, nihil enim prohibet A nec B nec C nullum sequi, et B alicui
C non inesse, ut animal nulli numero nec inanimato, et numerus aliquod
inanimatum non sequitur. Si ergo ponatur A B quidem nulli, C autem alicui, et
conclusio vera, et universalis propositio vera, particularis autem falsa. Affirmativa
autem universali similiter posita, possibile est enim A et B et C toti inesse,
B autem aliquod C non sequi, ut genus speciem et differentiam. Nam animal omnem
hominem et totum gressibile sequitur, homo vero non omne gressibile: quare si
sumatur A B quidem toti inesse, C autem alicui non inesse, universalis quidem
propositio vera, particularis falsa, conclusio autem vera. Manifestum autem
quoniam et utrisque falsis erit conclusio vera, siquidem contingit A et B et C
huic quidem omni, illi vero nulli inesse, B vero aliquod C non sequi, nam
sumpto A B quidem nulli, C autem alicui inesse, propositiones quidem ambae
falsae, conclusio autem vera. Similiter autem et cum praedicativa fuerit
universalis propositio, particularis autem privativa, possibile est enim A B
quidem nullum, C autem omne sequi, et B alicui C non inesse, ut animal
disciplinam quidem nullam, hominem autem omnem sequitur, disciplina vero non
omnem hominem. Si ergo sumatur A B quidem toti inesse, C autem aliquod non
sequi, propositiones quidem falsae, conclusio autem vera. Erit autem et in
postrema figura per falsas totas, et in aliquo utraque, et altera quidem vera,
altera autem falsa, et haec quidem in aliquo falsa, illa autem tota vera, et e
converso, et quotquot modis aliter possibile est transumere propositiones.
Nihil enim prohibet nec A nec B nulli C inesse, A autem alicui B inesse, ut nec
homo, nec gressibile, nullum inanimatum sequitur, homo autem alicui gressibili
inest; si ergo sumatur A et B omni C inesse, propositiones quidem totae falsae,
conclusio autem vera. Similiter autem et cum haec quidem est privativa, illa
vero affirmativa. Possibile est enim B quidem nulli C inesse, A autem omni, et
A alicui B non inesse, ut nigrum nulli cygno, animal autem omni, et animal non
omni nigro: quare si sumatur B quidem omni C, A vero nulli, A alicui B non
inerit, et conclusio quidem vera, propositiones autem falsae. Et si in
aliquo fuerit utraque falsa, erit conclusio vera, nihil enim prohibet et A et B
alicui C inesse, et A alicui B, ut album et pulchrum alicui animali inest, et
album alicui pulchro; si ergo ponatur A et B omni C inesse, propositiones
quidem in aliquo falsae, conclusio autem vera. Et privativa A C posita, similiter:
nihil enim prohibet A quidem alicui C non inesse, B vero alicui inesse, et A
non omni B inesse, ut album alicui animali non inesse. Pulchrum autem alicui
inest, et album non omni pulchro: quare si sumatur A quidem nulli, C B autem
omni, utraeque propositiones quidem in aliquo falsae, conclusio autem
vera. Similiter autem et haec quidem tota falsa, illa vero tota vera
sumpta. Possibile est enim A et B omne C sequi, et A alicui B non inesse, ut
animal et album omne cygnum sequitur, et animal non omni inest albo; positis
igitur his terminis, si sumatur B quidem toti C inesse, A vero toti non inesse,
B C quidem tota erit vera, A C autem tota falsa, et conclusio vera. Similiter
autem et si B C quidem falsa, A C autem vera, nam hi quidem termini ad demonstrationem,
nigrum, inanimatum, cygnus. Sed et si utraeque assumantur affirmative, nihil
enim prohibet B quidem omne C sequi, A autem toti C non inesse, et A alicui B
inesse, ut omni cygno animal, nigrum vero nulli cygno, et nigrum inest alicui
animali: quare si sumatur A et B omni C inesse, B C quidem tota vera, A C autem
tota falsa, et conclusio vera. Similiter autem et A C sumpta vera, nam per eosdem
terminos demonstratio. Rursum hac quidem tota vera existente, illa vero
in aliquo falsa, possibile est enim B quidem omni C inesse, A autem alicui C et
alicui B, ut bipes quidem omni homini, pulchrum non omni, et pulchrum alicui
bipedi inest. Si ergo sumatur A et B toti C inesse, B C quidem tota vera, A C
autem in aliquo falsa, conclusio autem vera. Similiter autem et A C quidem
vera, B C autem falsa in aliquo sumpta, transpositis enim eisdem terminis erit
demonstratio. Et cum haec quidem est privativa, illa vero affirmativa, quoniam
possibile est B quidem toti C inesse, A autem alicui C, et quando sic se
habeant, non omni B inesse A. Si ergo assumatur B quidem toti C inesse, A autem
nulli, privativa quidem in aliquo falsa, altera autem tota vera, et conclusio
erit vera. Rursum quoniam ostensum est quod cum A quidem nulli C inest, et B
alicui, evenit A alicui B non inesse, manifestum igitur quoniam et cum A C tota
est vera, B C autem in aliquo falsa, contingit conclusionem esse veram; si enim
sumatur A quidem nulli C, B autem omni, A C quidem tota vera, B C autem in
aliquo falsa. Manifestum autem et in particularibus syllogismis quoniam omnino
per falsa erit verum, nam iidem termini sumendi, et quando universales fuerint
propositiones, in praedicativis quidem praedicativi, in privativis autem
privativi; nihil enim differt, cum nulli inerat, universaliter sumere inesse,
et si alicui inerat, universaliter sumere ad terminorum positionem; similiter
autem et in privativis. Manifestum igitur quod quando sit conclusio falsa,
necesse est ea ex quibus est oratio falsa esse, aut omnia, aut aliqua; quando
autem vera, non necesse est verum esse nec aliquod quidem, nec omne. Sed est
cum nullum sit verum eorum quae sunt in syllogismis, et conclusionem similiter
esse veram, non tamen ex necessitate. Causa autem quoniam cum duo sic se habent
ad invicem, ut cum alterum sit, ex necessitate esse alterum, hoc cum non sit
quidem, nec alterum erit; cum autem sit, non necesse est esse alterum; idem
autem cum sit, et non sit, impossibile ex necessitate esse idem. Dico autem,
cum sit A album, B esse magnum ex necessitate, et cum non sit A album, B esse
magnum ex necessitate; quando enim cum hoc sit (ut A ) album, illud necesse est
(ut B ) esse magnum, cum autem sit B magnum, C non esse album, necesse est, si
A sit album, C non esse album. Et quando duobus existentibus, cum alterum sit,
necesse est alterum esse, hoc autem cum non sit, necesse est A non esse, cum
ergo B non sit magnum, A non potest album esse, cum vero A non sit album,
necesse est B magnum esse, accidit ex necessitate cum B magnum non sit, idem B
esse magnum: hoc autem impossibile, nam si B non est magnum, A non erit album
ex necessitate; si ergo cum non sit A album, B erit magnum, accidit, si B non
est magnum, B esse magnum, ut per tria. Circulo autem, et ex se invicem
ostendere est per conclusionem, et e converso praedicationem alteram sumentem
propositionem concludere reliquam, quam sumpserat in altero syllogismo, ut si
oportuit ostendere quoniam A inest omni C, ostendat autem per C, rursus si
monstret quoniam A inest B, sumens A quidem inesse C, C autem B, et A inerit B,
prius autem e converso sumpsit B inesse C, aut si quoniam B inest C, oporteat
ostendere si sumat A de C, quae fuit conclusio, B autem de A esse, prius autem
sumptum est e converso A de B. Aliter vero non est ex se invicem
ostendere, sive enim aliud medium sumetur, non circulo, nil enim sumitur
eorumdem, sive horum quiddam, necesse est alterum solum, nam si ambo, eadem
erit conclusio, at oportet diversam esse. In iis igitur quae non convertuntur
ex indemonstrata altera propositione fit syllogismus, non enim est demonstrare
per hos terminos, quoniam medio inest tertium, aut primo medium. In iis autem
quae convertuntur, erit omnia monstrare per se invicem, ut si A, et B, et C
convertuntur sibi invicem: ostendatur enim A C per medium B, et rursum A B per
conclusionem, et per B C propositionem conversam; similiter autem et B C, et
per conclusionem, et per A B propositionem conversam; oportet autem et C B, et
B A propositionem demonstrare, nam his demonstratis usi sumus solis. Si
ergo sumatur B omni C inesse, et C omni A, syllogismus erit eius quod est B ad
A. Rursus si sumatur C omni A inesse, et A omni B, necesse est C inesse omni B.
In utrisque ergo syllogismis C A propositio sumpta est indemonstrata, nam aliae
probatae erant: quare si hanc ostenderimus, omnes erunt approbatae per se
invicem; si ergo sumatur C omni B, et B omni A inesse, utraeque propositiones
demonstratae sumuntur, et C necesse est inesse A. Manifestum est ergo quoniam
in solis iis quae convertuntur, circulo et per se invicem contingit fieri
demonstrationes, in aliis vero quemadmodum prius diximus. Accidit autem et in
iis eodem quod monstratur uti ad demonstrationem, nam C de B, et B de A
monstratur sumpto C de A dici, C autem de A per has ostenditur propositiones:
quare conclusione utimur ad demonstrationem. In privativis autem syllogismis
hoc modo monstratur ex se invicem: sit B quidem omni C inesse, A autem nulli B,
conclusio autem quoniam A nulli C. Si ergo rursum oporteat concludere quoniam A
nulli B, quod prius sumptum erat, erit A quidem nulli C, C autem omni B, sic
enim e converso propositio. Si autem quoniam B inest C, oporteat concludere,
non iam similiter convertendum A B, nam eadem propositio est B nulli A, et A
nulli B inesse, sed sumendum, cui A nulli inest, huic B omni inesse. Sit enim A
nulli C inesse, quod quidem fuit conclusio, cui autem A nulli B, si sumatur
omni inesse, necesse est ergo B omni C inesse: quare cum sint tria, unumquodque
conclusio est facta, et circulo demonstrare, hoc est conclusionem sumentem et e
converso alteram propositionem, reliquam syllogizare. In particularibus autem
syllogismis universalem quidem propositionem non est demonstrare per alias,
particularem autem est; quoniam autem non est demonstrare universalem,
manifestum, nam universale monstratur per universalia, conclusio autem non est
universalis, oportet autem ostendere ex conclusione et altera propositione.
Amplius, omnino non fit syllogismus conversa propositione, nam particulares fiunt
utraeque propositiones. Particulare autem est, ostendatur enim A de aliquo C
per B, si ergo sumatur B omni A, et conclusio maneat, B alicui C inerit, fit
enim prima figura, et est A medium. (0693C) Si autem fit privativus
syllogismus, universalem quidem propositionem non est ostendere, propter hoc
quod prius dictum est, particularem (si simpliciter convertatur A B quemadmodum
et in universalibus) non est, per assumptionem autem est, ut cui A alicui non
insit, B alicui inesse; nam aliter se habentibus non fit syllogismus, eo quod
negativa est particularis propositio. In secunda autem figura affirmativam
quidem non est ostendere per hunc modum, privativam autem est; ergo
praedicativa quidem non ostenditur, eo quod non sunt utraeque propositiones
affirmativae, nam conclusio privativa, praedicativa autem ex utrisque ostendebatur
affirmativis. Privativa autem sic ostenditur: insit enim A omni B, C autem
nulli, conclusio quoniam B nulli C; si ergo sumatur B omni A inesse, et nulli
C, necesse est A nulli C inesse, fit enim secunda figura, medium B. Si autem A
B privativa sumpta sit, altera vero praedicativa, prima erit figura, nam C
quidem omni A, B autem nulli C, quare B nulli A, ergo nec A B, medium C; ergo
per conclusionem quidem et unam propositionem non fit syllogismus, assumpta
autem altera erit. Si autem non universalis sit syllogismus, quae in toto
quidem est propositio non ostenditur, propter eamdem causam quam quidem diximus
et prius, quae autem in parte, ostenditur quando universalis sit praedicativa. Insit
enim A omni B, C autem non omni, conclusio B C; si ergo sumatur B omni A, C
autem non omni, conclusio A alicui C non inerit medium B. Si autem est
universalis privativa, non ostenditur A propositio, conversa A B, accidit enim
utrasque aut alteram propositionem fieri negativam: quare non erit syllogismus;
sed similiter ostendetur quemadmodum et in universalibus, si sumatur, cui B
alicui non inest, A alicui inesse. In tertia autem figura, quando utraeque
propositiones universaliter sumentur, non contingit ostendere per se invicem
propositionem. Nam universalis quidem ostenditur per universalia, in hac autem
conclusio semper est particularis: quare manifestum quoniam omnino non
contingit ostendere per hanc figuram universalem propositionem. Si autem haec
quidem universalis sit, illa vero particularis, quandoque quidem erit, quandoque
vero non inerit; quando ergo utraeque praedicativae sumantur, et universalis
sit ad minorem extremitatem, erit; quando vero ad alteram, non erit. Insit enim
A omni C, B autem alicui C, conclusio A B. Si ergo sumatur C omni A inesse
conversa universali, et A inesse B, quod erat conclusio, C quidem ostensum est
alicui B inesse, B autem alicui C, non est ostensum, quamvis necesse est si C
alicui B, et B alicui C inesse; sed non idem est hoc illi, et illud huic
inesse, sed assumendum est, si hoc alicui illi, et alterum alicui huic, hoc
autem sumpto iam non sit ex conclusione et altera propositione syllogismus. Si
autem B quidem omni C, A autem alicui C, erit ostendere A C, quando sumatur C
quidem omni B inesse, A autem alicui; nam si C omni B inest, A autem alicui B,
necesse est A alicui C inesse, medium B. Et cum fuerit haec praedicativa
quidem, illa vero privativa, universalis autem praedicativa, ostendetur altera.
Insit enim B omni C, A autem alicui non insit, conclusio quoniam A alicui B non
inest. Si ergo assumatur C B omni inesse, inerat autem et A non omni B, necesse
est A alicui C non inesse medium B. Cum autem privativa universalis sit, non
ostenditur altera nisi sicut in prioribus, si sumatur cui hoc alicui non inest,
alterum alicui inesse, ut si A nulli C, B autem alicui, conclusio quoniam A
alicui B non inest. Si ergo sumatur cui A alicui non inest, eidem C alicui
inesse, necesse est C alicui B inesse, aliter autem non est convertentem
universalem propositionem ostendere alteram, nullo enim modo erit syllogismus. Manifestum
igitur quoniam in prima quidem figura per se invicem est ostensio, et per
primam, et per tertiam figuram fit: nam cum praedicativa quidem est conclusio,
per primam, cum autem privativa, per postremam; sumitur enim cui hoc nulli,
alterum omni inesse. In media autem, cum universalis est quidem syllogismus et
per ipsam, et per primam figuram, et per postremam; cum autem particularis, et
per ipsam, et per postremam. In tertia vero per ipsam, omnes. Manifestum etiam
quoniam in media et in tertia qui non per ipsas fiunt syllogismi, aut non sunt
secundum eam quae circulo est ostensionem, aut imperfecti sunt. Convertere
autem est transponentem conclusionem facere syllogismum, quoniam vel extremum
medio non inerit, vel hoc postremo; necesse est enim conclusione conversa, et
altera remanente propositione, interimi reliquam; nam si erit, et conclusio
erit: differt autem opposite aut contrarie convertere conclusionem, non enim
fit idem syllogismus utrolibet conversa; palam autem hoc erit per sequentia. Dico
autem opponi quidem omni inesse non omni, et alicui nulli, contrarie autem omni
nulli, et alicui non alicui inesse. Sit enim ostensum A de C per medium B; si
igitur sumatur A nulli C inesse, omni autem B, nulli C inerit B, et si A quidem
nulli C, B autem omni C, A non omni B, et non omnino nulli, non enim
ostendebatur universale per tertiam figuram. Omnino autem eam quae est ad
maiorem extremitatem propositionem non est destruere universaliter per
conversionem, semper enim interimitur per tertiam figuram, necesse enim ad
postremam extremitatem utrasque sumere propositiones. Et si privativus sit
syllogismus, similiter: ostendatur, enim A nulli C inesse per B, ergo si
sumatur A omni C inesse, nulli autem B, nulli C inerit B. Et si A et B omni C,
A alicui B, sed nulli inerat. Si autem opposite convertatur conclusio, et alii
syllogismi oppositi, et non universales erunt, fit enim altera propositio
particularis, quare conclusio erit particularis. Sit enim praedicativus
syllogismus, et convertatur sic, ergo si A non omni C, B autem omni B, non omni
C. Et si A quidem non omni C, B autem omni A, non omni B. Similiter autem et si
privativus sit syllogismus, nam si A alicui C inest, B autem nulli, B alicui C
non inerit, et non simpliciter nulli, et si A quidem alicui C, B autem omni,
quemadmodum in principio sumptum est, A alicui B inerit. In particularibus
autem syllogismis quando opposite convertitur conclusio, interimuntur utraeque
propositiones, quando vero contrariae, neutra; non enim iam accidit quemadmodum
in universalibus interimere deficiente conclusione secundum conversionem, sed nec
omnino interimere. Ostendatur enim A de aliquo C per B; ergo si sumatur A nulli
C inesse, B autem alicui C, A alicui B non inerit, et si A nulli C, B autem
omni, nulli C inerit B; quare interimentur utraeque. Si autem contrarie
convertantur, neutra; nam si A alicui C non inest, B autem omni, B alicui C non
inerit, sed nondum interimitur quod ex principio, contingit, enim alicui
inesse, et alicui non inesse: universali autem sublato A B, omnino non fit
syllogismus. Si enim A quidem alicui C non inest, B autem alicui inest, neutra
propositionum universalis est. Similiter autem et si privativus sit
syllogismus, si enim sumatur A omni C inesse, interimuntur utraeque; si autem
alicui, neutra; demonstratio autem eadem. In secunda autem figura, eam quidem
quae est ad maiorem extremitatem propositionem, non est interimere contrarie,
quolibet modo conversione facta, semper erit conclusio in tertia figura,
universalis autem non fuit in hac syllogismus, alteram autem in hac
interimemus, similiter conversione. Dico autem similiter: si contrarie quidem
convertitur, contrarie; si opposite, opposite. Insit enim A omni B, C autem
nulli, conclusio B C. Si ergo sumatur B omni C inesse, et A B maneat, A omni C
inerit, fit enim prima figura. Si autem B omni C, A autem nulli C, A non omni
B, figura postrema.Si autem opposite convertatur B C, A B quidem similiter
ostendetur, A C autem opposite: nam si B alicui C, A autem nulli C, A alicui B
non inerit; rursum si B alicui C, A autem omni B, A alicui C, quare oppositus
fit syllogismus. Similiter autem ostendetur et si e converso se habeant
propositiones. Si autem particularis est syllogismus, contrarie quidem conversa
conclusione neutra propositionum interimitur, quemadmodum nec in prima figura,
opposite autem, utraeque. Ponatur enim A B quidem nulli inesse, C autem alicui,
conclusio B C. Si igitur ponatur B alicui C inesse, et A B maneat, conclusio
erit quoniam A alicui C non inest, sed non interimitur quod ex principio,
contingit enim alicui inesse et non inesse. Rursum si B alicui C, et A alicui
C, non erit syllogismus, neutrum enim universale eorum quae sumpta sunt, quare
non interimitur A B. Si autem opposite convertatur, interimuntur utraeque, non
si B omni C, A autem nulli B, nulli C, A erit autem alicui. Rursum si B omni C,
A autem alicui C, alicui B, A. Eadem autem demonstratio et si universalis sit
praedicativa. In tertia vero figura quando contrarie quidem convertitur
conclusio, neutra propositionum interimitur secundum nullum syllogismorum;
quando autem opposite, utraeque in omnibus. Si enim ostensum A alicui B inesse,
medium autem sumptum C, et sint universales propositiones, si ergo sumatur A
alicui B non inesse, B autem omni C, non fit syllogismus eius quod est A de C.
Neque si A B alicui non inest, C autem omni, non erit eius quod est B C
syllogismus. Similiter autem ostendetur et si non universales sint
propositiones, aut enim utrasque necesse est particulares esse per
conversionem, aut universalem ad minorem extremitatem fieri, sic autem non fiet
syllogismus, nec in prima figura, nec in media. Si autem opposite convertantur
propositiones, interimuntur utraeque, nam si A nulli B, B autem omni C, A nulli
C. Rursum si A B quidem nulli, C autem omni, B nulli C. Et si altera non sit
universalis, similiter; si enim A nulli B, B autem alicui C, A alicui C non
inerit. Si autem A quidem nulli, C autem omni, nulli C, B. Similiter et si
privativus sit syllogismus; ostendatur enim A alicui B non inesse; si autem
praedicativa quidem B C, A C autem negativa, sic enim fiebat syllogismus.
Quando igitur contrarium sumitur conclusioni, non erit syllogismus, nam si A
alicui B, B autem omni C, non fit syllogismus eius quod est A et C. Neque si A
alicui B, nulli autem C, non fuit eius quod est A B et C syllogismus, quare non
interimuntur propositiones. Quando vero oppositum, interimuntur; nam si A omni
B, et B omni C, A omni C, sed nulli inerat. Rursum si A omni B, nulli autem C,
B nulli C, sed omni inerat. Similiter autem monstratur, et si non universales
sint propositiones: sit enim A C universalis et privativa, altera autem
particularis et praedicativa, ergo si A quidem omni B, B autem alicui C, A
alicui C accidit, sed nulli inerat. Rursum si A omni B, nulli autem C, et B
nulli C. Si autem A alicui B, et B alicui C, non fit syllogismus. Neque si A
alicui B, et nulli C, nec sic. Quare illo quidem modo interimuntur, sic autem
non interimuntur propositiones. Manifestum est ergo ex iis quae dicta sunt
quomodo conversa conclusione in unaquaque figura fit syllogismus, et quando
contrarie propositioni, et quando opposite; et quoniam in prima quidem figura
per mediam et postremam fiunt syllogismi, et quae quidem ad minorem
extremitatem semper per mediam interimitur, quae vero ad maiorem per postremam;
in secunda autem, per primam et postremam, quae quidem ad minorem extremitatem
semper per primam figuram, quae vero ad maiorem, per postremam; in tertia vero,
per primam et per mediam, et quae quidem ad maiorem per primam semper, quae
vero ad minorem per mediam semper. Quid ergo est convertere, et quomodo in
unaquaque figura, et quis fit syllogismus, manifestum. Per impossibile autem
syllogismus ostenditur quidem, quando contradictio ponitur conclusionis, et
assumitur altera propositio. Fit autem in omnibus figuris, simile enim est
conversioni. Verumtamen differt in tantum quoniam convertitur quidem facto
syllogismo, et sumptis utrisque propositionibus. Deducitur autem ad impossibile
non confesso opposito prius, sed manifesto quoniam est verum. Termini vero
similiter se habent in utrisque, et eadem sumptio utrorumque, ut si A inest
omni B, medium autem C, si supponitur A non omni vel nulli B inesse, C vero
omni, quod fuit verum, necesse est C B aut nulli aut non omni inesse, hoc autem
impossibile, quare falsum est quod suppositum est. Verum ergo oppositum;
similiter autem in aliis figuris, quaecunque enim conversionem suscipiunt, et
per impossibile syllogismum. Ergo alia quidem proposita omnia ostenduntur per
impossibile in omnibus figuris, universale autem praedicativum in media et in
tertia monstratur, in prima autem non monstratur: supponatur enim A non omni B
aut nulli inesse, et assumatur alia propositio, utrolibet modo, sive A omni
inest C, sive B omni D (sic enim erat prima figura); si ergo supponatur A non
omni B inesse, non fiet syllogismus quomodolibet sumpta propositione. Si autem
nulli B, D quidem assumatur, syllogismus quidem erit falsi, non ostenditur
autem propositum; nam si A nulli B, B autem omni D, A nulli D, hoc autem sit
impossibile, falsum igitur est nulli B inesse A, sed non si nulli falsum, omni
verum. Si autem C A assumatur, non fit syllogismus, nec quando supponitur non
omni B inesse A; quare manifestum quoniam omni inesse non ostenditur in prima
figura per impossibile. Alicui autem, et nulli, et non omni ostenditur.
Supponatur enim A nulli B inesse, B autem sumptum sit omni aut alicui C, ergo
necesse est A nulli aut non omni C inesse, hoc autem impossibile. Sit enim
verum et manifestum quoniam omni C inest A, quare si hoc falsum, necesse est A
alicui B inesse. Si autem ad A sumatur altera propositio, non erit syllogismus,
neque quando subcontrarium conclusioni supponitur ut alicui non inesse;
manifestum ergo quoniam oppositum sumendum est. Rursum supponatur A alicui B
inesse, sumptum autem sit C omni A, necesse est igitur C alicui B inesse, hoc
autem sit impossibile, quare falsum quidem suppositum est; si autem sic, verum
est nulli inesse. Similiter autem et si privativa sumpta sit C A. Si autem ad B
sumpta sit propositio, non erit syllogismus. Si autem contrarium supponatur,
syllogismus erit et impossibile, non tamen ostenditur quod est propositum:
supponatur enim A omni B, et C sumptum sit omni A, ergo necesse est C omni B
inesse: hoc autem impossibile, quare falsum est omni B inesse A, sed nondum
erit necessarium, si non omni, nulli inesse. Similiter autem et si A D B
sumatur altera propositio: nam syllogismus quidem erit et impossibile, non
interimitur autem hypothesis, quare oppositum supponendum. Ad ostendendum autem
non omni B inesse A, supponendum omni inesse, nam si A omni B, et C omni A,
omni B inerit C; si ergo hoc impossibile, falsum quod suppositum est; similiter
autem et si ad B sumpta sit altera propositio. Et si privativa sit C A,
similiter, nam et sic fit syllogismus. Si autem ad B sumpta sit privativa,
nihil ostenditur. Si autem non omni, sed alicui inesse supponatur, non
ostenditur quoniam non omni, sed quoniam nulli: si enim A alicui B, C autem
omni A, alicui B inerit C; si ergo hoc impossibile, falsum est alicui B inesse
A, quare verum nulli; hoc autem ostenso, interimitur verum, nam A alicui quidem
B inerat, alicui vero non inerat. Amplius autem non tam propter hypothesin
accidit impossibile, falsa enim erit, siquidem ex veris non est falsum
syllogizare: nunc autem est vera, inest enim A alicui B, quare non supponendum
alicui inesse, sed omni. Similiter autem et si alicui B non inest A,
ostenderemus; si enim idem est alicui non inesse, et non omni inesse, eadem in
utrisque demonstratio. Manifestum ergo quoniam non contrarium, sed oppositum
supponendum in omnibus syllogismis, sic enim necessarium erit et axioma
probabile; nam si de omni vel affirmatio vel negatio, ostenso quoniam non
negatio, necesse est affirmationem veram esse; rursum si non ponant veram esse
affirmationem, constat veram esse negationem; contrariam vero neutro modo
contingit ratum facere. enim necessarium, si nulli falsum, omni verum, neque
probabile ut sit alterum falsum, quoniam alterum verum. Manifestum ergo quoniam
in prima figura alia quidem proposita omnia ostenduntur per impossibile,
universale autem affirmativum non ostenditur. In media autem figura et postrema
et hoc ostenditur. Ponatur enim A non omni B inesse, sumptum sit autem omni C
inesse A; ergo si B quidem non omni inest A, C autem omni, non omni B inest C,
hoc autem impossibile. Sit enim manifestum quoniam omni B inest C, quare falsum
quod suppositum est, verum est ergo omni inesse. Si autem contrarium
supponatur, syllogismus quidem erit ad impossibile, non tamen ostenditur quod
propositum est. Si enim A nulli B, omni autem C, nulli B, C, hoc autem
impossibile, quare falsum est, nulli inesse, sed non si hoc falsum, verum omni.
Quando autem alicui B inest A, supponatur A nulli B inesse, C autem omni insit,
necesse est ergo C nulli B inesse, quare si hoc impossibile, necesse est A
alicui B inesse. Si autem supponatur alicui non esse, eadem erunt quae in prima
figura. Rursum supponatur A alicui B inesse, C autem nulli insit, necesse est
igitur C alicui B non inesse; sed omni inerat, quare falsum quod suppositum
est, nulli ergo B inerat A. Quando autem non omni B inest A, supponatur omni
inesse: C autem nulli, necesse est ergo C nulli B inesse, hoc autem
impossibile, quare verum est non omni inesse. Manifestum ergo quoniam omnes
syllogismi fiunt per mediam figuram. Similiter autem et per ultimam. Ponatur
enim A alicui B non inesse, C autem omni B, ergo A alicui C non inerit; si ergo
hoc impossibile, falsum alicui non inesse, quare verum est omni. Si vero
supponatur nulli inesse, syllogismus quidem erit, et impossibile, non ostendit
autem quod propositum est; si enim contrarium supponatur, eadem erunt quae in
prioribus. Sed ad ostendendum alicui inesse, eadem sumenda est hypothesis,
nam si A nulli B, C autem alicui B, A non omni C; si ergo hoc falsum, verum est
A alicui B inesse. Quando autem nulli B inest A, supponatur alicui inesse,
sumptum sit autem et C omni B inesse, ergo necesse est A alicui C inesse; sed
nulli inerat, quare falsum est alicui B inesse A. Si autem supponatur omni B
inesse A, non ostenditur propositum: sed ad ostendendum non omni inesse, eadem
sumenda hypothesis, nam si A omni B, et C alicui B, A inest alicui C; hoc autem
non fuit, quare falsum est omni inesse, si autem sic, verum non omni. Si autem
supponatur alicui inesse, eadem erunt quae et in iis quae prius dicta sunt. Manifestum
ergo quoniam in omnibus per impossibile syllogismis oppositum supponendum.
Palam autem et quoniam in media figura ostenditur quodammodo affirmativum, et
in postrema universale. Differt autem quae ad impossibile demonstratio ab ea
quae est ostensiva, eo quod ponat quod vult interimere, deducens ad confessum
falsum, ostensiva autem incipit A confessis positionibus veris. Sumunt ergo
utraeque duas propositiones confessas, sed haec quidem ex quibus est
syllogismus, illa vero unam quidem harum, alteram vero contradictionem
conclusionis. Et hinc quidem non necesse est notam esse conclusionem, neque
prius opinari quoniam est, aut non est; illinc vero necesse est, quoniam non
est. Differt autem nihil affirmativam, vel negativam esse conclusionem, sed
similiter se habet in utrisque. Omnis enim quae ostensive concluditur, et per
impossibile monstrabitur, et quae per impossibile ostensive, et per eosdem terminos,
non autem in eisdem figuris. Nam quando per impossibile syllogismus fit in
prima figura, quod verum est in media erit, aut in postrema, privativum quidem
in media, praedicativum autem in postrema. Quando autem syllogismus in media
fit, quod verum est erit in prima figura in omnibus propositionibus, quando
autem in postrema syllogismus, quod verum est erit in prima et in media,
affirmativa quidem in prima, privativa autem in media. Sit enim ostensum A
nulli aut non omni B per primam figuram, ergo hypothesis quidem erat alicui B
inesse A, C autem sumebatur A quidem omni inesse, B autem nulli, sic enim
fiebat syllogismus ad impossibile. Hoc autem media figura, si C A quidem omni,
B autem nulli inest, et manifestum ex his quoniam B nulli inest A. Similiter
autem et si non omni ostensum sit inesse, nam hypothesis quidem est omni B A
inesse, C autem sumebatur A quidem omni, B autem non omni, et si privativa sit
sumpta C A, similiter etenim sic fit in media figura. Rursum sit ostensum
alicui B inesse A, ergo hypothesis quidem est nulli inesse, B autem sumebatur
omni C inesse, et A vel omni vel alicui C, sic enim erit impossibile. Hoc autem
postrema figura, si A et B omni C, et manifestum ex his quia necesse est A
alicui B inesse, similiter autem et si alicui C sumatur inesse B vel A. Rursum
in media figura ostensum sit A omni B inesse, ergo hypothesis quidem fuit, non
omni B inesse A, sumptum est autem A omni C, et C omni B, sic enim erit
impossibile; hoc autem prima figura, si A omni C, et C omni B. Similiter autem
et si ostensum sit alicui inesse, nam hypothesis quidem fuit, nulli B inesse A,
sumptum est autem A omni C, et C alicui B. Si autem privativus fit syllogismus,
hypothesis quidem A alicui B inesse, sumptum est autem A nulli C, et C omni B,
quare fit prima figura. Et si non universalis sit syllogismus, sed A alicui B
ostensum sit non inesse, similiter: nam hypothesis quidem omni B inesse A,
sumptum est autem A nulli C, et C alicui B, sic enim prima figura. Rursum in
tertia figura ostensum sit A inesse omni B, ergo hypothesis quidem fuit non
omni B inesse A, sumptum est autem C omni B, et A omni C, sic enim erit
impossibile, hoc autem prima figura. Similiter autem et si in aliquo sit
demonstratio, non hypothesis quidem erit nulli B inesse A, sumptum est autem C
alicui B, et A omni C. Si autem privativus sit syllogismus, hypothesis quidem A
alicui B inesse, sumptum est autem C A quidem nulli, B autem omni, hoc autem
media figura. Similiter autem et si non universalis sit demonstratio, nam
hypothesis quidem erit omni B inesse A, sumptum est autem C A quidem nulli, B
autem alicui, hoc autem media figura. Manifestum ergo quoniam per eosdem
terminos et ostensive est demonstrare unumquodque propositum, et per
impossibile. Similiter autem erit, et cum sint ostensivi syllogismi, ad
impossibile deducere in terminis sumptis, quando opposita propositio
conclusioni sumpta fuerit, nam fiunt iidem syllogismi iis qui sunt per
conversionem, quare statim habemus et figuras per quas unumquodque erit. Palam
ergo quoniam omne propositum ostenditur per utrosque modos et per impossibile
et ostensive, et non contingit separari alterum ab altero. In qua autem figura
est ex oppositis propositionibus syllogizare, et in qua non est, sic erit
manifestum. Dico autem oppositas esse propositiones, secundum locutionem quidem
quatuor, ut omni et nulli, et omni et non omni, et alicui et nulli, et alicui
et non alicui inesse; secundum veritatem autem tres, nam alicui et non alicui
secundum locutionem opponuntur solum; harum autem contrarias quidem
universales, omni nulli inesse, ut omnem disciplinam esse studiosam, nullam
esse studiosam, alias vero oppositas. In prima igitur figura non est ex
oppositis propositionibus syllogismus, neque affirmativus, neque negativus;
affirmativus quidem, quoniam oportet utrasque affirmativas esse propositiones,
oppositae autem affirmatio et negatio; privativus autem, quoniam oppositae
quidem idem de eodem praedicant et negant, in prima autem medium non dicitur de
utrisque, sed de illo quidem aliud negatur, idem autem de alio praedicatur, hae
vero non opponuntur. In media autem figura, et ex oppositis, et ex contrariis
contingit fieri syllogismum. Sit enim bonum quidem in quo A, disciplina autem
in quo B et C; si ergo omnem disciplinam studiosam sumpsit, et nullam, A inest
omni B, et nulli C, quare B nulli C, nulla ergo disciplina disciplina est.
Similiter autem et si omnem sumens studiosam disciplinam, medicinam vero non
studiosam sumpsit, nam A B quidem omni, C autem nulli, quare aliqua disciplina
non erit disciplina. Et si A C quidem omni, B autem nulli, est autem B quidem
disciplina, C autem medicina, A vero opinio, nullam enim disciplinam opinionem
sumens, sumpsit aliquam disciplinam esse opinionem. Differt autem A priore in
terminis converti, nam prius quidem ad B, nunc autem ad C affirmativum. Et si
sit non universalis altera propositio, similiter; semper enim medium est, quod
ab altero quidem negative dicitur, de altero vero affirmative. Quare contingit
opposita quidem perfici, non autem semper, neque omnino, sed sic se habeant,
quae sunt sub medio, ut vel eadem sint, vel totum ad partem; aliter autem
impossibile, non enim erunt propositiones ullo modo, neque contrariae, neque
oppositae. In tertia vero figura affirmativus quidem syllogismus nunquam erit
ex oppositis propositionibus propter causam dictam, et in prima figura. Negativus
autem erit syllogismus, et universalibus, et non universalibus terminis. Sit
enim disciplina in quo B et C, medicina autem in quo A; si ergo sumat omnem
medicinam disciplinam, et nullam medicinam disciplinam, B omni A sumpsit, et C
nulli A, quare erit aliqua disciplina non disciplina. Similiter autem et si non
universaliter sumpta sit A B propositio, nam si est aliqua medicina disciplina,
et rursum nulla medicina disciplina, accidit disciplinam aliquam non esse
disciplinam. Sunt autem universaliter quidem sumptis terminis contrariae
propositiones, si autem particularis altera sit, oppositae. Oportet autem scire
quoniam contingit opposita sic sumere quemadmodum diximus, omnem disciplinam
studiosam esse, et rursum nullam aut aliquam non esse studiosam, quod non solet
latere; erit autem per alias interrogationes syllogizare alteram, et
quemadmodum in Topicis dictum est, sumere. Quoniam autem affirmationum
oppositiones sunt tres, sexies accidit opposita sumere, aut omni et nulli, aut
omni et non omni, aut alicui et nulli; et hoc converti in terminis, ut A omni B
et nulli C, aut omni C et nulli B, aut huic quidem omni, illi vero non omni, et
rursum hoc converti secundum terminos; similiter autem et in tertia figura.
Quare manifestum est et quoties et in quibus figuris contingit per oppositas
propositiones fieri syllogismum. Manifestum est quoniam ex falsis est verum
syllogizare, quemadmodum dictum est prius; ex oppositis autem non est, semper
enim contrarius syllogismus fit rei (ut si est bonum non esse bonum, aut si
animal non animal) eo quod ex contradictione est syllogismus, et subiecti
termini aut iidem sunt, aut hic quidem totum, ille autem pars. Palam autem
quoniam in paralogismis nihil prohibet fieri hypotheseos contradictionem, ut si
est impar non esse impar, nam ex oppositis propositionibus contrarius erit
syllogismus; si ergo sumpserit hoc modo, hypotheseos erit contradictio. Oportet
autem considerare quoniam sic quidem non est contraria concludere ex uno
syllogismo (ut sit conclusio quoniam non est bonum, bonum aut aliud quiddam
tale), nisi statim huiusmodi propositio sumatur, ut omne animal esse album et
non album, hominem autem animal, sed vel assumere oportet contradictionem, ut
quoniam omnis disciplina opinio et non opinio, deinde sumere quoniam medicina
disciplina quidem est., nulla autem opinio, quemadmodum redargutiones fiunt,
vel ex duobus syllogismis. Quare esse quidem contraria secundum veritatem quae
sumpta sunt, non est alio modo quam hoc quemadmodum dictum est prius. In
principio autem petere et accipere est quidem, ut in genere, sumere in eo quod
non est demonstrare propositum. Hoc autem accidit multipliciter, nam et si
omnino non syllogizatur, et si per ignotiora aut similiter ignota, et si per
posteriora quod prius est, demonstratio enim ex prioribus et notioribus est. Horum
ergo nullum est petere quod ex principio est, sed quia haec quidem nata sunt
per se cognosci, illa vero per alia (nam principia quidem per se, quae autem
sub principiis, per alia), quando quod non per se notum est, per se aliquis
conatur ostendere, tunc petit quod ex principio est. Hoc autem est sic
facere quidem ut statim postulet id quod propositum est: contingit autem et
transgredientes et ad alia eorum quae nata sunt per illa ostendi per haec
monstrare quod ex principio est, ut si A ostendatur per B, et B per C, C autem
natum sit ostendi per A, accidit enim idem A per se demonstrare eos qui sic
syllogizant, quod faciunt qui parallelas arbitrantur scribere, latent enim ipsi
seipsos talia sumentes quae non valent demonstrare, cum non sint parallelae. Quare
accidit sic syllogizantibus unumquodque esse dicere si est unumquodque, sic
autem omne erit per se notum, quod est impossibile. Si ergo aliquis dubitat
assumpto dubio quoniam A inest C, similiter et quoniam B, petat autem i inesse
B, nondum manifestum si quod in principio est petat, sed quoniam non
demonstravit manifestum, non enim est principium demonstrationis, quod
similiter est incertum. Si autem B ad C sic se habet ut idem sit, aut
manifestum quod convertuntur, aut inest alterum alteri, quod in principio est
petit, nam et quoniam A inest B, per illa monstrabit si convertantur, nunc
autem hoc prohibet, sed non modus. Si autem hoc faciat, quod dictum est faciet,
et convertet per tria, similiter autem et si B sumat inesse C, quod similiter
incertum sit, ut et si A inest C, nondum quod ex principio petit, sed neque
demonstrat. Si autem idem sit A et B, aut eo quod convertuntur, aut eo quod A
sequitur ei quod est B, quod ex principio est petit propter eamdem causam, nam
ex principio quod valet, prius dictum est A nobis, quoniam per se monstrabitur
quod non est per se manifestum. Si ergo est in principio petere per se
monstrare quod non per se est manifestum, hoc autem est non ostendere quando
similiter dubitantur quod monstratur et per quod monstratur, vel eo quod eadem
eidem, vel eo quod idem eisdem inesse sumitur, in media quidem figura et tertia
utrorumque continget similiter quod est in principio petere, in praedicativo
quidem syllogismo et in tertia figura, et in prima, negative autem quando
eadem ab eodem, et non similiter utraeque propositiones, similiter autem et in
media, eo quod non convertuntur termini secundum negativos syllogismos. Est
autem in principio petere in demonstrationibus quidem quae secundum veritatem
sic se habent, in dialecticis autem, quae secundum opinionem. Non propter hoc
autem accidere falsum (quod saepe in disputationibus solemus dicere) primum
quidem est in iis qui ad impossibile syllogismis, quando ad contradictionem est
huius quod monstratum est ea quae ad impossibile. Nam neque qui non contradicit
dicit non propter hoc, sed quoniam falsum est aliquid positum priorum, neque in
ostensiva, non enim ponit quod contradicit. Amplius autem quando interimitur
aliquid ostensive per A B C, non est dicere quoniam non propter quod positum
est factus est syllogismus, nam non propter hoc fieri tunc dicimus, quando
interempto hoc nihilominus perficitur syllogismus, quod non est in ostensivis,
interempta enim propositione, nec qui ad hanc est erit syllogismus. Manifestum
igitur quoniam in iis qui ad impossibile sunt dicitur non propter hoc, et
quando sic se habet ad impossibile quae ex principio est hypothesis, ut cum
sit, vel cum non sit haec, nihilominus accidit impossibile. Ergo
manifestissimus quidem modus est non propter suppositionem esse falsum, quando
ab hypothesi inconiunctus est A mediis syllogismus ad impossibile, quod dictum
est in Topicis; quod enim non est causa, ut causam ponere hoc est; ut si volens
ostendere quoniam asymeter est diameter, conetur Zenonis ratione quoniam non
est moveri, et ad hoc inducat impossibile, nullo enim modo continuum est falsum
locutioni quae est ex principio. Alius autem modus, si continuum quidem sit
impossibile hypothesi, non tamen propter illam accidat, hoc autem possibile est
fieri, et in hoc quod superius, et in hoc quod inferius sumenti continuum, ut
si A ponatur inesse B, B autem C, C vero D, hoc autem sit falsum B inesse D,
nam (si ablato A, nihilominus B inest C, et C D ) non erit falsum propter eam
quae ex principio est hypothesin. Aut rursum si quis in superiori sumat
continuum, ut si A quidem B, E autem A, F vero E, falsum autem sit F inesse A,
nam et sic nihilominus erit impossibile, interempta quae est ex principio
hypothesi. Sed oportet ad eos qui ex principio terminos copulare impossibile,
sic enim erit propter hypothesin, ut in inferiori quidem sumenti continuum ad
praedicatum terminum; nam si impossibile est A inesse D, interempto A, non
amplius erit falsum. In superiori autem de quo praedicatur; nam si F non
possibile est inesse B, interempto B non amplius erit impossibile; similiter
autem et cum privativi sint syllogismi. Manifestum ergo quoniam cum impossibile
non ad priores terminos, non propter positionem accidit falsum; an nec sic
semper propter hypothes in erit falsum? nam si non ei quod est B, sed ei quod
est k positum est inesse A, k autem C, et hoc D, et sic manet impossibile; similiter
autem et in sursum sumenti terminos, quare (quoniam cum est, et cum non est,
hoc accidit impossibile) non erit propter positionem, aut cum non est hoc,
nihilominus fieri falsum. Nec sic sumendum ut alio posito accidat impossibile,
sed quando ablato hoc idem per reliquas propositiones concluditur impossibile,
eo quod idem falsum accidere per plures hypotheses nihil fortasse inconveniens
est, ut parallelas, contingere, et si maior est qui interius est, eo qui
exterius, et si triangulus habet plures rectos duobus.Falsa autem oratio fit
propter primum falsum; aut enim ex duabus propositionibus aut ex pluribus omnis
est syllogismus; ergo si ex duabus quidem, harum necesse est alteram, aut etiam
utrasque esse falsas, nam ex veris non erat falsus syllogismus; si vero ex
pluribus (ut sic quidem per A B, hoc autem per D F G ), horum erit aliquid
superiorum falsum, et propter hoc oratio, nam A et B per illa concluduntur,
quare propter illorum aliquid, accidit conclusio et falsum. Ut autem non
catasyllogizetur, observandum, quando sine conclusionibus interrogat orationem,
ut non detur bis idem in propositionibus, eo quod scimus quoniam sine medio
syllogismus non fit, medium autem est quod plerumque dicitur. Quomodo autem
oportet ad unamquamque conclusionem observare medium manifestum est, eo quod
scitur quale in unaquaque figura ostenditur, hoc autem nos non latebit, eo quod
videmus quomodo submittimus orationem. Oportet autem quod custodire praecipimus
respondentes, ipsos argumentantes tentare latere, hoc autem erit primum quidem
si conclusiones non prius syllogizent, sed sumptis necessariis non manifestae
sint. Amplius autem si non propinqua interrogant, sed quam maxime longe media,
ut si sit opportunum concludere A D E F, media B E D E, oportet ergo inquirere
si A B, et rursum non si B E, sed si D E, deinde si B C, et sic reliqua, et si
per unum medium sit syllogismus, A medio incipere, maxime enim sic latebit
respondentem. Quoniam ergo habemus quando et quomodo se habentibus terminis fit
syllogismus, manifestum et quando erit, et quando non erit elenchus, nam
omnibus affirmativis, vel permutatim positis responsionibus (ut hac quidem
affirmativa, illa vero negativa), contingit fieri elenchum: erit enim
syllogismus, et sic in illo modo se habentibus terminis; quare si id quod
positum est contrarium sit conclusioni, necesse est fieri elenchum, nam
elenchus syllogismus contradictionis est. Si vero nihil affirmetur, impossibile
est fieri elenchum, non enim erat syllogismus, cum omnes termini erant
privativi, quare nec elenchus: nam si elenchus, necesse est syllogismus esse;
cum autem est syllogismus, non necesse est elenchum esse. (0706A) Similiter
autem si nihil positum sit secundum responsionem universaliter; nam eadem erit
definitio syllogismi et elenchi. Accidit autem quandoque (quemadmodum in
positione terminorum fallebamur) et secundum opinionem fieri fallaciam, ut si
contingat idem pluribus principaliter inesse, et hoc quidem latere aliquem, et
putare nulli inesse, illud autem scire, ut insit A B et C per se, et haec omni
D similiter. Si igitur B quidem pPomba omni A inesse, et hoc D, C autem nulli
A, et hoc omni D, eiusdem secundum idem habebit disciplinam et
ignorantiam. Rursum si quis fallatur circa ea quae sunt ex eadem
coniugatione, ut si A inest B, hoc autem C, et C D, opinetur autem A inesse
omni B, et rursum nulli C. Simul enim sciet, et non opinabitur inesse; ergo
nihil aliud existimat ex iis quam scit, hoc non opinari, scit enim aliquo modo
quoniam A inest C per B, velut in universali hoc quod est particulare; quare
quod aliquo modo scit, hoc omnino existimat non opinari, quod est impossibile. In
eo autem quod prius dictum est, si non ex eadem coniugatione sit medium;
secundum utrumque quidem mediorum ambas propositiones non possibile est
opinari, ut A B quidem omni, C autem nulli, haec autem utraque omni D; accidit
autem aut simpliciter aut in aliquo contrariam sumere primam propositionem. Si
enim cui B inest omni A opinatur inesse, B autem D novit, et quoniam A D novit,
quare si rursum cui C nulli, putat A inesse, cui B alicui inest, huic non putat
A inesse, quod autem omni putat cui B, rursum alicui non putare cui B, aut
simpliciter, aut in aliquo contrarium et; sic ergo non contingit opinari.
Secundum utrumque autem unam, aut secundum alterum utrasque, nihil prohibet A
omni B, et B D, et rursum A nulli C. Nam similis huiusmodi fallacia, veluti
fallimur circa particularia, ut si A omni B inest, B autem omni C, A omni C
inerit; si ergo aliquis novit quoniam A cui B inest omni, novit et quoniam ei
quod est C; sed nihil prohibet ignorare C quoniam est, ut si A quidem duo
recti, in quo autem B triangulus, in quo vero C sensibilis triangulus;
opinabitur enim aliquis non esse C, sciens quoniam omnis triangulus habet duos
rectos: quare simul sciet et ignorabit idem, nam scire omnem triangulum quoniam
duobus rectis, non simplex est, sed hoc quidem universalem habet disciplinam,
illud vero singularem. Sic ergo in universali novit C, quoniam duobus rectis,
in singulari autem non novit, quare non habebit contrarias. Similiter autem est
quae in Menone est oratio, quoniam disciplina est reminiscentia; nunquam enim
accidit praescire quod singulare est, sed simul inductione sumere particularium
disciplinam, velut recognoscentes. Nam quaedam scientes, statim scimus, ut
quoniam duobus rectis, si scimus quoniam triangulus, similiter autem et in
aliis. Ergo universali quidem speculamur particularia, propria autem non
scimus; quare contingit et falli circa ea, verum non contrarie, sed habere
quidem universale, decipi autem particulari. Similiter autem in praedictis, non
enim contraria quae est secundum medium ei quae est secundum syllogismum
disciplinae, nec quae est secundum utrumque mediorum opinatio, nihil enim
prohibet scientem, et quoniam A toti B inest, et rursum hoc toti C, putare non
inesse, ut quoniam omnis mula sterilis, et haec mula, putare hanc habere in
utero; non enim scit quoniam A, C qui non conspicit, quod est secundum
utrumque. Quare manifestum quoniam et si hoc quidem novit, illud vero non
novit, falletur, quod habent universales ad particulares disciplinas; nullum
enim sensibilium cum extra sensum fit scimus, nec si sentientes fuerimus
scimus, nisi ut in universali, et in eo quod habet propriam disciplinam, sed
non in eo quod est in actum. Nam scire tripliciter dicitur, aut ut universali,
aut ut propria, aut ut in actu, quare et decipi totidem modis, nihil ergo
prohibet et scire, et deceptum esse circa idem, verumtamen non contrarie. Quod
accidit et ei qui secundum utramque scit propositionum, et non pertractavit
prius, nam opinans in utero habere mulam, non habet secundum ac um disciplinam,
neque propter opinionem fallaciam contrariam disciplinae, syllogismus enim est
contraria fallacis in universali. Qui autem opinatur quod bonum esse est malum
esse, idem opinabitur bonum esse et malum. Sit enim bonum esse in quo A, malum
autem esse in quo B, rursum bonum esse in quo C; quoniam igitur idem opinatur
et B et C, et esse C B opinabitur, et rursum B esse A similiter, quare et C A,
nam quemadmodum si erat verum de quo C B, et de quo B A, et de quo C A verum
erat, sic et in opinatione. Similiter autem et in eo quod est esse. Nam cum
idem sit C et B, et rursum B et A, C A idem erit, quare et opinatione
similiter; ergo hoc quidem necessarium si quis det primum. Sed fortasse illud
falsum opinari aliquem quod malum esse est bonum esse, nisi secundum accidens;
multipliciter enim possibile est hoc opinari, perspiciendum autem hoc melius. Quando
vero convertuntur extremitates, necesse est et medium converti ad utramque; si
enim A de C per B est, si convertitur et inest cui A omni, C et B A
convertitur, et inest cui A omni, B per medium C, et C B convertitur per medium
A. Et in non esse itidem, ut si B inest C, A vero non inest B, neque A inerit
C. Si ergo B convertatur ad A, et C ad A convertetur: sit enim B nulli A
inexistens, ergo neque C, omni enim C inerat B, et si B convertitur ad C, et A
convertetur ad C; nam de quocunque omnino B, et C. Et si C ad A convertitur, et
B convertetur ad A: cui enim B inest, et C; cui autem C, A non inest; et solum
hoc A conclusione incipit, alia autem non similiter, ut in praedicativo
syllogismo. Rursum si A et B convertuntur, et C et D similiter, omni autem
necesse est A aut C inesse, et B et D sic se habebunt, ut omni alterum insit;
quoniam enim cui A B, E cui C D, omni autem A aut C, et non simul, manifestum
quoniam et B aut D omni, et non simul, ut si ingenitum, incorruptibile, et
incorruptibile ingenitum, necesse est quod factum est corruptibile et
corruptibile factum esse, duo enim syllogismi constituti sunt. Rursum si omni
quidem, A vel B, et C vel D, simul autem non insunt, si convertitur A et C, et
B et D convertetur. Nam si alicui non inest B, cui D, palam quoniam A inest; si
autem A, et C, convertuntur enim; quare simul C et D, hoc autem impossibile.
Quando autem A toti B et C inest, et de nullo alio praedicatur, inest autem et
B omni C, necesse est A et B converti, quoniam enim de solis B C dicitur A,
praedicatur autem B et idem dese et de C, manifestum quoniam de quibus A, et B
dicetur omnibus, verum et de A. Rursum quando A et B, toti C insunt convertitur
autem C B, necesse est A omni B inesse, quoniam enim omni C A, C autem B, eo
quod convertuntur, et A omni B inerit. Quando autem duo fuerint opposita, ut A
magis eligendum sit quam B, cum sint opposita, et D quam C similiter, si magis
eligenda sunt A C quam B D, A magis eligendum quam D. Similiter enim sequendum
A, et fugiendum B, opposita enim, et C ei quod est D, nam et haec opponuntur;
si ergo A ei quod est D similiter eligendum, et B ei quod est C fugiendum,
utrumque enim utrique similiter fugiendum eligendo; quare et haec ambo A C iis
quae sunt B D, quoniam autem magis, non possibile similiter, nam et B D
similiter erunt. Si autem D magis eligendum quam A, et B quam C minus
fugiendum; nam quod minus est minori opponitur; magis autem eligendum est maius
bonum et minus malum quam minus bonum et maius malum. Universum igitur B D
magis eligendum quam A C, nunc autem non est, ergo magis A eligendum quam D, et
C ergo minus fugiendum quam B. Si ergo eligat omnis amans secundum amorem A sic
se habere, ut concedere, et non concedere in quo C, aut concedere in quo D, et
non tale esse ut concedere in quo B, manifestum quoniam A huiusmodi esse, magis
eligendum est quam concedere; ergo diligi quam conventio magis eligendum secundum
amorem; magis ergo amor est in amicitia quam convenire. Si autem maxime huius,
et finis haec, ergo convenire aut non est omnino, aut diligendi gratia, nam et
aliae concupiscentiae et artes sic fiunt. Quomodo ergo se habent termini
secundum conversiones, et in eo quod magis fugiendum vel magis eligendum sit,
manifestum est. Quoniam autem non solum dialectici et demonstrativi syllogismi
per praedictas fiunt figuras, sed et rhetorici, sed et simpliciter quaecunque
fides est, et secundum unamquamque artem, nunc erit dicendum. Omnia enim
credimus per syllogismum aut ex inductione; ergo si inductio quidem est,
et ex inductione syllogismus per alteram extremitatem medio syllogizare. Ut si
eorum quae sunt A C medium sit B, per C ostendere A inesse B, sic enim facimus
inductiones. Ut sit A longaevum, in quo autem B choleram non habere, in quo
vero C singulare longaevum, ut homo, equus, et mulus. Ergo toti B inest A, omne
enim quod sibi cholera est, longaevum, sed et B non habere choleram, omni inest
C; si ergo convertatur C ei quod est B, et non transcendat medium, necesse est
C inesse B. Ostensum enim est prius quoniam, si duo aliqua eidem insunt, et ad
alteram eorum convertatur extremum, converso et alterum inerit praedicatorum.
Oportet autem intelligere C ex singularibus omnibus compositum, nam inductio
per omnia. Syllogismus autem huiusmodi est primae et immediatae propositionis:
quarum enim est medium, per medium est syllogismus; quorum vero non est, per
inductionem. Et quodam modo opponitur inductio syllogismo, nam hic quidem per
medium extremum de tertio ostendit, illa autem per tertium extremum de medio.
Ergo natura quidem prior et notior per medium syllogismus, nobis autem
manifestior qui est per inductionem. Exemplum autem est, quando medio extremum
inesse ostenditur per id quod est simile tertio. Oportet autem et medium
tertio, et primum simili notius esse, inesse. Ut sit A malum, B autem contra
confines inferre bellum, in quo autem C Athenienses contra Thebanos, in quo
autem D Thebanos contra Phocenses. Si ergo volumus ostendere quoniam Thebanis
pugnare malum est, sumendum quoniam contra confines pugnare est malum, huius
autem fides ex similibus, ut quoniam Thebanis contra Phocenses. Quoniam ergo
contra confines malum, contra Thebanos autem contra confines est, manifestum
quoniam contra Thebanos pugnare malum. Quoniam ergo B C et D inest, manifestum,
utrumque enim est contra confines inferre bellum, et quoniam A D, Thebanis enim
non fuit utile contra Phocenses bellum. Quoniam autem A inest B, per D
ostendetur, eodem autem modo et si per plura similia fides fiat medii ad
extremum. Manifestum ergo quoniam exemplum est neque ut totum ad partem, neque
ut pars ad totum, sed ut pars ad partem, quando ambo quidem insunt sub eodem,
notum autem alterum. Et differt ab inductione, quoniam haec quidem ex omnibus
individuis ostendebat inesse extremum medio, et ad extremum non copulabat
syllogismum, hoc autem et copulat, et non ex omnibus ostendit. Deductio
autem quando medio quidem primum palam est inesse, postremo autem medium dubium
quidem, similiter autem credibile aut magis conclusione. Amplius, si pauciora
sunt media postremo et medio, omnino enim propinquius esse accidit scientiae.
Ut sit A docibile, in quo B disciplina, C iustitia, ergo disciplina quoniam docibilis,
manifestum; iustitia autem si disciplina, dubium. Si igitur similiter aut magis
credibile sit B C quam A C, deductio est, propinquius enim scientiae, per quod
assumpserint A C, disciplinam prius non habentes. Aut rursum si pauciora media
sint B C, nam et sic propinquius est scientiae. Ut si D sit quadrangulare, in
quo autem E rectilineum, in quo F circulus, si ergo eius quod est E F unum
solum sit medium, per lunares figuras aequalem fieri rectilineo circulum
propinquius erit scientiae. Quando autem neque credibilius est B C quam A C,
neque pauca media, non dico deductionem, neque quando immediata est B C,
disciplina enim quod eiusmodi est. Instantia autem est propositio
propositioni contraria. Differt autem A propositione, quoniam contingit quidem
instantiam esse in parte, propositionem vero aut omnino non contingit, aut non
in universalibus syllogismus. Fertur autem instantia duobus modis et per duas
figuras: duobus modis quidem, quoniam aut universalis aut particularis omnis
instantia; per duas autem figuras, quoniam oppositae feruntur propositioni,
opposita autem in prima et tertia figura perficiuntur solis. Nam quando
postulatur omni inesse, instamus quoniam nulli, aut quoniam alicui non inest.
Horum autem nulli quidem ex prima figura, alicui autem non ex postrema. Ut sit
A unam esse disciplinam, in quo B contraria; proponit ergo unam esse
contrariorum disciplinam, aut quoniam omnino non est eadem oppositorum instant.
Contraria autem opposita, quare fit prima figura; aut quoniam noti et ignoti
non una, haec autem tertia. Nam secundum tertiam notum et ignotum contraria
quidem esse verum, unam autem esse eorum disciplinam, falsum. Rursum in
privativa propositione similiter: cum postulat enim non esse contrariorum unam
disciplinam, aut quoniam omnium oppositorum, aut quoniam contrariorum aliquorum
est eadem disciplina, dicimus, ut sani et aegri, ergo omnium quidem ex prima,
aliquorum vero ex tertia figura. Simpliciter autem in omnibus universaliter
quidem instantibus, necesse est ad id quod universale est proposito
contradictionem dicere (ut si non unam existimet contrariorum omnium, dicere
oppositorum unam; sic autem necesse est primam esse figuram, medium enim fit
universale ad hoc quod ex principio); quod autem ad hoc in parte est
universale, dicitur propositio, ut noti et ignoti non eamdem, nam contraria
universale ad haec, et fit tertia figura, medium enim in parte sumptum, ut
notum et ignotum. Nam ex quibus est syllogizare contrarium, ex iis et
instantias conamur dicere, quare et ex his solis figuris ferimus, nam in his
solis oppositi syllogismi, per mediam enim figuram non fuit affirmare. Amplius
autem et si sit, oratione indiget plurima, quae est per mediam figuram, ut si
non concedant A inesse B, eo quod non sequitur hoc C, hoc enim per alias
propositiones manifestum; non oportet autem instantiam converti ad alia, sed
statim manifestam habere alteram propositionem. Quapropter et signum ex sola
hac figura non est. Perspiciendum autem et de aliis instantiis, ut de iis quae
sunt ex contrario, et simili, et secundum opinionem, et si particularem ex
prima, vel privativam ex media possibile est sumere. Eicos autem et signum non
idem est, sed eicos quidem est propositio probabilis. Quod enim ut in pluribus
sciunt sic factum; vel non factum, aut esse vel non esse, hoc est eicos, ut
odire invidentes, vel diligere amantes. Signum autem vult esse propositio
demonstrativa, vel necessaria, vel probabilis; nam quo existente est, vel quo
facto prius vel posterius res, signum est vel fuisse vel esse. Enthymema ergo
est syllogismus imperfectus ex eicotibus et signis. Accipitur autem signum
tripliciter, quoties et medium in figuris, aut enim ut in prima, aut ut in
media, aut ut in tertia: ut ostendere quidem parientem esse, eo quod lac
habeat, ex prima figura, medium enim lac habere, in quo A parere B, lac habere
mulier in quo C. Quoniam autem sapientes, studiosi, nam Pittacus est studiosus,
per postremam, in quo A studiosum, in quo B sapientes, in quo C Pittacus. Verum
igitur A et B de C praedicari; sed hoc quidem non dicunt quia notum sit, illud
vero sumunt. Peperisse autem quoniam pallida, per mediam figuram vult esse;
quoniam enim sequitur parientes pallor, sequitur autem et hanc, ostensum esse
arbitrantur quoniam peperit. Pallor in quo A, parere in quo B, mulier in quo C.
Ergo si una quidem dicatur propositio, signum fit solum, si autem et altera
sumitur, syllogismus. Ut Pittacus liberalis, nam ambitiosi liberales, Pittacus
autem ambitiosus. Aut rursus, quoniam sapientes boni, Pittacus autem bonus, sed
et sapiens, sic ergo fiunt syllogismi. Verum quidem per primam figuram
insolubilis, si verus sit, universalis enim est. Qui autem per postremam, est
solubilis, et si vera sit conclusio, eo quod non universalis, est in tertia,
nec ad rem syllogismus, non enim si Pittacus est studiosus, propter hoc et
alios necesse est esse sapientes. Qui vero per mediam figuram est, semper et
omnino solubilis, nunquam enim syllogismus fit, sic se habentibus terminis. Non
enim si quae peperit pallida, pallida autem et haec, necesse est parere hanc;
ergo verum est quidem in omnibus figuris, differentias autem habent iam dictas.
An igitur sic dividendum signum? horum autem medium indicium sumendum, nam
indicium dicunt esse quod scire facit, tale autem maxime medium, an vero quae
quidem ab extremitatibus signa dicenda, quae autem ex medio indicium?
probabilissimum enim et maxime veram est quod est per primam figuram. Naturas
autem cognoscere possibile est, si quis concedat simul transmutare corpus et
animam, quaecunque sunt naturales passiones; discens enim aliquis fortasse
musicam, transmutavit secundum quid animam, sed non earum quae natura nobis
insunt, haec est passio, sed ut irae et concupiscentiae, et naturalium
motionum. Si igitur et hoc det, et unum unius signum esse, et possumus sumere
proprium uniuscuiusque generis passionem et signum, poterimus naturas
cognoscere. Si enim est proprie alicui generi individuo existens passio, ut si
leonibus fortitudo, necesse est et signum esse aliquod, compati enim sibi
invicem positum est, et sit hoc magnas summitates habere, quod et aliis
generibus, non totis contingit. Nam signum sic proprium est, quoniam totius
generis propria passio est, et non solius proprium, sicut solemus dicere. Erit
ergo et in alio genere hoc, et erit fortis homo, et aliquod aliud animal;
habebit ergo signum, unum enim unius erat. Si ergo haec sunt, poterimus talia
signa colligere in iis animalibus quae solum unam passionem habent aliquam
propriam, unaquaeque autem habet signum, et quoniam unum habere necesse est,
poterimus naturas cognoscere.Si vero duo habet propria totum genus, ut leo,
forte et communicativum, quomodo cognoscemus utrum utrius sit signum, eorum
signorum quae proprie sequuntur? An si et alii alicui non toti ambo, et in
quibus non totis utrumque, quando hoc quidem habet, illud autem non? nam si
fortis quidem, liberalis autem non, habet autem duorum hoc, palam quoniam et in
leone hoc signum fortitudinis. Est vero naturas cognoscere in prima quidem
figura, eo quod medium priori extremitati convertitur, tertiam autem
transcendit, et non convertitur, ut sit fortitudo A, summitates magnas habere
in quo B, C autem leo; ergo cui C, B omni, sed et aliis, cui autem B, A omni,
et non pluribus, sed; convertitur si autem non, non erit unum unius signum.
Boethius. Boezio.
Keywords “Boethian International Society”, Boethianism. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Boezio” – The Swimming-Pool Library.
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